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O Dio nostro Padre, che guidi l'universo con sapienza e amore,
ascolta la preghiera che ti rivolgiamo per il nostro Paese:
fa' che in esso fioriscano la giustizia e la concordia
e con l'onestà dei cittadini e la saggezza dei governanti
si attui un vero progresso per il bene comune.
(dalla liturgia ambrosiana)
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Il Quoziente Intellettivo si abbassa anche di 10 punti. ll neuroscienziato Daniel J. Levitin esamina gli «effetti collaterali» del sovraccarico di stimoli da email, sms e social
di Ruggiero Corcella
I cantori delle meraviglie del multitasking sono avvisati: l’epopea del fare tutto e possibilmente in contemporanea non è cosi mitica come si crede. Non lo è almeno per il nostro cervello. Non è la prima volta che gli studi scientifici si occupano — e si preoccupano — degli effetti collaterali del sovraccarico di stimoli e di richieste sulla nostra “centrale di controllo”. Adesso lo ribadisce il neuroscienziato Daniel J. Levitin , direttore del Laboratory for Music, Cognition and Expertise alla McGill University e autore del libro “The Organized Mind: Thinking Straight in the Age of Information Overload.” (“La mente organizzata: restare lucidi nell’era dell’eccesso di informazione”, ndr) in un articolo pubblicato sulle pagine scientifiche del quotidiano britannico The Guardian: il multitasking ci rende meno efficienti e comporta un vero e proprio esaurimento delle funzioni cerebrali. «Stiamo facendo i lavori di 10 persone diverse, cercando anche di tenere il passo con la nostra vita, i nostri figli e genitori, i nostri amici, le nostre carriere, i nostri hobby, e le nostre programmi televisivi preferiti», scrive Levitin.
Non siamo giocolieri esperti
È ormai esperienza quotidiana: non c’è momento della nostra giornata in cui non “messaggiamo”, leggiamo la posta, “chattiamo” sulle varie piattaforme messe a disposizione dalla tecnologia. «Ma c’è un unico neo — ci spiega il professor Levitin— . Anche se pensiamo di fare diverse cose contemporaneamente, questa è una illusione potente e diabolica. Earl Miller, un neuroscienziato del MIT e uno dei massimi esperti mondiali di attenzione divisa, dice che
Leggi tutto: Pensiamoci... mentre stiamo facendo altre dieci cose!!
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«Noi parliamo del Dio buono, del Dio quasi geloso della Sua bontà: "soltanto Dio è buono!" (Lc 18, 19). Tutte le bontà che incontriamo sulla terra non sono che pallide immagini, quasi scintille sfocate, di quest’immenso sole di Bontà. Se noi riuscissimo a dare alle anime, anche per un solo istante, l’impressione (ed è impressione reale) che Dio è buono, che cosa grande avremmo fatto! Se noi riuscissimo a dire davvero alle anime del nostro tempo: «Ma tu sai che Dio è buono?», noi avremmo dato immense capacità di salvezza a coloro che avranno avuto la sorte di ascoltare la nostra voce».
card. Giovanni Battista Montini, 26.04.1957
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Thom Browne: quando in passerella si racconta la morte
Lo stilista americano ha ideato una sfilata tra la piéce teatrale e la performance art: il modello in bianco, il colore nero, la morte. E la processione di chi gli ha voluto bene
di Matteo Persivale
Michael si alza dal letto bianco in una stanza bianca; lentamente, nel silenzio, l’ambiente intorno a lui diventa nero. Lui torna a letto, muore. Comincia la processione dei suoi amici, tutti in nero, alcuni con la veletta, altri con cappelli ottocenteschi dell’eccentricissimo cappellaio inglese Stephen Jones. Gli rendono omaggio camminando lentamente, sotto quella che inizialmente pare una nevicata ma è in realtà cenere nera: cenere alla cenere.
Un po’ piéce beckettiana, un po’ performance art, la sfilata di Thom Browne - sulla vita e morte di quell’uomo solitario, Michael - ha messo in scena quello di cui la Moda - che ci racconta sempre Gioventù e Bellezza - non ci parla mai: la Morte. Con tempi lunghi, insoliti per il ritmo forsennato delle varie fashion week, ha raccontato l’omaggio di coloro che hanno voluto bene a chi non c’è più.
