Da più parti sento ripetere questa considerazione: "Persino in Tunisia e in Egitto si stanno scrollando di dosso il peso del regime che comanda ormai da troppi anni, come mai noi italiani non lo facciamo?!".


don Chisciotte
"Basta con il celibato dei preti”. L'appello del giovane Ratzinger

di Andrea Tarquini

Trentun anni fa Joseph Ratzinger mise in discussione l'obbligo del celibato per i sacerdoti cattolici. Lo fece in una lettera confidenziale scritta insieme ad altri otto illustri e allora giovani teologi, e inviata alla Conferenza episcopale tedesca. (...)  Lo ha rivelato ieri la Sueddeutsche Zeitung, documentando il contenuto della missiva. (...) Disobbedienza di massa di sacerdoti e fedeli, crisi delle vocazioni, esodo dei preti e dei credenti dalla Chiesa, carenza grave di nuovi sacerdoti che siano veramente all'altezza del ministero, perdita di contatto con la realtà della vita d'oggi. Ecco i pericoli che Ratzinger e gli altri otto teologi indicarono nella lettera segreta. La gerarchia decise di non reagire e non rispondere. La lettera finì insabbiata negli archivi, e adesso il circolo dei cattolici critici di Ratisbona (Akr) ha deciso di divulgarla. Era il 9 febbraio 1970, Ratzinger aveva appena 42 anni. «Pieni di timor di Dio - scrissero i nove teologi - poniamo la questione della situazione d'emergenza della Chiesa. Le nostre riflessioni riguardano la necessità urgente di una riflessione e di un approccio differenziato sulla legge del celibato della Chiesa. Siamo convinti che ciò sia necessario al più alto livello ecclesiastico». Scelsero di svolgere così il loro incarico di consiglieri della Conferenza episcopale tedesca sui problemi della fede. «Chi ritiene superfluo un simile chiarimento ci sembra abbia poca fede nell'invito del Vangelo e della Grazia di Dio», si legge ancora nella lettera dei teologi che, a suo tempo, ricordavano come il celibato nella Chiesa fosse una legge ma non un dogma. E ancora: «Teologicamente è ingiusto non ripensare il tema alla luce della nuova situazione storica e sociale. Specialmente i preti giovani si chiedono, alla luce dell'acuta crisi delle vocazioni, come questi problemi della vita della Chiesa e dei suoi pastori potranno essere risolti nei prossimi anni». Chi sceglie il sacerdozio, sottolinearono i nove, affronta solitudine e perdita di riconoscimento del proprio ruolo nella società di oggi, una società altamente sessualizzata. La lettera di Ratzinger e degli altri otto fu ignorata, non è nemmeno chiaro se la Conferenza episcopale tedesca la inoltrò a Roma o no. La crisi delle vocazioni continua, ma oggi uno dei nove teologi appare dall'altra parte della barricata.


in “la Repubblica” del 29 gennaio 2011

La Bignardi confonde il priore con Briatore

di Aldo Grasso

Questa bisogna segnarsela. Il priore di Bose, il nostro amato Enzo Bianchi, è andato in tv a confessarsi da Daria Bignardi. Proprio vero che viviamo in un mondo alla rovescia. È andato, ha raccontato come i suoi monaci vadano a dormire alle otto di sera, si sveglino alle quattro e mezza del mattino, preghino, si confrontino con la grande solitudine della notte, coltivino l'orto
Ruby, si indignano solo le donne?

di Alberto Bobbio

C'è una riflessione da fare e una domanda da porre con urgenza: perché quasi solo le donne si indignano per le donne? Perché solo le donne alzano la voce e organizzano manifestazioni? Perché deve parlare la segretaria “donna” della Cgil, Susanna Camusso, nel totale assordante silenzio di tanti uomini altrettanto impegnati nella politica e nel sindacato, su uno stile nefasto di modello femminile che ormai si sta diffondendo nel Paese? L'indignazione per donne considerate oggetti, per frotte di ragazze equivalenti a scuderie di puledre, dovrebbe percorrere il Paese da un capo all'altro e interrogare tutti. Invece sembra che l'indignazione sia una questione di genere. In piazza vanno le donne, la voce l'alzano le donne. E neppure tutte, perché c'è chi attende di conoscere la verità giudiziaria, mentre si scivola via dal piano culturale. Ormai espressioni come “carne fresca” per definire lo stato di povere ragazze impigliate in una vita grama, oggetto di desiderio morboso da parte di uomini senza rispetto, appaiono normali. «Gli piace la carne fresca», ha detto Iva Zanicchi in televisione. A quanti in questo Paese va bene il libertinismo come ideologia e pratica quotidiana, sdoganato ormai alla stregua di terapia antistress? Chi alza il dito e avvisa che bisogna cambiare stile viene accusato di moralismo interessato. Chi denuncia la diffusione di una cultura che associa l'immagine della donna a quella di oggetto del desiderio con tariffa annessa, viene rimproverato per aver capitolato davanti ad un processo mediatico. Ormai siamo al paradosso per cui lo sfacelo morale è argomento da vescovi, da donne di sinistra, da giornali cattolici. Certo, c'è un disagio morale. Ma perché ancora non si trasforma in indignazione generale? Il modello di maschio che si sta diffondendo è quello squallido che mette in fila solo pulsioni, desideri, seduzione. E' “l'idea balzana della vita”, denunciata dal cardinale Bagnasco, che va bene a molti, a troppi, in questo Paese. Ma soprattutto non inquieta gli uomini. Dovrebbero essere gli uomini ad organizzare manifestazioni contro la pubblica umiliazione delle donne, il mercimonio del corpo di giovani ragazze, dovrebbero essere i maschi per primi a ribellarsi a questa nausea e disgusto. E forse è arrivato il momento di gridarlo a voce alta, uomini e donne insieme.


in “FamigliaCristiana.it” del 26 gennaio 2011

Le suore: fermiamo lo scandalo

di Maria Pia Bonanate

Le religiose italiane sono indignate e sofferenti per quanto sta accadendo attorno all'immagine della donna, ridotta a merce per uso sessuale, umiliata ed offesa nella sua dignità di persona. E questo proprio in quel contesto istituzionale dal quale dovrebbe provenire la difesa e la promozione del mondo femminile, la valorizzazione delle sue qualità umane e sociali, professionali, di quel “genio femminile” esaltato da Giovanni Paolo II . È un grido forte e commosso che giunge da più parti, in particolare dalle comunità e dalle case di accoglienza dove decine di suore lavorano sulla strada per aiutare le donne in difficoltà ad uscire da quella condizione di schiave del sesso nella quale tantissime sono finite contro la propria volontà, ingannate e minacciate. Due religiose, Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, responsabile dell'Ufficio Anti-Tratta dell'USMI (Unione Superiore Maggiori d'Italia) e Rita Giarretta, fondatrice di “Casa Rut” che accoglie le ragazze e le mamme che cercano di sottrarsi al dominio della criminalità organizzata, hanno deciso di dare voce alle centinaia di consorelle di 75 congregazioni che operano in 110 strutture per dare protezione e speranza alle donne che sono state devastate dallo sfruttamento sessuale , per offrire loro la possibilità di ricostruire la loro vita distrutta e un futuro. «A nome di tutte queste religiose che nel nostro Paese, ogni giorno, con coraggio e dedizione, non curanti dei rischi e della fatica, senza cercare pubblicità, consensi e tornaconto, ma semplicemente guidate dall'amore e dal rispetto vero per la persona, si chinano sulle donne ferite dallo sfruttamento sessuale per aiutarle a guarire, manifestiamo dolore e profondo disagio per la figura della donna offerta in questi giorni dalle cronache dei media che ci portano a pensare che siamo ancora molto lontani dal considerarla per ciò che veramente è e non semplicemente un oggetto o una merce da usare a piacimento per uso personale. E ci chiediamo: Che immagine stiamo dando della donna e del suo ruolo nella società e nella famiglia?». Suor Eugenia Bonetti denuncia: «In questi ultimi tempi si è cercato di eliminare la prostituzione di strada perchè dava fastidio e disturbava il nostro pudore, abbiamo voluto rinchiuderla in luoghi meno visibili, ma non ci rendiamo conto che una prostituzione del corpo e dell'immagine della donna è diventata ormai parte integrante nei nostri programmi, notizie televisive, alla portata di tutti e che purtroppo educa allo sfruttamento, al sopruso, al piacere, al potere, non curanti delle dolorose conseguenze sui nostri giovani che vedono solo modelli da imitare. La donna è diventata soltanto una merce che si può comperare, consumare, per poi liberarsene come "usa e getta"». Suor Rita Giarretta, che con tre cnsorelle è impegnata, giorno e notte, da anni, a Caserta, in un territorio, assediato dalla camorra, in ginocchio per il suo degrado ambientale, sociale e culturale, dove le vittime del commercio sessuale, che arrivano da paesi lontani, sono sempre più giovani e portano i segni di violenze e di crudeli schiavitù, si dice sconcertata e indignata: «Sconcertata come da ville del potere alcuni rappresentati del Governo, eletti per cercare e fare unicamente il bene del nostro Paese, soprattutto in un momento così grave di crisi generale, offendano e deturpino, umilino, l'immagine della donna. Ci inquieta un potere esercitato in maniera così sfacciata e arrogante che riduce la donna a merce e dove fiumi di denaro e di promesse intrecciano corpi trasformati in oggetti di godimento. Di fronte a tale e tanto spettacolo l'indignazione è tanta! Come non andare con la mente all'immagine di un altro "palazzo" del potere dove 2000 anni fa, al potente di turno, incarnato dal re Erode, il Battista gridò con tutta la sua voce: "Non ti è lecito, non ti è lecito!"». Il grido della coraggiosa religiosa che si è fatta ‘presenza amica', accanto a tante sfortunate giovani straniere “per offrire loro il pane della speranza, il pane della vita e il profumo della dignità”, si rivolge anche a quel mondo maschile che in questi giorni reagisce tiepidamente, o non reagisce proprio, a fatti così gravi: «Davanti a questo spettacolo una domanda mi rode dentro: dove sono gli uomini, dove sono i maschi? Poche sono le voci, anche dei credenti, che si alzano chiare e forti. Nei loro silenzi c'è ancora troppa omertà, nascosta compiacenza e forse sottile invidia. Credo che dentro questo mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c'è un grande bisogno di liberazione». Si è unita alle religiose l'on. Silvia Costa , che il 2 giugno 2009 aveva lanciato un appello “Per una Repubblica che rispetti le donne”, dove aveva denunciato il loro uso e abuso nei media e in politica, degradandone l'immagine a oggetto di consumo sessuale ed aveva raccolto 25 mila firme. Oggi, dopo avere ricordato come la maggioranza delle donne in Italia “lavora, crea ricchezza, cerca lavoro, studia , si sacrifica per affermarsi nella professione che ha scelto, si prende cura delle relazioni affettive e familiari,occupandosi dei figli, mariti, genitori anziani”, lancia un nuovo appello: «Una cultura diffusa propone alle nuove generazioni di raggiungere scintillanti mete e facili guadagni, offrendo bellezza e intelligenza al potente di turno, disposto a sua volta a scambiarle con risorse e ruoli pubblici... Senza rendercene quasi conto, abbiamo travolto la soglia del comune senso della decenza. Il modello di vita e di relazione tra donne e uomini , ostentato dalla figura che occupa uno dei vertici dello Stato, induce un corrompimento delle coscienze di cui si avverte ormai la terribile profondità. Chiediamo a tutte le donne, senza alcuna distinzione, di difendere il valore del nostro comune sesso e di non assistere passivamente allo scempio della loro e della nostra dignità. E diciamo agli uomini: Se non ora, quando?».

in “FamigliaCristiana.it” del 28 gennaio 2011

Non ce lo meritiamo

di Massimo Gramellini

Un lanciatore di baseball della squadra di Kansas City aveva ancora un anno di contratto da 12 milioni di dollari, ma vi ha rinunciato perché stava giocando male: gli sembrava di rubare lo stipendio e si è ritirato. Il baseball stimola pensieri evoluti dai tempi di Charlie Brown. Cionondimeno immagino che in queste ore stuoli di medici si affollino al capezzale di Gil Meche per capire in quale punto esatto della nuca lo abbia colpito la pallina. Sento la voce del cinico: è un campione miliardario, sai che sacrificio! Ma il punto non è la rinuncia (e comunque 12 milioni sono un discreto bottino anche per un nababbo). E' la motivazione.

Non vi sfuggiranno gli effetti che un esempio simile potrebbe avere sugli equilibri del pianeta, in caso di propagazione del contagio. Se tutti i manager scarsi rifiutassero la liquidazione con cui vengono accompagnati alla porta dalle aziende che hanno impoverito con le loro scelte sciagurate. Se gli assunti demotivati, raccomandati e sopravvalutati (tre caratteristiche talora riscontrabili nella stessa persona) presentassero le dimissioni con queste parole: «Troverei giusto che la mia retribuzione andasse a quel precario che sgobba il triplo di me». Se insomma ogni uomo, in ogni circostanza della vita, si guardasse allo specchio con obiettività e ne traesse le conseguenze naturali, anziché sentirsi sempre un fenomeno incompreso e la vittima di qualche complotto, è evidente che il mondo cesserebbe di essere la simpatica schifezza che è. E, finalmente perfetto, si dissolverebbe nello spazio esibendo il cartello: missione compiuta.
Vergognatevi, così nasce l'etica quelle riflessioni da Leopardi a Marx

di Nadia Urbinati

L'indignazione è un moto dell'animo nutrito dal senso di vergogna, un'emozione fondamentale nella fenomenologia dell'etica sociale. Come altre emozioni, la vergogna è "generativa di comportamento" in quanto mette in moto sentimenti, come l'indignazione e la colpa, che agiscono direttamente sulla volontà: per alleviarli si è portati a giustificare la proprie azioni e infine a reagire. Se l'emozione della vergogna è in se stessa non razionale, la serie di sentimenti e azioni che alimenta sono dunque di tipo strategico: le forme con le quali l'individuo che si vergogna agisce sono propositi razionali volti a rimediare il misfatto che ha generato vergogna. Per esempio Papa Benedetto XVI ha commentato i numerosi casi di pedofilia nel clero cattolico con queste parole: "Proviamo profonda vergogna e faremo tutto il possibile perché ciò non accada più in futuro". Per questa sua capacità generativa di comportamento, l'emozione della vergogna è stata messa da Giambattista Vico alle origini della società: se "la natura di tutte le cose sta nel loro cominciamento", allora la natura della storia umana sta nella vergogna primaria, quella di Adamo ed Eva di fronte alla nudità che scoprirono di avere non appena violarono il patto di obbedienza con il loro creatore. Nella Genesi come nel Pentateuco, la vergogna e la colpa figurano alle origini della responsabilità morale. Il rossore che sale sulle guance di chi prova vergogna è il segno della socialità di questa emozione, del bisogno di riconoscimento da parte degli altri e nello stesso tempo del controllo che quel riconoscimento opera sulle nostre azioni: chi prova vergogna non riesce a sostenere lo sguardo altrui e abbassa gli occhi a terra. Questa dimostrazione di vergogna è correlata e complementare alla reazione di indignazione che la conoscenza di un comportamento vergognoso induce. Pertanto, la vergogna ha una fenomenologia doppia: la persona colpevole può provare il desiderio di nascondersi (così nasce il senso di umiliazione); chi assiste può reagire con sdegno. È per questa doppia valenza che poeti e filosofi hanno attribuito alla vergogna un ruolo liberatorio, non solo per l'individuo ma anche per la collettività. Non provare vergogna, e per converso non provare indignazione, sono da questo punto di vista il segno di una realtà impermeabile all'ethos perché indifferente, e di un atteggiamento di apatico realismo. Una persona che non si vergogna non sente di dover reagire o cambiare comportamento. Per questo scrittori e filosofi si sono spesi per svegliare le coscienze dormienti, educare il senso di indignazione, smuovere l'emozione della vergogna. E quest'opera della cultura dimostra come la vergogna sia segno della civiltà. La forza di questa emozione è naturale ma la forma che prende dipende dall'ethos di una società. Per esempio, ciò che il comportamento sessuale prescrive o censura non è identico in tutte le società, gli "oggetti" della vergogna e quindi dell'indignazione sono contestuali e socialmente situati; ma il meccanismo che li governa è universale nella sua fenomenologia. Universale nel senso che, per riprendere la Bibbia e Vico, le radici della responsabilità morale (e quindi della punibilità) stanno nella capacità che gli individui hanno di sentire la vergogna e la colpa. Su questa base si sviluppa l'azione educativa e culturale. Nel 1823, Giacomo Leopardi annotava nello Zibaldone: "Niuna cosa nella società è giudicata, né infatti riesce più vergognosa, del vergognarsi". Convinto della funzione attiva ovvero pratica del "vergognarsi", Leopardi aveva immortalato la deprimente condizione dell'Italia nel Canto Sopra il monumento di Dante, come a voler muovere i lettori: "Volgiti indietro, e guarda, o patria mia/quella schiera infinita d'immortali/E piangi e di te stessa ti disdegna/Che senza sdegno omai la doglia è stolta/Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti/E ti punga una volta/Pensier degli avi nostri e de' nepoti (...)". Provare vergogna sembra quindi essere di sprone, sembra indurre a reagire, come ha scritto Silvana Patriarca. Quante volte si sente ripetere (e si dice) "mi vergogno di essere italiano/a"? Innumerevoli volte, soprattutto negli ultimi anni. Dirlo, ripeterlo instancabilmente segnala la speranza che dalla capacità di sentire vergogna nasca l'indignazione, e di qui la decisione di reagire, di cambiare. Su questa catena di fenomeni lo stesso Marx - notoriamente contrario all'uso di emozioni e sentimenti nella spiegazione dei fenomeni sociali - vergò parole straordinarie a proposito delle politiche illiberali del governo prussiano, commentando che, senza cadere in un vuoto patriottismo, sarebbe stato auspicabile che i tedeschi avessero provato vergogna, e aggiungeva: "Non è la vergogna che fa le rivoluzioni", tuttavia "la vergogna è già una rivoluzione in qualche modo... se un'intera nazione esperimenta davvero il senso di vergogna è come un leone accovacciato pronto a balzare".


