Ai suoi amici il Signore dà il pane nel sonno

La gratitudine dei ministri della Chiesa alla fine dell'anno

di don Tonino Bello


Eccoci, Signore, davanti a te. Col fiato grosso, dopo aver tanto camminato.

Ma se ci sentiamo sfiniti, non è perché abbiamo percorso un lungo tragitto, o abbiamo coperto chi sa quali interminabili rettilinei. E' perché, purtroppo, molti passi li abbiamo consumati sulle viottole nostre, e non sulle tue; seguendo i tracciati involuti della nostra caparbietà faccendiera, e non le indicazioni della tua Parola; confidando sulla riuscita delle nostre estenuanti manovre, e non sui moduli semplici dell'abbandono fiducioso in te.

Forse mai, come in questo crepuscolo dell'anno, sentiamo nostre le parole di Pietro: "Abbiamo faticato tutta la notte, e non abbiamo preso nulla".

Ad ogni modo, vogliamo ringraziarti ugualmente. Perché, facendoci contemplare la povertà del raccolto, ci aiuti a capire che senza di te non possiamo far nulla. Ci agitiamo soltanto.

Grazie, perché obbligandoci a prendere atto dei nostri bilanci deficitari, ci fai comprendere che, se non sei tu che costruisci la casa, invano vi faticano i costruttori. E che, se tu non custodisci la città, invano veglia il custode. E che alzarsi di buon mattino, come facciamo noi, o andare tardi a riposare per assolvere ai mille impegni giornalieri, o mangiare pane di sudore, come ci succede ormai spesso, non è un investimento redditizio se ci manchi tu. Il Salmo 127, avvertendoci che, il pane, tu ai tuoi amici lo dai nel sonno, ci rivela la più incredibile legge economica, che lega il minimo sforzo al massimo rendimento.

Ma bisogna esserti amici. Bisogna godere della tua comunione. Bisogna vivere una vita interiore profonda. Se no, il nostro è solo un tragico sussulto di smanie operative, forse anche intelligenti, ma assolutamente sterili sul piano spirituale.

Grazie, Signore, perché, se ci fai sperimentare la povertà della mietitura e ci fai vivere con dolore il tempo delle vacche magre, tu dimostri di volerci veramente bene, poiché ci distogli dalle nostre presunzioni corrose dal tarlo dell'efficientismo, raffreni i nostri desideri di onnipotenza, e non ci esponi al ridicolo di fronte alla storia: anzi, di fronte alla cronaca.

Ma ci sono altri motivi, Signore, che, al termine dell'anno, esigono il nostro rendimento di grazie.

Grazie, perché ci conservi nel tuo amore. Perché ancora non ti è venuto il voltastomaco per i nostri peccati. Perché continui ad aver fiducia in noi, pur vedendo che tantissime altre persone ti darebbero forse ben diverse soddisfazioni.

Grazie, perché non solo ci sopporti, ma ci dai ad intendere che non sai fare a meno di noi.

Perché ci infondi il coraggio di celebrare i santi misteri, anche quando la coscienza della nostra miseria ci fa sentire delle nullità e ci fa sprofondare nella vergogna.

Grazie, perché ci sai mettere sulla bocca le parole giuste, anche quando il nostro cuore è lontano da te. Perché adoperi infinite tenerezze, preservandoci da impietosi rossori, e non facendoci mancare il rispetto dei fedeli, la comprensione dei collaboratori, la fiducia dei poveri.

Grazie, perché continui a custodirci gelosamente, anzi, a nasconderci, come fa la madre con i figli più discoli. Perché sei un amico veramente unico, e ti sei lasciato così sedurre dall'amore che ci porti, che non ti regge l'animo di smascherarci dinanzi alla gente, e non fai venir meno agli occhi degli uomini i motivi per i quali, nonostante tutto, continuiamo a essere reverendi.

Grazie, Signore, perché non finisci di scommettere su di noi. Perché non ci avvilisci per le nostre inettitudini. Perché, al tuo sguardo, non c'è bancarotta che tenga. Perché, a dispetto delle letture deficitarie delle nostre contabilità, non ci fai disperare. Anzi, ci metti nell'anima un così vivo desiderio di ricupero, che già vediamo il nuovo anno come spazio della Speranza e tempo propizio per sanare i nostri dissesti.

Spogliaci, Signore, d'ogni ombra di arroganza. Rivestici dei panni della misericordia e della dolcezza. Donaci un futuro gravido di grazia e di luce e di incontenibile amore per la vita. Aiutaci a spendere per te Tutto quello che abbiamo e che siamo.

E la Vergine tua madre ci intenerisca il cuore. Fino alle lacrime.

Mostrati, Signore

A tutti i cercatori del tuo volto, mostrati, Signore;

a tutti i pellegrini dell'assoluto, vieni incontro, Signore;

con quanti si mettono in cammino e non sanno dove andare,

cammina, Signore;

affiancati e cammina con tutti i disperati sulle strade di Emmaus;

e non offenderti se essi non sanno che sei tu ad andare con loro,

tu che li rendi inquieti e incendi i loro cuori;

non sanno che ti portano dentro:

con loro fermati poiché si fa sera e la notte è buia e lunga, Signore.


David Maria Turoldo
Betti no

di Massimo Gramellini

È giusto dedicare una via di Milano a Bettino Craxi nel decennale della morte? Proviamo a sollevare lo sguardo dalla rissa che si è di nuovo scatenata intorno allo scheletro per mere ragioni di bottega. Comunque la si pensi, il personaggio esce ingigantito dal paragone con i nani dell'attualità. Ma anche il riconoscimento più entusiasta delle sue qualità politiche non può passare sopra una considerazione semplicissima: si tratta di un uomo che morì in contumacia dopo che la magistratura, in nome del popolo italiano - cioè nostro - lo aveva dichiarato colpevole di corruzione.

Ora, uno Stato che non sia una barzelletta può rendere pubblico omaggio a un cittadino che lo stesso Stato aveva condannato in via definitiva al carcere? Per farlo dovrebbe negare alla magistratura che lo processò ogni legittimazione. Dovrebbe riconoscere che in quegli anni in Italia non esisteva un sistema di poteri condiviso dalla comunità, ma una guerra civile fra bande contrapposte che, dopo una vittoria iniziale dell'ala giacobina, portò a una restaurazione incarnata dal migliore amico di Craxi e osteggiata di continuo dai rigurgiti degli sconfitti. E' una visione dissociata della storia patria, e personalmente me ne dissocio. Poiché lo Stato è sempre lo stesso - il nostro - sia quando sugli altari sale il pool di Mani Pulite sia quando ci sale Berlusconi, riterrei più giusto lasciare la figura del politico Craxi al giudizio degli storici e dedicare una via di Milano alla poetessa incensurata Alda Merini.
In cammino... prendiamo il largo!

Donaci, Signore, il coraggio di lasciare gli ormeggi delle nostre sicurezze, delle nostre abitudini per iniziare a metterci in cammino. Non abbiamo da temere, Signore: getteremo le reti sulla Tua Parola. Fino ad ora vane sono state le fatiche, confidando sulle nostre sole forze. Ci chiami a metterci in cammino per seguire le Tue orme. Orme a volte stanche, ma sicure. Quieta i nostri cuori, perché possa venire la Tua Parola e possa illuminare i nostri passi. Dacci più fede, Signore, e il coraggio di saper osare anche quando tutto intorno a noi frena gli slanci dell'annuncio. Ti chiediamo, Signore, il tuo aiuto perché la Chiesa sia sempre in mare aperto e non in tranquille acque che danno sentore di morte. Ti ringraziamo di averci scelti e averci dato fiducia. Manda ancora, Signore, uomini e donne che abbandonano tutto per mettersi in cammino verso terre sconosciute. Molti versano il loro sangue sui passi dei lieti annunzi. Ti preghiamo per loro, Signore. Dà anche a noi lo stesso coraggio. Signore, compagno del nostro cammino, metti in noi l'impazienza per allungare il passo e raggiungere i solitari della strada. Rimettici in cammino, quando i nostri passi si fanno stanchi e ci trovi delusi ai bordi della strada per non aver pescato nulla. Continua ad essere il nostro buon Samaritano, versando l'olio della speranza. Nel nostro essere pellegrini, riempi ancora le bisacce col Pane del cammino e il Vino dei salvati. Accompagna i passi dei "pescatori di uomini" che hanno scelto di condividere il pane duro dei poveri della Terra. Infine, Signore nostro Dio, facci annunciatori di pace, là dove tutto parla di vendetta e di odio, di guerra e di violenza. Siano le nostre vite a parlare, sicuri che nulla è impossibile con Te e per Te.

A. M. Clemenza


Geniali i creatori di questa "serie" di episodi! Tutti da vedere: divertenti, fini, intelligenti!




Saper ascoltare gli altri, essere attenti silenziosamente,

esser loro presenti con lo sguardo attraverso un silenzio pieno di interesse e di attesa.

Saper ascoltare: vi assicuro che questo trasforma l'atmosfera rendendola fraterna.

Saper ascoltare è anche imparare a porre delle domande,

poiché questo è un modo per tradurre la nostra attenzione

ed il desiderio che è in noi di ascoltare.


J.A. Mortimer, Come parlare come ascoltare, 76-77

Signore Gesù, che dalla casa del Padre

sei venuto a piantare la tua tenda in mezzo a noi;

tu che sei nato nell'incertezza di un viaggio

ed hai percorso tutte le strade,

quella dell'esilio, quella dei pellegrinaggi, quella della predicazione:

strappami all'egoismo e dalla comodità, fa' di me un pellegrino.

Signore Gesù, che hai preso così spesso il sentiero della montagna

per trovare il silenzio e ritrovare il Padre;

per insegnare ai tuoi apostoli e proclamare le beatitudini;

per offrire il tuo sacrifìcio, inviare i tuoi apostoli e far ritorno al Padre:

attirami verso l'alto, fa' di me un pellegrino.

Devo ascoltare la tua parola, devo lasciarmi scuotere dal tuo amore.

A me, continuamente tentato di vivere tranquillo.

domandi di rischiare la vita, come Abramo, con un atto di fede;

a me, continuamente tentato di sistemarmi definitivamente,

chiedi di camminare nella speranza, verso di te,

cima più alta, nella gloria del Padre.

Signore, mi creasti per amore, per amare:

fa' ch'io cammini, ch'io salga, dalle vette, verso di te,

con tutta la mia vita, con tutti i miei fratelli, con tutto il creato

nell'audacia e nell'adorazione. Cosi sia.



Gratìen Volluz
Ora, è certo che un difetto della spiritualità cristiana sia stato quello di avere troppo spesso opposto ascolto e visione, e più radicalmente ancora, sensi e spirito [nota - La vita spirituale si è troppo nutrita di polarità presto divenute antitesi inconciliabili: interiore-esteriore, io interiore-io esteriore, sensibilità-interiorità, spirito-materia, ascolto-visione, corpo-anima... Il rischio è quello di arrivare a contrapporre e separare ciò che Dio ha unito, di non cogliere la complementarietà, l'intrinsecità, la fondamentale unità di quelle dimensioni, e di pervenire così a formulare spiritualità infedeli alla rivelazione biblica e anche nevrotiche e nevrotizzanti]. L'ascolto tende a inscrivere nel corpo, cioè nell'uomo intero e in tutte le sue relazioni, la parola divina. Questa è la logica dello Shema' Jisra'el (cf. Dt 6,4-9: i comandi di Dio devono stare non solo fissi nel cuore, ma anche legati alla mano, appesi come pendaglio fra gli occhi, scritti sugli stipiti delle porte, ripetuti ai figli, proclamati in casa e lungo la strada, al momento di coricarsi e al momento di alzarsi...), che si oppone a ogni separazione fra interiorità e sensibilità e che cerca di raggiungere l'uomo in quanto tale, nella sua corporeità come in tutti gli ambiti del suo vivere: familiare, sociale, politico. Rabbi Shneur Zalman di Ladi afferma: "Se la Torà è fissata nei duecentoquarantotto organi del tuo corpo, tu la custodirai; altrimenti la dimenticherai". Chi, infatti, si dedica alla Torà, afferma la tradizione ebraica, ne porta i segni nella sua persona: «Proprio come il fuoco lascia un segno sul corpo di chi opera con esso, così le parole della Torà lasciano un segno sul corpo di colui che opera con esse. Proprio come coloro che lavorano con il fuoco sono riconoscibili, così i discepoli dei saggi sono riconosciuti dal loro modo di camminare, dal loro modo di parlare e dal loro modo di vestire».