Un po’ piéce beckettiana, un po’ performance art, la sfilata di Thom Browne - sulla vita e morte di quell’uomo solitario, Michael - ha messo in scena quello di cui la Moda - che ci racconta sempre Gioventù e Bellezza - non ci parla mai: la Morte. Con tempi lunghi, insoliti per il ritmo forsennato delle varie fashion week, ha raccontato l’omaggio di coloro che hanno voluto bene a chi non c’è più.
Ha capito che i tempi in cui viviamo sono complicati e la moda non può non esserne lo specchio; ha capito che la musica di Haendel (la suite numero 4 in re minore) può rompere - alle debite condizioni - il silenzio che avvolge una passerella, così come il Mercoledì delle Ceneri può dare il senso di una scenografia meglio di un’installazione di video art.
Il protagonista della sfilata-performance di Browne nasce, vive, muore. Ha spiegato lo stilista ai giornalisti ancora scossi da quel silenzio, da quella pioggia di cenere: «Ho cercato di rendere omaggio a una vita vissuta pienamente, a una morte che avviene dopo aver terminato il lavoro di una vita».
Parigi, 26.01.2015
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il sapiente sa quello che dice».
detto rabbinico
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La parola incompresa
di mons. Gianfranco Ravasi
La critica a un'informazione spesso approssimativa, superficiale, prevenuta e fin ostile per ragioni di principio, non deve quindi esimere la comunità ecclesiale da una ferma autocritica nei confronti dei propri limiti. Le evidenti incomprensioni che allignano nella società non devono produrre un rassegnato vittimismo e neppure un'altezzosa noncuranza del fenomeno. Anche se l'odierna esasperazione della comunicazione, la sua accelerazione ed estensione costituiscono una novità, nella sua sostanza, un fenomeno costante che risale alle origini stesse della cristianità. Quella che appare ai nostri occhi come la primavera della Chiesa (e che per molti versi lo era) fu una stagione tutt'altro che idilliaca, sottoposta a gelate, a tempeste, a devastazioni.
E questo non solo a livello di vita ecclesiale: emblematiche sono le divisioni accese che frantumavano la Chiesa di Corinto, fieramente denunciate da san Paolo (1 Corinzi 1, 10-16). La crisi si manifestava anche a livello di comunicazione, e l'apostolo lo conferma a più riprese puntando l'indice contro una serie di deviazioni dottrinali e morali che si ramificavano attraverso l'oralità, il medium allora dominante, «turbando e sovvertendo» (Galati 1, 7), «provocando divisioni e ostacoli contro l'insegnamento appreso» (Romani 16, 17), «incantando gli stolti» cristiani della Galazia (Galati 3, 1). Il fascino della stravaganza e dell'eccesso attirava già allora, al punto che san Paolo polemizza con alcune comunità cristiane nelle quali «ci si circonda di maestri secondo
E questo non solo a livello di vita ecclesiale: emblematiche sono le divisioni accese che frantumavano la Chiesa di Corinto, fieramente denunciate da san Paolo (1 Corinzi 1, 10-16). La crisi si manifestava anche a livello di comunicazione, e l'apostolo lo conferma a più riprese puntando l'indice contro una serie di deviazioni dottrinali e morali che si ramificavano attraverso l'oralità, il medium allora dominante, «turbando e sovvertendo» (Galati 1, 7), «provocando divisioni e ostacoli contro l'insegnamento appreso» (Romani 16, 17), «incantando gli stolti» cristiani della Galazia (Galati 3, 1). Il fascino della stravaganza e dell'eccesso attirava già allora, al punto che san Paolo polemizza con alcune comunità cristiane nelle quali «ci si circonda di maestri secondo
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Beatitudini contro la 'ndrangheta
intervista a don Giacomo Panizza, a cura di Antonio Maria Mira
