(...) Sollevata verso il soffitto, più in alto di quanto non siano i comu­ni mortali, Tonja sprofondava nelle brume di una sofferenza ormai vinta; come se da lei salisse un'infinita prostrazione.
Emergeva in mezzo alla sala allo stesso modo che in un porto un'imbarcazione appena attraccata e scaricata, che avesse compiuto la traversata del mare della morte per raggiungere il continente della vita con nuove anime emigrate qui da chissà dove.
Anche Tonja aveva appena effettuato lo sbarco di un'anima e ora... (continua - fai il download dell'intero testo)

Chi oggi voglia esprimere un pensiero che renda il messaggio cristiano, incorre in una grande difficoltà. Non appena impiega le parole che da sempre hanno dato espressione a questo pensiero, nota che esse sono diventate inattendibili. Così come sono correnti nell'uso del nostro tempo, il loro senso si è fatto scolorito e inautentico. E' trapassato in ciò che ha dimensione culturale generale o che attiene al sentimento.
Anzi in più modi si è mutato... (continua - fai il downoload dell'intero testo)

Le festività della Chiesa certo rammentano fatti trascorsi, ma sono anche presente, attuazione viva; poiché ciò che è accaduto una volta nella storia, deve farsi continuamente evento nella vita del credente. Allora è venuto il Signore, per tutti; ma Egli deve venire sempre di nuovo per ciascuno. Ognuno di noi deve sperimentare l'attesa, ognuno l'arrivo, perché gliene nasca la salvezza.
Quando udiamo così tale notizia, forse ci viene il pensiero: quel che è importante nella vita, debbo essere io a trovarlo! Deve scaturi­re dal mio stesso impegnarmi e lottare. Così, anche la salvezza deve necessariamente essere cosa della mia serietà e del mio sforzo. Che significato deve avervi l'attendere Uno che viene da altrove?Ma non sarebbe un pensiero giusto. Certo - debbo di necessità volere ed eseguire io stesso, per quanto concerne ciò che mi è più proprio; tuttavia questo non sarebbe tutto e nemmeno la cosa decisiva.
Che cosa v'è di più importante per me che trovare un amico nella vita? Un amico… (continua - fai il download dell'intero testo)

(...) Non si impara tutto da soli, naturalmente. Bisogna passare attraverso qualcuno per raggiungere la parte più segreta di sé. Attraverso un amore, una parola o un viso. O attraverso un piccolo cavallo chiaro. Quando la lezione è terminata, il pomeriggio è appena cominciato. Altre lezioni iniziano, meno felici. I compiti per casa ancora da fare. E l’obbligo sfinente di sedersi davanti al pianoforte nero, come ogni giorno.Lascia il cavallo bianco con rimpianto. è l’eterna domanda di ogni volta, l’oscuro enigma: perché non restare qui. Visto che qui sono felice. Poiché accanto al cavallo bianco sono più vicina a me stessa. Perché allora andare avanti, continuare, perché dunque tutte quelle ore che mi allontanano da me stessa come da tutto.(...) (continua - fai il download dell'intero testo)

 

... L’agonia dell’orgoglio e della concupiscenza, non è la tua agonia, Signore! Tu non soffri per avere o per portar via: tu muori per guadagnarti il diritto di dare, d’amare l’inamabile.
Rivedo certe mie esperienze, se voglio capire qualche cosa.
Quand’è che più veramente soffrii? Allor che vidi perduto un guadagno o rintuzzata una mia ambizione? No; quando nessuno ha badato al mio amore che amava d’amare.
Chi accetta la vita come urto d’egoismi non può sottrarsi alla lotta. L’agonia in tal caso è legge; ci ha un suo gusto.
Chi invece la sente come devozione è portato a credere — la logica degli uomini tende a sopravvivere anche fuori del mondo degli uomini — che gli altri lo lasceranno fare, accogliendone il dono con lieto e grato volto.
Invece è più facile fare accettare il male che il bene.
Ecco lo scandalo: lo scandalo dell’amore.
L’Amore non è amato.
L’Amore non è capito.
L’Amore è calpestato.
(segue - fai il download dell'intero testo)