Il cristianesimo poi, con l'incarnazione, rivela che il corpo umano è il luogo più degno di dimora di Dio nel mondo e afferma la connivenza profonda tra il sensibile e lo spirituale, tra i sensi e lo spirito, tra il corpo dell'uomo e lo Spirito di Dio. Dio è narrato dall'umanità di Gesù di Nazaret. Così la rivelazione biblica non oppone visione e ascolto, ma si sforza di pensarli insieme (e nella Bibbia al comando di tendere l'orecchio si accompagna quello di alzare gli occhi), non mette in contrapposizione i sensi e lo spirito, ma afferma l'essenzialità dei sensi per l'esperienza spirituale. Di contro a questo troviamo nella tradizione cristiana, soprattutto nelle sue espressioni "mistiche", una spiritualità dell'interiorità che si oppone radicalmente al piano della sensibilità: secondo Giovanni della Croce, per giungere «all'unione perfetta con il Signore, per grazia e per amore», l'anima deve essere «nell'oscurità in rapporto a tutto ciò che l'occhio può vedere, l'udito ascoltare, l'immaginazione rappresentare e il cuore percepire». Perché invece non prendere sul serio quell'affermazione dell'"antropologia biblica unitaria" che rischia di ridursi a slogan tanto ripetuto quanto disatteso? Perché non pensare che fra interiorità e sensibilità non vi è opposizione, ma scambio e interazione in cui una dimensione prega l'altra di donarle ciò che non è capace di darsi da sé? E' attraverso i sensi che il mondo fa esperienza di noi ed è attraverso i sensi che noi facciamo esperienza del mondo. Possiamo dire che vi è un infinito mistero in ogni senso: nella vista, nel tatto, nell'olfatto, nel gusto, nell'udito. Mistero afferente all'alterità che dall'esteriorità e tramite i sensi giunge a noi, ci ferisce, ci inabita. I sensi hanno dunque a che fare con il senso: lì si cela la loro attitudine intrinsecamente spirituale. Afferma lo scrittore e cantautore francese Yves Simon: «Pensando al senso della vita io penso anzitutto ai sensi, perché mi sembra che il mondo lo si impari e lo si gusti in maniera tattile, sensoriale. Io amo essere in contatto con gli odori, con i colori, con i suoni; anche le parole hanno un impatto sensuale prima ancora di avere un senso ed è per questo che io amo metterle in canzoni». Noi entriamo nel senso della vita attraverso i sensi. Il senso del mondo non è estraneo ai sensi attraverso cui il mondo stesso viene colto ed esperito da noi: il significato di un fenomeno - ci dicono i fenomenologi - è inseparabile dall'accesso che vi conduce. Il corpo ci ricorda l'evento e la realtà "spiritualissima" per cui ciò che noi siamo sta nello spazio di una relazione, è dono. "Noi siamo dialogo", ci dice il nostro corpo. Il corpo è appello e chiamata, in esso è insita una parola, una vocazione. Il corpo è apertura allo spirito: nulla di ciò che è spirituale avviene se non nel corpo.

I Salmi sono la migliore espressione della preghiera della sensibilità. «Il fragile strumento della preghiera, l'arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all'anima, al contrario, perché l'anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di "mormorio", "sussurro". Il corpo è il luogo dell'anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. E il corpo stesso che prega: "Tutte le mie ossa diranno: chi è come te, Signore?" (Sal 35,10)».

Pregare, per il salmista, è anche dire il proprio corpo davanti a Dio. Pregare i Salmi, per noi, è anche fare memoria che la vita spirituale non è un'altra vita, ma questa vita, questa unica vita che è la nostra, questa vita del corpo che noi siamo, questa vita vissuta sulle tracce dell'umanità di Gesù che ci umanizza, che ci insegna a vivere (cf. Tt 2,12). Certo, i sensi devono essere risvegliati, destati, purificati, perché sono sempre a rischio d'idolatria: la vista dovrà sempre restare aperta all'invisibile, l'ascolto dovrà sempre stare al cospetto del non detto e dell'ineffabile... Anche l'ascolto, infatti, non solo lo sguardo, può divenire idolatrico: quando l'orecchio s'impadronisce della parola divina come di una parola che non chiama, ma conferma, che non interpella, ma garantisce, che non scuote e non mette in crisi, ma rassicura, che non pone in cammino, non fa uscire per un esodo, ma stabilizza e arresta, allora siamo di fronte a un ascolto idolatrico. Certo, la Scrittura e la tradizione cristiana ci parlano di sensi spirituali: occhi del cuore, orecchio del cuore, ma i sensi nella loro materialità sono ciò che ci mantiene aperti all'alterità mantenendoci aperti all'esteriorità. È attraverso l'esteriorità e l'alterità cui i sensi ci danno accesso che noi non ci rinchiudiamo in una spiritualità intimista, individualista e di mera interiorità. I sensi sono la via sensibile all'alterità. Essi possono chiudersi e intontirsi: la Bibbia (e Gesù stesso) parla di occhi che guardano ma non vedono, di orecchi che non ascoltano, di cuore indurito... Per svolgere la loro funzione spirituale, i sensi devono essere tenuti vivi attraverso l'attenzione e la vigilanza. Allora essi saranno la memoria del carattere spirituale del corpo e della santità della carne.

Luciano Manicardi, Il corpo, 45-51





Questa è la reale sub-cultura più diffusa in Italia. Sia da parte dei produttori, che dei fruitori, che dei finanziatori. E molti hanno interesse che resti così.



Farefuturo contro i film di Natale: «Basta, boicottiamo il cinepanettone»

Fondi pubblici per 1,5 milioni alla pellicola di Parenti - La fondazione di Fini attacca: il ministero chiarisca


(...) Inaspettatamente sul clima festoso delle pellicole che fanno cassetta - nei primi tre giorni di uscita, «Natale a Beverly Hills» ha fatto incassare 3 milioni 472 mila euro, come «Natale a Rio» nel 2008 - si abbattono gli strali della politica. Anzi del politically correct. La Fondazione Farefuturo attacca infatti l'ultimo prodotto da record di Neri Parenti: «Boicottiamo il cinepanettone».

Mentre a Roma e Milano le sale sono piene, Farefuturo affonda senza mezzi termini. Bocciando il film, afferma: «Non ci si può stare... Speriamo che qualcuno dalle parti del ministero della Cultura possa rivedere un po' le cose, o almeno provarci. Noi quest'anno, per protesta, il cinepanettone lo boicottiamo». Insomma, il ministero chiarisca perchè darà dei soldi al produttore per un film miliardario che non è certo un prodotto culturale. Nella sostanza, il web magazine della fondazione del presidente della Camera Gianfranco Fini critica la normativa in base alle quale film come «Natale a Beverly Hills», «avranno la possibilità di usufruire dei finanziamenti pubblici». Il tutto, sottolineano altri detrattori del genere cinematografico, «mentre il governo persevera in inauditi tagli al Fondo unico per lo spettacolo (Fus)». (...) Il cinepanettone è stato dichiarato ufficialmente "film d'essai", «e non per un qualche colpo di mano dei fan del supertrash o una resa incondizionata del fronte unito Critici & Castigamatti, ma per "merito" della legge italiana sul cinema». «(...) E' assurdo che la stessa pellicola benefici dei crediti d'imposta e degli aiuti fiscali e monetari pensati per sostenere gli esercenti più attenti e coraggiosi, quelli che, cioè, dovrebbero dare spazio ai film culturalmente più stimolanti». (...)

Già nei giorni scorsi l'agenzia Il Velino aveva sottolineato lo sconcerto di molti protagonisti della cultura davanti ai numeri dei finanziamenti pubblici al cinema. «Il produttore Aurelio De Laurentiis potrebbe ricevere fino a due milioni di contributi dallo Stato - scriveva il Velino alla vigilia di Natale - grazie al riconoscimento di “Natale a Beverly Hills” come film di interesse culturale. (...)


Luca Zanini

 

Nutrirci della Parola, per essere «servi della Parola» nell'impegno dell'evangelizzazione: questa è sicuramente una priorità per la Chiesa all'inizio del nuovo millennio. È ormai tramontata, anche nei Paesi di antica evangelizzazione, la situazione di una «società cristiana», che, pur tra le tante debolezze che sempre segnano l'umano, si rifaceva esplicitamente ai valori evangelici. Oggi si deve affrontare con coraggio una situazione che si fa sempre più varia e impegnativa, nel contesto della globalizzazione e del nuovo e mutevole intreccio di popoli e culture che la caratterizza. Ho tante volte ripetuto in questi anni l'appello della nuova evangelizzazione. Lo ribadisco ora, soprattutto per indicare che occorre riaccendere in noi lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall'ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste. Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale esclamava: «Guai a me se non predicassi il Vangelo!» (1 Cor 9,16). Questa passione non mancherà di suscitare nella Chiesa una nuova missionarietà, che non potrà essere demandata ad una porzione di «specialisti», ma dovrà coinvolgere la responsabilità di tutti i membri del Popolo di Dio. Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo. Occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno quotidiano delle comunità e dei gruppi cristiani. Ciò tuttavia avverrà nel rispetto dovuto al cammino sempre diversificato di ciascuna persona e nell'attenzione per le diverse culture in cui il messaggio cristiano deve essere calato, così che gli specifici valori di ogni popolo non siano rinnegati, ma purificati e portati alla loro pienezza. Il cristianesimo del terzo millennio dovrà rispondere sempre meglio a questa esigenza di inculturazione. Restando pienamente se stesso, nella totale fedeltà all'annuncio evangelico e alla tradizione ecclesiale, esso porterà anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato. Della bellezza di questo volto pluriforme della Chiesa abbiamo particolarmente goduto nell'Anno giubilare. È forse solo un inizio, un'icona appena abbozzata del futuro che lo Spirito di Dio ci prepara.

Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, n. 40,  6 gennaio 2001


Maternità, i nuovi tempi delle donne

Molte lavorano, per scelta, fino al termine della gravidanza. E vorrebbero una legge più flessibile

Fino all'ultimo respiro. E appuntamento. Con il pancione rotondo e l'agenda piena, sotto l'ala protettiva degli estrogeni e del progesterone, i compagni di viaggio delle mamme che scelgono di lavorare fino all'ottavo mese di gravidanza. (...)

Le lavoratrici col pancione, sempre più numerose, sono dappertutto. In politica, in tv, negli uffici, sedute alla scrivania accanto alla vostra. Sono le libere professioniste (17,5%), le dirigenti, le imprenditrici e le donne che lavorano in proprio (30,3%) le future mamme che, forti di un certificato medico di buona salute, scelgono di rimanere nel mondo del lavoro fino all'ottavo mese, grazie alla flessibilità della legge sulla maternità obbligatoria (...). Il 46% delle operaie interrompe il lavoro entro il quinto mese, ed è naturale che sulle statistiche incidano la pesantezza delle mansioni e i maggiori rischi per madre e feto. Ma ad essere cambiati favorendo la scelta di libertà della flessibilità, in generale, sono il ruolo delle donne nella società e la loro percezione di se stesse.

«Quarant'anni fa eravamo meno istruite e facevamo mestieri infinitamente meno gratificanti




Coralità della vita

Da due anni sono Cappellano militare; ma d'onde viene alla mia vita spirituale questo senso tutto nuovo e originale di pienezza, di dilatazione e di gioia, ordinata e virile che erompe dalle mie profondità, anche nelle inevitabili angustie dell'ora e tra gli spettacoli più angosciosi della guerra? Perché altri Cappellani hanno confessato, come me, che la vita militare ha segnato una generosa rinnovazione del loro sacerdozio?

Sta bene: le Messe al Campo nude e solenni, le Comunioni folte e devote dei soldati, sotto la volta chiara dei cieli mattutini, la predicazione alla truppa - e i soldati ti succhian le parole dalle labbra, come i bimbi al seno della mamma - l'accostamento vasto e avventuroso dei lontani; ma siamo sempre nella zona esterna e sentimentale del fenomeno, perché queste forme, se togli la cornice drammatica, della guerra e delle armi, sono più o meno comuni anche al ministero sacerdotale del tempo di pace. E infine riguardano sempre l'apostolato, cioè gli altri.

Qui invece si tratta di un fatto strettamente personale, di una realtà interiore mai prima d'ora sperimentata, di una nuova e felice dimensione dello spirito che riguarda la mia personalità e quella soltanto.

Qualche cosa che nasce dalla immissione profonda dell'individuo nella massa, dalla consustanzialità dell'uomo con la tragedia del suo tempo e della stretta consanguineità con quelli che ne sono i protagonisti più diretti: i combattenti.

È il sentirsi efficacemente e sperimentalmente irradiati nella storia, fatti carne e sangue con la propria gente, attori di primo piano in questo dramma immane che dà allo spirito questa pienezza vitale, questa socialità gioiosa e questa coralità immensa.

La vita ordinaria del Sacerdote può nascondere l'ambigua e difficile tentazione di segregarsi dalla massa, nell'intento di elevarsi, può creare lentamente diaframmi opachi tra lui e il popolo, e stabilire alla fine, negli spiriti meno vigili e meno vasti, uno stato di "splendido isolamento". Ma questo vivere sotto una stessa divisa che tutti accomuna nella stessa dura sorte, questo mangiare lo stesso pane (come è bello, in linea, quando arriva la spesa, mettersi in fila con gli altri per ricevere la razione!), questo dormire uno accanto agli altri, distesi per terra, nell'uguaglianza macerante della stanchezza e del sonno, questo marciare incorporati nel Battaglione, polverosi come gli altri, col sacco in spalla come tutti, cantando a piena voce le canzoni alpine, dà il senso vivo di una comunione così intima e così eroica, che ogni cosa, anche la più umile e ordinaria, si trasfigura nello spirito all'altezza e alla solennità di un rito e di un sacerdozio nuovo.