in “la Repubblica” del 22 gennaio 2011

Cristianamente e logicamente la guerra non si regge. Cristianamente, perché Dio ha comandato: «Tu non uccidere» (e «Tu non uccidere», per quanto ci si arzigogoli sopra, vuol dire: «Tu non uccidere»); e per di più si uccidono fratelli, figli di Dio, redenti dal sangue di Cristo; sì che l'uccisione dell'uomo è a un tempo omicidio perché uccide l'uomo; suicidio perché svena quel corpo sociale, se non pure quel corpo mistico, di cui l'uccisore stesso è parte; e deicidio perché uccide con una sorta di «esecuzione di effigie» l'immagine e la somiglianza di Dio, l'equivalenza del sangue di Cristo, la partecipazione, per la grazia, della divinità. (...)

E Cristo venne: e sulla sua culla, nella notte dei tempi, gli angeli cantarono: «Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini». Quel che è la gloria per Dio in cielo, è la pace per gli uomini in terra: la pace è la gloria degli uomini; la gloria è la pace di Dio. «Cristo è la nostra pace...», venuto «a recare il buon annunzio di pace», dice san Paolo ai romani, gente di guerra. La sua rivoluzione è la scoperta del fratello, fatta con la carità; e frutto della carità è la pace. La sua legge è il perdono: e il perdono tronca gli impulsi di guerra. La guerra denuncia, in chi la promuove, un ateismo effettivo, una ribellione a Dio. Una delle beatitudini evangeliche suona: «Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio». I pacifici sono i facitori di pace: perché la pace si fa, si produce. Il cristiano è un produttore di pace, che ricostruisce indefinitamente nel tessuto dei secoli: e cioè ricostituisce senza tregua la vita, facendo «guerra alla guerra» come dice Pio XII, per combattere il suo nemico, che è la morte. I facitori di pace saranno figli di Dio. I facitori di guerra saranno figli di Satana, che le Scritture chiamano «omicida». Dove vale il Vangelo, regna la pace, negli individui e nelle nazioni; dove si scatena la guerra, il Vangelo è violato, anche se teologi pavidi o ingenui o prezzolati abbiano sfigurato talora le parole di Cristo per legittimare il carnaio. (...)

La non-violenza non va confusa con la non-resistenza. Non-violenza è come dire: «no» alla violenza. È un rifiuto attivo del male, non un'accettazione passiva. La pigrizia, l'indifferenza, la neutralità non trovano posto nella non-violenza, dato che alla violenza non dicono né sì né no. La non-violenza si manifesta nell'impegnarsi a fondo. La non-violenza può dire con Gesù: «Non sono venuto a portare la pace ma la spada».

Tu non uccidere (1955) di don Primo Mazzolari

La riscoperta dell'indignazione

di Benedetta Tobagi

Trentadue pagine in cui articola l'imperativo morale "Indignatevi!" - di fronte alle abissali ingiustizie della globalizzazione selvaggia, alla deumanizzazione dei migranti, all'emergenza ambientale - e il 93enne ex partigiano e diplomatico franco-tedesco Stéphane Hessel ha venduto in pochi mesi quasi mezzo milione di copie in Francia. Il prezzo stracciato e il lancio a ridosso del Natale ne hanno fatto il perfetto cadeau politicamente corretto, ma questo non basta a spiegare il successo clamoroso del pamphlet. Di certo cade su un terreno fertile. A partire dal 2000, con il collasso della bolla speculativa e lo stillicidio di scandali che, da Enron in poi, hanno portato sul lastrico migliaia di risparmiatori e lavoratori, si incrina l'immagine di broker, amministratori delegati, manager: un modello di successo, ricchezza e privilegio che suscitava ammirazione e invidia. l piccolo libro Indignez-vous! monta sulle spalle di una fioritura di saggi e opere cinematografiche, letterarie e teatrali; i documentari The Corporation, Il caso Enron, Goodbye mr.Capitalism, i drammi di Edward Bond, Deb Margolin, David Hare, i saggi di Naomi Klein, il libro che mette a nudo i responsabili del crack di Merril Lynch, per citarne alcuni, denunciano le perversioni del capitalismo delle multinazionali, i vizi della speculazione selvaggia e dei suoi protagonisti, che per decenni - finché l'economia occidentale reggeva - hanno agito indisturbati, nella latitanza della politica e nell'acquiescenza di larga parte dell'opinione pubblica. Col crollo del 2009, gli dèi del capitalismo rampante sono caduti, è morta l'illusione della crescita indefinita e dagli Usa all'Europa la cittadinanza comincia a fremere, esasperata. E non solo dalle infamie del capitalismo: gli scandali politici sono fonte di frequenti esplosioni di sdegno, dagli Usa al Regno Unito a - ovviamente l'Italia: qui è appena nato il sito indignati.org, reazione al vaso di Pandora scoperchiato dall'affaire Ruby. L'affiorare di sussulti d'indignazione popolare che rompono l'indifferenza compiacente o rassegnata è salutato con speranza ed entusiasmo. L'indignazione viene invocata, non solo in Francia, come una panacea, il sentimento che può guidare una società in stallo fuori dalla palude della crisi, morale e materiale. Eppure è un sentimento prepolitico, e, come suggerisce una recente (2007) riflessione teoretica di Álvarez González, è tipica di "un'etica in tempi di impotenza". Qual è dunque lo specifico dell'indignazione? Quale funzione può svolgere nella società del capitalismo globale postfordista? L'indignazione si mescola ad altri sentimenti scatenati dall'ingiustizia, come l'odio e la rabbia. Rispetto a queste emozioni, spiccatamente difensive, irriflessive e distruttive, l'indignazione è sottilmente diversa. Definita come "condizione spirituale caratterizzata da vibrante sentimento verso qualcosa che si ritiene riprovevole e ingiusto" - indegno, appunto - presuppone il sentimento confuso, se non ancora la speranza, di qualcosa di diverso, un ideale di giustizia. Il filosofo Paul Ricoeur poneva i termini della questione in modo cristallino (Il giusto, 1995): "il nostro primo ingresso nella regione del diritto non è stato, forse, segnato dal grido ‘È ingiusto!'?". Nell'indignazione diventiamo testimoni empatici delle ingiustizie del mondo: anche se ancora non ci toccano direttamente, o siamo "fuori pericolo", sentiamo - come ama ripetere Roberto Saviano che quel male ci riguarda. In questa chiave possiamo leggere, ad esempio, le critiche di J.K. Rowling alla risibile politica "simbolica" di sostegno alle famiglie del premier conservatore Cameron: senza il welfare per le madri sole non avrebbe mai potuto creare la saga di Harry Potter. L'invito a indignarsi, più che ai giovani magrebini e europei già in protesta, è rivolto alla massa critica dei cittadini che non sono ancora stati toccati nella carne dall'impatto distruttivo delle forze impersonali dell'economia e dovrebbe riscuotersi dal virus letale dell'indifferenza prima che sia troppo tardi. Dall'oscuro senso di colpa che, scriveva Bobbio, si domanda "Perché a lui e non a me?" deve germogliare la presa di coscienza che ogni lesione della giustizia nuoce all'intero corpo sociale, nel lungo periodo. L'indignazione marca il punto di rottura della sopportazione, segna il risveglio della coscienza morale ed è un formidabile impulso verso l'agire politico. Dunque è davvero la chiave per uscire dalla crisi? Attenzione, il "grido dell'indignazione" non basta, ammonisce Ricoeur. Primo, esso difetta della definizione di criteri positivi: quale giustizia realizzare, con che mezzi, per chi. Aveva un bel dire, Rousseau, che il senso d'ingiustizia è il contrassegno universale dell'umanità: l'indignazione, spesso, è selettiva. Nel '68 tutti si disperavano per i vietnamiti, molto meno per il suicidio di Jan Palach. Per non parlare di chi, laddove confliggono due diritti, come nel conflitto israelo-palesinese, si indigna a senso unico. Ideologie, appartenenze, moda e visibilità mediatica hanno un peso determinante. Esiste poi, latente, il rischio di provocare nuove violenze e sopraffazioni, per vendicare quelle esistenti. L'uomo indignato odia l'ingiustizia e l'argine che lo trattiene dal volgere quell'odio contro i suoi attori è un campo di tensione instabile. Se Hessel addita la non violenza come l'unica via possibile (è ormai lontana la retorica rivoluzionaria dei Dannati della terra di Fanon, 1961), altrove è diverso: il già citato Álvarez González, immerso nella dura realtà sudamericana, non esplicita tale rifiuto. Il senso di giustizia dovrebbe trattenere dall'uso della violenza, ma, come ammonisce il noto brocardo, summum ius, summa iniuria. Il "maestro del sospetto" Nietzsche, ci ricorda Natoli, insegnò a diffidare dello sdegno sociale, in cui può annidarsi un'"utopia dell'invidia" nutrita di risentimenti assai poco nobili. Linea argomentativa ripresa da von Hayek, un padre del pensiero liberal-conservatore, in polemica col "miraggio della giustizia sociale". Ma il pericolo forse più diffuso nella nostra società è che l'indignazione si riduca a una falsa coscienza consolatoria: un'"etica-anestetica". Lo sdegno monta (e si sgonfia) seguendo il ritmo convulso della cronaca. Indignarsi fa sentire buoni, poi la vita va avanti come prima, ha velenosamente contestato a Hessel il filosofo Luc Berry. La parabola italiana di Mani Pulite insegna: la crisi sopraggiunse quando i giudici toccarono il ventre molle della microcorruzione diffusa. La rabbia si mescola all'ipocrisia: tutti si indignano davanti al politico ladro, molto meno se un professionista offre un forte sconto a chi rinuncia alla ricevuta fiscale. Coerenza e continuità sono il banco di prova cruciale. L'indignazione, se non prosegue in un programma politico, è destinata a spegnersi. È indispensabile, ma come un detonatore o la carta con cui accendiamo il fuoco, che ha bisogno di ceppi di legna asciutti per bruciare a lungo. C'è un vuoto politico e concettuale da riempire. Cominciano a emergere nuovi modelli e direzioni di sviluppo per un capitalismo temprato dall'etica e dalla conoscenza (tra i nomi noti il nobel Sen, il padre del microcredito Yunus, Rifkin con l'economia dell'empatia, la radicale americana Susan George con "Attac", acronimo della proposta di tassare le transazioni finanziarie transnazionali per sostenere politiche di welfare), ma la strada è lunga e le controversie molteplici. In un orizzonte confuso e secolarizzato, beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno indignati. E da lì, forse, potrà nascere qualcosa.


in “la Repubblica” del 22 gennaio 2011

Paolini e Lerner: «Serata tv sullo sterminio dei disabili»

Eugenetica ed eutanasia applicate come sterminio di massa da parte dei nazisti: temi terribili ma «che non sono archeologia». Lo dice chiaro Marco Paolini che torna su La7, in occasione del Giorno della Memoria, con un nuovo monologo Ausmerzen - Vite indegne di essere vissute, un drammatico racconto sulle teorie dell'eugenetica, che tra il '34 e il '45 portò il nazismo alla sterilizzazione, prima, e all'eliminazione poi dei disabili e dei malati di mente. Le due ore dell'«affabulatore» Paolini verranno trasmesse in diretta e senza interruzioni pubblicitarie da La7 dall'ex ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano, il 26 gennaio alle 21.10 alla vigilia, appunto, della Giornata della Memoria.

Basandosi su documentazioni dell'epoca, Paolini racconterà il progetto Aktion T4 che in Germania schedò tutti i disabili, programmandone la soppressione affinché non pesassero sui bilanci dello stato. È stato il fratello di Paolini, Mario, educatore che da 25 anni lavora con i disabili e presente ieri alla conferenza stampa milanese, a scovare la documentazione e a insistere per «rompere il silenzio su una vicenda considerata storia minore». «Eutanasia: quando si creano dei parametri a tavolino, chi è fuori da questi parametri, chi è diverso, è a rischio
La tristezza della lussuria