  ...  «Non vorrei essere impertinente, monsignore, ma mi sembra che stiamo suonando la cetra mentre Roma brucia». Il prete cercò di controllare il suo tono di voce, poiché si rendeva conto di quanto fosse difficile convincere un fanatico.
    «Che cosa mai vi fa pensare questo?». Come sempre, l’espressione del vescovo era benigna quanto quella di un qualsiasi vecchio che si senta perplesso.
    «I tempi, Monsignore. L’intero paese va in rovina perché i cristiani non hanno praticato la carità ed anche perché i sacerdoti non hanno saputo dare l’esempio. Oggi è la Spagna che crolla; domani potrà essere tutto il mondo». Le parole, che gli venivano così facili quando era solo, cominciarono a mancargli ora che si trovava in presenza del suo superiore. Sperando di ritrovare la sua eloquenza, distolse lo sguardo dal viso perplesso del vescovo, portandolo sulla fila di ritratti di vescovi defunti, incorniciati in oro, che ornavano la parete. C’erano tutti, con piviale, mitra e cappa magna, dal buono e saggio vescovo Ramon che aveva assistito alla benedizione dell’Invincibile Armada al buono e saggio vescovo Luis che aveva dovuto farsi fare un cuscino speciale sul trono a causa delle emorroidi di cui soffriva. Chissà se anch’essi avevano guardato soltanto gli alberi senza vedere la foresta e avevano scritto sciocche pastorali sul volume immorale delle crinoline e sulle impudiche prominenze dei corsetti? La successione apostolica ed il mandato della fede non erano i soli legati che il clero di una generazione eredita da quella precedente: vi erano anche gli errori e i compromessi, gli assurdi giudizi sulla sociologia e sull’arte. «Dopo tutto, Dio creò il corpo umano, Monsignore», concluse. «Anche quelle parti che non piacciono ai vescovi».
    «Avete dimenticato la caduta dell’uomo», rispose tranquillamente il vescovo. «L’immodestia del vestire femminile è causa di lussurie innominabili».
    «Se sono innominabili siamo noi che le abbiamo rese tali», ribatté il prete. «I modi di dispiacere a Dio in questo senso sono assai limitati e d’importanza minima in confronto ad altri». Infervorandosi, ogni imbarazzo l’abbandonò. «E non sono i vestiti che le donne si tolgono a destare la lussuria, bensì quelli che si mettono. La parte scoperta è così banale che può essere tollerata soltanto quando si ama colei che la mostra. Se dobbiamo veramente impicciarci di queste cose, cerchiamo almeno di avere le idee ben chiare».
    «La Chiesa di Dio è come una rete gettata nel mare», disse il vescovo.
Il prete si accorse con stupore che il vecchio non aveva capito una sola parola del suo discorso. O forse non aveva nemmeno ascoltato...
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(...) Quando la società si fa violenta, quando la politica si alimenta di questa violenza e a sua volta l’alimenta creando divisioni, esclusioni, inimicizie, ingiustizie, sopraffazione, e paura, davanti al mite due strade si aprono: perseverare nella mitezza lasciandosi sommergere dalla violenza, oppure contraddirla per il momento, combattendo contro i violenti, scendendo cioè sul loro stesso piano. La prima opzione è quella della speranza: la speranza nella Provvidenza divina che, alla fine di tutto, farà prevalere il bene sul male, o la speranza nella natura fondamentalmente buona degli esseri umani, una natura che lavora da sé per liberarsi delle scorie che la rendono cattiva. In entrambi i casi, la vittoria dei miti sarebbe assicurata, anche se non sappiamo quando, già su questa terra, secondo la promessa evangelica. Ma se non si ha questa speranza e la si considera un rifugio solo consolatorio? Allora anche i miti non disdegneranno di uscire dalla loro indole profonda e indossare quella dei loro nemici. Si tratta di combattere una buona battaglia che, nei risultati sperati, non contraddice affatto ma ribadisce la loro fedeltà alla mitezza. Quando ciò accadesse, quando ciò accadrà, bisognerebbe, bisognerà temere l’ira dei miti. (...)
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‘‘La messa antica era un monumento della fede, ma non provo nostalgia: solo pochi capivano’’
(...) A quei tempi la domenica era ancora «la domenica»: il week-end era parola e prassi sconosciuta, nessuno andava via per gite o viaggi, ma tutti dalla dispersione delle cascine in campagna e dai luoghi di lavoro cercavano di ritrovarsi, di incontrarsi per «fare due parole» e rinnovare così la conoscenza e l’amicizia. In chiesa entravano solo donne, ragazze e qualche raro anziano devoto e così iniziava la messa cantata con molta convinzione e fervore, anche se quella gente semplice di campagna non capiva né quello che cantava in latino né tanto meno quello che, sempre in latino, diceva il prete. Il prete, dopo alcune formule recitate ai piedi dell’altare, saliva gli scalini e cominciava a «dire messa», voltandosi solo per qualche «Dominus vobiscum», cui la gente rispondeva «et cum spiritu tuo», ma cosa dicesse il prete negli oremus o cosa leggesse dal messale nessuno lo sapeva o la capiva. Messalini per i fedeli a quell’epoca non ce n’erano, non li avevano nemmeno le suore: quelli famosi del Caronti o del Lefebvre erano merce rarissima e io, conoscendo bene il latino, ero uno dei pochi che poteva seguire ogni parola. Quanto al Vangelo, il prete lo leggeva dapprima in latino sull’altare, con le spalle girate al popolo, poi si voltava e, recatosi alla balaustra, lo leggeva in italiano per la gente: era quello l’unico testo che tutti capivano, seguito dalla predica in cui trovava spazio ogni genere di ammonizione ed esortazione, attinente più alla situazione e alle vicende locali che non al brano appena letto. Al momento dell’offertorio - ero chierichetto sempre presente - il prete mi mandava fuori sulla piazza a chiamare gli uomini perché entrassero a «prendere messa», altrimenti quella non sarebbe stata più «valida» per loro. Così, mentre le donne recitavano il rosario sottovoce e gli uomini continuavano a parlottare, la messa procedeva spedita, con il prete che bisbigliava tutte le formule. Solo al momento dell’elevazione il campanello avvertiva, svegliava e richiamava tutti: mentre il prete innalzava prima l’ostia poi il calice e si genufletteva, il silenzio si faceva totale e assoluto: chi chinava la testa, chi si metteva in ginocchio, tutti vivevano con grande timore il momento culminante di tutta la messa. Prima della comunione del prete - normalmente l’unico a comunicarsi durante la messa - gli uomini uscivano dalla chiesa e riprendevano i loro capannelli, mentre le donne intonavano canti pii e devoti. (fai il download dell'intero articolo)