Due volte questa sensazione corale mi balenò con un'evidenza così luminosa e così prepotente da sobbalzarne come per un'improvvisa folgorazione interiore. La notte che mi svegliai di soprassalto ai bordi della strada sassosa (erano i giorni dell'avanzata in Grecia e all'alt eravamo piombati a terra come sacchi vuoti) e vidi dilungarsi nella luce fredda e lattiginosa dell'alba la fila dei corpi abbattuti pesantemente nel sonno, come una lunga catena di cui mi sentivo vivo e piccolo anello, e provai accanto a me il tepore umano e il respiro grave dei compagni che mi pressavano da ogni parte. E l'altra volta quando mi trovai copiosamente invaso da quei parassiti che i combattenti di tutte le guerre conoscono e che gli alpini chiamano "carri armati". Ne rimasi dapprima sorpreso e quasi avvilito; ma poi sentii scaturire dal profondo un impetuoso sentimento di allegrezza, di vitalità e di fierezza. Per la prima volta, mi parve comprendere - se è permesso - la sublime e oscura follia di san Benedetto Labre che andava levando ai suoi poveri questi ospiti indesiderati, per potersene riempire.

Se non temessi di forzare il significato delle cose, direi che, in questo sentimento, vi è un po' di quella compiacenza e intenzione per la quale il Cristo amava insistentemente chiamarsi "Figliuol dell'Uomo" o almeno l'eco della fierezza paolina per la quale poteva dire ai suoi connazionali: se voi siete ebrei, anch'io lo sono.

E il soldato domanda, esige dal Cappellano questa compartecipazione di vita. Quando, una volta, cedendo alla stanchezza, salii per una tappa sull'autocarretta - e nessuno dei competenti mi invidierà certamente questo mezzo di trasporto - i miei alpini non me lo perdonarono tanto presto. Ci volle un congruo periodo di "buona condotta" perché mi fosse dimenticato l'appellativo di... "Cappellano autocarrato".

Quando invece riesco a dividere pienamente la mia vita con gli alpini, allora, uscendo dai ranghi per la Messa al Campo, mi pare di gustare e attuare come non mai la pienezza e la verità saporosa della definizione paolina: «Il Sacerdote è scelto di mezzo agli uomini e per gli uomini è posto a trattare le cose di Dio». E se non m'illudo, mi pare di cogliere sul volto maschio della mia gente un tenue sorriso di soddisfazione e di fierezza.

Come se uno di loro fosse scelto, per tutti, a salire l'altare e offrire il sacrificio di tutti al Dio onnipotente.

don Carlo Gnocchi, Cristo con gli alpini, 99-101


Lo stato paradisiaco è vicino

e gli animali selvaggi sentono nel sapiente o nel santo

il profumo di Adamo prima della caduta

e gli vanno vicino in pace.



Isacco il Siro, Trattato ascetico, 20
Riassunto dell'intruso

L'anno in cui sua madre lo partorì non era santo. I suoi, gli ebrei, avevano per legge di consacrare un anno ogni sette lasciando in pace il suolo. Il suo anno di nascita non apparteneva al ciclo dei sabbatici, al rituale imposto dal verbo shabbàt, cessare.

Non nacque in un momento di allegria, ma durante un viaggio, uno spostamento forzato. Il suo popolo amava i pellegrinaggi e si metteva in cammino volentieri per onorare qualche festività, Pasqua o altre, in Gerusalemme. Ma lui non nacque in un pellegrinaggio. I suoi si spostavano per un dovere triste e insidioso: obbedire a un censimento. Oggi noi siamo abituati a essere contati, iscritti e arruolati in elenchi, a disporre di molti contrassegni numerici. Alcuni di noi stimano giusto, cosi per scrupolo di conoscenza, rilevare anche le impronte digitali di donne e uomini arrivati a noi da fughe senza fine. Perciò da moderni non possiamo intendere la paura degli ebrei di allora, e la rovina che avevano già sperimentato quando un loro re aveva osato contare il popolo presso il quale Dio aveva piantato prima una tenda, poi un tempio. Quel re ottenne cifre sbagliate e subì il castigo di un'epidemia. Gli ebrei erano dunque già stati messi in guardia contro l'arroganza di dare un numero agli esseri umani. Quando nacque, il suo popolo era suddito della potenza militare romana e doveva perciò sottoporsi alla conta imposta dai conquistatori, come capi di bestiame. Non venivano marchiati, questo no, per sigillo sopra di loro bastava l'aquila romana conficcata sui loro luoghi sacri.

I suoi genitori erano in viaggio verso sud, andavano in Giudea a tappe forzate. Non erano ammesse eccezioni, anche una donna assai avanti nella gravidanza doveva raggiungere il suo luogo di conta, incolonnata insieme a tutti gli altri. Così partirono da Nazaret in due e a Betlemme diventarono tre. Era nato. Sua madre aveva avuto le contrazioni proprio lì, i suoi muscoli espulsori obbedirono a un luogo predisposto e prescritto: a Betlemme di Giuda è tenuto a nascere il Messia, il più aspettato intruso del mondo. Non era sabbatico quell'anno, non di pellegrinaggio era il viaggio dei suoi genitori.

Nacque sotto la coda e l'auspicio di una cometa, non un segno di buona fortuna secondo le credenze e le superstizioni antiche. Oggi sui presepi si appunta a medaglia la stellina con lo strascico d'oro a conforto della notte, ma allora la cometa fu uno spietato riflettore che denunciava luogo e avvenimento. Scrive Matteo che tre stranieri vennero da altro oriente per registrare il prodigio già annunciato dai loro calcoli, portando offerte solenni degne di una nascita di re. Il re in carica, Erode, se ne risentì, ebbe timore di un'usurpazione. Comandò una strage di bambini, tra due anni e zero, in Betlemme e in tutto il territorio circostante. Fu una misura estrema e inefficace: è dimostrato, da Mosè in poi, che ne scampa sempre uno, quello giusto, che è un riassunto di tutti gli altri uccisi. Chi si trova a essere resto di innumerevoli assenti assume e contiene le energie di quelle vite impedite. Fare miracoli allora è solo un piccolo risarcimento.

Un angelo avvertì in sogno suo padre dell'agguato, così fuggirono di notte senza aspettare l'alba e questo spiega perché Giuseppe non avvertì nessuno del sogno e del pericolo. Non spiega perché l'angelo non visitò anche qualche altro padre: aveva l'autonomia di volo di un sogno solamente? E perché un angelo solo? E vano bussare a spiegazioni, se non sono state scritte. Doveva svolgersi uno dei molti massacri di bambini. Oggi pure ne avvengono, tra gli scugnizzi di strada dell'America del sud, tra le neonate delle campagne cinesi, tra i piccoli rapiti da orchi e da chirurghi clandestini che espiantano e trapiantano organi. Oggi siamo più tranquilli: sappiamo perché avvengono. Ma nel racconto di Matteo si agita in un lettore il dubbio sull'onnipotenza di chi non mandò a salvare nessun bambino oltre quel suo Messia.

Così nacque e fu vivo grazie al solo prodigio di cui non fu lui stesso autore. Per tutta la vita, poca, cercò di pareggiare il conto di quell'ingiustizia, fino a farsi appiccare sopra l'osceno patibolo romano che esponeva la morte in alto, in vista, a manifesto. Non avrebbero potuto mai immaginare, quei conquistatori, che razza di icona stavano montando sopra il Gòlgota: avrebbero preteso l'esclusiva sui diritti di riproduzione.

Per tutta la vita, poca, fu abitato da una folla di bambini mancati, dal dolore delle loro madri. Così potè sopportare quello della sua ai piedi della croce.

Molti dei suoi prodigi erano scherzi di bambini che giocavano a fare i dottori, a salvare la natura curando d'improvviso lebbra e storpiature. Erano miracoli, ma non colossali, non inceppò la macchina del cielo come Giosuè, che fermò il sole in Gabaòn e la luna sulla valle di Aialòn. Non aprì le acque come Mosè, però ci camminò sopra senza bagnarsi. Non creò il frutto della vite, ma seppe provvedere, in una festa, a vendemmiare vino dall'acqua. Non creò il sole, il fuoco, né luna, né stelle già create, ma diede vista ai ciechi e questo è un modo di inventare luce.

Non ebbe figli, non procurò una sua discendenza, ma litigò con sua sorella morte e le strappò di mano un corpo già in sepolcro, riportandolo indietro a rivivere, certo, ma anche a rimorire. Fu battezzato in acqua dolce, amò la pesca, frequentò pescatori, ne riempì le reti, placò le ondate di una tempesta sul lago di Tiberiade, che i suoi chiamano Mare di Cetra. Delle scritture sacre preferì Isaia; di Davide gustò più i salmi che le imprese. Discendeva da lui, così vuole la legge del Messia. Nella sua linea di antenati c'era una genitrice cananea, Tamàr, e una moabita, Rut, perché il Messia è meticcio, non un purosangue.

Chiese all'offeso di esporre l'altra guancia, mettendo l'offensore al rischio del ridicolo, ma pure stabilendo un termine alla prova: in numero di due, non più, sono le guance. Non scrisse, non dettò, le sue parole facevano il viaggio delle api sopra i petali aperti delle orecchie. Salvò una donna dalla condanna di lapidazione chiedendo ai suoi accusatori che il primo di loro, se puro da peccati, si facesse avanti con la prima pietra. Sapeva che gli uomini tirano volentieri le seconde. Diverse donne lo seguivano di luogo in luogo alla pari degli apostoli. Non pretese astinenza, il celibato venne dopo, a chiese fatte.

Sudò sangue, morì con tutto il corpo resistendo alla morte con nervi, fiato, febbre, piaghe e mosche intorno all'agonia. Risuscitò per intero, carne, ossa e promessa di essere solo il primo dei destinati alla risurrezione.

Nascesse oggi, sarebbe in una barca di immigrati, gettato a mare insieme alla madre in vista della costa di Puglia o di Calabria. Forse continua a nascere così, senza sopravvivere e il venticinque dicembre è solo il più celebre dei suoi compleanni. Dopo di lui il tempo si è ridotto a un frattempo, a una parentesi di veglia tra la sua morte e la sua rivenuta. Dopo di lui nessuno è residente, ma tutti ospiti in attesa di un visto. Siamo noi, pasciuti di occidente, la colonna di stranieri in fila fuori all'ultimo sportello.

Erri De Luca, Nocciolo d'oliva, 15-21

L'esperienza di Gesù, irriducibile ai volumi dottrinali del sapere e alla potenza efficace del fare che vengono da Dio, è il luogo di una decisiva educazione sentimentale di Dio, per quanto attiene la sfera del modo in cui è vissuto dall'essere umano presso di sé in quanto uomo e donna. Dio conosce ogni cosa. E "sa ciò di cui avete bisogno". Conosce tutte le ragioni possibili dell'incredulità e della paura. Ma la sua decisione è proprio quella di non stabilire la sua relazione con l'uomo sul puro fondamento di questa sapienza; di non comprenderlo semplicemente dall'interno della sua esperienza di sé.

Pierangelo Sequeri, Il timore di Dio, 145




All'inizio del nuovo anno, dall'1 all'8 gennaio, parteciperò ad un pellegrinaggio in Terra Santa.

E' sempre un'esperienza spirituale ricchissima e anche questa volta vorrei portare nel mio cuore tante persone che conosco... e anche tanti di quelli che non conosco personalmente.

Questa per me è la quarta volta che torno nella terra di Gesù, ed è la prima da quando ho un sito-blog. Ho pensato quindi di estendere ai quattrocento visitatori quotidiani l'invito a farmi presenti i nomi e/o particolari intenzioni di preghiera da presentare al Signore nei luoghi santi.

E' sempre possibile mandarmi una mail al mio contatto sul sito; però trovo bello che gli altri naviganti possano accodarsi alle intenzioni di qualcuno (pochi o tanti che siano), quindi consiglio di aggiungere qui sotto un commento-intenzione personale (magari solo il nome).

Raccoglierò il tutto entro la mattina del 1 gennaio; poi non so se riuscirò ad accedere al sito durante il pellegrinaggio (e probabilmente è meglio staccare!).

Grazie a tutti coloro che si uniranno a questa idea; a tutti gli altri la richiesta di un sincero ricordo nelle loro preghiere.


don Chisciotte



 

Certamente non condivido metodo e merito di questo articolo de "Il Giornale".

Soprattutto trovo ingiusto (da una parte e dall'altra) questo chiudere gli occhi e aprire la bocca

per interesse, solo per interesse.

Tant'è vero che - se capitasse sotto un governo avversario -

se ne direbbero peste e corna.

Lo trovo inoltre offensivo verso chi ieri ha sofferto per il traffico.