di Enzo Bianchi

La sapienza dei padri della Chiesa fin dai primi secoli ha saputo distinguere tra alcuni peccati gravissimi - passibili di «scomunica» e di una lunga penitenza pubblica prima della riammissione nella comunità cristiana: apostasia, adulterio, omicidio, aborto... - ma legati a un singolo gesto e altri peccati o vizi «capitali» che sono invece espressione di una patologia spirituale molto più profonda. Comportamenti generati da «pensieri malvagi» che in certo senso minano la personalità stessa di chi li commette, facendolo finire in una spirale di depravazione sempre più disumana: autentici «vizi dell'anima», che nascono dal cuore e che a partire dal cuore vanno contrastati. Tra questi la lussuria, il rapporto deformato con il sesso, una passione che porta a ricercare il piacere per se stesso, il godimento fisico avulso dallo scopo al quale è legato. Il piacere sessuale è il più intenso piacere fisico, un piacere complesso che investe il corpo e la psiche, un piacere inerente all'atto sessuale, di cui tuttavia costituisce solo un aspetto. Ora, se il piacere è cercato nella «quantità», nella compulsione, nell'eccedenza, l'incontro sessuale viene ridotto alla sola genitalità, al piacere fisico e all'orgasmo, l'interesse si focalizza sull'organo specificamente implicato in esso e lì si rinchiude, senza aperture ad alcuna finalità. L'unico scopo diventa possedere l'altro per farlo strumento del proprio piacere: l'altro è ridotto al suo corpo, alle sue parti erotiche e desiderabili, diventa un oggetto, addirittura un elemento feticistico... Ma l'energia sessuale è unificante quando è rivolta all'amore, alla comunicazione, alla relazione, cioè a una «storia» d'amore; ridotta all'erotismo, invece, essa frammenta, divide, dissipa il soggetto. Chi è preda della lussuria assolutizza la propria pulsione e nega la relazione con l'altro, compiendo così una scissione della propria personalità e riducendo l'altro a una «cosa», prima ancora che a una merce. Le pulsioni erotiche, non più ordinate e armonizzate nella totalità del sé, sfogano la propria natura caotica e selvaggia, fino a sommergere l'altro, indotto nella fantasia o nella realtà - quasi sempre con prepotenza - all'atto sessuale: la lussuria si manifesta là dove il piacere sessuale è incapace di sottostare alle elementari regole della dignità propria e altrui. Eppure questa passione nasce nello spazio della sessualità, dimensione umana positiva tesa alla comunione tra uomo e donna: la complessità del piacere sessuale non riguarda solo la genitalità e l'orgasmo, ma coinvolge la persona intera, con tutti i suoi sensi. Linguaggio d'amore, manifestazione del dono di sé all'altro, il piacere sessuale è coronamento dell'unione e, come tale, resta inscritto nella storia di un uomo o di una donna: appare nella pubertà ed è accompagnato dalla fecondità, per poi conoscere una stagione di sterilità, fino alla sua estinzione. La lussuria, per contro, consiste nell'intendere il piacere come realtà scissa dai soggetti, dalla loro storia d'amore, ed è perciò una ferita inferta a se stessi e all'altro. Quando si separa il corpo dalla persona, allora l'esercizio della sessualità è sfigurato, degenera, sfocia in aridità, diventa ripetizione ossessiva, obbedisce all'aggressività e alla violenza. L'amore, che è dono di sé e accoglienza dell'altro, è smentito radicalmente dalla lussuria, che vuole il possesso dell'altro; e così il rapporto sessuale, che dovrebbe essere un linguaggio «altro», sempre accompagnato dalla parola ma anche eccedente la parola stessa, diventa la morte del linguaggio, della comunicazione, impedendo di fatto ogni comunione. Viviamo in un contesto culturale, costruito ad arte da molti mass media e sfruttato dalla pubblicità, in cui l'unica realtà non oscena è quella dell'erotismo: è ormai inevitabile imbattersi in immagini erotiche, che si imprimono nella mente per riemergere in seguito e stimolare fantasie perverse. Per reagire a tale clima ammorbante dovremmo acquisire la consapevolezza che la lussuria toglie la libertà: chi ne è schiavo finisce per asservirsi all'idolo del piacere sessuale, un idolo ossessionante che innesca una pericolosa dipendenza. Chi è preda della lussuria è come malato di bulimia dell'altro, lo cosifica in modo reale nella prestazione sessuale o in modo virtuale nell'immaginazione. La vera perversione in atto nella lussuria è infatti quella che induce a concepire l'altro come semplice possibilità di incontro sessuale, come mera occasione di piacere erotico. Come non notare oggi il fenomeno della senescenza precoce dell'esercizio sessuale nelle nuove generazioni? Come ignorare l'esercizio di un eros virtuale, la pornodipendenza da internet? Per questa strada ci si incammina verso il baratro di un libidogramma piatto, si uccide l'eros per sempre. Una gestione sana del piacere sessuale comporta che la presa di coscienza di un corpo sessuato si accompagni alla volontà di incontrare l'altro nella differenza e nel rispetto dell'alterità: si tratta di integrare la sessualità nella persona, attraverso l'unità interiore della persona nel suo essere corpo e spirito. Certo, richiede una padronanza di sé, ma questa è pedagogia alla vera libertà umana: o l'essere umano domina le proprie passioni oppure si lascia da esse alienare e ne diventa schiavo. Il lussurioso riceve come salario del proprio vizio una tristezza e una solitudine più pesanti, alle quali pensa di riparare entrando nella spirale lussuriosa per nuove esperienze, nuovi incontri, nuovi piaceri: sì, una spirale «dia-bolica» che separa sempre di più piacere da relazione e fecondità. Per questo la disciplina interiore, anche nello spazio della sessualità, è sempre opera di libertà e, quindi, di ordine e di bellezza: è uno sforzo di umanizzazione capace di trasformare anche l'esercizio della sessualità in un'opera d'arte, in un capolavoro che corona una storia d'amore.


in “La Stampa” del 19 gennaio 2011

Riconoscere il sacerdozio dei battezzati

di Jean Rigal, teologo

Non è raro oggi sentir parlare della Chiesa in termini di declino, di invecchiamento, di discredito, di ripiegamento identitario. Il fatto che certi si sforzino di relativizzare questa diagnosi evocando la situazione di altri continenti non cambia affatto la realtà che stiamo vivendo, in Francia e nella maggior parte dei paesi occidentali. (...) La Chiesa non può accontentarsi di prendere atto di questa realtà. È tenuta a reagire. Nello specifico, la tentazione maggiore è quella di cercare le cause del deperimento al di fuori dell'istituzione ecclesiale: diffusione della secolarizzazione, difficoltà di impegnarsi, soprattutto a lungo termine, individualismo diffuso, perseguimento del profitto e del benessere... E anche se queste constatazioni sono, in parte, fondate, è improduttivo limitarsi a constatare. Soprattutto, questo può facilmente tranquillizzarci e convincerci che non bisogna cambiare nulla nella Chiesa, che bisogna mantenere quello che c'è il più a lungo possibile, senza rimettere in discussione una maniera di “fare Chiesa” che può essere inadatta nel tempo e per il tempo in cui viviamo. La comunità ecclesiale non è così totalmente sguarnita da non potervi far fronte. Per i cattolici, le aperture del Concilio Vaticano II sono un riferimento preciso che, ad oggi, siamo ben lontani dall'aver messo in atto. La costituzione Lumen gentium insegna che la comunità dei cristiani è primaria rispetto alla diversità degli incarichi e dei servizi. Il Concilio ha rivalorizzato “il sacerdozio comune” dei battezzati che si esercita nell'ascolto della Parola di Dio, nella celebrazione e nella missione (n. 10-12). Questa è una via di apertura al futuro la cui applicazione dipende interamente da noi, con la forza dello Spirito. In realtà, su questo punto, il Vaticano II non fa altro che riattualizzare, per il nostro tempo, ciò che ci insegna il Nuovo Testamento sulla Chiesa delle origini. Al tempo degli apostoli, non si parla mai del “sacerdozio dei preti”. Questo linguaggio restrittivo è apparso solo a partire dall'inizio del terzo secolo. Nel Nuovo Testamento, la parola “sacerdozio” è riservata a Cristo nella Lettera agli Ebrei, e al popolo dei battezzati nella prima Lettera di Pietro e nell'Apocalisse. A diverse riprese, l'apostolo Paolo si esprime in “consonanza” con questo insegnamento. Ad esempio scrive ai cristiani di Corinto: “Santo è il tempio di Dio e questo tempio siete voi” (3,17). “Il regno di sacerdoti” di cui parla l'Apocalisse, o “il popolo dei sacerdoti” come cantiamo noi talvolta, è quindi abilitato a “far salire a Dio l'azione di grazie”, per riprendere una formula di San Paolo. Senza idealizzare esageratamente la Chiesa primitiva, si vede quindi fiorire, in queste prime comunità cristiane, una grande diversità di ministeri, in rapporto con i “Dodici” apostoli e i responsabili delle Chiese “da loro stabiliti per succedere loro”, secondo l'espressione di Clemente di Roma alla fine del I secolo. È proprio questa l'insistenza del Vaticano II: mettere in rilievo la vocazione comune dei cristiani, in virtù di una uguaglianza fondamentale di tutti i battezzati. Dare tutta la sua importanza alla “vocazione battesimale” è fondamentale agli occhi del Concilio ed apre vie nuove. È urgente trarne le conseguenze immaginando altre forme di vita ecclesiale. A diverse riprese, il libro degli Atti degli Apostoli indica quali sono gli elementi costitutivi di una comunità di discepoli secondo il Vangelo. Comporta quattro elementi fondamentali: l'insegnamento degli Apostoli che riguardava, all'inizio almeno, gli avvenimenti della vita, della morte e della resurrezione di Gesù, la comunione fraterna, la frazione del pane in memoria del Signore, e infine le preghiere. Queste piccole comunità di discepoli appaiono come una fonte di rinnovamento e di speranza in rapporto con il nostro tempo. (...) Queste comunità prenderanno forme diverse, legate alle diversità dei loro membri e al contesto sociale ed ecclesiale nel quale si inseriscono e di cui devono tener conto. Non mancheranno di sorgere delle obiezioni. Bisognerà stare attenti a quelle che provengono da un mondo clericale (composto di ministri ordinati ma anche di laici) preoccupato di preservare l'esercizio del potere che ancora detiene. Non si dovranno sottovalutare le minacce “settarie” di comunità ripiegate su se stesse. Questo rischio è reale, ma non insormontabile, nella misura in cui tali comunità non restano isolate, ma partecipano ad incontri più ampi che possono a loro volta animare, sono in rapporto con il ministero globale del vescovo e di preti a servizio dell'unità e dell'universalità della Chiesa. Tale volontà pastorale non ha lo scopo di ovviare alla diminuzione numerica, che sarebbe una prospettiva poco stimolante ed incerta. Affronta il problema in modo diverso. Si tratta, piuttosto, di “fare Chiesa” in modo nuovo e di permettere ai cristiani di esercitare, con pieno diritto, il sacerdozio battesimale, che troppo a lungo è stato loro confiscato.



 


in “La Croix” del 15 gennaio 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Il vescovo: quel soldato morto non è un eroe

di Fabrizio Caccia

«Non ritengo opportuno replicare alle parole di un confratello, quello che penso sui nostri soldati in Afghanistan l'ho sempre detto nelle mie omelie», manda a dire l'arcivescovo Vincenzo Pelvi, ordinario militare per l'Italia. La sua risposta è laconica e soave, ma altrettanto grande dev'essere l'irritazione negli ambienti ecclesiastici e militari, all'indomani delle frasi pronunciate dal vescovo di Padova, monsignor Antonio Mattiazzo, a proposito dei soldati italiani tornati morti dalle «missioni di pace». «Certo
"Sono spettacoli indecorosi un crimine verso i giovani"

intervista a mons. Giancarlo Maria Bregantini a cura di Orazio La Rocca

«Sono i giovani le prime vittime degli indecorosi spettacoli di questi giorni. Perché quando si esaltano modelli discutibili come la corsa alla ricchezza, la forza del denaro e, ancora peggio, lo sfruttamento della bellezza della donna con modi di vivere moralmente inaccettabili, i ragazzi vengono inevitabilmente danneggiati. Al di là di tutti gli aspetti legati alle note vicende personali del premier, è questa la preoccupazione maggiore che sento di dover denunciare per quanto sta accadendo. E lo faccio come vescovo, come pastore e come uomo». Sul caso Ruby parla monsignor Giancarlo Maria Bregantini (63 anni), arcivescovo di Campobasso-Boiano, tra i più autorevoli esponenti del Consiglio permanente della Cei, presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e del lavoro, ma anche presule di frontiera, essendo stato in passato prete operaio e vescovo di Locri, in Calabria, diocesi tra le più difficili. Un vescovo, quindi, abituato a sentire «le attese e le preoccupazioni delle persone. Come i sentimenti di sconcerto, di delusione e di smarrimento che - lamenta - colgo tra i miei diocesani di fronte al pessimo spettacolo che stanno offrendo quei politici da cui ci si dovrebbe aspettare ben altre testimonianze». Preoccupazioni che solleverà anche al Consiglio della Cei lunedì prossimo ad Ancona, dove la prolusione del presidente Angelo Bagnasco - stando alle attese - dovrebbe dar voce alle «inquietudini» della Chiesa.

Arcivescovo Bregantini, cosa prova di fronte al caso Ruby e allo scandalo dei festini nelle residenze di Berlusconi?

«Preoccupazione e smarrimento. Ma, al di là delle presunte responsabilità di chi è chiamato in causa per accuse tanto infamanti, e in attesa che su tutta la vicenda si faccia chiarezza nelle sedi opportune, mi preme sottolineare che questi episodi già un gravissimo danno lo hanno fatto e, per di più, alle fasce sociali più deboli, cioè i giovani».

E quali sarebbero questi danni?

«È vedere, con avvilimento, come la donna viene presentata, usata come un oggetto e buttato via. La bellezza fatta merce, la corsa al denaro, alla ricchezza e al potere: sono questi gli esempi dannosi che da determinati politici vengono propinati in questi giorni. E i giovani ne sono le prime vittime».

Si tratta di preoccupazioni sue o sono disagi avvertiti nelle visite pastorali?

«Sono preoccupazioni mie, ma anche disagi raccolti tra quanti incontro in diocesi. Proprio ieri, durante una visita in una scuola, ho avuto modo di parlare di quanto sta succedendo con insegnanti e studenti. Ebbene, in tanti mi hanno detto che le vicende del premier hanno già compromesso uno sforzo educativo portato avanti da anni da scuole e famiglie».

Chi sono i più preoccupati?

«I diretti interessati, gli insegnanti, gli studenti e i genitori. Ma fa pure male constatare che per ironia della sorte, spettacoli tanto indecorosi, offerti - quel che è peggio - da chi è chiamato a svolgere ben altre funzioni istituzionali, sono emersi all´inizio di questo nuovo decennio dedicato dalla Chiesa alla formazione e all´educazione. Anche questo è un danno».

Anche lei pensa che a questo punto il premier Berlusconi dovrebbe fare un passo indietro?

«Non ho suggerimenti politici. Ognuno deve assumersi le sue responsabilità. Ma le mie preoccupazioni vanno al di là dell´aspetto politico o giudiziario. Quel che mi preme sottolineare è il crimine che, a livello di educazione, si sta consumando a danno dei giovani, i quali di fronte a certi modelli, fatti di potere, forza, ricchezza e sfruttamento della donna, sono inevitabilmente attirati da sirene pericolosissime. Come vescovo è questa la prima denuncia che per ora mi sento di fare ad alta voce».

in “la Repubblica” del 21 gennaio 2011

Anch'io ho avuto un sogno

del card. Carlo Maria Martini

in occasione del Sinodo europeo del 1999

(...)Anch'io in questi giorni, ascoltando gli interventi, ho avuto un sogno, anzi parecchi sogni. Ne richiamo tre.

1. Anzitutto il sogno che, attraverso una familiarità sempre più grande degli uomini e delle donne europee con la Sacra Scrittura, letta e pregata da soli, nei gruppi e nelle comunità, si riviva quell'esperienza del fuoco nel cuore che fecero i due discepoli sulla strada di Emmaus (Instrumentum Laboris 27). (...) Anche per la mia esperienza, la Bibbia letta e pregata, in particolare dai giovani, è il libro del futuro del continente europeo.

2. In secondo luogo, il sogno che la parrocchia continui ad attualizzare, col suo servizio profetico, sacerdotale e diaconale, quella presenza del Risorto nei nostri territori che i discepoli di Emmaus poterono sperimentare nella frazione del pane (IL 34,47). (...)

3. Un terzo sogno è che il ritorno festoso dei discepoli di Emmaus a Gerusalemme per incontrare gli apostoli divenga stimolo per ripetere ogni tanto, nel corso del secolo che si apre, un'esperienza di confronto universale tra i Vescovi che valga a sciogliere qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che forse sono stati evocati poco in questi giorni, ma che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino delle Chiese europee e non solo europee. Penso in generale agli approfondimenti e agli sviluppi dell'ecclesiologia di comunione del Vaticano II. Penso alla carenza in qualche luogo già drammatica di ministri ordinati e alla crescente difficoltà per un vescovo di provvedere alla cura d'anime nel suo territorio con sufficiente numeri di ministri del Vangelo e dell'Eucarestia (IL 14). Penso ad alcuni temi riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa (IL 48), la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali (IL 49), la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell'Ortodossia e più in generale il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica (IL 60-61), penso al rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale. Non pochi di questi temi sono già emersi in Sinodi precedenti, sia generali che speciali, ed è importante trovare luoghi e strumenti adatti per un loro attento esame. Non sono certamente strumenti validi per questo né le indagini sociologiche né le raccolte di firme. Né gruppi di pressione. Ma forse neppure un Sinodo potrebbe essere sufficiente. Alcuni di questi nodi necessitano probabilmente di uno strumento collegiale più universale e autorevole, dove essi possano essere affrontati con libertà, nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto dello Spirito e guardando al bene comune della Chiesa e dell'umanità intera. Siano cioè indotti ad interrogarci se, quaranta anni dopo l'indizione del Vaticano II, non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la coscienza dell'utilità e quasi della necessità di un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni temi nodali emersi in questo quarantennio. V'è in più la sensazione che sarebbe bello e utile per i Vescovi di oggi e di domani, in una Chiesa ormai sempre più diversificata nei suoi linguaggio, ripetere quell'esperienza di comunione, di collegialità e di Spirito Santo che i loro predecessori hanno compiuto nel Vaticano II e che ormai non è più memori viva se non per pochi testimoni. Preghiamo il Signore, per intercessione di Maria che era con gli apostoli nel Cenacolo, perché ci illumini per discernere se, come e quando i nostri sogni possono diventare realtà.


l'articolo in www.lacorsadelvangelo.net/cmmsinodoeuropeo.doc

Ma bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?


Prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo, cap. 3, versetti 2-5



Per questo ti ho lasciato a Creta perché regolassi ciò che rimane da fare e perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato: il candidato deve essere irreprensibile, sposato una sola volta, con figli credenti e che non possano essere accusati di dissolutezza o siano insubordinati. Il vescovo infatti, come amministratore di Dio, dev'essere irreprensibile: non arrogante, non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma ospitale, amante del bene, assennato, giusto, pio, padrone di sé, attaccato alla dottrina sicura, secondo l'insegnamento trasmesso, perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono.


Prima lettera di san Paolo apostolo a Tito, cap. 1, versetti 5-9



Anche per chi non è cristiano, queste sono espressioni sapienti, appartenenti al patrimonio culturale dell'umanità: presentano dei criteri semplici e oggettivi per scegliere chi deve guidare quella "famiglia" allargata che è un gruppo sociale. Purtroppo non sono sempre state seguite neanche da chi riconosce in esse la Parola di Dio. Ma non per questo non possono e non debbono ispirare la scelta del "capo" da parte di chi si dice cristiano. Come si può pretendere di ben governare l'Italia quando non si sa stare in modo armonico nella propria famiglia... e nel corpo proprio e altrui?!


don Chisciotte



I sofisti cattolici

di Roberto Beretta

Perché non è possibile, o almeno è molto rischioso, prescindere dalle qualità umane di una persona per giudicare i suoi frutti anche pubblici

Il caso Ruby - tra le altre cose - si sta dimostrando un ottimo campo d'esercizio per una categoria che definirei senza offesa i «sofisti cattolici». Ovvero i credenti che fanno compiere i salti mortali alle parole e alle idee pur di mantenerle (apparentemente) in equilibrio sul filo della coerenza evangelica.

Faccio un esempio, prendendo una frase che è diventata un luogo comune dell'apologetica (sia detto anche qui senza spregio) catto-berlusconiana: "È certamente meglio un politico puttaniere ma che faccia buone leggi di un notabile cattolicissimo che poi fa leggi contrarie alla Chiesa". Così come riportata, è stata pronunciata da Vittorio Messori, tirato per i capelli al termine di un'intervista nella quale per la verità diceva cose assai più ponderate e condivisibili; ma si tratta ormai - come dicevo - di un argomento più volte ripetuto. E, secondo me, appunto di un sofisma logico e assolutamente "pagano". Esaminiamolo da vicino. Il paragone pone sulla bilancia due entità: il classico politico "con vizi privati e pubbliche virtù" e quello fariseo, esternamente religioso ma di fatto dannoso sul piano sociale. Non solo dunque vi si adombra il principio - molto cattolico - che il peccatore può sempre chiedere il perdono delle sue colpe (dunque non importa se è "puttaniere", purché si penta), ma anche si contrappone un bene comune (le "leggi buone") a un bene solo personale (il fatto di essere "cattolicissimo"); e si allude così al maggior valore morale del primo rispetto al secondo. Tralasciamo alcuni aspetti che già ridimensionerebbero parecchio la veridicità del paradosso (per esempio il fatto che il "puttaniere", per essere moralmente riabilitato, debba prima pentirsi, e dunque ammettere la colpa; oppure che il concetto di "leggi contrarie alla Chiesa" andrebbe attentamente soppesato: come se non sapessimo che sono proprio i politici peggiori i più disposti a leggi "favorevoli alla Chiesa", per comprarsene il consenso...).

Occupiamoci invece soltanto della logica e proviamo a cambiare la qualifica del soggetto della frase. Per esempio:
"È certamente meglio un politico ladro ma che faccia buone leggi di un notabile cattolicissimo che poi fa leggi contrarie alla Chiesa". Siete ancora d'accordo con l'enunciato? Proviamo allora con questo: "È certamente meglio un politico pedofilo ma che faccia buone leggi di un notabile cattolicissimo che poi fa leggi contrarie alla Chiesa". E si può andare avanti: "È certamente meglio un ateo, un dittatore, un guerrafondaio, forse persino un politico omosessuale, ma che faccia..." eccetera eccetera.

Se poi ripetiamo lo stesso esperimento in senso minimalista, l'effetto è anche più dirompente: "È certamente meglio un politico che puzza (oppure che si mette le dita nel naso quando viene fotografato) ma che faccia buone leggi di un notabile cattolicissimo che poi fa leggi contrarie alla Chiesa".

Chi accetterebbe come inevitabile un «dilemma» del genere? Ben pochi; tutti cercherebbero piuttosto di trovare qualche soluzione intermedia tra i due estremi imposti nella scelta. Che cosa è successo, dunque? Portandolo ai suoi estremi si è svelato il meccanismo logico perverso che presiede al paradosso: non è possibile, o almeno è molto rischioso, prescindere dalle qualità umane di una persona per giudicare i suoi frutti anche pubblici. Detto in parole cristiane: morale personale ed etica pubblica non sono due compartimenti stagni e incomunicanti. E questo mi sembra anche molto "cattolico".

Essere "puttaniere" non è, non può essere mai - almeno per noi cattolici - solo un fatto "privato": sottintende ad esempio un disprezzo della dignità della vittima che in un politico è preoccupante anche per la sua attività pubblica. Genera un abuso che potrebbe non essere solo sessuale, ma anche di potere (e dell'idea che se ne ha nell'applicarlo in altri campi). Può condurre a prevaricazioni, menzogne, sotterfugi, privilegi che di fatto intaccano anche la gestione del bene pubblico. Il male, insomma, anche il più "intimo", per noi che crediamo non è mai senza conseguenze "sociali"... Ecco allora che il paradosso non tiene più, nemmeno teologicamente. Non si può servire a mammona (in privato) e a Dio (in pubblico): noi lo sappiamo.
Quella vita parallela costruita a tavolino

di Aldo Grasso

Temo che Alfonso Signorini si sia imbarcato in un gioco più grande di lui. In questi anni ha dimostrato di essere un gossipparo intelligente, un pungente osservatore di costume, un campione della tv gay oriented. Da un po' di tempo, ha deciso di lasciare la leggerezza per una pesantezza che è fuori dal suo registro: alla sventatezza ha preferito la militanza. Non rischia un clamoroso scivolone?

Credo che la sua intervista a Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, sarà a lungo studiata da chi è interessato al funzionamento dei media. Intanto perché era un corpo totalmente estraneo ai canoni di «Kalispéra» (viene annunciata nel corso del programma, con Teo Teocoli che si abbandona allo stupore, e dopo si vede che è una registrazione) e poi perché appartiene ai quei generi neotelevisivi - i people show, i talk, i reality - dove verità e finzione si mescolano statutariamente (Canale 5, mercoledì, ore 23).

Senza entrare nel merito della vicenda processuale, l'intervista ha una sua struttura narrativa che dà la sensazione di un lavoro a tavolino per creare alla ragazza una nuova personalità, a cominciare dal cambio del nome: non più Ruby Rubacuori ma Karima, con la piena approvazione dell'intervistatore.

E poi il dialogo si snoda secondo un tracciato narrativo, da sceneggiatura: l'idea della costruzione di una vita parallela (concetto molto moderno, forse al di sopra del bagaglio culturale di Ruby), l'infanzia tragica con la violenza degli zii («per sfuggire al tuo dolore hai cominciato a costruirti una vita parallela», ribadisce Signorini), il padre che la considera una «porta iella», il catechismo studiato di nascosto, la fuga da casa a soli 12 anni («Eri vecchia dentro», chiosa Signorini), i furti per necessità, l'insegnamento della madre, quella che aveva coperto la violenza familiare («puttane si nasce, non si diventa») e, come da copione, il nuovo amore, tal Luca Risso. Insomma, Signorini passa da Elena Santarelli a Karima Santarellina.


Anche invecchiato e truccato da Don Chisciotte, Al Pacino è sempre perfetto. Eccolo a Hollywood sul set di "Jack and Jill", una commedia prodotta e interpretata da Adam Sandler che interpreta i due personaggi del titolo.

L'educazione in famiglia ai tempi (bui) del gossip

di Isabella Bossi Fedrigotti

Ci sarebbe da essere preoccupati per la rappresentazione della vita civile che stiamo offrendo ai nostri giovani figli

Siamo preoccupati, è più che giusto, per l'indecorosa immagine che l'Italia sta dando all'estero. Probabilmente, però, ci sarebbe da essere ben più preoccupati per le ricadute interne della questione, per la rappresentazione della vita civile che stiamo, cioè, offrendo ai nostri giovani figli. Cosa possono, infatti, dire, cosa possono spiegare dei genitori - quelli che ancora hanno a cuore l'educazione dei loro ragazzi - a proposito dei comportamenti, non soltanto dell'uomo potente ma anche di numerose belle ragazze della porta accanto, per lo più non in condizioni di emergenza economica né culturale, tant'è vero che non poche tra loro sono laureate e impiegate, nonché, come si è visto, dei loro familiari, madri, padri e fratelli, complici, conniventi se non addirittura suggeritori di contegni atti a piazzarsi nel modo più vantaggioso?

Devono dire, questi genitori, ai figli adolescenti, che sì, in effetti, volendo, il sesso può anche essere espressione d'amore, ma è prima di tutto merce che conviene mettere a reddito sul mercato migliore? E che, va da sé, il commercio che se ne fa implica certi purtroppo inevitabili inconvenienti che vanno, tuttavia, accettati, per esempio la totale «cosificazione» del corpo, secondo il termine usato da Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, e, di conseguenza, anche una serie di maggiori e minori umiliazioni? Che le battaglie a suo tempo fatte dalle femministe per liberare le donne dalla loro condizione di oggetto hanno fatto il loro tempo, meglio nemmeno più nominarle, pena lo scherno quasi generale? E che, in fin dei conti, l'unica cosa che conta è prima il denaro, poi il denaro e dopo ancora il denaro, il molto e, soprattutto, facile denaro?

Ok, potrebbero rispondere i figli, questo si chiama prostituzione, il mestiere più antico del mondo che non meraviglia nessuno. Invece, ecco il problema, c'è la convinzione diffusa, sia tra una buonissima parte di italiani, anche istruiti e colti, sia tra le ragazze stesse e i loro familiari, che questi comportamenti non abbiano a che fare con la prostituzione, bensì con un modo intelligente di essere più sveglie di altre, più capaci di mettersi in mostra, più pronte a cogliere le opportunità della vita. Un così fan tutte, insomma, anzi, così farebbero tutte se ne avessero l'occasione. Del resto, di professione, queste signorine sono artiste, attrici, ballerine, showgirl o anche studentesse, impiegate, infermiere. Escort? Ma no, nemmeno per idea. È soltanto la sgrammaticata maîtresse brasiliana che, nel suo cellulare, ha annotato accanto al nome di non poche delle artiste in questione la spiccia qualificazione di «puttana».

Spaventano l'assuefazione, il cessato scandalo, la leggerezza con la quale si accettano e si giustificano, con un'alzata di spalle, simili modi di essere e di agire. Giustamente si osservava che era la tv, con il suo quotidiano, spesso demenziale magistero, a condurci pian piano a questo punto. Solo che, ora, a peggiorare le cose, alla tv si aggiunge e si sovrappone la vita, il cui esempio ha una potenza molto maggiore di qualsiasi pur seguitissima trasmissione. Davvero valido e degno di fede resta, alla fine, un unico principio, quello che l'antico e cinico Machiavelli raccomandava al suo principe, con la differenza che, dalla politica è stato esteso alle relazioni private, inoculatore di micidiale veleno nella vita civile.

E i genitori, quelli innumerevoli che ancora si sforzano di educare i figli, non possono che ritrovarsi isolati come forse non sono mai stati prima, smarriti e sbigottiti dal silenzio che risuona loro intorno, dall'assenza di riflessioni che coincidano con le proprie riflessioni, dalla mancanza di parole simili alle parole che vorrebbero pronunciare.





Quando un artista è capace di leggere il presente, interpretarlo, addirittura precederlo!

Il personaggio di Cetto La Qualunque risale a tre anni fa: Albanese profeta!



Le foto di Ivano Adversi (membro di Shoot4Change) raccontano dei Dogon, una popolazione del Mali, dimenticata dal Governo centrale e tenuta ai margini dell'attenzione dell'opinione pubblica pur dovendo affrontare grandi problemi causati in parte dalla natura ed in parte, appunto, dalla non curanza dei governanti. Siccità, carestie, invasioni di cavallette ed un'implacabile avanzata delle dune di sabbia sta mettendo a repentaglio la cultura Dogon ricca di arte, cultura, propensione all'astrazione fantastica ed ardite realizzazioni architettoniche. I fotografi volontari di Shoot 4 Change sono impegnati quotidianamente a raccontare le situazioni di crisi e disagio sociale ed ambientale dimenticate, sottovalutate o, peggio, ignorate. Questo reportage è firmato da Giovanni Baldini.

"Dimmi un po': quanto pesa un fiocco di neve?", domanda la cinciallegra alla colomba. "Niente di niente!" fu la risposta.

Allora la cinciallegra le raccontò una storia. "Mi trovavo sul ramo di un pino, quando cominciò a nevicare. Non proprio una tempesta, ma dolcemente, senza violenza. Come un sogno. Dato che non avevo niente di meglio da fare, cominciai a contare i fiocchi di neve che cadevano sul ramo in cui mi trovavo. Ne caddero 3.751.952. Quando il 3.751.953esimo cadde sul ramo, un niente di niente - come hai detto tu - il ramo si spezzò".

A questo punto la cinciallegra se ne andò.

La colomba - un'autorità in materia di pace fin dal tempo di un certo Noè - pensò un momento e concluse fra sè: "Ecco, forse non manca più che una sola persona, perchè tutto si capovolga e il mondo viva in pace".

Grazie a Daniela che con questo testo ha commentato il nostro post delle 9.24

Dostoevskij , le seduzioni del grande inquisitore

di Gustavo Zagrebelsky

A giudicare non solo dalla quantità, ma anche dalla qualità delle citazioni, delle sue interpretazioni letterarie, teatrali e cinematografiche, la forza attrattiva della Leggenda del Grande Inquisitore contenuta ne I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, a distanza ormai di quasi un secolo e mezzo, non è diminuita. Anzi, è crescente. E la ragione determinante è la forza con la quale essa solleva dal fondo questioni che sempre si rinnovano col volgere delle epoche e non si possono eludere. La libertà di fronte al bene e al male; libertà come benedizione o maledizione; il nichilismo e la violenza; la felicità, l'infelicità degli esseri umani, cioè la natura del loro essere; il significato della vita e del suo esito nella morte; il dolore e la redenzione dal dolore e dal peccato; la religione e l'ateismo; il Cristianesimo, nella versione cattolico-romana, e il socialismo come strumenti di controllo delle coscienze e di livellamento delle società. Nel luogo e nel tempo in cui fu scritta, la Russia di metà ottocento, radicaleggiante, sedotta dalle mode filo-occidentali e insofferente del dispotismo zarista e dell'ortodossia cristiana, la Leggenda sembrò una farneticazione letteraria. Nei decenni successivi, fu letta e condannata come espressione di un pensiero anacronistico, antidemocratico e antimoderno: come vagheggiamento di una restaurazione. Poi, ancora, alla luce degli sviluppi politici e sociali novecenteschi, fu giudicata una previsione e una condanna ante litteram di totalitarismi incipienti, cioè come un ammonimento profetico. Oggi, ora che ciò che allora si annunciava è davanti ai nostri occhi, pienamente dispiegato, la voce del Grande Inquisitore può essere ascoltata diversamente, al di sopra delle interpretazioni politiche, come una previsione, una profezia di sventura, se non come un annuncio apocalittico che riguarda tutti nel tempo presente. Qui, per iniziare, assumiamo la Leggenda come un discorso generale sul governo. Da dove nasce l'obbedienza nel cuore degli esseri umani? È l'enigma degli enigmi politici. Il Grande Inquisitore una risposta l'ha e spaventosa, disumana o forse troppo umana: l'obbedienza nasce dall'odio della libertà. Ma quest'affermazione è generica. L'odio per la libertà è una caratteristica dei regimi politici fondati sulla ragion di Stato e sulla verità di Stato. Nella Leggenda troviamo qualcosa di molto più impressionante, cioè dell'odio per la libertà non dei governanti (cosa abbastanza naturale), ma dei governati (cosa assai meno ovvia). Ciò di cui qui si parla è la «servitù volontaria», non la servitù imposta con la coercizione delle volontà. Per questo, ogni riflessione sul carattere politico del messaggio della Leggenda deve prendere le distanze da alcuni luoghi comuni.