dal romanzo "La pieve sull'argine" di don Primo Mazzolari
Attraverso l’atrio, che dà sul primo cortile del vescovado, ove due pavoni, nei giorni di gala, gareggiano con i monsignori, per un secondo breve cortile chiuso in alto da un lucernario si entra negli uffici di curia, un tempo appartamento della famiglia vescovile.
«Sedetevi, sedetevi, signor tenente».
La tentazione era invece di uscire, lasciandolo solo nella poltrona ove s’era buttato più che seduto, con un oh! che pareva uno sbadiglio. E poiché don Stefano rimaneva in piedi come se non avesse sentito e con tale silenzio che l’imbarazzava: «Dicevate che venite da parte di don Ferretti, missus dominici...». «No, monsignore. Ho visto don Ferretti, ieri, a Levico: ci siamo anche parlati a lungo, ma non ho nessun incarico da parte sua. Non gli ho neanche detto che venivo qui. Fu durante il viaggio che mi decisi».
«Ah... un’ispirazione! Le ispirazioni vengono dal Signore o...».
Non lo lasciò finire. «Non so donde venga la mia. Sento che presentare la tribolazione di un confratello a un proprio superiore e proporre... no, mi sbaglio, pregare che il superiore non chiuda la porta in faccia al figliuolo smarrito, e supplicarlo di fare un ultimo tentativo, non possa venire dal maligno».
«Il maligno, il maligno!», e si mise a ridere forte. «Noi di una volta, lo chiamiamo il diavolo. Il maligno!». E poiché l’altro s’era irrigidito davanti ad un’ironia che gli gelava il cuore: «Dite, giovanotto; cosa vuole quel vostro amico?».
«Nulla vuole. Siamo noi, sono io che oso pensare e suggerire che basterebbe...».
«Cosa basterebbe?».
«Un po’ di cuore, forse; un po’ di paternità, come per il prodigo».
«Il prodigo, il prodigo? Vi deve piacere assai questa parabola. Non dimenticate che c’è anche la parabola dei rami secchi, che vengono tagliati e messi a bruciare. C’è anche l’invitato senza veste nuziale e sapete la sua sorte... in tenebras exteriores, capite? Hanno visto un po’ di mondo, questi giovanotti e ne sono rimasti abbacinati. E pretendono che la chiesa si pieghi ai loro miraggi... (fai il download dell'intero capitolo)