«Anche nella Chiesa ci sono stati sicuramente dei ritardi sui temi della mafia e della legalità. Molti documenti importanti, veri gioiellini, ma è mancata una Pastorale». Anche se aggiunge che «molti preti hanno lavorato in silenzio. Senza di loro il nostro Sud sarebbe molto peggio». Non è tenero don Giacomo Panizza, sacerdote bresciano «prestato», come sottolinea, da più di trenta anni alla Calabria. Nel 1976 fonda a Lamezia Terme 'Progetto Sud', comunità di gruppi autogestiti, di famiglie aperte e di servizi, iniziative di solidarietà, condivisione, accoglienza per soggetti svantaggiati. Dal 2002 vive sotto tutela dopo le gravi minacce di morte del clan Torcasio per aver deciso di prendere in gestione un palazzo confiscato da destinare ai disabili. Sono poi seguiti molti attentati, anche alle auto dei disabili. Ma respinge seccamente l’appellativo di 'prete antimafia'. «Noi preti abbiamo centomila cose da fare per predicare l’amore e costruire la pace e la giustizia. Poi se c’è anche da resistere ai mafiosi, dobbiamo resistere. Anche se è meglio che si convertano. Noi preghiamo perché cambino. E facciamo di tutto perché cambino. Venti giorni fa quando ci hanno messo un’altra bomba hanno scritto «prete antimafia». Ma in questa veste non mi ci trovo. Io mi trovo con la gente dove costruiamo la vita buona, la libertà, un po’ di sviluppo, quelle cose che ci servono al Sud». Questo e altro don Giacomo lo racconta nel suo nuovo libro La mafia sul collo. L’impegno della Chiesa per la legalità nel nostro Paese (Edizioni Dehoniane Bologna) nei prossimi giorni in libreria. «È un libro sulla Pastorale della legalità, un libro di Chiesa. Per parlare a sacerdoti, catechisti, persone di Chiesa che educano, per avere dei punti solidi su questo argomento».
È necessario un libro di questo tipo? Non ci sono documenti della Chiesa?
«Ci sono documenti di varie Conferenze episcopali regionali, pochi a livello nazionale. In particolare "Educare alle legalità" del 1991, ormai quasi dimenticato. Bei gioiellini, ma occorre più progettazione pastorale, più formazione».
Ritardi anche nella Chiesa?
«Ci sono stati sicuramente. E quando si parla di legalità spesso è su tutt’altri temi come se in mezza Italia non
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«Io penso che la religione, oggi, decada,
più per il senso di abitudine, di stanchezza e di consuetudine con cui si presenta,
che per l’assalto dei suoi nemici».
card. Giovanni Battista Montini, Ai sacerdoti, 22.11.1957
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«Sembra che prevalga, almeno psicologicamente, la mentalità che il prete deve fare tutto quello che può,
lasciando agli altri solo quello che egli proprio non può fare;
al contrario, il popolo di Dio dovrebbe essere attivo per tutto quello che può,
lasciando ai ministri ordinati solo quello che a loro spetta in modo esclusivo».
mons. Luigi Bettazzi, Non spegnere lo Spirito, 51
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«Penso che tutti dobbiamo metterci in stato di evangelizzazione se con questa opzione pastorale si intende: 1) non dare più per scontato che basti l'automatismo della nascita da famiglia cristiana, tale solo all'anagrafe, per appartenere alla fede; 2) privilegiare la proposta di fede come libera scelta personale; 3) non ritenere scontata la crescita della fede, ma verificarla e suscitarla ad ogni recezione dei sacramenti; 4) non concentrare tutto lo sforzo pastorale sulla pratica sacramentale/liturgica; 5) non credere che la crescita della chiesa sia misurabile con il numero dei sacramenti distribuiti; 6) costruire una chiesa viva, fatta più di “credenti” che di “praticanti”; 7) mettersi anche dal punto di vista di coloro che non credono; 8) comunicare con “parole” e con “segni” che tutti possano comprendere».
mons. Aldo Del Monte, Assemblea CEI, giugno 1973
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In mezzo a tante voci di manovre esclusivamente strategiche e interessate, vorrei invocare il dono della sapeinza per coloro che dovranno scegliere il nuovo presidente della repubblica.