"Ragion di Stato" e "ragion del volgo"

Il tempo in cui è situata l'azione narrata dalla Leggenda, il secolo XVI, è quello in cui prende forma lo "Stato moderno" e si svela l'esistenza di una doppia legge e di una doppia morale, una ordinaria per i comuni mortali e una straordinaria che riguarda i governanti, che curano i superiori interessi dello Stato: sopravvivenza, difesa, grandezza. Questi interessi stanno nel cuore del potere e devono sottrarsi alla vista del volgo, incapace di visioni autenticamente politiche. La loro cura è riservata agli uomini di Stato, il cui compito non è di onorare la ragione comune, ma di seguire la "ragion di Stato". Coloro che conoscono gli arcana del potere, cioè gli "iniziati" alle arti del governo, sono quindi autorizzati, se occorre, ad affrancarsi dalla moralità comune dell'uomo medio e a proclamare quello che, in termini moderni, si dice lo "stato d'eccezione". La "ragion di Stato", dunque, è risorsa di chi sta al potere, al servizio di quell'entità metafisica che è lo Stato stesso, senza il quale gli esseri umani non possono vivere. Il popolo è legato alle leggi della sua morale, adatte a guidare i rapporti sociali. Ma c'è una sfera più alta, quella in cui opera il potere dello Stato. Qui vale una morale segreta, agli occhi della gente comune incomprensibile, anzi scandalosa. Il fine della morale comune è la società virtuosa. Il fine della morale politica è anch'esso la virtù, ma è la virtù dello Stato che esige, costi quel che costi, la rovina dei nemici. Il Grande Inquisitore è anch'egli immerso nella distinzione tra coloro (i pochi eletti) che conoscono la realtà del potere e coloro (i molti) che l'ignorano. Ma, per legittimare il potere dei primi e la soggezione dei secondi, non si rivolge alla "ragion di Stato". Non c'è di mezzo, tra chi dispone del potere e chi al potere è sottoposto, "lo Stato", questa entità sovrumana che ha le sue leggi oggettive e le sue astratte e fredde istituzioni. Per l'Inquisitore tutto è molto umano. Egli ha dalla sua quella che si potrebbe dire la "ragion del volgo". Non deve salvaguardare lo Stato piegando i sudditi. Non è nemmeno il teorico dei poteri eccezionali. Si appella non alla natura dello Stato ma a quella degli uomini. Il suo è un governo benigno, non contro, ma per loro. La "ragion di Stato" si risolve, in ultima istanza, nel governo della violenza orientata solo allo scopo. La "ragion del volgo" si risolve invece non nella violenza, ma nella seduzione o, per usare l'espressione famosa di Tocqueville, in un «potere tutelare, assoluto, dettagliato, regolare, previdente e mite» che elimina la violenza dal proprio orizzonte. Il Grande Inquisitore è un rassicuratore, che vuole essere amico di tutti. Per questo, la sua morale è una sola, quella del volgo. Tanto gli Inquisitori quanto i loro sudditi vi si devono piegare. La differenza è solo questa: i primi sono sofferenti e i secondi felici. Sofferenti perché consapevoli, felici perché ignari. Gli Inquisitori sono, a loro modo, dei despoti, ma despoti-servitori, che stanno dalla parte di un'umanità innocente, che nulla conosce se non il proprio meschino benessere. Il Principe rinascimentale, che incarna la "ragion di Stato", vede dappertutto potenziali da "spegnere"; l'Inquisitore di Dostoevskij, incarna la "ragion del volgo" e vede dappertutto potenziali amici, da blandire e sedurre. Terrorizzare o lusingare, nell'esercizio del governo. Questa è una differenza fondamentale, da tenere presente leggendo la Leggenda.

"Ragion di fede" e "ragion del volgo"

La Leggenda non parla di un inquisitore nel senso che la parola ha assunto nella storia dell'intolleranza cristiana verso i nemici della fede. Anche a questo riguardo si deve prendere la distanza. Naturalmente, non sarebbe stata scelta questa figura se non vi fossero somiglianze. Ma le analogie non devono nascondere le differenze. La differenza essenziale è nel fine. Il fine, per tutte le inquisizioni al servizio del dogma, è la sconfitta dell'eresia. È un fine innanzitutto di natura spirituale. La Chiesa, come società sovrana, incaricata di mantenere intatta la parola rivelata da Dio, è responsabile di un compito primario: mantenere l'ortodossia. A ogni costo. Per l'Inquisizione si trattava di "spegnere" l'idea che semina dubbi, attentando all'unità della fede. I corpi che portano l'idea sono secondari: li si potrà sopprimere o risparmiare, a seconda che l'idea perversa sia riaffermata o ritrattata. Anzi, la maggior vittoria non è l'eliminazione fisica dell'eretico, ma l'abiura che riafferma la verità. L'Inquisitore della Leggenda non ha a che fare con verità ed eresie. Egli ha a che fare con la pasta di cui è fatta l'umanità, della quale è al servizio. Il suo compito non è correggere, ma assecondare. La sua grande trovata sta in questo: il potere può essere assoluto se non si propone di cambiare, punire, frenare la natura umana, ma se la rispetta così com'è e la si lascia sfogare. È un potere, certamente; ma è un potere amico, dalla parte dell'uomo comune. Per nulla paradossalmente, gli Inquisitori potevano considerarsi agenti della carità cristiana. Il loro compito era la salvezza delle anime dei devianti, qualunque cosa ciò comportasse: violenze, torture, condanne. L'Inquisitore della nostra Leggenda, invece, rifugge da ciò. Egli conosce la natura umana e ne ha pietà. Con i suoi mezzi l'accompagna. Non vuole risvegliarla alla verità, ma addormentarla sì, prima che s'affacci alla conoscenza del bene e del male, cioè alla libertà. Ancora una volta la "ragione" che lo muove è la "ragion del volgo". L'Inquisitore di Dostoevskij viene prima degli Inquisitori della Santa Inquisizione: questi devono reprimere, quello si preoccupa di prevenire affinché reprimere non sia poi necessario.

Le conclusioni

Possiamo dire così: la ragione dell'Inquisitore non è la ragion di Stato e neppure la ragione dellafede. È la ragion del volgo. Si capisce allora perché i suoi argomenti ci appaiono familiari e perché

a quel capitolo de I fratelli Karamazov ricorriamo spesso per riflettere sulla vita sociale e politica

del tempo presente.

in “la Repubblica” del 14 gennaio 2011

Il laicato

Occorre salvare la parrocchia dalla cinta che i piccoli fedeli le alzano allegramente intorno e che molti parroci, scambiandola per un argine, accettano riconoscenti. Per uscirne, ci vuole un laicato che veramente collabori e dei sacerdoti pronti ad accoglierne cordialmente l'opera rispettando quella felice, per quanto incompleta struttura spirituale, che fa il laicato capace d'operare religiosamente nell'ambiente in cui vive. Un grave pericolo è la clericalizzazione del laicato cattolico, cioè la sostituzione della mentalità propria del sacerdote a quella del laico, creando un duplicato d'assai scarso rendimento.

Non devesi confondere l'anima col metodo dell'apostolato. Il laico deve agire con la sua testa e con quel metodo che diventa fecondo perché legge e interpreta il bisogno religioso del proprio ambiente. Deformandolo, sia pure con l'intento di perfezionarlo, gli si toglie ogni efficacia là dove la Chiesa gli affida la missione. Il pericolo non è immaginario. In qualche parrocchia sono gli elementi meno vivi, meno intelligenti, meno simpatici che vengono scelti a collaboratori, purché docili e maneggevoli. "Gli altri non si prestano". Non è sempre vero oppure l'accusa non è vera nel senso che le si vuol dare. In troppe parrocchie si ha paura dell'intelligenza, la quale vede con occhi propri, pensa con la propria testa e parla un suo linguaggio. I parrocchiani che dicono sempre di sì, che son sempre disposti ad applaudire, festeggiare e... mormorare non sono a lungo andare né simpatici né utili. Il figliuolo che nella parabola dice di no e poi va è molto più apostolo del fratello che accetta e non fa.

Il professionismo, sottospecie di fariseismo, sta in agguato anche nella parrocchia, mentre il laicismo - pensiero e vita staccati da ogni senso religioso - può essere superato soltanto da un audace laicato cattolico, al quale spetta, come compito principale e urgente, di ricreare cristianamente la vita della parrocchia senza portarla fuori dalla realtà e senza imporle delle mutilazioni in ciò ch'essa possiede di buono, di vero, di grande e di bello.

Bisogna ritrovare il coraggio di porsi in concreto i veri problemi dell'apostolato parrocchiale. Molti temono che la discussione prenda la mano all'azione. In certi spiriti superficiali purtroppo è possibile. Ma nei cuori profondi che vivono con pura passione questa grande ora cristiana (cuori che sentono in tal maniera sono legioni dentro e ai margini della Chiesa), la discussione, anche se vivace, è sempre una protesta d'amore e un documento di vita.

don Primo Mazzolari, da Lettera sulla parrocchia [1937]

La buccia del chinotto

di Massimo Gramellini

Un amico sorride amaro: «Non farti illusioni, potenzialmente siamo tutti come lui e la sua corte: trombare e fare soldi, interessati solo ai bisogni primari, ai chakra bassi, per dirla alla maniera di voi che meditate e fate yoga. Sì, qualche disturbato che sogna con un romanzo o va in estasi per una notte d'amore sotto le stelle

Davvero? Davvero la maggioranza dei giovani assomiglia a quel tipo che incita sua sorella a infilarsi nel letto di un anziano miliardario, «così ci sistemiamo»? Davvero il mondo contemporaneo si divide fra padri padroni, disposti a uccidere le figlie che osano ribellarsi, e padri ruffiani che nelle intercettazioni le incitano a sgomitare perché «le altre ti sono passate davanti, svegliati!». Sarò un ingenuo, eppure vedo ancora in giro della dignità, anche in tanti poveri che una busta di 5000 euro l'hanno magari sognata, ma non la vorrebbero trovare nella borsa della figlia a quelle condizioni. Vedo donne e uomini pieni di vizi, ma che non invidiano lo stile di vita dei crapuloni e sognano di invecchiare con una persona amata al fianco e la musica di Mozart nelle orecchie. E quando, come ieri, alcuni lettori telefonano al giornale per segnalare che una luna mai così arancione è spuntata fra le colline e mi arriva sul tavolo la raccolta di poesie di una ragazza timida, allora penso che non è finita. Che la buccia del chinotto è più spessa di tutto il gas che le sta esplodendo intorno, in un enorme rutto di niente. esisterà pure, ma è la buccia del chinotto: scorza sottile, percentuale insignificante».

Grave preoccupazione e un'attesa

Chiarezza necessaria


Non so come si concluderà l'indagine mila­nese a carico del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ma so che i reati che avrebbe commesso secondo i pubblici ministeri sono molto pesanti: «concussione» e «prostituzione minorile». E so che se sul piano delle possibili conseguenze penali il primo reato ipotizzato

Solo per chi è forte di stomaco, sconsiglio (sconsiglio) di leggere l'intervista alla consigliera comunale di Napoli. Una domanda: dove sta realmente la "spazzatura"? Una risposta: nella cassa cranica.


don Chisciotte
Buongiorno tristezza

di Massimo Gramellini

Il residence delle extravergini di via Olgettina, ai margini nebbiosi di Milano 2. La valletta-consigliere della Regione Lombardia che istruisce un'amica in anglo-milanese: «Ti briffo, ne vedrai di ogni». Le ragazze travestite da infermiere e poliziotte come nei balletti di Drive In. La danzatrice del ventre: «Sono scandalizzata». La Ruby desnuda che serve i sanbittèr. Le confidenze fra donne: «Tocca i culi alle ragazze davanti a tutti, mi chiedo il giorno dopo come faccia a lavorare». «Lo chiamano tutte amore e tesorino». «Sembra di stare al Bagaglino, ma è peggio, è un puttanaio». «Il premier è un uomo no limits, o sei disposta a tutto o te ne vai». «E' ingrassato e imbruttito, deve sganciare di più». «Adora i gay, dice che hanno una marcia in più. L'ho visto parlare con i miei amici gay prendendoli per mano: quando succede, loro si emozionano». Una parlamentare della Repubblica italiana a Emilio Fede: «Che palle che sei, bunga bunga fino alle 2 di mattina? Ti saluto». Ruby Rubacuori all'ex fidanzato: «Ho chiesto a Silvio 5 milioni e lui mi ha detto: ti metto tutto in oro, l'importante è che nascondi tutto, cerca di passare per pazza, racconta cazzate». I cd di Apicella. Le buste di euro pizzicate fra i cd di Apicella. Il ragioniere addetto a riempire le buste. La caccia alla fidanzata fantasma: la valletta-consigliere, l'ex valletta di Telecafone o miss Torino? Il fratello di miss Torino, alla domanda se sia sua sorella: «Magari!». Per favore, sipario.


Tutte notizie dai giornali di ieri (solo di ieri!).

Continuiamo ad aver bisogno del Salvatore, quello con la S maiuscola però!

We have a dream... - Il nostro sogno per le nostre città

Noi abbiamo un sogno... che nelle nostre città le persone sappiano salutarsi, parlare e ascoltarsi, guardandosi in volto, facendosi dono di un sorriso.

Noi abbiamo il sogno che nelle nostre città le persone partecipino a cammini di liberazione dalla paura, dalla solitudine, dalla tristezza e da politiche spesso arroganti, volgari e violente

Noi abbiamo il sogno che le nostre città siano luoghi narrativi della dignità umana, capaci di dialogo, di crescita in umanità e di sicurezza comune

Noi abbiamo il sogno che, finito il tempo della paura, possa cominciare il tempo della libertà dei figli di Dio, liberati per condividere gesti d'amore con i fratelli e le sorelle della famiglia umana

Noi abbiamo il sogno che il consiglio comunale della nostra città si apra alla costruzione di una cittadinanza umana, difenda i beni comuni e consideri prioritarie le risorse dei bambini, dei giovani e degli anziani, degli "stranieri" e dei senza fissa dimora

Noi abbiamo il sogno che nella nostra città un giorno uomini e donne di tutte le fedi cantino assieme la giustizia e nel rispetto delle loro differenze diano spettacolo di unità e di pace

Noi abbiamo il sogno che le comunità cristiane, gli ordini e le congregazioni religiose tornino a farsi voce profetica del Vangelo, dei veri bisogni e delle attese delle persone del proprio tempo

Noi abbiamo il sogno che la nostra Chiesa diocesana, radicata nella Parola di Dio e facendo memoria del Concilio, non si lasci corteggiare e imprigionare dai potenti scelga di vivere come Gesù povero, mite e umile di cuore, e adotti uno stile profetico che educa a sperare

Noi abbiamo il sogno che le chiese delle nostre città diventino spazi di contemplazione, di accoglienza e di perdono e le liturgie siano segno e anticipo del Regno di Dio convito dei popoli

Noi abbiamo il sogno che già oggi ognuno di noi cominci a rendere possibile questo sogno con il suo stile di vita, in spirito di gratuità, mettendosi in rete, diventando segno della bellezza e del piacere di vivere assieme.