«E adesso dov’è finita la donna per me? E’ assente dalla mia vita di consacrato? Quale tristezza sarebbe la mia! No, il celibato non giustifica l’assenza della donna, come il vivere solo non giustifica l’assenza dei fiori nel mio giardino e dell’acqua fresca nella mia fontana. No, non era ciò che Dio voleva da me; escludere dal mio amore metà del genere umano... La donna è tornata ad affacciarsi alla mia esistenza? E come poteva non essere se volevo essere Chiesa e vivere nella Chiesa? Come potevo escludere la metà del genere umano e come potevo accantonare la possibilità di un amore di tante sublimi creature? Perché devo ben dirlo, erano sublimi. Nelle parrocchie le più vivaci, nelle comunità le più fedeli, nell’evangelizzazione le più attente, nelle cordialità le più simpatiche, nel dono di sé le più generose. No, non potevo escluderle, non le ho escluse! Di più, le ho amate! Con loro era tutto più facile: la casa più ordinata, la voglia di lavorare più semplice, i rapporti più scorrevoli, l’unità più naturale, la gioia di vivere più grande. E’ un fatto! (...) Mi permetto ancora una confidenza. Quando ero ragazzo avvertivo una segreta compiacenza ad essere maschio. Ora non è più la stessa cosa... E per tanti motivi... Ve ne confesso uno solo che è nato nel più profondo del mio profondo: avverto che la donna è migliore di me. Nel cammino verso Dio, che è l’unica cosa che mi interessa, la sento sempre un piccolo passo avanti di me. Nell’umiltà più umile, nella pazienza più forte, nella carità più vera. Non sono geloso di natura, ma mi è facile vedere che Dio guarda la donna con predilezione e mi dice quasi sempre: «Vedi e impara...». Nel cammino verso Dio la donna è facilitata. Non per nulla le donne sono le più disponibili al problema religioso. E non è per la loro debolezza. E’ perché sono fatte meglio. E’ indiscutibile! E’ perché Dio , pensando alla creazione l’ha pensata al femminile. Come deve essere caro a Dio l’abbandono della donna nell’amore e nelle cose più grandi di lei! Come deve prediligere il suo silenzio, aperto a Colui che viene!». (fai il download dell'intero testo)

Il confronto con la morte che sta davanti a ogni uomo è onesto, sincero e perfino drammatico nel "Pensiero alla morte" di Paolo VI. Non si tratta di un monologo soggettivo. Esso è scritto in dialogo costante con Dio. In tale dialogo Paolo VI rivela tanti angoli riposti della sua anima e soprattutto il suo sguardo universale che corre al di là dei tempi e degli spazi della terra, verso l’eternità. Insieme rivela il suo immenso amore per la vita, la sua gratitudine, il suo desiderio di conoscere sempre di più questo mondo. (fai il download dell'intero testo)

Questa ovvia considerazione sulla precarietà della vita temporale e sull'avvicinarsi inevitabile e sempre più prossimo della sua fine si impone. Non è saggia la cecità davanti a tale immancabile sorte, davanti alla disastrosa rovina che porta con sé, davanti alla misteriosa metamorfosi che sta per compiersi nell'essere mio, davanti a ciò che si prepara. Vedo che la considerazione prevalente si fa estremamente personale: io, chi sono? che cosa resta di me? dove vado? e perciò estremamente morale: che cosa devo fare? quali sono le mie responsabilità? E vedo anche che rispetto alla vita presente è vano avere speranze; rispetto ad essa si hanno dei doveri e delle aspettative funzionali e momentanee; le speranze sono per l'al di là. E vedo che questa suprema considerazione non può svolgersi in un monologo soggettivo, nel solito dramma umano che al crescere della luce fa crescere l'oscurità del destino umano; deve svolgersi a dialogo con la Realtà divina, donde vengo e dove certamente vado; secondo la lucerna che Cristo ci pone in mano per il grande passaggio. (fai il download del testo completo)