Un desiderio che può unire le donne e gli uomini atei e credenti.
«Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per quantità non si può calcolare né contare.
Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male;
infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?» (1Re 3,7-9).
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Lasciavamo indietro l'aria del lungomare che soffiava e faceva il giro del golfo. Prendeva alle spalle, spingeva a farci correre, tu le resistevi tenendoci per mano ed era bello starsene al vento.
Quando ripigliavamo la trama dei vicoli l'aria tornava prigioniera. Il cielo saliva sui palazzi, lontano, mentre sul lungomare scendeva fino a toccare le onde. A casa c'era l'aria lasciata, già tutta respirata, spugna di odori. Ti veniva un po' di malumore risalendo.
Calavamo dai vicoli, selciato sconnesso che percorrevo guardando sempre in terra. La prudenza cominciava da dove si poggiavano i piedi e proseguiva fin dove si posavano gli occhi. Era meglio non vedere tutte le cose della strada.
Calavamo dal vicolo che scendeva con scale tra le case e un muro di tufo. Venivamo giù dalla città stretta e arrivavamo al largo dove la città finisce di colpo davanti al mare.
Respiravamo dagli occhi, prima di tutto da lì entrava l'aria e poi si faceva spazio nella gola chiusa, nei polmoni spaventati che ad aprirsi tossivano. Il mare col cielo a pelo di acqua mandava un vento che era di aria, ma si comportava come le onde saltando sugli alberi della Villa come fossero rocce, li scuoteva, li puliva e le facce nostre sfregate dalla sua corrente diventavano fresche, rosse e gli occhi luccicavano.
Tu ci conducevi a quella festa. "A prendere aria", dicevi tu, ed io trasformavo in mente: "Ad essere presi dall'aria".
D'inverno i cappotti erano minima zavorra di fronte alle sue corse. Avrei voluto cedere, mollare l'ormeggio della tua mano e lasciarmi sollevare ed essere rotolato dalla scopa del vento, ma era un gioco, non mi avrebbe tenuto molto nel suo fazzoletto in volo e mi avrebbe lasciato cadere per prendere subito un altro bambino, un'altra foglia, un'altra carta. Il vento toccava ogni creatura con la stessa forza, reggeva il salto a un bambino così come lanciava onde al castello in mezzo al golfo spruzzandogli la cima.
D'inverno i cappotti erano minima zavorra di fronte alle sue corse. Avrei voluto cedere, mollare l'ormeggio della tua mano e lasciarmi sollevare ed essere rotolato dalla scopa del vento, ma era un gioco, non mi avrebbe tenuto molto nel suo fazzoletto in volo e mi avrebbe lasciato cadere per prendere subito un altro bambino, un'altra foglia, un'altra carta. Il vento toccava ogni creatura con la stessa forza, reggeva il salto a un bambino così come lanciava onde al castello in mezzo al golfo spruzzandogli la cima.
Se era così forte scappavamo, ma nemmeno rientrare dalla bufera ti faceva venire voglia della casa».
Erri De Luca, Non ora, non qui, 56-57
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"Gli uomini che si sono accomodati nella Chiesa, hanno trovato nella Chiesa la loro maniera di realizzazione, siano vescovi, siano sacerdoti, siano battezzati. Si sono accomodati e sono costoro che si opporranno nella maniera più forte e più efficace alla novità del Vangelo, alla novità ripetuta, che perennemente deve ripetersi, deve ritornare a galla come novità e deve per forza urtare la sensibilità di coloro che ormai si sono seduti, si sono ben sistemati nella Chiesa...
È gente che osserva, pretende di osservare, crede di fare ciò che è comandato da Dio, ma in fondo non serve la Chiesa, serve se stessa. Si serve della Chiesa e protegge la propria pigrizia, protegge degli interessi di cui, magari, non ha chiara coscienza, ma protegge se stessa, il proprio modo di vedere».
card. Giovanni Benelli ( ai seminaristi della Diocesi di Firenze - 1982)
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La giustizia del pane spezzato con gli altri
di Enzo Bianchi
Affermare che “il cibo siamo noi” suggerisce due approfondimenti complementari. Da un lato significa che se noi, come ogni essere animale, “siamo quello che mangiamo”, in quanto umani “siamo” però anche “come mangiamo”: la cura con cui ci procuriamo e cuciniamo il cibo e le modalità in cui lo consumiamo costituiscono parte integrante del nostro nutrimento e ne influenzano il conseguente metabolismo.