Angelo Branduardi - Natale

dall'album Cercando l'oro (1983)

Verrà il giorno in cui lui ritornerà fermandosi alla tua porta. Come un tempo i gradini salirà sicuro di essere atteso. Tu cosa dirai, quando lui entrerà, cercando tra gli altri il tuo volto? Paura avrai, quando ti guarderà, che possa trovarti cambiata. Sorridi ora, aprimi ora la porta, ancora sarà Natale, vedi che sono tornato. E ridi ora, aprimi ora la porta, con me tu riderai, ora che sono tornato. Polvere e vento con sé lui porterà... profumo di terre lontane. Lui che ha visto i paesi e le città che tu hai soltanto sognato, chissà oltre il mare quante cose ha lasciato... E tu che hai soltanto aspettato dall'ombra uscirai, spiando il suo volto, stupita nel primo vederlo. Sorridi ora, aprimi ora la porta, ancora sarà Natale, vedi che sono tornato. E ridi ora, aprimi ora la porta, con me tu riderai, ora che sono tornato.

 

L'idea di questo pezzo è buona, ma - secondo i miei gusti - si ammanta troppo di religiosità "nazional-popolare" e di "buoni propositi" buonisti, tirati fuori nei giorni di Natale. Comunque ho voluto pubblicarlo, sperando che il lettore attento abbia dei robusti anticorpi alla demagogia.

Il Natale e l'obbligo della felicità

di Claudio Magris

A Lima, negli ultimi anni, durante la settimana di Natale la percentuale dei suicidi aumenta del 35%. Le ragioni


Un pensiero affettuoso per tutti coloro che sono bloccati in strada a causa delle neve...

da noi che siamo fortunati ad abitare e lavorare (per lo più) nello stesso luogo!



L'Imbarazzato

di Massimo Gramellini

Salve, faccio parte della tribù quasi estinta degli Imbarazzati. Il tipico asociale che sul treno, appena il telefono comincia a vibrare, si alza di scatto ed esce in corridoio a biascicar parole a mezz'asta. Poi rientro nello scompartimento per ascoltare le conversazioni degli altri. Conversazioni squillanti e istruttive, concluse dalla nuova formula di congedo vagamente cinese: «cia-ciao». Apprendo dalla viva voce della signora accanto al finestrino che sua figlia è stata respinta a un esame per aver copiato il compito sbagliato: succede. Apprendo dalla vicina di posto che sua sorella ha problemi di dissenteria, e la cosa mi addolora, anche perché starei mangiando un panino. Apprendo che la moglie del mio dirimpettaio si è scordata di fare la spesa e la grave mancanza innesca un litigio coniugale sui massimi sistemi, tale da comportare una interruzione momentanea delle comunicazioni. Lei richiama, lui lascia trillare a lungo (ha la suoneria dei «tre piccoli porcellin», lo giuro) e infine risponde. Pace fatta, per la soddisfazione di tutti i passeggeri. Il mio telefono torna proditoriamente a vibrare e scappo in corridoio. «Perché va fuori a parlare?», commentano alle mie spalle. «Non vorrà che ascoltiamo quel che dice».

Sì, lo ammetto, anche quello. Però non solo quello. C'è il timore di infastidire il prossimo e - si potrà dire? - un po' di vergogna: cascami di maleducazione familiare che purtroppo trent'anni di tv-verità non sono ancora riusciti a debellare. Questo vorrei rispondere al signore dei tre piccoli porcellin. Ma quando rientro nello scompartimento sta urlando al telefono.
Ogni giorno ha il suo video

di Marco Belpoliti

Viviamo nella videocrazia totale, sotto il dominio pieno e incontrollato dei mezzi di riproduzione visiva e sonora. Un presidente del Consiglio registrato nella sua camera da letto con un cellulare, un killer che è colto in flagrante delitto da una telecamera, un viado che archivia nel computer gli incontri intimi, le maestre dell'asilo colte in flagrante con un videoriproduttore, la terza carica dello Stato registrata da una telecamera e da un microfono. Nessuno sfugge alla sorveglianza continua dei registratori audio e video, nemmeno i potenti, quelli che un tempo erano connotati dalla distanza, dall'invisibilità, dall'assenza. Il potere come lontananza si è dissolto nella prossimità assoluta del vedere e del far vedere. Tutto è cominciato a metà degli Anni Sessanta quando la diffusione delle macchine fotografiche e dei registratori ha immerso le società occidentali in un vortice d'immagini e di risonanze; allora le piccole fotocamere, i registratori portatili, le cineprese, hanno iniziato a registrare la vita privata di molti, se non proprio di tutti. Come ha notato Christopher Lasch la stessa cultura del narcisismo si è fondata sulla procedura della registrazione, poiché, non solo gli strumenti visivi e sonori a disposizione del grande pubblico trascrivono l'esperienza, ma ne hanno alterato la qualità stessa, «dando a gran parte della vita moderna l'apparenza di un'immensa camera dell'eco, di una sala degli specchi».

Da almeno cinquant'anni tutti noi siamo inquadrati, lo sappiamo, e perciò guardiamo in camera sorridendo: Smile! Gli occhi artificiali di cineprese, macchine fotografiche, telecamere, cellulari, non ci colgono più impreparati. Il sorriso è sempre stampato sul nostro viso, e tutti conoscono oramai in modo certo l'angolatura che mette in luce il proprio lato migliore. L'accentuazione dell'elemento visivo, poi, ha fatto emergere l'autoesame di sé che secondo Lasch produce il narcisismo di massa, un evento che, mentre accentuava le prerogative degli individui, al tempo stesso li dissolveva in una serie successiva d'immagini. Grazie ai video dei nostri riproduttori tascabili, la nostra vita somiglia sempre più a quella di simulacri: le nostre immagini ci hanno sostituito, così che il problema diventa quello di somigliare a esse, e non più viceversa, verificare che le immagini ci somiglino.

Quando non ci saremo più quelle registrazioni esisteranno ancora, archiviate per sempre, in una sorta di limbo virtuale dove l'eternità somiglierà sempre più al quarto d'ora di notorietà evocato da Andy Warhol. Del resto, l'artista americano è il vero profeta del XXI secolo; lui ha dimostrato con film che durano ore e ore, registrando i minimi spostamenti di un uomo che dorme o la facciata atona di un grattacielo di New York, che ogni immagine è insignificante in sé e al tempo stesso ha un valore assoluto. Si tratta di quella «immanenza delle immagini» di cui parla Jean Baudrillard a proposito dell'opera dell'illustratore di Pittsburgh: inespressività meticolosa e volontà di insignificanza, che poi è la versione contemporanea dell'antica volontà di potenza. L'implacabile democrazia delle immagini, in cui siamo immersi, fa sì che il video di un efferato delitto e quello del compleanno di nostro figlio saranno in un futuro non troppo lontano perfettamente intercambiabili, poiché non avranno bisogno di alcun giudizio, di nessun supplemento emotivo: le immagini, simulacri di noi stessi, saranno e basta, al di là del bene e del male. Nel mondo delle immagini riprodotte senza fine, e senza giudizio morale, vale l'aforisma: «Il Niente è perfetto poiché non si oppone a Niente».





Akuaduulza akuaduulza ma de un duulz che nissoen el voe beev

Acqua stràca e acqua sgunfia sciùscia i remuj e i gaamb di fiulìtt

L'abito fa il monaco

Spesso le apparenze non ingannano per nulla. Anzi, il «look» è un indicatore prezioso dei tratti caratteriali

Si può giudicare la personalità di uno sconosciuto già dall'apparenza fisica? Sì, secondo alcuni ricercatori americani che hanno pubblicato uno studio sul Personality and Social Psychology Bulletin. Gli psicologi hanno mostrato le foto di persone sconosciute a un gruppo di un centinaio di volontari, i quali sono stati in grado di cogliere vari aspetti della personalità delle persone ritratte, a cominciare dal grado di autostima, dall'estroversione e dalla religione. I volontari sono stati ritratti due volte, una in una posizione standard e inespressiva e l'altra in una posizione più spontanea e autentica. Successivamente a ogni volontario è stato chiesto di descrivere la propria personalità facendo riferimento a dieci tratti caratteriali. A questo punto l'autoritratto di ogni intervistato è stato integrato con il parere che gli altri ne davano basandosi sulla fotografia, riscontrando una sostanziale coincidenza tra il giudizio che ognuno dava di sè stesso e il giudizio altrui rispetto alla foto.

Nel caso delle foto spontanee il grado di attendibilità e di precisione nel giudizio è risultato inoltre ancor più elevato delle fotografie standard. Insomma, una foto autentica può rivelare a un attento osservatore moltissimo della personalità, dei gusti e persino delle inclinazioni ideologiche e religiose. E persino uno scatto un po' ingessato è in grado di dirci qualcosa dell'essenza degli individui. Questo non significa, precisano gli autori, che l'apparenza sia più importante della sostanza. La ricerca semmai sottolinea come «l'abito» sia spesso un modo attraverso cui si incanala e si rivela il carattere. Scrivono gli autori Laura P. Naumann, Simine Vazire, Peter J. Rentfrow e Samuel D. Gosling: «L'aspetto fisico è un modo attraverso cui la personalità si manifesta». Talvolta addirittura accade che l'aspetto fisico suggerisca in qualche modo un ruolo sociale e negarne l'impatto e l'importanza sarebbe sbagliato. Giusto dunque guardare anche all'apparenza, senza dimenticare però che esistono casi di «mimetismo caratteriale» che possono depistare. Ricordate Woody Allen in Zelig?

Emanuela Di Pasqua

Il saluto al Cavaliere

Uomo, non santo


Carissimo Silvio, ora Te ne vai riaggiustato dal San Raffaele! E che Dio sia ringraziato! Te ne vai più ricco, perché hai versato un po' del Tuo sangue per questo nostro Paese. Già avevi lavorato tanto e sofferto incomprensioni e umiliazioni. Tutto per fare il bene e distruggere il male! Così il buon Dio ha disposto perfino nel suo Figlio Gesù. Ti accompagni questa fierezza: le Tue fatiche, il Tuo entusiasmo, la Tua intelligenza, il Tuo sangue di uomo vero! Ho detto di uomo, non di santo.

don Luigi Verzè

Corriere della Sera, 18.12.09 - p.6
Natale: papa ingloba abete nella tradizione cattolica

di Giacomo Galeazzi

L'albero di Natale è un simbolo del cattolicesimo, anzi è il paradigma della vita dell'uomo che, illuminato dalla fede, porta tantissimi doni al mondo: lo ha sancito oggi Benedetto XVI, spiegando che "l'abete posto accanto al presepe mostra a suo modo la presenza del grande mistero nel luogo semplice e povero di Betlemme".Considerato una tradizione pagana e luterana, per secoli l'abete natalizio è stato tenuto lontano dallo Stato del Vaticano, dove era possibile ammirare solo il cattolicissimo presepe; ora invece risplende al lato dell'obelisco. "Nella foresta, gli alberi stanno vicini gli uni agli altri e ognuno di essi contribuisce a fare della foresta un luogo ombreggiato, a volte oscuro. L'abete, scelto tra una moltitudine e ricoperto di decorazioni sfavillanti... lasciando il suo abito scuro diviene il portatore di una voce che non è la sua ma che rende testimonianza alla vera Luce che viene in questo mondo", ha detto stamane papa Ratzinger di fronte a una delegazione della Vallonia - una delle regioni più verdi del Belgio e di tutta l'Europa - che ha donato alla Santa Sede l'albero di piazza San Pietro. Qualche ora dopo, all'imbrunire, il papa ha acceso con un pulsante dal suo appartamento il picea abies alto circa 30 metri e con un diametro di 7 portato fin qui dalla Foresta delle Ardenne e destinato comunque ad essere abbattuto per il diradamento, cioé per permettere la sopravvivenza delle piante vicine. Una scelta rispettosa della natura, in linea con la sensibilità ecologica di Benedetto XVI, ma anche di una tradizione antica riscoperta dal suo predecessore Giovanni Paolo II, molto legato all'albero di Natale, caro al suo Paese. Giovanni Paolo II riteneva che "l'abete sempre verde esalta il valore della vita, perché nella stagione invernale diviene segno della vita che non muore". A differenza del presepe, inventato secondo la tradizione da uno dei santi più amati dai cattolici, S. Francesco d'Assisi, l'albero ha infatti origini pagane: i sempre verdi erano considerati simboli della vita eterna, e addirittura dotati di una valenza magica, dagli antichi egizi come dai cinesi. Nel Medioevo venivano collocati all'interno o all'ingresso delle case europee per dare il benvenuto alla bella stagione. Più tardi, l'abete decorato entrò come simbolo religioso nelle case europee: una leggenda vuole che sia stato il padre del protestantesimo, Martin Lutero, a iniziare intorno al 1500 la tradizione dell'albero di Natale: la notte della Vigilia, stava camminando tra alberi ricoperti di neve, quando un rametto verde gli cadde addosso, scintillando tra i raggi di luna. Tornato a casa, Lutero ebbe l'idea di celebrare la nascita di Gesù illuminando un piccolo abete con alcune candele.
Ma per noi non si tratta semplicemente di sogni.