Pax Christi, Giornata mondiale della pace, 1 gennaio 2011
Ma per piacere risparmiateci lenzuola pulite

di Maurizio Belpietro

Che Silvio Berlusconi perda facilmente la testa quando vede una sottana non c'era bisogno che me lo spiegasse Ilda la rossa. La strana malattia che lo deve aver colpito da piccolo mi era nota fin da prima che la rivelasse via Ansa la moglie Veronica, la quale a sua volta non credo l'abbia scoperta in tempi recenti, visto che nel libro intervista uscito anni fa descriveva il suo primo incontro col marito in modo inequivocabile, facendo capire che lui già trent'anni fa si atteggiava a dongiovanni.   Il Cavaliere adora essere circondato dalle donne e così come è bulimico da imprenditore e da politico, credo lo sia anche in fatto di conquiste femminili. Fosse per lui le corteggerebbe tutte e a ognuna riserverebbe una parola, una collanina o un dono. Quando vuole far colpo mi risulta non badi a spese. Raccontano che un giorno, volendo far capitolare una signora, abbia mandato un suo incaricato a suonare il campanello di casa della prescelta con in mano le chiavi di una fiammante Mini Cooper. La vettura ovviamente era parcheggiata fuori casa.  È una colpa? Forse lo sarà stata per la moglie, la quale, come ho detto, dev'essersi però dimenticata di come Silvio la conquistò, ma non penso sia affare da procure.  Il Cavaliere si era fatto delle amanti? E ad alcune ha pure offerto una casa occupandosi di pagare loro le bollette? Se anche fosse vero, ed è ancora da dimostrare, non credo sia un reato. Lo fosse, le patrie galere sarebbero piene. Immaginate quanti professionisti o industrialotti si fanno consolare da giovani fidanzate pur essendo regolarmente sposati e, in aggiunta, le ricoprono di regali? (...) (...) Devono risponderne in tribunale? Vabbé che questo è un Paese cattolico, ma non mi pare che sia uno stato etico, dove esiste una sharia che regola i comportamenti in camera da letto. Né i carabinieri hanno istituito il nucleo anti-fornicazioni, pronto a introdursi in ogni alcova E nonostante l'attivismo della Boccassini. Per nostra fortuna il pool Lenzuola pulite non esiste. Certo, ricoprendo un incarico d'una certa visibilità e avendo un discreto numero di nemici, Berlusconi alcune scappatelle se le potrebbe pure evitare, anche se gli scappano in casa propria A forza di correre dietro a tutte è matematico che qualcuna prima o poi lo inguai, facendolo finire sui giornali, come accadde con la D'Addario, o in procura, come capita ora con Ruby e le altre. Una trappola o un incidente è statisticamente da mettere in conto. Però nonostante tutto, nonostante le imprudenze che un presidente del Consiglio non si dovrebbe concedere, nonostante l'ingenuità di accogliere in casa propria chiunque, anche signorine di cui non si è neppure accertata l'identità o l'età, noi continuiamo a preferire il Cav. Meglio lui di certi becchini del calibro di Gianfranco Fini, il quale appena saputo dell'infortunio capitato sotto le lenzuola a Berlusconi, non è riuscito a trattenersi e ha cercato di approfittarne, reclamando una nuova etica della politica. Confesso: tra l'impudicizia di un presidente della Camera che accoltella a tradimento l'ex alleato e le storie boccaccesche del premier, io scelgo le seconde. Se per tenere a bada la sinistra, i maneggioni e gli spreconi devo pagare il prezzo di un capo di governo che tocca il sedere alle signore, non ho esitazioni. Meglio un vecchio porco, di tanti giovani ipocriti tipo Fini. Il quale pure ha l'aggravante di non essere più giovane.


da "Libero", editoriale 16 gennaio 2011

dal Salmo 9

23 Il misero soccombe all'orgoglio dell'empio e cade nelle insidie tramate.

24 L'empio si vanta delle sue brame, l'avaro maledice, disprezza Dio.

25 L'empio insolente disprezza il Signore: «Dio non se ne cura: Dio non esiste»;

questo è il suo pensiero.

26 Le sue imprese riescono sempre.

Son troppo in alto per lui i tuoi giudizi: disprezza tutti i suoi avversari.

27 Egli pensa: «Non sarò mai scosso, vivrò sempre senza sventure».

28 Di spergiuri, di frodi e d'inganni ha piena la bocca,

sotto la sua lingua sono iniquità e sopruso.

29 Sta in agguato dietro le siepi, dai nascondigli uccide l'innocente.

30 I suoi occhi spiano l'infelice,

sta in agguato nell'ombra come un leone nel covo.

Sta in agguato per ghermire il misero,

ghermisce il misero attirandolo nella rete.

31 Infierisce di colpo sull'oppresso,

cadono gl'infelici sotto la sua violenza.

32 Egli pensa: «Dio dimentica, nasconde il volto, non vede più nulla».

Lei ti parla di lei, cioé di quelli che lei ama. Noi siamo fatti di ciò, noi siamo fatti di coloro che noi amiamo e di null'altro. Per frantumata che sia la nostra vita, perduta sulle colline spazzate dal vento, ella non è mai così vicina che in un pugno di volti amici, che in questo pensiero che va verso loro, in questo soffio di loro in noi, di noi in loro. Lei parla e tu ascolti questa ghiaia di stelle che grida nella sua voce. Tu sei a diverse centinaia di chilometri da te stesso e nonostante ciò tu sei là, in questa parola amante, tranquillamente amante, dolcemente amante, sì, tu sei in questo genere di parola come presso te stesso, nella tua stessa terra.


Christian Bobin, L'inespérée, 51-52 (traduzione nostra)

Anche dio sta meglio

di Chris Patten

È stato un anno migliore per Dio. Dopo i pesanti attacchi letterari all'Onnipotente da parte dell'accademico di Oxford Richard Dawkins, del saggista Christopher Hitchens e di altri, i credenti hanno avuto la loro rivincita. Meglio di tutti è stato The Case for God della brillante scrittrice di religione Karen Armstrong. Ancora più importante è la notizia che sempre più persone (almeno in Gran Bretagna) stanno frequentando le chiese cristiane di tutte le confessioni. Inoltre, il Papa in settembre ha visitato la Gran Bretagna ed è stato un successo. Già sapevamo della grande affluenza nelle moschee del Paese. In questo periodo dell'anno, ovviamente, molti cristiani che non vanno in chiesa regolarmente vanno a messa per Natale. Le canzoni natalizie, le campane e i presepi sono ancora al centro delle feste di mezzo inverno, accanto all'onda consumistica. Quest'anno, tuttavia, la «grande spesa» in Europa è stata un po' inibita dal gelo invernale e dai grandi programmi di austerità in quasi tutto il continente. Anche nelle famiglie più senza Dio, nelle società occidentali la maggior parte dei bambini probabilmente conosce i dettagli della storia di Natale. I viaggiatori che non trovano posto nella locanda. La nascita di un bambino nella stalla. L'arrivo dei Magi che recano in dono oro, incenso e mirra. Impariamo tutto questo insieme a quanto ci viene raccontato su Babbo Natale, le sue renne della Lapponia e la sua sacca piena di regali. Perdiamo in fretta la nostra fede in questo mito invernale. Ma tendiamo a mantenere anche in età adulta la stessa visione di Dio che ci siamo formati nell'infanzia. Un vecchio con la barba lunga veglia su di noi, e molti di noi conservano un'idea piuttosto letterale delle storie su suo Figlio raccontate nel Nuovo Testamento. È questo Dio che gli atei come Dawkins e Hitchens attaccano. E, con un tale obiettivo, non è molto difficile fare colpo e buttarla sul ridicolo. Lasciamo da parte il fatto che si può colpire in modo ancora più duro l'ateismo - ricordando le atrocità dei totalitarismi atei nel ventesimo secolo - e consideriamo l'offensiva contro coloro il cui attaccamento all'interpretazione letterale dei testi religiosi implica la negazione della scienza e della ragione. Per loro il mondo è stato fatto in sei giorni, l'evoluzione è un racconto di fantasia. Quelli di noi che pensano che scienza e religione regnino su mondi diversi e ricordano come Socrate sostenesse che la scienza non dice nulla sulla morale o sul significato, trovano che la nostra causa è minata dai letteralisti e dai fondamentalisti di ogni religione. Ci sono cristiani che sanno tutto sul fuoco e sullo zolfo del Libro della Rivelazione ma non sembrano aver udito gli insegnamenti sulla generosità del Discorso della Montagna. Allo stesso modo ci sono ebrei intransigenti, come i gruppi di coloni che cacciano i palestinesi dalle loro case a Gerusalemme Est ed Hebron, che hanno dimenticato gli antichi insegnamenti degli studiosi ebrei che sostenevano che si devono trattare gli stranieri come il proprio stesso popolo. E ci sono musulmani che ignorano gli inviti del Corano al pluralismo, alla tolleranza e alla pace. L'attacco degli atei è spesso corretto là dove consiste nel sottolineare la quantità di danni fatta al nostro mondo da parte di questo genere di fondamentalisti. Gli atteggiamenti degli americani di destra sul ruolo del loro Paese nel mondo sono rinvigoriti dal dogma fondamentalista. Le Nazioni Unite sono una creazione del diavolo. Il presidente Barack Obama è un musulmano non-americano. La Palestina dal fiume Giordano fino alla costa dovrebbe essere consegnata a Israele, in modo che il mondo possa finire con un apocalittico trionfo cristiano. I fondamentalisti ebrei ostacolano qualsiasi residuo processo di pace in Medio Oriente e costruiscono nuovi insediamenti illegali. I fondamentalisti islamici definiscono la jihad come una guerra del terrore contro l'Occidente e vogliono un califfato islamico dall'Atlantico al Pacifico. Il dogmatismo stridente e dannoso dei fondamentalisti di ogni genere ha una caratteristica comune: un risentimento truculento, radicato nella paura e nel risentimento per la modernità. Il fondamentalismo cristiano in America si rifà al populismo del diciannovesimo secolo e all'antiintellettualismo. I membri delle chiese evangeliche associano il loro credo al selvaggio individualismo dei primi pionieri. Disprezzano l'autorità costituita. I fondamentalisti ebrei credono che i critici di Israele siano antisemiti o, nel caso di oppositori ebrei alle linee politiche più intransigenti di Israele, «ebrei che odiano se stessi». I fondamentalisti islamici ritengono che ciò che il resto di noi vede come l'influenza liberalizzante del progresso tecnologico e della globalizzazione sia un ritorno di fiamma del colonialismo occidentale. Per un anno nuovo felice, dobbiamo ascoltare i messaggi che sono il cuore di tutte queste grandi religioni, soprattutto la regola aurea confuciana che non dovremmo mai fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi. Quel che la religione dovrebbe insegnarci non è come odiare, ma - per citare ancora una volta Confucio - come sviluppare società che curano e accolgono i poveri, gli stranieri e gli oppressi. Questo è il messaggio più importante per tutti, atei compresi, che si possa ricavare dal racconto cristiano del Natale.


*Ultimo governatore britannico di Hong Kong ed ex commissario europeo per gli Affari Esteri, è Rettore dell'Università di Oxford

in “La Stampa” del 13 gennaio 2011

Nipotini di Wikileaks

di Massimo Gramellini

Una maestra elementare di Aosta si appisola durante il compito in classe. Le belve dietro i banchi estraggono l'arma letale - il telefonino - e documentano la pennichella dell'insegnante per poterla spiattellare ai genitori e alla preside, che sospende la bella addormentata. Aiuto. Cominciamo col dire che, quando una maestra si appisola (e da che mondo è mondo le maestre ogni tanto si appisolano), un bambino bene educato si mette a copiare il compito del compagno di banco o schizza in corridoio per fare a botte con gli amichetti. Invece questi microsadici non muovono un muscolo e sferruzzano ossessivamente sui telefonini come reporter d'agenzia pur di immortalare la defaillance della disgraziata. E i genitori? Intanto è mostruoso che non trovino mostruoso armare delle creature di appena otto anni con la pistola dei ficcanaso. E quando poi le creature gli sventagliano sotto il naso lo scoop del secolo, invece di redarguirli per la mancanza di rispetto nei confronti della Signora Maestra e requisire loro l'arma, che fanno? Corrono dalla preside a chiudere il cerchio della delazione, imponendole di fatto la sospensione della reietta.

L'eccesso di tecnologia abbinato alla carenza di autorità sta producendo una genia di sfrenati spioni. Nessuno può più sentirsi tranquillo in nessun posto: un clic di tuo figlio e finisci immortalato su Facebook mentre saccheggi in mutande il frigo di casa. Urgono contromisure alla modernità. Che in ogni scuola si approntino stanze foderate di metal detector in cui una maestra possa andare ogni tanto ad appisolarsi in pace.
Il Papa: il Purgatorio è un fuoco che purifica l'anima

di Giacomo Galeazzi

Il Papa corregge Dante. «Il Purgatorio è un fuoco interiore, non un luogo dell'Universo. È il fuoco bruciante che purifica l'anima dal peccato». Più che un luogo fisico uno spazio interiore. Non fuoco di fiamme ma fuoco metaforico,interiore. Benedetto XVI descrive la sua immagine del Purgatorio. E per farlo chiede aiuto a santa Caterina da Genova, moglie di un ubriacone e inizialmente dissoluta anche lei, poi spiazzata dalla «visione» dell'orrore dei propri peccati e convertita a un'esistenza di carità e dedizione al prossimo. Se ai tempi della santa, spiega Benedetto XVI, si pensava al Purgatorio a partire dalla idea dei tormenti dell'aldilà, e come a uno spazio «nelle viscere della terra», Caterina invece vedeva il Purgatorio a partire dalla propria anima di peccatrice: la visione del peccato confrontato con l'amore di Dio la portava a espiare e purificarsi.Se di fuoco si trattava, dunque, era certo un fuoco «interiore». Da tempo la Chiesa e i papi hanno abbandonato le immagini dell'aldilà che hanno nutrito l'immaginario collettivo e popolato le arti di diavoli con il forcone, beati tra le nuvole del paradiso e peccatori non dannati che compiono la purificazione. Nel 2003 Karol Wojtyla dedicò un ciclo di catechesi delle udienze generali a inferno, purgatorio e paradiso, come stati dell'anima legati alla comunione o meno con Dio. In questo solco ieri Joseph Ratzinger ha riflettuto sul purgatorio per santa Caterina, in cui l'anima «soffre per non aver risposto in modo corretto a tale amore di Dio e l'amore stesso diventa fiamma e lo purifica». Ha raccomandato di «pregare con i defunti» perché completino la purificazione e «affinché possano giungere alla comunione con Dio». La riflessione sull'aldilà, il peccato e il giudizio di Dio è affrontato con ampiezza da Benedetto XVI nella sua enciclica «Spe salvi». Il Giudizio Finale di Dio, scrive il Papa, esiste, non sarà quello dell'iconografia «minacciosa e lugubre» dei secoli scorsi, ma nemmeno un colpo di spugna «che cancella tutto»; chiamerà «in causa le responsabilità» di ciascun uomo. Benedetto XVI riafferma l'esistenza del purgatorio e dell'inferno e lega il motivo della speranza cristiana alla giustizia divina. Anzi, afferma che «la questione della giustizia costituisce l'argomento essenziale in favore della fede nella vita eterna». È impossibile che «l'ingiustizia della storia sia l'ultima parola». La grazia «non esclude la giustizia. I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato». E' già stato cancellato il Limbo, luogo nel quale secondo la tradizione i bimbi non battezzati vivono per l'eternità senza comunione con Dio, perché riflette una «visione eccessivamente restrittiva della salvezza» soprattutto oggi che «il numero dei bimbi morti senza battesimo è in aumento, molti genitori non sono cattolici molti piccoli sono vittime di aborti». Dio «vuole che tutti gli esseri umani siano salvati», la Grazia ha priorità sul peccato».


in “La Stampa” del 13 gennaio 2011



Un video che affronta in maniera semplice e brillante il tema della sordità

e dell'accoglienza di chi ha questo problema.

La libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto tra il pensiero e l'azione; sarebbe completamente libero l'uomo le cui azioni procedessero tutte da un giudizio concernente il fine che egli si propone e i mezzi atti a realizzarlo. Poco importa che le azioni siano agevoli o dolorose, e anche che siano coronate da successo; il dolore e la sconfitta possono rendere l'uomo sventurato, ma non umiliarlo finché è lui stesso a disporre della propria volontà di agire. L'uomo non può in alcun caso evitare di essere incalzato da una necessità inflessibile; ma, poiché pensa, ha la facoltà di scegliere tra cedere al pungolo con il quale essa lo incalza, oppure conformarsi alla raffigurazione interiore che se ne forgia; e in questo consiste l'opposizione tra servitù e libertà.

