#paese
di Gianfranco Ravasi
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
Forse queste parole sono il succo dell’intero romanzo, La luna e i falò che Cesare Pavese pubblicò alle soglie della sua morte nel 1950. Il Narratore, emigrato e di età ormai matura, rientra dall’America nel suo paese e scopre che tutto è mutato, anzi, l’esistenza dei suoi compaesani è divenuta più amara. Intatto è rimasto solo il paesaggio ed è questo orizzonte a parlare ancora. A interpretarlo è sia l’antico compagno Nuto, sia Cinto, un ragazzo zoppo e povero col quale il protagonista vaga per i viottoli della campagna. Anche molti di noi hanno lasciato i villaggi di origine per raggiungere anonime metropoli, costretti da esigenze di lavoro o di nuove relazioni.
Credo che accada a tutti, rientrando nel luogo di nascita, di vivere la stessa esperienza. Da un lato, ritrovare certi odori, volti invecchiati, alberi sopravvissuti, edifici non ripristinati né trasformati. Affiora, così, la nostalgia dell’infanzia, dei sentimenti teneri, delle piccole cose del passato, care anche se di cattivo gusto.
D’altro lato, però, si scopre che l’atmosfera è ormai ben diversa, il flusso della storia ha sommerso anche quella società un tempo contadina, gli eventi e persino l’inquinamento sono simili a quelli delle grandi città. È la finale tragica del romanzo di Pavese.
Divampa un incendio, ma non è più quello festoso dei falò: è, invece, il fuoco che il padre di Cinto, ridotto in miseria dalla sua padrona esosa, appicca al podere, prima di sterminare la sua famiglia e uccidersi. Non rimane al Narratore che ripartire verso un orizzonte lontano.
in “Il Sole 24 Ore” del 6 agosto 2023