O se proprio si vuole, dei sogni di Dio, più lucidi di qualsiasi veglia.

Olivier Clément, Occhio di fuoco, 62

Io abito in questo posto. E ieri sera mi gustavo questa sensazione.






Vocazioni in crisi, un'idea estrema

di Giorgio Grigolli

Quelli del card. Martini non li considero quesiti accademici. Sorprende, semmai, che spesso rimangano là, a fare testimonianza solitaria. Ultimamente, sul «Corriere», ha alimentato il suo dialogo con i lettori, inserendo in rubrica un quesito penetrante, tra interrogativi di mondo attuale. Così superbo, sofferto, contraddittorio. Ha scritto che la Chiesa farebbe bene a «interrogarsi sulla sua grave situazione in Occidente», quanto a vocazioni: tra le altre cose, «anche una revisione delle norme di accesso al ministero potrebbe aiutare in questo senso». E' un tema che il cardinale ha rilanciato di recente in «Conversazioni notturne a Gerusalemme» e in «Siamo tutti sulla stessa barca», scritto con don Verzè: il celibato è «un grande valore e segno evangelico», ma «non per questo è necessario imporlo a tutti». Del resto, se nella Chiesa latina è un obbligo, quelle cattoliche di rito orientale ammettono preti sposati. Così Carlo Maria Martini ha proposto di discutere «la possibilità di ordinare viri probati», ovvero «uomini sposati che abbiano già una certa esperienza e maturità». Non è una voce isolata. Sul «Corriere» del 30 novembre, Gian Guido Vecchi, tra i convergenti, ha ricordato che nel 2005 il sinodo dei vescovi bocciò l'ipotesi di alcuni: «E' stata valutata come una strada da non percorrere». Ma il cardinale Peter Turkson, appena nominato presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, tutto maiuscolo, spiegò: «La proposta dei viri probati è stata messa da parte, come poggiata su uno scaffale». Nulla di definitivo. E ogni tanto c'è chi la tira fuori. Quest'anno, a metà giugno, un cardinale autorevolissimo come Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, ha consegnato a Benedetto XVI un appello dei fedeli laici austriaci che chiedevano l'abolizione dell'obbligo del celibato. Ultimamente, la Costituzione apostolica con la quale il Papa ha definito le regole per gli anglicani che vogliono entrare nella Chiesa cattolica, ha previsto la possibilità che anche in futuro gli «ordinariati» degli ex anglicani possano chiedere al Papa, «caso per caso», di ordinare uomini sposati, «dopo un processo di discernimento basato su criteri oggettivi e le necessità dell'Ordinariato». Tuttavia, la norma sul celibato «non cambia», ha precisato il Vaticano. Ma c'è chi pensa che il "modello" potrebbe essere esteso in futuro. Benedetto XVI, comunque, non manca mai di insistere sull'importanza della «verginità consacrata» dei sacerdoti. «Quella dei viri probati è una questione su cui si deve riflettere, ma è una soluzione estrema, non "la" soluzione", ha detto Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, teologo. Afferma poi che non sia vera la sensazione secondo la quale le vocazioni calino, in percentuale: «In alcune diocesi è il contrario: è che ci sono meno giovani in assoluto, il dramma dell'Occidente è la denatalità». La sua richiesta ai fedeli è di fare più figli. Pare, peraltro, che i connotati dell'economia non incoraggino, al momento. Momento prevedibilmente a corso lungo. Tornando al tema, un ragguaglio, più che una tesi, porterebbe a ricordare che il celibato dei preti non mette di mezzo una verità di fede, è una legge della Chiesa latina che risale al 1139 ed è stata poi fissata dal Concilio di Trento. Nell'attualità, andrebbero riconosciuti a Martini connotati di presenza e saggezza, nonostante quel suo persistente Parkinson. Anche l'insistenza a invocare nella Chiesa uno stile di confronto sulle attualità. Incurante, lui, dei rilievi su una propensione attribuitagli per un Concilio Terzo. Ha smentito. Ma è incoraggiante questa sua sottolineatura. Già nel 1999 aveva introdotto una subordinata. Mettiamoci a confronto, aveva detto. Aveva elencato temi: la carenza di ministri ordinati; la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali; la posizione della donna; la sessualità; la disciplina del matrimonio; il ravvivamento della speranza ecumenica. Una sottolineatura scarsamente raccolta presso l'ufficialità. Eppure, a conforto suo e di tanti, emerge un incitamento lontano. Fu quando, il 17 marzo 1950, a un congresso dei giornalisti cattolici, Pio XII sostenne la necessità che nella Chiesa si sviluppi un'opinione pubblica. Almeno sui temi esenti dal vincolo dell'infallibilità. Detto da Pio XII! La tesi dovrebbe persistere, è immaginabile. A meno che non la si voglia "tradurre" in una specie di muraglia dei principi detti non negoziabili. Prossima occasione di riscontro, il dibattito sulla legge del testamento biologico. Insostenibile il testo votato dal Senato, occorrerà intendere alla Camera le voci suadenti e costruttive.

da “Il nostro tempo” del 17 dicembre 2009

Shopping da cavernicoli

Le femmine amano vagare da un luogo all'altro con le amiche e i maschi vogliono risparmiare tempo

Uomini e donne litigheranno sempre, è una maledizione iniziata nel Paleolitico

di Fabio Sindici

Lei che fa soste estenuanti di fronte a ogni vetrina. Lui che respira a fondo per trattenere l'impazienza, e fa qualche passo in avanti, come per tentare una fuga. Lei che tratta per uno sconto con i commessi. Lui che si guarda intorno, imbarazzato. Scene ordinarie di shopping, scintilla abituale di schermaglie tra i sessi. Le ha sperimentate ogni coppia, le incomprensioni tra gli scaffali dei negozi, soprattutto nei giorni che precedono il Natale. Solo che non sospettavano che i differenti approcci di fronte all'acquisto avessero le loro radici nell'evoluzione.

«Non c'è da sorprendersi se un uomo non riesce a cogliere la sfumatura di colore tra un calzino beige e un altro grigio-verde. E se le donne non riescono a trovare subito il reparto all'interno di un grande magazzino. Dipende in gran parte dai diversi ruoli e abilità che i sessi hanno sviluppato decine di migliaia di anni fa, per procacciarsi il cibo», spiega Daniel Kruger, professore dell'Università del Michigan, negli Usa, che ha condotto una ricerca su quanto le differenze tra i sessi, riguardo allo shopping, siano frutto dell'evoluzione. Insomma, il «darwinismo sociale» si rifletterebbe anche nella scelta di una scarpa a stiletto e di una cravatta. Ritorno alla preistoria, dunque. Le differenze nei comportamenti si sarebbero definite all'epoca delle prime società umane, nel Paleolitico. La divisione dei compiti era netta: agli uomini la caccia; alle donne la raccolta di frutta, erbe, bacche e funghi. «Le donne si muovevano in gruppo, dovevano valutare tipo e qualità di un alimento, in base a odore e colore. Era una scelta complessa, chi sbagliava rischiava l'avvelenamento. Spesso la ricerca di cibo coinvolgeva la prole, che non poteva essere lasciata senza protezione. Gli uomini, invece, andavano a caccia da soli o in gruppi coordinati. Lo scopo era di riportare carne al villaggio, il più presto possibile. La caccia ha aiutato l'uomo a sviluppare un maggiore senso dell'orientamento. Nelle donne si è formato il gusto del colore e dell'individuazione», dice Kruger.

Queste capacità, che si sono evolute nelle foreste e nelle savane, si riflettono nei percorsi dello shopping nelle città post-moderne. Le signore vagano da un negozio all'altro, magari ritornando al punto di partenza. Gli uomini individuano quello che manca nel guardaroba e si affrettano al negozio di fiducia. L'acquisto, per l'uomo, è un momento solitario. L'altra metà del cielo preferisce muoversi in gruppo, scambiare dritte ed esperienze. «Se c'è un prodotto nuovo, le donne lo sanno sempre prima degli uomini», insiste Kruger. Il tempismo sui saldi delle compratrici compulsive risalirebbe ad un altro atavismo, che segnalava alle raccoglitrici i tempi giusti per cogliere un frutto. Una capacità che torna utile in tempi di crisi. La raccolta di gruppo, vicino al villaggio, perdura nello shopping con le amiche, e avrebbe sviluppato la socialità femminile. Molti studi mettono in relazione i comportamenti nelle società contemporanee con modelli che si sarebbero formati nell'alba dell'umanità. Dalla scelta del partner al tradimento sessuale e al modo di condurre gli affari. Non è un po' troppo? E la cultura degli ultimi millenni? Solo una vernice, rispondono gli antropologi. Le prime civiltà storiche hanno avuto inizio 5 mila anni fa, mentre l'Homo sapiens percorre la Terra da 200 mila anni.

«I risultati della ricerca non si applicano a tutti e non si può parlare di determinismo sociale o genetico, ma hanno avuto ampi riscontri», sostiene Kruger, il cui studio sarà pubblicato nel «Journal of Social, Evolutionary and Cultural Psychology». Il professore di Ann Harbor ha avuto l'idea d'indagare le antenate di Sophie Kinsella (autrice di una serie di libri sullo shopping) dopo un viaggio in Europa. «Dopo aver depositato i bagagli in albergo, le ragazze iniziavano il loro giro per i negozi. Ed è logico: dopo uno spostamento, per le tribù era vitale accertarsi che la nuova zona offrisse cibo a sufficienza». Oggi comprendere i meccanismi atavici dello shopping ha un'utilità pratica. Dice Kruger: «Spero che aiuti le coppie a capirsi e non litigare quando devono fare compere. Soprattutto prima di Natale».

La maggior parte dei giovani ignora grammatica e sintassi. Anche nelle università

Viaggio in un Paese che non conosce più la sua lingua

Italiano, questo sconosciuto. "Studenti quasi analfabeti"

di Maurizio Crosetti

Io cossi tu cuocesti egli cosse: cos'è 'sta roba? Piccolo esame di verbi: "Se io sarebbe più abile, tu mi affiderai una squadra". Ma anche: "Se tu saresti più alto, potessi giocare a pallacanestro". Nel cimitero dove giacciono, insepolte, sintassi e ortografia, accenti e apostrofi si confondono in un'unica insalata nizzarda di parole: "Non so qual'è la prima qualità di un'uomo". E tutto questo accade, si legge, si scrive all'Università. Test d'ingresso per le facoltà a numero chiuso, anno di disgrazia 2009: alcuni degli aspiranti dottori del terzo millennio hanno risposto così. "I giovani che arrivano dalle scuole superiori sono semi-analfabeti", ha dichiarato il magnifico rettore dell'ateneo bolognese, Ivano Dionigi.

E chi ha già superato il traguardo della laurea non sta poi tanto meglio: secondo una ricerca del Centro Europeo dell'Educazione (CADE, o forse sarebbe meglio dire casca: l'asino), l'otto per cento dei nostri laureati non è in grado di utilizzare pienamente la scrittura. Anzi, peggio: 21 laureati su 100 non vanno oltre il livello minimo di decifrazione di un testo. Cioè, se proprio va bene riescono a far partire la lavastoviglie leggendo le istruzioni, oppure intuiscono le controindicazioni dell'aspirina. Ma di più no.

Ancora: un laureato su cinque non riesce a dirimere un'ambiguità lessicale. E un laureato su tre ha meno di cento libri in casa, quasi sempre quelli che ha (più o meno) sfogliato per arrivare al pezzo di carta. Ma su quella carta, troppo spesso è come se fossero impressi geroglifici. E non parliamo poi di quando è necessario scrivere un testo.

Per questo, molti atenei hanno deciso di organizzare corsi di recupero di italiano per le matricole: grammatica e sintassi, cioè argomenti da prima media. "I ragazzi non conoscono il significato di espressioni lessicali banalissime", spiega Pier Maria Furlan, preside di Medicina 2 a Torino, dove appunto si torna sui banchi quasi per fare le aste, e per ripassare (o per studiare?) il congiuntivo. "Credetemi, è una situazione da mettersi le mani nei capelli. Per fortuna, gli studenti sono abbastanza consapevoli dei propri limiti: gli iscritti ai corsi di recupero sono oltre 35 su cento".

Come nasce lo "studente analfabeta"? Quando comincia a diventarlo? "I guasti iniziano nella scuola dell'obbligo", risponde Tullio De Mauro, il padre degli studi linguistici italiani. "Il buonismo degli insegnanti ha fatto grossi danni, ormai si tende a promuovere un po' tutti e non si sbarra il passo a chi non è all'altezza. Ma il disprezzo per la lingua italiana risiede anche in certi romanzi di nuovi autori, pieni di parolacce e di inutili scorciatoie, e nel linguaggio sempre più sciatto dei giornali dov'è quasi scomparsa la ricchezza della punteggiatura".