Simone Weil, da «Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione»

Io sottoscritto (d'ora in avanti "l'Augurante")

chiedo al mio interlocutore (d'ora in avanti "l'Augurato")

di accettare senz'alcun obbligo, implicito o esplicito, i voti più sinceri dell'Augurante (d'ora in avanti "gli Auguri") affinché l'Augurato possa trascorrere nel migliore dei modi (ove nella frase "migliore dei modi" si sottintende da parte dell'Augurante e si presuppone da parte dell'Augurato un atteggiamento che tenga conto delle problematiche di carattere sociale, ecologico e psicologico, che non sia causa di tensione e/o competizione, né comporti o favorisca alcun tipo di assuefazione o di discriminazione, sia sessista, sia di diverso carattere) per la festività coincidente al Solstizio d'Inverno convenzionalmente nota come "Natale", ma che può essere chiamata e celebrata dall'Augurato secondo le sue tradizioni religiose e/o laiche, premesso il debito rispetto nei confronti delle tradizioni religiose e/o laiche di persone di qualunque razza, credo o sesso diverse dall'Augurato, ivi comprese coloro che non praticano alcuna tradizione religiosa e/o laica.

Qualsiasi riferimento a qualunque divinità, figura mitologica, personaggio tradizionale, reale o leggendario, vivo o morto che sia; a simboli (ove sono compresi tra l'altro - ma non limitativamente - canti e rappresentazioni artistiche, letterarie e sceniche) religiosi, mitologici o della tradizione che possa essere ravvisato direttamente o indirettamente nei presenti Auguri non implica da parte dell'Augurante alcun sostegno nei confronti della figura o del simbolo in questione.

L'Augurante chiede inoltre all'Augurato di accettare gli auguri per un felice (ove l'aggettivo "felice" viene definito tra l'altro - ma non limitatamente - come "gratificante dal punto di vista personale, sentimentale e finanziario e privo di complicazioni di carattere medico, dirette o indirette") anno 2010.

L'Augurante sottolinea che la datazione "2010" è qui considerata come convenzionale, così com'è considerata convenzionale la data del 1° Gennaio come inizio dell'anno, e dichiara il suo assoluto rispetto per altri tipi di datazione legati alle differenti culture religiose e/o laiche di cui l'Augurante riconosce il prezioso contributo allo sviluppo dell'attuale società multietnica.

Augurante e Augurato convengono inoltre su quanto segue:

- Gli Auguri valgono a decorrere dalla data del presente accordo al 31 Dicembre 2010, dopodiché dovranno essere esplicitamente rinnovati da parte dell'Augurante.

- Gli Auguri non implicano alcuna garanzia che i voti di "felicità" espressi dall'Augurante trovino un effettivo riscontro nella realtà dell'Augurato, il quale non potrà attribuire all'Augurante alcuna responsabilità civile e/o penale e/o morale per la loro mancata attuazione.

- Gli Auguri sono trasferibili a terzi purché il testo originale non subisca modifiche o alterazioni. La libera diffusione del testo non implica tuttavia il pubblico dominio del testo stesso, i cui diritti appartengono in ogni caso al detentore del copyright.

- L'Augurante declina ogni responsabilità derivata dall'utilizzo degli Auguri al di fuori dai limiti prescritti; in particolare, l'Augurante declina ogni responsabilità per eventuali danni fisici o morali all'Augurato e/o a persone e/o sistemi informatici a lui collegati derivati dall'invio degli Auguri mediante E-Mail o qualunque altro metodo di trasmissione, elettronico o di diverso genere, attualmente in uso, in fase di sperimentazione o non ancora inventato.

Ciò stabilito,

Buon 2010!
L'episodio (di Simeone - cfr Lc 2,25-35) ha in sé qualcosa di profondamente umano: l'uomo che gioisce del fatto che altri continuino la propria opera; l'uomo che gioisce del fatto che, pure nella propria decadenza, vi sia un risveglio, un rinnovo, qualcosa che vada avanti. Se il brano ci insegnasse anche soltanto questo, sarebbe già molto valido per la nostra vita. Non è facile infatti che il vecchio che è in noi accolga il bambino, il nuovo. C'è piuttosto il timore che il bambino non potrà continuare, che non vorrà seguire lo stesso ideale, che prenderà il suo posto mettendo da parte il vecchio, e addirittura che tradirà.

Il vecchio Simeone che abbraccia un bambino è una realtà molto importante, perché rappresenta ciascuno di noi di fronte alla novità di Dio. La novità di Dio si presenta come un bambino e noi, con tutte le nostre abitudini, paure, timori, invidie, preoccupazioni, siamo di fronte a questo bambino. Lo abbracceremo, lo accoglieremo, gli faremo spazio? Questa novità entrerà davvero nella nostra vita o piuttosto tenteremo di mettere insieme vecchio e nuovo cercando di lasciarci disturbare il meno possibile dalla presenza della novità di Dio?

Ecco un primo momento di preghiera: «Signore, fa' che ti accolga come il nuovo nella mia vita, che non abbia paura di te, che non ti misuri con i miei schemi, che non ti voglia incasellare nelle mie abitudini mentali. Fa' che io mi lasci trasformare dalla novità della tua presenza. Fa', o Signore, che, come Simeone, io ti accolga nella tua novità, in ogni cosa che, intorno a me, è vera, nuova e buona. Che io ti accolga in tutti i bambini di questo mondo, in ogni vita, in ogni fermento di novità che tu metti intorno a noi, nella nostra società, nel mio cuore».

card. Carlo Maria Martini, Qualcosa di così personale, 32-33

Quello che i missionari (non) ci dicono

di Marco Tosatti

Su "Vino Nuovo" Diego Andreatta fa una riflessione su quello che pensano, sentono e spesso tacciono i missionari italiani sparsi per il mondo quando tornano in patria, e la vedono...

Allenati dalla loro scelta di vita alla pazienza e alla tolleranza, i missionari non alzano la voce. S'indignano, ma non si adirano. Storcono il naso, ma non si strappano le vesti. Quando rientrano per qualche settimana in Italia
La voce del silenzio

di Anna Cecchini

Scuola dell'infanzia
Sinai, l'odissea senza fine dei profughi

Quattro donne violentate, una è incinta

I trafficanti continuano a punire chiunque non riesca a mettere insieme i soldi del riscatto. I metodi sono diversi: la tortura per gli uomini, lo stupro per le donne. "Una tragedia - dice padre Zerai, dell'agenzia eritrea Habeshia - che si sta consumando sotto gli occhi della tanto vantata civiltà europeo". C'è bisogno di un progetto di accoglienza da parte dell'Unione Europea

Ore 10.36, arriva una telefonata dagli ostaggi eritrei nel Sinai. Quattro donne raccontano che stamattina hanno dovuto subire violenze sessuali ripetutamente, per l'ennesima volta dal branco dei predoni, perché non pagano il riscatto richiesto dai trafficanti. Una delle donne incinta sta molto male, è stata picchiata. "Tutto questo - scrive padre Moses Zerai, direttore dell'agenzia eritrea Habeshia - sta accadendo mentre il mondo 'civile' se ne sta a guardare, distratto da altre questioni, chi per indifferenza, chi per non irritare governi di quella regione. Sta di fatto che c'è un insopportabile silenzio, nessuno sta facendo nulla per debellare questa piaga dei nostri giorni, non si vede nessun risultato- dice ancora il sacerdote eritreo - tranne la liberazione degli ostaggi che hanno pagato il riscatto. Ancora oggi il crimine degli schiavisti vince, grazie al silenzio complice dei potenti della terra".

La "Civiltà" di fronte a persone in catene. "Un dramma che coinvolge centinaia di persone tenute in catene dai predoni - ha aggiunto Moses Zerai -  in un fazzoletto di terra più rovente del globo, non solo perché fa caldo, ma essendo un territorio sotto controllo di tutta la comunità internazionale per la questione Israelo - Palestinese. Ma la comunità internazionale sembra disposta a chiudere gli occhi su questo dramma di profughi che vengono spogliati di tutto, perfino della loro dignità umana, fino a perdere anche la vita stessa. Ci chiediamo - conclude padre Zerai - dove sono finiti i difensori della vita umana? Dove sono i paladini dei diritti umani? Dove l'Europa culla della 'Civiltà'?" (...)
Che cos'è la pace?

È un cumulo di beni. E la somma delle ricchezze più grandi di cui un popolo o un individuo possa godere.

Pace è giustizia, libertà, dialogo, crescita, uguaglianza.

Pace è riconoscimento reciproco della dignità umana, rispetto, accettazione dell'alterità come dono.

Pace è temperie di solidarietà: l'imperativo morale che noi credenti chiamiamo comunione.

Pace è il frutto di quella che oggi viene indicata come «etica del volto»: un volto da riscoprire, da contemplare, da accarezzare. Pace è - come osserva Italo Mancini - «deporre l'io dalla sua sovranità, far posto all'altro e al suo indistruttibile volto; instaurare relazioni di parola, comunicazione, insegnamento».

Pace, per usare un'immagine, è un'acqua che viene da lontano: l'unica in grado di dissetare la terra, l'unica capace di placare l'incoercibile bisogno di felicità sepolto nel nostro inquieto cuore di uomini. Quest'acqua, che in larga parte discende dal cielo e in minima parte deriva dalle risorse idriche della terra (ma anche queste, in ultima analisi, non provengono dall'alto?), si trova in un bacino, da cui parte un acquedotto. Si tratta ora di portarla a tutti. Ed eccoci al ruolo degli operatori di pace.

mons. Tonino Bello, Pace. Quanto resta della notte?, 101-102

Il Regno è dei poveri, dei perseguitati, ma anche dei bambini

Oggi pomeriggio ho passato il tempo trasportando bambini sul palo della bicicletta, andando e venendo per le strade quiete di Manoel Urbano. Erano più di venti, che, aspettando il loro turno, accompagnavano la bicicletta, correndo, rumorosi e allegri, per le vie polverose. Sono bambini lindi come sogni, con la loro pelle scura e i tratti indigeni. Che rilevanza ha questo in termini di liberazione? Nessuna, apparentemente. Basta, comunque, che abbia una rilevanza umana. Non è sufficiente per meritare ogni dedizione? In verità, il bambino è la gratuità. E' l'espressione viva del ricevere, dell'accogliere il Regno, che è sempre dono. In questo senso, essi sono il simbolo della suprema e più fine attività di cui è capace lo spirito.

Il Regno sta in questa dimensione: nella dimensione del bambino. Perché, allora, dovrebbe esserci più Regno nel tenere una conferenza a centinaia di persone importanti piuttosto che nel far divertire mezza dozzina di bambini trasportandoli sulla bicicletta?

E' vero, non è giusto contrapporre una cosa e l'altra. Più bello sarebbe se la gente potesse fare una conferenza come si portano i bambini sulla bicicletta. Con la stessa libertà e semplicità. Di chi è "servo inutile", dovunque sia o qualsiasi cosa faccia. Solo così talvolta la pratica politica cessa di essere una nuova forma di "giustificazione per le opere" che Paolo condannò irrevocabilmente e, prima di lui. Gesù di Nazareth.

C. Boff, Teologia pé-no-chão, Vozes, Petrópolis 1984, 20


(Teologia piede-nel-fango, diario di un viaggio per le Comunità di Base della Diocesi di Rio Branco, Stato dell'Acre, Brasile)

La vigilia

di Luisito Bianchi

Ma il giorno più lungo per un ragazzo era quello della vigilia perché c'erano ancora mille cose da fare e, nello stesso tempo, per poterle compiere, bisognava attendere lo svolgersi degli avvenimenti, comandati, come in un rito, da una regia invisibile, dolcissima se volete, ma tirannica, senza possibilità di deroghe, fino a quello della mezzanotte. Aspettare, quando si poteva fare tutto di seguito: Dio mio, che faticoso lavoro! In cucina, bisognava aspettare che la mamma finisse d'impastare la sfogliata e tirarla col mattarello cento volte, e poi farla un poco riposare sull'asse (quanto tempo?) per averne diritto a una frangetta che, posta delicatamente ad arcioni sulle molle, avvicinavo alle braci del camino quel tanto che non bruciasse ma bastasse a cuocerla, provocando sulla superficie certe bollicine e crateri dorati di fantastici paesaggi; bisognava poi che fosse cotta la zucca e impastata, deposta a mucchietti su quadretti di sfogliata approntati con una rotellina d'ottone, e sigillata dentro con un colpo d'indice e di pollice, per avere il diritto d'implorarne un assaggio sui tortelli che sarebbero stati cotti per la cena, detta il cenone. Bisognava aspettare alla finestra che il cielo si decidesse alla seconda o, in casi eccezionali, alla prima nevicata, dato che anche gli adulti, odiatori della neve, ammettevano essere una focaccia senza zucchero un natale senza neve. Ma l'attesa infinitamente più carica e penetrante era quella che stagnava nell'aria e che un ragazzo, con le sue sensibilissime antenne, accumulava di dentro senza sapere darle un nome; si sentiva irrequieto e, nello stesso tempo, di una bontà tale che, se la mamma gliela avesse vista nel cuore, si sarebbe messa a piangere dalla commozione; voleva stare in casa per rendersi utile al minimo accenno della mamma: guarda il fuoco, va' a prendere un mestolo d'acqua, eppure le gambe gli facevano prurito per una lucidatina agli scivoli sui fossi; era violentemente spinto verso il presepe per accendere le lampadine del cielo, mettere in movimento il mulino, ma, nello stesso tempo, puntava i piedi per non cadere nella tentazione, essendo tutte quelle operazioni comandate dal rito solo dopo la messa di mezzanotte. Insomma, ripeto, una grossa fatica dovere attendere con tutte quelle cose che c'erano da fare e non si sapeva cosa fossero; perché se un adulto domandava al ragazzo: «Che cose hai da fare adesso?» il ragazzo doveva rispondere: «Niente», pur essendo convinto che gliene rimanevano mille per passare bene la vigilia. Liberatrice arrivava la voce della mamma: «Mi occorre questo e quest'altro alla bottega e sta attento al peso». «A me non me la fanno» rispondeva il ragazzo che era già di corsa in strada. «Mettiti almeno la sciarpa!» gli gridava dietro la nonna, ma chi la udiva? Il ragazzo finalmente si sentiva utile a concorrere alla grande festa, ad averne parte nella preparazione, e non solo col presepio. Che la grande attesa fosse perché si sentiva un poco inutile e trascurato? Ma chi sapeva leggere nel cuore d'un ragazzo il giorno della vigilia? E anche nel cuore del vecchio d'oggi, e non solo in vigilia natalizia? Alle tre del pomeriggio suonava la campana della confessione dei ragazzi e delle donne; l'arciprete le donne, e il curato i ragazzi (le bambine, avendo meno tentazioni di noi in un giorno di vacanza, s'erano confessate al mattino). Ci ritrovavamo tutti sul sagrato e, una volta tanto, entravamo in chiesa con ordine, sotto gli occhi e le mani del curato. Il quale, appena inginocchiati nei banchi, ci faceva una lista di peccati che cercavamo di tenerci a mente senza riuscirci, e confessavamo quelli che avevamo imparato a memoria nella prima confessione. Però il pentimento dei peccati anche non commessi o dimenticati era sincero, dato che davanti alla culla di Gesù Bambino che avremmo contemplato, tolto il velo viola, alla messa di mezzanotte, c'era poco d'essere contenti per aver fatto capricci o litigato coi compagni o parlato in chiesa. Un segno della nostra conversione natalizia lo davamo subito appena usciti di chiesa: una rincorsa sul sagrato di beola, neve permettendo, un salto dai tre gradini, mai così lungo e alto perché, senza peccati, ci sentivamo leggeri; e subito a casa, senza nemmeno aspettare il successivo compagno che doveva esser già alla fine dell'avemaria di penitenza - o delle tre, a seconda dell'umore del curato quella vigilia. La mamma ci aspettava con la tinozza già preparata accanto al camino, sicura che non avremmo detto niente all'energica insaponata sulla schiena e attorno al collo, soprattutto all'odiosa pulitura delle orecchie con una pezzuola bianca e una di quelle forcine di metallo di cui le donne facevano collezione nelle crocchia, sempre una a portata di mano. Così, alla leggerezza dell'anima s'univa quella del corpo, e la maglietta di lana con le maniche lunghe, calda e profumata di pulito e di ferro da stiro a carbonella, avvolgeva la pelle, rimessa a nuovo, come una carezza. Sopportavamo la tortura del taglio delle unghie con la stoica fermezza di Muzio Scevola, quello della mano nel braciere, tanto poteva l'attesa di avvenimenti stupefacenti, come il cenone e la messa di mezzanotte. Usciti dalla tinozza, indossati gli abiti della festa, eravamo i primi a capire che il natale era già incominciato e che il sacrista doveva avere già tolto il velo viola. Perfino la fame sopportavamo senza lamentarci e senza fare una capatina furtiva al sottoscala, dico quel paio d'ore che spostavano la cena, ossia il cenone e lasciavano il tempo necessario, non troppo, agli uomini di andare in sacrestia per confessarsi, a tu per tu coll'arciprete, in uno sgabuzzino buio, perché i peccati degli uomini sono come i pipistrelli. Ho parlato di cenone, ma non pensiate che fosse come il pranzo della fiera. Si chiamava cenone solo perché, una volta all'anno, si voleva cenare come i signori e, se per trecentosessantaquattro sere si mangiava polenta che i signori disdegnavano perché troppo pesante e senza sostanza, la trecentosessantacinquesima bisognava che i piatti facessero sangue, anche se di magro. E allora c'erano i tortelli con la zucca; e poi l'anguilla marinata che il droghiere teneva in un mastello sotto il banco, tonno con cipolla, mostarda, un mandarino a testa e pure un torroncino in scatoletta dorata. Voi direte: tutto qui? Oh, no, non era tutto. Mi dimenticavo di aggiungere che i tortelli con la zucca e l'anguilla marinata sarebbe stata un'imperdonabile sciocchezza mangiarli in qualche altro giorno dell'anno, anche a essere signori; e poi, pensare di andare a letto dopo l'una di notte, non c'erano accrescitivi che bastassero a qualificare quel momento attorno alla tavola, con davanti una tovaglia da dote e piatti da regalo di nozze. Dicembre, dunque, buono? Buonissimo. E Dio l'aveva previsto così, col natale del Figlio suo, ancora prima di creare i mesi. Quindi non possono sorgere contestazioni: la bontà del mese e la bontà di Dio coincidono.