Pensare e vivere il cibo come alimento condiviso significa comprendere in profondità che ciò che ci fa vivere è il rapporto con l’altro, il dare e il ricevere il cibo, non il semplice appropriarsene e consumarlo. Oggi più che mai abbiamo consapevolezza della dimensione globale legata alla condivisione o all’accaparramento degli alimenti. Ne conseguono istanze di giustizia e di solidarietà, a cominciare dall’indispensabile rispetto per tutti gli uomini e le donne che lavorano nella filiera alimentare primaria e per i loro diritti inalienabili. Quanti coltivano, raccolgono, trasformano e cucinano gli alimenti che ogni giorno arrivano sulla nostra tavola non sono e non devono essere estranei: sono infatti il “prossimo” che rende il cibo “vicino” a noi, alla nostra portata.
Pensare e vivere il cibo come alimento condiviso significa comprendere in profondità che ciò che ci fa vivere è il rapporto con l’altro, il dare e il ricevere il cibo, non il semplice appropriarsene e consumarlo. Oggi più che mai abbiamo consapevolezza della dimensione globale legata alla condivisione o all’accaparramento degli alimenti. Ne conseguono istanze di giustizia e di solidarietà, a cominciare dall’indispensabile rispetto per tutti gli uomini e le donne che lavorano nella filiera alimentare primaria e per i loro diritti inalienabili. Quanti coltivano, raccolgono, trasformano e cucinano gli alimenti che ogni giorno arrivano sulla nostra tavola non sono e non devono essere estranei: sono infatti il “prossimo” che rende il cibo “vicino” a noi, alla nostra portata.
Per questo il momento dell’assunzione del cibo dovrebbe sempre rivestire un carattere culturale, essere accompagnato da un ringraziamento per quanto ricevuto e da una concreta condivisione della gioia del pasto. Non è vero nutrimento ciò che viene ingurgitato come semplice carburante, senza consapevolezza, in una frettolosa solitudine, senza parole, gesti, silenzi ricchi di senso.
D’altro lato, se “il cibo siamo noi”, allora ognuno è anche alimento dell’altro, lo nutre, lo fa vivere: è la prima esperienza che ciascuno di noi compie e fa compiere appena nato. Se per il poppante il corpo della madre è il cibo, per la madre la fame del bambino, il suo corpicino che cresce è alimento ed energia vitale.
Ma divenendo adulti, anche il reciproco legame vitale che
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"Mi sono scocciato di sottostare alla legge del vivere civile
che ti assoggetta a dire sì senza convinzione
quando i no, convintissimi, ti saltano alla gola come tante bolle d’aria".
Eduardo De Filippo, Gli esami non finiscono mai
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Riconosciuto il martirio di Romero
L’arcivescovo salvadoregno Oscar Arnulfo Romero è stato assassinato in odium fidei. I teologi ne riconoscono il martirio. Ieri i membri del Congresso che li riunisce presso la Congregazione delle cause dei santi hanno espresso il loro voto unanimemente positivo sul martirio formale e materiale subìto dall’arcivescovo di San Salvador il 24 marzo 1980. Si tratta di un passo decisivo per il vescovo latinoamericano ucciso mentre celebrava l’Eucaristia e che già il popolo acclama come santo.
Ora, secondo la prassi canonica, per la beatificazione non resta che il giudizio del Congresso dei vescovi e dei cardinali e infine l’approvazione del Papa, con la conclusione dell’iter che lo porterà presto alla beatificazione.
Il pronunciamento sul martirio segna l’apice di una causa travagliata...