Insomma, oggi s'impara poco anche leggendo. E si studia male. "Credo che il predominio dell'inglese stia nuocendo all'uso dell'italiano", sostiene il noto linguista Gian Luigi Beccaria. "Ormai è necessario alfabetizzare adulti e ragazzi, e la colpa è di un intero percorso scolastico che non sempre funziona. Le lacune nascono da lontano. Inoltre, l'uso esclusivo di telefoni cellulari e computer come strumenti di comunicazione non aiuta la nostra lingua: l'italiano sta regredendo quasi a dialetto". Lasciando perdere gran parte della narrativa italiana contemporanea, dov'è possibile far tesoro della lingua giusta? "Leggendo o rileggendo autori esemplari per pulizia dello stile e chiarezza: penso a Primo Levi, a Calvino, ma anche a Pirandello e Pavese, oppure al Fenoglio di Primavera di bellezza, mentre Il partigiano Johnny è più complesso".

Secondo recenti e sconfortanti statistiche, il venti per cento dei laureati italiani rischia l'analfabetismo funzionale, cioè la perdita degli strumenti minimi per interpretare e scrivere un testo anche semplice. E la percentuale sale tra i diplomati: trenta su cento possono diventare semi-analfabeti di ritorno. Una delle cause può essere l'abbandono della grammatica e della fatica della sintassi: già alle medie non si studiano quasi più, figurarsi al liceo. Nella scuola superiore, ormai pochissimi insegnanti si sobbarcano la correzione di trenta temi pieni di bestialità, una fatica tremenda e scoraggiante. E guai se non si promuove chiunque: scatterà la reazione anche violenta delle famiglie (sempre più spesso si rivolgono all'avvocato per rintracciare vizi di forma nei registri, anche dopo la più sacrosanta delle bocciature dei loro pargoli).

"Siamo molto preoccupati", dice Franca Pecchioli, preside di Lettere a Firenze. "Se gli studenti non sanno dov'è il Mar Nero, beh, è grave ma glielo possiamo insegnare. Ma se non sono in grado di seguire la spiegazione di un docente perché ignorano il significato di certe parole, allora è peggio". Ha un suono sinistro anche la testimonianza di Elio Franzini, preside di Lettere alla Statale di Milano: "L'anno scorso, insegnando ai primi anni di filosofia chiesi chi avesse letto Proust, e alzarono la mano in tre. E quasi nessuno sapeva chi avesse scritto Delitto e castigo".

Invece è palese il delitto nei confronti della lingua italiana, o di quella che dovrebbe essere la formazione universitaria: tra i paesi industrializzati, solo Messico e Portogallo stanno peggio di noi. Vale forse la pena ricordare che in Italia soltanto 98 persone su mille acquistano ogni giorno un quotidiano, mentre in Giappone sono 644. Un problema di formazione, o di scarsa informazione? "Siamo di fronte a un'autentica violenza nei confronti della parola", risponde Giovanni Tesio, critico letterario e docente all'Università del Piemonte Orientale. "Ma non dipende solo dalla scuola: la colpa è anche delle famiglie e dei modelli culturali. La prevalenza dell'immagine porta a una disattenzione verso i testi, e comunque è vero che mancano le basi. Me ne accorgo correggendo tesi di laurea non solo scritte male, quello sarebbe il meno, ma anche piene di strafalcioni. Perché per decenni si è demonizzata la grammatica, come se tutto dovesse essere facile e divertente. Ebbene, a scuola non tutto può né deve esserlo. Un'altra fesseria è credere che la grammatica s'impari leggendo, quello è un universo che non accetta usi strumentali". Ma l'analfabetismo dei laureati può essere arginato? "Siccome la letteratura è il luogo in cui il senso della complessità diventa più forte, io la insegnerei anche nelle facoltà scientifiche".

Forse in Italia manca un vero sistema di educazione per adulti, non siamo più capaci di aggiornarci, allenando cervello e conoscenza come se fossero muscoli. La faciloneria portata da Internet, strumento meraviglioso e banale, ricco di potenzialità ma anche di comode tentazioni, ha ormai diffuso una specie di cultura del "copia e incolla", attraverso l'utilizzo di una lingua spesso piatta e tutta uguale, riprodotta all'infinito. Molti esami scritti, all'Università, vengono condotti come i test per la patente, mettendo crocette su un questionario; e le relazioni degli studenti procedono con "Powerpoint", un altro strumento che riduce la dialettica a riassunto di qualche schema, sillabando quattro parole.

"Abbiamo vastissima conoscenza orizzontale e istantanea, però non siamo più in grado di approfondire, di scendere nel cuore delle cose", conclude Tesio. Il sessanta per cento degli italiani non ha mai letto un libro (anche se molti di loro, purtroppo, hanno provato a scriverlo). E non è affatto vero che "val più la pratica della grammatica". Altrimenti non sarebbe possibile che 45 laureati su cento ignorino qual è (scritto senza l'apostrofo) il passato remoto del verbo cuocere.

Alcune immagini delle principali notizie del decennio, raccolte dall'agenzia Reuters

Perché mi odiano?

di Massimo Gramellini

Non capisco perché mi odino, ha confessato a don Verzé in pieno trauma da giorno dopo, quando al dolore fisico si accompagna sempre la prostrazione morale. Berlusconi è l'opposto di Cyrano. Quello si disprezzava e, disprezzandosi, odiava essere amato. Silvio si adora, e adorandosi, desidera l'amore altrui, senza distinzioni. Non si rende conto che chi pretende l'amore attira con la stessa intensità anche l'odio.


I veri politici non pretendono di essere amati e infatti la gente li apprezza. Li ignora o li disprezza: sentimenti medi, razionali, gestibili. Solo un terrorista può spingersi a odiare un politico, però inteso come simbolo. Non colpisce Moro perché è Moro, ma perché rappresenta lo Stato. Invece Berlusconi viene colpito proprio in quanto Berlusconi. Non un politico, ma un'icona, una rockstar. Uno che suscita sentimenti estremi: nei fan (l'inno della Dc tedesca non si intitola «meno male che Angela c'è») come nei detrattori. Lui parla alle viscere prima che ai cervelli: e le viscere sono incontrollabili, da esse può scaturire tutto il bene e tutto il male del mondo. Questo, ovviamente, non significa giustificare il gesto di uno squilibrato e la violenza verbale di chi lo esalta sul web. È solo il tentativo di dare una risposta alla domanda drammatica che Berlusconi ha posto a don Verzé.

«Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all'azione».


Edmund Burke

La morte di Dio in prima serata

di Riccardo Chiaberge


Applaudire il Papa non costa nulla, ed è il miglior salvacondotto per continuare a fare il contrario di quello che il Papa si aspetta da noi. Come ha osservato Aldo Grasso, il j'accuse di Benedetto XVI contro il «meccanismo perverso» dei media che amplificano il male e intossicano i cuori è stato approvato con fervore sospetto proprio da quelli che più praticano un certo tipo di televisione: «A cominciare da Bruno Vespa che per anni ha vissuto sui trans, sulle escort, sui delitti di Cogne e di Garlasco, facendo vedere cadaveri e sangue, e non sembra avere nessuna intenzione di smettere». «La tv è un mezzo straordinario, di una complessità meravigliosa», sostiene il critico del Corriere, che ha partecipato al convegno «Dio oggi» promosso dalla Cei: ma in essa non c'è posto per l'assoluto. Soltanto il relativo fa audience. Ecco dove si annida il cancro relativista e nichilista che sta divorando la civiltà cristiana, e dal quale il pontefice non si stanca di metterci in guardia: non nei laboratori del Cnr o nelle aule della Sapienza, ma negli studi di Saxa Rubra e di Mediaset. Nei salotti catodici in cui tutto è opinione, perfino le sentenze passate in giudicato. Dove i saccenti hanno la meglio sui sapienti, dove il parere di una showgirl odi un bellimbusto ignorante vale più di quello di un magistrato poco telegenico, i condannati per assassinio diventano divi, le profezie maya sono messe sullo stesso piano dei modelli elaborati dai climatologi, e i pregiudizi ideologici di un sottosegretario hanno un peso superiore ai giudizi di uno scienziato. (...) «Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c'è coscienza e responsabilità, e l'agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere»: sono parole di Joseph Ratzinger, nella sua ultima enciclica. Già, la verità. Povera veritas, quante volte ci capita di vederla seduta sui divanetti televisivi, affollati di imbonitori? Altro che Scientismo ateo: è dal Saccentismo mediatico che dobbiamo guardarci. Anche e soprattutto quando si finge devoto.

in “Il Sole 24 Ore” del 13 dicembre 2009
"Papi santi perché hanno meno potere temporale"

Il prefetto della congregazione delle Cause dei santi, mons. Angelo Amato sostiene che a giustificare la canonizzazione di tanti papi contemporanei è la contestuale «perdita del potere terreno» della Santa Sede

di Giacomo Galeazzi

La beatificazione di Wojtyla, ormai più che probabile, ha sollevato interrogativi tra chi, pur apprezzando la figura di Giovanni Paolo II, non capisce la necessità di far ascendere agli onori degli altari chi - come un romano pontefice - già è noto ai fedeli e lo sarà ai posteri. A queste domande sembra rispondere il prefetto della congregazione delle Cause dei santi, mons. Angelo Amato, in un discorso di ordine generale nel quale sostiene che a giustificare la canonizzazione di tanti papi contemporanei è la contestuale «perdita del potere terreno» della Santa Sede. «A partire dalla canonizzazione di san Pio X, nel 1954, si nota un ritorno a una forte concentrazione di santità papale, con la beatificazione di Pio IX e di Giovanni XXIII, nell'anno duemila, e con l'introduzione delle cause di Pio VII Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, il cui processo è stato iniziato a meno di due mesi dalla morte (2 aprile 2005)», rileva il presule in un recente discorso alla presso la Biblioteca Casanatense pubblicato dall«Osservatore Romano». Cosa dire di questa straordinaria serie di Papi esemplari? Si può avanzare un'ipotesi di lavoro. La perdita del potere terreno - scrive mons. Amato - ha svincolato i Papi da preoccupazioni eccessivamente temporali, per proiettarli verso la loro missione spirituale. Come nei primi secoli, anche il Novecento e il primo decennio del Duemila hanno posto alla Chiesa - sia con la crisi interna del modernismo, sia, soprattutto, con la devastante persecuzione del nazionalsocialismo e del comunismo - la sfida di una cultura atea, indifferente, relativista e sostanzialmente aliena al Vangelo di Cristo«. Proprio quella - ma Amato non lo dice - che Papa Wojtyla ha contestato con veemenza.

Signore, noi non sappiamo parlare di te e le nostre parole sono sempre deboli, imprecise, approssimative. Tu solo sei la Parola, e ti chiediamo di essere Parola per ciascuno di noi.

O Gesù, manifestati a noi come Parola di vita, affinché noi riconosciamo che tu sei il senso, il significato dell'esistenza, che tu ci doni la vocazione decisiva per il nostro cammino.

Tu, che sei trasparenza del Padre, splendore e riverbero del Padre, fa' che contemplando il tuo volto di crocifisso risorto possiamo vedere il Padre; fa' che ascoltando te possiamo ascoltare il Padre, perché tu sei la Parola ultima, definitiva, nella quale c'è tutto ciò che l'uomo può desiderare.

Manifestati a noi, Gesù, nella tua umanità e nella tua divinità.

Concedici di cogliere in te l'Assoluto, il Perfetto, l'Eterno, l'Immenso, la Verità, l'Amore, la Giustizia, la somma di tutti i beni desiderabili, Colui a cui tendono le nostre speranze e da cui dipende tutta la nostra vita, ogni molecola del nostro corpo, ogni nostro pensiero, gesto, azione.

Fa', Signore Gesù, Verbo di Dio fatto uomo, amico e fratello nostro, che in te ci si riveli il Dio Trinità, Colui che è tutto e che ha in mano la vita e la morte, il tempo e l'eternità, la gioia e il dolore, la notte e il giorno.

Tu, Signore, sei lo scopo definitivo della nostra esistenza perché tu sei l'Amore.

Carlo Maria Martini, Le confessioni di Pietro, 50-51






Una canzone antica che - guarda caso - ho ritrovato proprio ieri, giorno della morte di un confratello.

Ha un ritmo potente, coinvolgente, disperante e solenne... e un testo semplicemente disarmante.

Se non ti abbatte, ti addolcisce.

don Chisciotte



Stefano Landi (1587-1639)

Homo fugit velut umbra - Passacaglia della Vita

Marco Beasley, Johannette Zomer



Oh come t'inganni se pensi che gli anni

Non han da finire, bisogna morire



È un sogno la vita che par sì gradita

Che breve gioire, bisogna morire

Non val medicina, non giova la china

Non si può guarire, bisogna morire



Non voglion sperate in arie bravate

Che taglia da dire bisogna morire

Lustrina che giova parola non trova

Che plachi lardire, bisogna morire



Non si trova modo di sciogliere sto nodo

Non vale fuggire, bisogna morire

Non muta statuto, non vale lastuto

Sto colpo schernire bisogna morire



Oh morte crudele, a tutti è infedele

Ognuno svergogna, morire bisogna

È pura pazzia o gran frenesia

A dirsi menzogna, morire bisogna



Si more cantando, si more suonando

La cetra zampogna, morire bisogna

Si muore danzando, bevendo, mangiando

Con quella carogna morire bisogna



I giovani putti e gli uomini tutti

Son da incenerire, bisogna morire

I sani, gli infermi, i bravi, gli inermi

Tutti han da finire, bisogna morire



E quando nemmeno ti penti nel seno

Ti vien da finire, bisogna morire

Se tu non ti pensi hai persi li sensi

Sei morto e puoi dire: bisogna morire.