tratto da “Le quattro stagioni di un vecchio lunario

in “Viator” n. 11-12 del novembre-dicembre 2010

Nella formazione del carattere di un rivoluzionario conta l'innesco della commozione.

Non basterà mai l'analisi astratta delle forze economiche.

Ci vuole il soprassalto del sangue,

salito in faccia in seguito ad una prepotenza,

a una vergogna per non averla impedita.

La commozione, le lacrime agli occhi fanno correre alle barricate e alle armi.



Erri De Luca, Senza sapere invece, 16-17

Il 5 gennaio 2008

cominciava la pubblicazione regolare, quotidiana,

dei post su questo sito-blog.


Grazie a tutti coloro che ci hanno seguito e continuano a farlo!


don Chisciotte



Foto di dieci guerre che continueranno nel mondo...

anche in questo nuovo anno.

Gesù è nato in una grotta; una greppia gli fa da culla; alcuni animali lo riscaldano col loro fiato.

Non c'è niente di abbietto e d'indegno per Gesù, fuorché il male.

Ogni cosa può diventare un ostensorio del suo amore.


don Primo Mazzolari, Il solco, 12

Quando tutti ebbero terminato il racconto della propria vita, ci fu un momento di silenzio sotto la tenda. Il fuoco dello Spirito aveva fatto di noi una cosa sola; la commozione era forte e visibile. Dovevo prendere la parola e mi sentivo piccolo e indegno davanti a quegli uomini maturi e provati dal lavoro, dalla cultura e dal lungo cammino percorso. Mi salvai ponendo una domanda che mi sembrava matura e vera. «Cosa manca sotto questa tenda? Siamo qui come comunità di fede. Abbiamo pregato. Come fossimo i primi cristiani, abbiamo accolto uno con noi nella Chiesa, uno che d'ora innanzi camminerà nella fede cercando di vivere nella imitazione di Gesù nostro Signore e nostro Maestro. Ma che cosa manca sotto questa tenda, ditelo voi». Una voce - era quella del medico - mi rispose: «Manca l'Eucarestia, manca la Presenza di Gesù sotto il segno che ci ha lasciato nell'Ultima Cena». Tacqui.

Mai come in quell'istante sentii l'incongruenza storica di una comunità di cristiani orfani dell'Eucarestia per il solo motivo che mancava tra loro il sacerdote. Ma il sacerdote era lontano. Quei ricercatori erano mesi e mesi che non si comunicavano per mancanza di preti. Erano tutti militanti cristiani, coscienti della loro fede e soltanto perché portati lontano dal loro lavoro e dai loro impegni erano costretti a vivere senza Eucarestia per mesi e mesi. Sotto la tenda - provocato dalla visione di quella comunità che si era formata a centinaia di chilometri dalla prima missione - mi era facile vedere una realtà che diveniva insostenibile. Perché? ... Perché comunità dello Zaire, dell'Africa Equatoriale, fatte di ottimi cristiani catechizzati da catechisti africani, dovevano rimanere privi di Eucarestia solo per la mancanza del prete? E perché mancava il prete? Perché tutti erano sposati e la Chiesa non ordinava che celibi. Ma possibile che l'essere celibi debba costituire una condizione così assoluta? Ma possibile che, per il solo fatto di essere sposati, venga negata la possibilità di consacrare il Corpo del Signore nell'assemblea dei fedeli? Ma Gesù aveva chiesto questo? O l'essere sposati è un tale difetto da rendere incapaci di divenire preti nella Chiesa di Cristo? No, no! Qui c'era qualcosa che non funzionava, qualcosa di incomprensibile nella situazione della Chiesa di oggi.

C'era evidentemente il peso di un passato, oramai superato, e che avrebbe dovuto essere affrontato. C'era l'obbedienza a una situazione storica di altri tempi che continuava a giocare il suo ruolo servendosi o della pigrizia dei cristiani, che è molta, o del potere misterioso che hanno i tabù nelle tradizioni secolari e nelle culture mitiche. Qual era stata la volontà di Gesù nell'istituzione dell'Eucarestia? Aveva chiesto il celibato o aveva chiesto: «Fate questo in memoria di me»? La volontà celibataria spinta all'inverosimile negli ultimi secoli, specie dai religiosi, non aveva finito per travisare la stessa volontà del Cristo? Tra il celibato obbligatorio che riduce il numero dei preti e la necessità di non lasciare le comunità senza Eucarestia, qual è la scelta da fare? La comunità non ha diritto all'Eucarestia? Perché negargliela solo perché non ha un celibe disposto a essere prete?

Ho avuto tra le mani una lettera scritta da un africano, cristiano ideale e padre di famiglia. La lettera era indirizzata al suo Vescovo e diceva pressappoco così: «Tata Vescovo, vorrei chiederti un regalo. Il nostro villaggio è tutto cristiano ma è piccolo piccolo e non potrà mai avere un sacerdote fisso per celebrare la messa ogni giorno, come noi desidereremmo. A volte dobbiamo aspettare mesi per avere la gioia di una messa. Tata Vescovo, abbiamo con noi il nostro catechista. È sposato, è buono, è ricco di fede e di carità. Perché non chiedi al Papa che ti dia il potere di ordinarlo sacerdote? Così avremo sempre l'Eucarestia». Che cosa rispondere a questo povero cristiano? Ci sono argomenti logici per negargli la richiesta? Basta dire in eterno che il sacerdozio deve essere conferito solo ai celibi? E perché non anche agli sposati? Esiste nella Scrittura questa proibizione? Cosa si faceva nella Chiesa delle origini? E nei primi secoli come avvenivano le cose? O piuttosto: non abbiamo noi, per necessità storiche o per i nostri gusti celibatari, cambiato addirittura la natura delle cose? Io credo di sì. Parlo come celibe, e di un celibato che Dio stesso mi ha dato come carisma irreversibile. Non vedo in me alternativa alla mia vita e ho tanta gioia in corpo, per questo dono confidatomi dal Signore, che oso dire con S. Paolo: «Fratelli, vorrei che foste tutti come me». Però, con altrettanta forza e consapevolezza, vi dico che avrei voluto ricevere l'Eucarestia da mio padre, ben degno di essere prete anche se sposato. Con altrettanta speranza vi affermo che siamo alla vigilia di un tempo in cui la Chiesa non farà più i soliti discorsi sulla mancanza di preti oggi, perché son discorsi non veri. Non mancano i preti oggi. Ce ne sono quanti occorrono e come sempre, nella generosità di Dio nei nostri riguardi, ancora di più. Ma sono tra gli sposati e la Chiesa deve cercarli là. Come sarà interessante non sentire più circolare la paura sulla mancanza dei preti nella Chiesa! Che gioia il giorno in cui la Comunità prenderà coscienza che le cose sono cambiate e che la chiusura dei seminari per soli celibi, svuotati da Dio stesso, è stata una grazia, una delle più grandi grazie del dopo Concilio! Con la pace, di tutti!

fr. Carlo Carretto, Ho cercato e ho trovato (1983), 125-129

L'anno che va, il tempo che viene - Te Deum del cuore

E ora che l'anno finisce, il cuore deve decidere da che parte stare. Il cuore, che è la sede delle decisioni che davvero segnano l'esistenza, come dice la Bibbia. E il nostro cuore, adesso che finisce un anno duro e pieno di fatiche, deve decidere: lamento o gratitudine? È sempre così. Di fronte a un anno che passa, come di fronte al viso dei propri figli, o delle persone che ti trovi accanto. Hai mille motivi per lamentarti, cuore nostro. Mille motivi per dare voce alle ferite. Alle delusioni. Ai torti subiti. Mille motivi per far parlare la lingua amara della rivendicazione. O la lingua stanca dell'avvilimento. Molte notizie che anche oggi troviamo sui giornali farebbero salire parole dure dal cuore.

Ma come c'è la durezza della pena, c'è anche la durezza della gioia. La resistenza, la forza della gratitudine. Quella che proviamo per cose che magari sui giornali non ci finiscono. La gratitudine per le cose da niente che costellano la nostra vita. Per il respiro che ancora ci viene accordato, e il riso e anche per il pianto con cui conosciamo il dolore e l'amore. Le cose che non fanno notizia, come il sorriso di un figlio, l'occhiata della persona che amiamo, il suo voltarsi quando la salutiamo. Quelle cose da niente che non fanno notizia, ma che ci suggeriscono una gratitudine invincibile. E noi vogliamo scegliere di rendere grazie per queste cose da niente. Per la fede dei semplici, papi nel fulgore del loro ministero o ammalati nella penombra della loro offerta. Vogliamo ringraziare per tutte le madri che, camminando lavorando soffrendo, non perdono la speranza. E custodiscono l'amore. Per tutti quelli che non fanno notizia e fanno andare il mondo, mettendo cura e pazienza in lavori senza onori apparenti. Gratitudine per la bellezza spaventosa e dolce di questo posto chiamato Italia, edificato dal genio, dalla fede e dalla operosità dei nostri padri, sotto i cui cieli abitiamo e vediamo panorami per cui vale la pena essere venuti al mondo. Il nostro cuore decide di ringraziare, in questa fine d'anno. Per le cose che ci hanno corretto. Per quelle che, pure facendoci soffrire, ci hanno legato di più a ciò che vale. E ringraziare per le cose da niente, i 'buongiorno' scambiati per le scale, i 'se hai bisogno di una mano, ci sono' che ci hanno detto anche con gesti silenziosi. Vogliamo rendere grazie per la benedizione dei bambini nostri e per quelli degli altri. Per i loro visi dove tutto reinizia. E per la pazienza dei nostri anziani, che onorano il tempo senza sentirlo come una ingiustizia, ma come un chiarimento. Vogliamo ringraziare per la pazienza preziosissima dei sofferenti nel corpo, nella mente. Per chi è restato senza lavoro, ma non senza dignità. Per le cose che non fanno mai notizia, come la cura e l'amicizia offerta da tanti a chi è solo. Per il mare di bene che con onde silenziose sostiene il nostro viaggio.


Ora che l'anno finisce strapperemo il cuore dalle mani del demonio lamentoso che vorrebbe non farci vedere come i cuori di tutti cercano il bene. Ora che finisce l'anno con tutte le sue ferite e le sconfitte e le perdite, ringrazieremo per tutti i doni, e per il segreto bene che si nasconde anche nel patimento se una mano ci passa sugli occhi come ai bambini. Ringrazieremo per tutti gli abbracci silenziosi. Per i baci di amicizia e di amore scambiati. Per le cose da niente che non fanno notizia ma hanno fatto la vita e la speranza per questo anno che finisce. E ringrazieremo per il dono più misterioso di tutti, la fede. Per le mani che ce lo hanno offerto, per i volti che lo hanno confermato in mezzo alle tenebre dell'anno. Per i dolci amici che ci hanno parlato di Lui, Signore buono dell'anno che va e dell'istante che viene.

Davide Rondoni

Può darsi che sia vero che la Chiesa avrà tempi duri, come Israele ebbe ai tempi della deportazione (quante profezie amare ed ingenue circolano nel sottobosco delle parrocchie!). A me tutto questo non dice molto perché Cristo mi ha liberato proprio dalla paura. Io mi sento assicurato e confortato dal passaggio di Gesù nella mia vita. Se si chiude un seminario non mi viene alla mente di dubitare che mi mancherà un prete a darmi l'Eucaristia. Se si vende il Vaticano non tremo pensando che tutto è finito e che Dio è stato vinto dal male. No, e preferisco cantare con Osea le stesse parole della speranza: «Io sono il Santo in mezzo a te, Israele e ruggirò come leone dinanzi al male. Accorreranno i tuoi figli come colombe, e come augelli ritorneranno al loro nido» (cap. 11). Sì, ho tanta speranza! Ed è la speranza vera, quella non fondata sull'ottimismo umano ma nata dalla contraddizione e debolezza mia, dalle contraddizioni e debolezze della Chiesa e dalla visione della babele del mondo di sempre. Ho la speranza che non si fonda più sulle mie forze o sulle forze organizzate della Chiesa ma solo sul Dio vivente, sul Suo amore per l'uomo, sulla Sua azione nella storia, sulla Sua volontà salvifica.



I cristiani del nostro immediato passato potevano avere qualche angolo tranquillo ove posare lo sguardo e nutrire ottimismo: una Chiesa organizzata e trionfante, un numero discreto di fedeli, una civiltà che appariva cristiana, famiglie pie e ordinate. Ma oggi! No, con l'affievolirsi della "Chiesa-numero" sostituita dalla "Chiesa-segno", le cose sono cambiate e qualcuno non capisce più nulla. Per chi guarda la realtà oggi senza spirito profetico l'ottimismo è veramente morto. Ma lo sapete voi che dove muore l'ottimismo umano nasce la speranza cristiana? L'ottimismo è fiducia negli uomini, nelle possibilità umane; la speranza è la fiducia in Dio e nella sua onnipotenza. Tempo di Apocalisse quindi, cioè tempo in cui il credente guarda il Cielo prima di guardare la terra, cerca i segni dell'Avvento di Dio più che l'agitarsi dei popoli, conta sulla fedeltà di Dio più che sulla capacità o furbizia degli uomini. E anche quando agisce, il suo spirito è saturo della fede in questa parola:

Maranathà! Vieni, Signore Gesù! Unica strada che Lui percorre per venire a noi e rivelarsi è quella che noi percorriamo per cercarlo. Noi lo troviamo nella misura in cui crediamo, né più né meno. Dio ha stabilito che il colloquio con Lui avvenga nella fede, che la crescita in Lui si faccia nella speranza e che la rivelazione di Lui la si sperimenti nella carità. E questo fino alla fine cioè fino all'ultimo giorno, il giorno in cui risorgeremo dai morti".

fr. Carlo Carretto, Ogni giorno, 8 e 9 gennaio