(continua)
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Dona luce alla mia lucerna!
di san Colombano
Quanto sono beati, quanto sono felici “quei servi che il Signore, al suo ritorno, troverà ancora svegli”! (Lc 12,37). Veglia veramente beata quella in cui si è in attesa di Dio, creatore dell’universo, che tutto riempie e tutto trascende! Volesse il cielo che il Signore si degnasse di scuotere anche me, meschino suo servo, dal sonno della mia mediocrità e accendermi talmente della sua divina carità da farmi divampare del suo amore sin sopra le stelle, sicché ardessi dal desiderio di amarlo sempre più, né mai più in me questo fuoco si estinguesse! Volesse il cielo che i miei meriti fossero così grandi che la mia lucerna risplendesse continuamente di notte nel tempio del mio Dio, sì da poter illuminare tutti quelli che entrano nella casa del mio Signore!
O Dio Padre, ti prego nel
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«Ecco il pastore. Non ha nome.
E’ un gran bel tipo.
Grande perché è alto, dritto, saldo.
Bello perché appare uomo, stagionato, sicuro.
Contempla la Santa Famiglia:
il pastore guarda nel profondo, con attenzione più che stupore.
E vigila sulla vita di questi due giovani e di questo neonato,
come veglierebbe il suo gregge… e ancora meglio.
Magari è un po’ anche guardia.
E’ quasi abbracciato al suo bastone:
forse è un po’ stanco,
ma certamente non è aggressivo, ma molto dolce.
Come dolce è il suo sguardo:
occhi senza fondo
e labbra che accennano a un pudico sorriso.
Che ci sia sempre Qualcuno che vegli su di voi.
Che sia saldo e affettuoso,
profondo e sorridente».
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«E' arrivato Gaspar e si è messo subito in ginocchio.
Turbante prezioso che conosce il sole;
zigomo marcato che sperimenta il vento;
mani grandi che depositano finalmente il peso di un regalo impegnativo:
portare ad un bambino la mirra,
unguento per i morti.
Sarà che è il più vecchio;
sarà che viene da più lontano;
sarà che in Oriente si usa mettersi in questa posizione...
ma delicatamente si porta vicino vicino,
facendosi re piccolo, quasi come il piccolo Re».
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«Melchior il più giovane: scattante, atletico, figlio della terra delle corse.
Eppure sa chinarsi, palmo aperto, scrigno posato a terra:
porta l'oro, ma in realtà è tutta accoglienza.
Indossa solo una raffinata veste lunga, collo alto avvolto da una bordatura dorata, con una chiusura importante sul petto,
ma la parte preziosa della sua persona sono i piedi fermi, il volto disteso, gli occhi pieni di luce.
E' un re giovane che si ferma davanti al Re bambino».
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Ecco in piedi Balthasar.
Veste marrone e mantello verde;
la corona - con una semplice preziosità - ferma il turbante;
la barba è curata, da gran signore.
Gli occhi saggi guardano lontano, scrutano ogni minimo segnale:
è l'uomo pronto.
Sembra che non gli pesi questo grande vaso di incenso,
nonostante lo abbia portato per tanti chilometri.
E' un re forte che porta doni al Re debole.
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«Il tempo viene dalla Trinità, creato con la creazione del mondo; si svolge nel seno della Trinità, perché tutto ciò che esiste, esiste in Dio, nel quale viviamo, ci muoviamo e siamo; è destinato alla gloria della Trinità, quando tutto sarà ricapitolato nel Figlio e consegnato al Padre, perché sia tutto in tutti (cf 1Cor 15,28).
Vivere seriamente il tempo è dunque vivere nella Trinità; cercare di evadere dal tempo è fuggire dal grembo divino che ci avvolge. Il cristianesimo non è la religione della salvezza dal tempo e dalla storia, ma del tempo e della storia.
Perché il tempo sia vissuto così, sia cioè santificato, è necessario che alla vigilanza e alla custodia di Dio sul tempo corrisponda la vigile accettazione dell'uomo: se Dio ha tempo per l'uomo e custodisce il senso della sua vita e della sua storia, l'uomo deve aver tempo per Dio e riconoscerlo, nella vigilanza della fede, della speranza e dell'amore, come il Signore della sua vita e della sua storia».
Carlo Maria Martini, Sto alla porta, 31