Riapre lunedì, dopo un anno e mezzo di lavori, il percorso sotto il sagrato del Duomo, con un riallestimento che permette di vedere e capire meglio che cosa c'era nella piazza prima della costruzione della cattedrale. Nell'area archeologica, a cui si accede entrando nella chiesa e scendendo ripide scale, i resti del battistero di San Giovanni alle Fonti, con la  vasca ottagonale dove nella Pasqua del 387 il vescovo di Milano Ambrogio battezzò sant'Agostino, e dell'abside della basilica di santa Tecla. Pennelli didattici e vetrine che mettono in mostra frammenti murari e pittorici del complesso del IV secolo, scoperti durante gli scavi, fanno immaginare la ricchezza di decorazioni del luogo dove sono diventati cristiani migliaia di fedeli. Ecco le prime immagini.
Il parroco solitario adesso non piace più

«Ora mi annoio più di allora, neanche un prete per chiacchierar» . Beh, non è detto che la battuta di Adriano Celentano nella celebre Azzurro sia poi vera, oggi: i preti, in Italia, esistono (e resistono) ancora, non come nell'iper-secolarizzata Olanda dove, di recente, un vescovo ha affermato che
A proposito di alcune espressioni del Presidente del Consiglio In relazione alle espressioni pronunciate dal Presidente del Consiglio in una importante sede politica internazionale, di violento attacco contro fondamentali istituzioni di garanzia volute dalla Costituzione italiana, il Presidente della Repubblica esprime profondo rammarico e preoccupazione. Il Capo dello Stato continua a ritenere che, specie per poter affrontare delicati problemi di carattere istituzionale, l'Italia abbia bisogno di quello "spirito di leale collaborazione" e di quell'impegno di condivisione che pochi giorni fa il Senato ha concordemente auspicato.

 Roma, 10 dicembre 2009

Il giardiniere portò tre alberelli nel giardino del re. Fece tre piccole buche nella terra, piantò gli alberelli e disse loro: «Vi ho messo proprio accanto al viale dove il re passeggia ogni giorno. Cercate di venire su bene!». I tre alberelli erano molto compresi dell'alto compito che era stato loro affidato. «Certamente il re ama i fiori», disse fra sé il primo alberello. Perciò la prima volta che venne maggio si rivestì di una magnifica corona di fiori. Durante la rituale passeggiata il re lo notò immediatamente e ogni giorno si sedeva accanto all'alberello fiorito. Ma il mese di maggio passò presto, e i petali dei fiori caddero sfogliandosi per terra. L'alberello era talmente esaurito per lo sforzo di fiorire che cominciò a seccarsi. Il secondo alberello fu più prudente. Si coprì di fiori solo il secondo anno e neanche tanto numerosi. Ma nell'autunno portava appese venti belle mele rosse. Erano deliziose e il re ne fu così compiaciuto che le raccolse personalmente su un piatto d'oro e le portò al castello per farle assaggiare alla regina. Tutti si meravigliarono: un alberello così giovane e già così carico di frutti! Ma anche il secondo alberello aveva fatto un tale sforzo che cominciò a seccarsi. Il terzo alberello intanto cresceva senza che nessuno gli prestasse attenzione. Passò un anno, poi due, ma neanche il terzo anno l'alberello mise fiori né portò frutti. Ma zitto zitto lavorava instancabilmente sotto terra. Metteva tutta la sua energia nelle radici. E lentamente lentamente le radici penetravano nella profondità finché non raggiunsero una vena d'acqua pura. Solo allora l'alberello si concesse una breve pausa e sorrise soddisfatto. L'anno prossimo sì, si sarebbe finalmente coperto di fiori! Nell'autunno i giardinieri del re dovettero sostenere i suoi rami perché non si spezzassero sotto il peso dei frutti vermigli e succosi. E cosi fu per tutti gli anni seguenti. Il re cominciò ad amare questo albero. Ogni volta, durante la sua passeggiata, si fermava lì vicino e lo mostrava agli ospiti: «Ecco un albero con delle radici forti e sane!».

T. Spidlik, Il professor Ulipispirus ed altre storie

Lo «scaricabarile» è contagioso

Uno studio condotto negli Usa dimostra che il biasimo pubblico tende a diventare virale

Quella di dare la colpa agli altri, sempre e comunque, è un'abitudine che si contagia come l'influenza. È quanto messo in luce nello studio «Blame Contagion: The Automatic Transmission of Self-Serving Attributions» realizzato dagli esperti della USC Marshall School of Business e della Stanford University. L'analisi condotta da Nathanael J. Fast e Larissa Tiedens, autori dell'indagine, esamina per la prima volta le ripercussioni sociali del cosiddetto «scaricabarile», cercando di capire se e in quale misura l'atteggiamento in questione possa divenire «virale». Dai test realizzati dagli esperti statunitensi è emerso che il solo fatto di vedere qualcuno incolpare pubblicamente un'altra persona (anche in caso di innocenza di quest'ultima) attribuendole delle colpe e sollevandosi così da qualsiasi responsabilità, porta gli osservatori a mettersi, in generale, sulla difensiva e ad assumere questo comportamento come prassi comune. Secondo i due ricercatori, la spiegazione di tale meccanismo risiede nel fatto che il vedere qualcuno intento a difendere se stesso attribuendo responsabilità ad altri (per esempio nell'ambito di un'azienda) ci fa sentire in pericolo e ci spinge quindi a proteggere la nostra immagine. Un fenomeno, questo, assai diffuso soprattutto se a essere minacciato è il posto di lavoro: in tal senso, lo scaricabarile tra i dipendenti sarebbe davvero una pratica virale. Che però




Parlano straniero 6 nozze su 10 in città è boom di coppie miste

di Zita Dazzi

Un matrimonio su cinque in Lombardia ha almeno un coniuge immigrato. In Italia uno su dieci. A Milano la percentuale sale, e molto: su 867 matrimoni celebrati in Comune nei primi sei mesi dell'anno, in ben 536 casi a convolare erano due cittadini stranieri, o un italiano e uno straniero. Cioè oltre 6 su 10. Un boom in controtendenza rispetto alle medie nazionali. E anche se non va più di moda sposarsi in Comune - e tantomeno in chiesa - in città le coppie miste aumentano. Sono le uniche che tengono. Lo dicono l'ultimo Dossier della Caritas e il settore Anagrafe del Comune, che registra un costante aumento delle coppie miste e straniere dal 2000. «Per gli immigrati il matrimonio è una tappa fondamentale non solo per i progetti affettivi e familiari, ma anche nel cammino di integrazione», scrive la Caritas. Nel 70 per cento dei matrimoni misti lo sposo è italiano e la moglie viene da un paese a forte pressione migratoria. La concessione della cittadinanza era, fino alla firma del "Pacchetto sicurezza", un buon motivo per convolare a nozze. Poi Maroni ha portato da sei mesi a due anni il periodo di attesa per la richiesta di cittadinanza. «Quindi i matrimoni combinati per convenienza sono in calo», spiegano allo Stato civile. Aumentano invece le coppie di immigrati. Ma non sono sempre tutte rose e fiori, soprattutto quando gli sposi vengono da culture lontane. Per aiutare le coppie miste il centro ambrosiano documentazione delle religioni (Cadr) ha aperto un consultorio per famiglie interetniche in corso di Porta Ticinese 33 (tel.02.8375476). E ha appena pubblicato un libro dal titolo: «Matrimoni cristiano-islamici: gli interrogativi, il diritto, la pastorale».
L'importanza dell'uno

L'evangelista presenta questo episodio [quello del "buon ladrone", il ladro pentito e salvato] come il culmine dell'attività evangelizzatrice e redentiva di Gesù nella sua Passione. Se giudichiamo secondo la nostra maniera umana, ci viene subito spontanea una domanda: è tutto lì? Uno solo!, mentre tanta gente se ne torna a casa, qualcuno un po' scosso, ma sostanzialmente senza aver capito il significato di questa scena. Come mai, un tale spreco di sforzo evangelizzatore per ottenere solo questo piccolo risultato?

Propongo, allora, di rivedere la scena del ladro salvato, alla luce di un capitolo molto importante di Luca, il quindicesimo, che comincia con: «Si avvicinarono a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro. Ed egli disse questa parabola...» e che prosegue con tre parabole: la pecora perduta, la dramma perduta e il figlio perduto. Tre parabole che vanno lette insieme e sulle quali richiamo la vostra attenzione per indicare come ci permettono di capire il Dio del Vangelo che si rivela nel perdono che Gesù dà al ladro, sulla croce.

Intanto notiamo che queste parabole - e non c'era bisogno che lo facessero - insistono tutte sull'uno: una pecora, una dramma, un figlio. Nel caso del figlio, è evidente che uno su due è importante; nel caso delle pecore (una su cento), o nel caso della dramma (una su dieci), vediamo che l'importanza che dà la parabola all'uno ci appare spropositata, esagerata.

«Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta finché non la ritrova» (Lc 15, 4)? Noi diremmo: ma perché lasciare le novantanove nel deserto per cercarne una? Per di più il testo non suppone che il pastore le lasci ben custodite! C'è, in questa immagine del pastore, una certa eccessività, quasi un pizzico di follia: se la mette in spalla, tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini perché si rallegrino con lui... Mi pare di avvertire in tutto questo l'importanza che Dio attribuisce all'uno, anche ad uno solo, anche al più piccolo. Tutto ciò non collima affatto, anzi contrasta violentemente con l'immagine pagana di Dio, che pensa sì al mondo, però non perde la testa per uno solo.

Le stesse sottolineature valgono per le altre due parabole, quella della donna che spazza attentamente la casa per trovare la moneta, e quella del figlio prodigo, che ritorna alla casa del Padre.

Qui entriamo proprio nella rivelazione dell'immagine di Dio, che abbiamo sulla croce, quando Gesù compie la salvezza di un malfattore spregiudicato, disperato, abbandonato da tutti. È il marchio di fabbrica del Dio del Vangelo: uno, uno solo è sufficiente a giustificare tutta la cura, l'attenzione, la gioia di Dio. La gioia è sempre sottolineata: il pastore invita a rallegrarsi con lui e «così ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti». La donna dice: «Rallegratevi con me» e Gesù parla di «gioia davanti agli angeli». Per finire, il padre afferma: «Bisognava far festa e rallegrarsi». Ecco il senso del Dio del Vangelo. Dio ha in mano tutto, è il Signore di ogni cosa, è il Re che governa cielo e terra, ma è capace di perdere la testa per uno solo, non si dà pace, anche per uno solo.

A questo corrisponde l'insegnamento che troviamo, più volte, nelle parole di Gesù: «Guai, se uno solo di questi piccoli viene scandalizzato»; «quando l'avete fatto a uno solo di questi l'avete fatto a me» e - notano giustamente gli esegeti - l'insistenza su «uno solo» è una caratteristica tipica del Vangelo. La gioia di Dio si esprime anche quando una sola persona è stata oggetto della salvezza.

Dobbiamo rifletterci molto per il nostro ministero: è vero che noi badiamo a tutti, a tanti, dobbiamo curare una comunità, però soltanto in alcune situazioni privilegiate abbiamo la gioia, la soddisfazione di vedere un frutto pieno di ciò che facciamo. Questa gioia di Gesù esprime la cura piena di Dio per la persona umana, e, di fronte al mondo dice il valore della persona, anche di una sola; e allora, se una sola persona vale tanto, molte persone valgono assai di più e nessuna può essere trascurata.

Chiediamo al Signore la comprensione della misericordiosa attenzione di Dio, che lui comunica a noi, della quale siamo portatori verso la comunità e che chiaramente differenzia l'impegno cristiano da un impegno politico o di efficienza; questi - in ultima analisi - curano i risultati globali senza troppo badare se l'una o l'altra persona vengono trascurate o non vengono accolte.

È vero che questo è solo un aspetto dell'esperienza di Dio: l'esperienza di Dio è, infatti, anche l'esperienza della salvezza di tutti, ma entrare nel mondo del Dio del Vangelo vuol dire cogliere la possibilità di aver a cuore la salvezza di tutti in modo tale che nessuno venga trascurato, offeso, dimenticato e sia dato pieno valore a ciò che ciascuno rappresenta agli occhi di Dio.

card. Carlo Maria Martini, Il vangelo di Maria, 64-67


Da una parte un "collaboratore di giustizia" di nome Spatuzza depone in un processo chiamando in causa alcuni personaggi e molti dicono che - per gli interessi personali e corporativi che rappresenta - non è affidabile. Quindi - sembrerebbe di poter concludere - colui che è stato giudicato colpevole non va ascoltato. E così tutti i mezzi di informazione intervistano coloro che sono citati nelle sue deposizioni, i quali ovviamente lo denigrano e si difendono in diretta (e non nelle aule dei tribunali).

Dall'altra parte una giovane, di nome Amanda, riconosciuta colpevole di omicidio e condannata, dai media viene portata alla ribalta, "ascoltata" nei suoi scritti, difesa dalla famiglia (e anche da più in alto). Alla famiglia della ragazza uccisa, Meredith, vengono riservati pochissimi secondi e rari fotogrammi. Quindi chi è condannato... parla e viene creduto (e compatito... viste le abbondanti lacrime).

Conclusione: sono i riflettori ad essere schizofrenici?!


don Chisciotte



Ricordiamoci che questi personaggi piegano la fede ai loro interessi. E quindi anche gli strafalcioni teologici e sintattici possono essere dettati da ignoranza o da strategia.



"Non c'entra con Milano. È come mettere in Sicilia un sacerdote mafioso"

intervista a Roberto Calderoli a cura di Andrea Montanari

Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione, perché la Lega attacca il cardinale Dionigi Tettamanzi? «Noi della Lega abbiamo non solo il massimo rispetto, ma anche un dialogo aperto con le massime espressioni della Chiesa, quella romana. A partire dal cardinale Bertone. È sorprendente che qualcuno voglia fare della dietrologia sui nostri richiami». Cioè? «Avremmo voluto che certe battaglie trovassero sponda anche in chi dovrebbe praticare l'evangelizzazione. Invece, le uniche voci a sostegno sono venute solo dalla nostra parte. Avere il massimo rispetto non vuol dire abbassare la testa. Il rispetto deve essere reciproco». Che cosa intende dire? «La Chiesa romana ha un notevole equilibrio nel far prevalere i principi delle radici cristiane. Avevo già detto che qualcuno nella Curia di Milano era figlio del cattocomunismo. L'autonomia è di tutti, ma l'orientamento della Chiesa sui problemi della globalizzazione dovrebbe essere tenuto presente anche dai loro sottoposti. Lo spirito cristiano deve guidare ogni uomo politico, non dipendere dall'emozione del momento. Questo principio deve valere per tutti». Si riferisce all'arcivescovo di Milano? «La grande capacità della chiesa territoriale dovrebbe essere la vicinanza con il territorio. Sa che cosa le dico»? Cosa? «Che Tettamanzi con il suo territorio non c'entra proprio nulla. Sarebbe come mettere un prete mafioso in Sicilia». È una forte accusa. Perché? «Perché non parla ai milanesi. Perché, per esempio, Tettamanzi non è mai intervenuto in difesa del crocifisso? Perché parla solo dei rom? Non spetta a noi intrometterci nei rapporti tra le cariche ecclesiastiche, ma non posso non vedere che tra le nostre posizioni e quelle della maggioranza dei vescovi, della Chiesa romana fino alla Cei c'è la massima assonanza. Non con quelle di Milano». Trova giusto che la Padania si domandi se Tettamanzi sia un cardinale o un imam? «Sono provocazioni. Ma se i toni si alzano è perché i nostri appelli cadono nel vuoto». Anche l'arcivescovo di Milano si è sempre schierato a difesa delle regole. «No. Questo è ciò che ci distingue da alcuni prelati come Tettamanzi. Lui concepisce lo spirito cristiano basato sui diritti slegati dai doveri. Noi, invece, pensiamo che tutti abbiano dei diritti, ma a fronte di doveri». Si spieghi meglio. «Negare che persone di una certa etnia facciano un tipo di attività è disconoscere la realtà. Seguendo la logica dei "poverini" non si va da nessuna parte. Si trasformano solo i nostri poverini in agnelli sacrificali». Sta dicendo che l'arcivescovo di Milano fa politica? «Faccia quello che vuole. Noi continueremo ad andare nel senso opposto. A Milano o in Lombardia un sacerdote che fa politica non lo ascolta nessuno».

Il Carroccio contro il "discorso alla città" di due giorni fa in cui l'arcivescovo aveva bacchettato le amministrazioni sui temi della moralità e dell'accoglienza

La Padania attacca Tettamanzi: "Ma è un vescovo o un imam?"

Bossi: la gente vuole la tradizione. Il cardinale: resto sereno

di Zita Dazzi e Teresa Monestiroli

"Onorevole Tettamanzi", titolava a tutta pagina la Padania di ieri. Nell'articolo, un affondo ancora più pesante: "Cardinale o imam? Se lo chiedono in molti. Tettamanzi la città la vive poco". L'attacco del quotidiano della Lega all'arcivescovo di Milano arriva a freddo, due giorni dopo il Discorso alla città, annuale omelia in occasione della festa patronale di Sant'Ambrogio. Discorso nel quale l'arcivescovo di Milano ha bacchettato la giunta di Letizia Moratti e le istituzioni sui temi della moralità e dell'accoglienza, esortando gli amministratori a far rifiorire il tradizionale "solidarismo ambrosiano".

Alla Padania non sono piaciute le critiche del cardinale alla recente raffica di sgomberi che ha messo sulla strada 250 rom di un accampamento abusivo alla periferia della città. Tema caro al Carroccio ribadito anche ieri sera il suo leader Umberto Bossi che da Milano, dove ha incontrato il sindaco Moratti per l'inaugurazione del presepe a Palazzo Marino, ha detto: "La gente oltre alla cristianità dà peso alla tradizione e si sente sicura quando la tradizione è rispettata". Tradizione "a rischio - secondo il ministro delle Riforme - se facciamo venire troppa gente che porta le proprie di tradizioni", e da salvare e proprio con simboli della cristianità come il presepe.

Ma le parole più dure arrivano dall'organo di stampa del Carroccio che arringa: "Alla faccia della legalità che dovrebbe essere la preoccupazione anche della massima autorità religiosa. Tettamanzi ci ha abituato alle sue alquanto originali aperture alla presenza di moschee in ogni quartiere". E ancora: il cardinale non si occupa di quel "che teoricamente dovrebbe interessare di più la chiesa", cioè la sentenza europea sul crocefisso, l'avanzata dell'Islam "che reclama sempre più privilegi senza fare alcuna menzione dei doveri", la crisi delle vocazioni.

L'arcivescovo - dicono in Curia - non è preoccupato per il clima di scontro politico innescato dalle sue parole. Ma il nervosismo fra i suoi collaboratori è palpabile di fronte ai nuovi attacchi della Lega e alla freddezza del sindaco che, uscendo dalla chiesa, aveva commentato gelida: "Credo che la nostra città, che accoglie il maggior numero di stranieri in tutta Italia, sia una città accogliente e che chiede di rispettare la legalità". Tettamanzi, dopo aver letto la Padania, ha deciso di non raccogliere la provocazione. "Il cardinale è sereno - spiegano in Curia - . È impegnato a scrivere il pontificale per la festa di Sant'Ambrogio (che si terrà stamattina, ndr), a preparare la messa dell'Immacolata che celebrerà in Duomo con il segretario di Stato del Vaticano Tarcisio Bertone. Ed è molto preso anche per l'incontro col presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla biblioteca Ambrosiana".

Il clima di sconcerto in Curia è dovuto anche al fatto che si è lavorato a lungo alla stesura del Discorso. Era calibrato fin nelle virgole, proprio per evitare le polemiche, come successe l'anno scorso dopo l'invito a lasciare costruire "luoghi di culto per tutte le fedi". Gran parte dell'intervento, quest'anno, è stato dedicato all'esaltazione delle forze positive della città, alla generosità con cui in molti hanno contribuito al fondo istituito da Tettamanzi per sostenere le famiglie colpite dalla crisi.

Ma l'eurodeputato Matteo Salvini della Lega, attacca con forza: "Il cardinale è lontano dal sentire collettivo, quando si ostina a rappresentare i rom come le vittime del sistema invece che la causa di molti problemi. A Radio Padania hanno chiamato molti ascoltatori cattolici che dicono: "le guance da porgere sono finite"".





Davide Van De Sfroos - 40 pass

Album: Pica (2008)

Come corsari della Bovisa, sura un trenu del venerdé sira

omen o quasi vegnüü de la melma per imparà a restà nel catràmm

Quajvoen l'ha stüdiaa per mea ciapà bott, quajvoen l'ha crumpaa una cravatta e un giurnaal,

quajvoen l'ha pruvaa a mett soe una divisa, ma l'ha tegnüü dumà la pistola...

Trii rembambii in soel puunt del naviglio per pruvà a truvà un quaj riflèss

che nustalgia dell'acqua del laagh ma mai de quela giò in del büceer

Quajvoen l'ha flilaa cun scià una bandiera, quajvoen l'ha sfilaa dumà i so müdaand,

quajvoen l'ha pruvaa a guidà una pantera, e l'ha tegnüü dumà el lampegiaant...

e adess che i sann i culuu del metro' e adess che i sann in'de l'è la toilette

se senten padroni de quell tocch de umbriia tra el marciapè e'l Domm de Milaan

E forsi per luur l'è una gesa troppa granda e forsi per nà deent ghe voer anca el telepàss

e bisognerà imparà una preghiera cumplicada e bisognerà imparà una preghiera de città

per sta bela Madunina che l'è stüfa de brilà... tropp luntana e piscinina per pudè ancamò scultà...


Trii cumè luur ........

E forsi l'è neda cume l'è nada o forsi cume la duveva nà

trii omen, trii coer, trii para de ball, trii desten incrusaa a uncinett,

quajvoen l'era stüff de purtà una bandiera e l'ha faa el prufessuur a l'università...

ma una matena hann truvaa i volantini e un mitra scundüü in de la sua cà....

quell'oltru a l'era un prufessiunista senza stüdià per fa el gigolò

a l'è scapüsciaa ne la dona sbagliada e in un sacch de coca scundüü in del crüscott

el teerz el faseva la guardia del corpo e anca l'autista per un senatuur

in un sira impestaada de candell e butègli per difeend na pelanda l'ha picaa un assessuur...

e adess che i sann cume l'è la galera che gh'hann pagüüra de nà a la toilette

i fann un brindisi alla buona condotta tra el marciapè e'l Domm de Milann

e l'è tüta per luur questa gésa troppa granda e forsi per nà deent basta fa quaranta pass

una preghiera per Bob Marley e per el nonu in paradiis

una candela a Sant'Ambroes, una candela a San Vituur

e a sta bela Madunina che la riess amò a brilà... la sarà anca piscinina ma la riéss anca a scultà......


trii cumè luur...


Vero che non è obbligatorio fare degli alberi di Natale così grandi, appariscenti, costosi e imbarazzanti, rispetto a tante parole?!




Chiesa dei poveri deve essere anzitutto e soprattutto quella dei sacerdoti poveri. Non avete mai pensato che si può comprimere di molto il proprio bisogno, alleggerendolo da tutte le pretese ingrandite, indebite, inutili, per aumentare il superfluo da far defluire ai più poveri di noi? Il superfluo, non importa chi lo detenga, fosse anche un prete o una parrocchia, è sempre il necessario del povero e reclama di essere reso al povero, come a suo padrone di diritto.

card. Giovanni Colombo, Omelia del giovedì santo 1968

Le parole del profeta Isaia (cap. 21, 11-12):

Oracolo sull'Idumea. Mi gridano da Seir: «Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?».

La sentinella risponde: «Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!».






 


 La notte è quieta senza rumore, c'è solo il suono che fa il silenzio / e l'aria calda porta il sapore di stelle e assenzio,

le dita sfiorano le pietre calme calde d' un sole, memoria o mito, / il buio ha preso con sé le palme, sembra che il giorno non sia esistito...

Io, la vedetta, l' illuminato, guardiano eterno di non so cosa / cerco, innocente o perchè ho peccato, la luna ombrosa

e aspetto immobile che si spanda l' onda di tuono che seguirà / al lampo secco di una domanda, la voce d' uomo che chiederà:

Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell

Sono da secoli o da un momento fermo in un vuoto in cui tutto tace, / non so più dire da quanto sento angoscia o pace,

coi sensi tesi fuori dal tempo, fuori dal mondo sto ad aspettare / che in un sussurro di voci o vento qualcuno venga per domandare...

e li avverto, radi come le dita, ma sento voci, sento un brusìo / e sento d' essere l' infinita eco di Dio

e dopo innumeri come sabbia, ansiosa e anonima oscurità, / ma voce sola di fede o rabbia, notturno grido che chiederà:

Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell

La notte, udite, sta per finire, ma il giorno ancora non è arrivato, / sembra che il tempo nel suo fluire resti inchiodato...

Ma io veglio sempre, perciò insistete, voi lo potete, ridomandate, / tornate ancora se lo volete, non vi stancate...

Cadranno i secoli, gli dei e le dee, cadranno torri, cadranno regni / e resteranno di uomini e di idee, polvere e segni,

ma ora capisco il mio non capire, che una risposta non ci sarà, / che la risposta sull' avvenire è in una voce che chiederà:

Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell

Da Avvenire di oggi, pag. 4


"Chiesa sotto racket"

Don Mario Ziello lo ha detto senza troppi giri di parole: ai parrocchiani ha spiegato che non ha alcuna intenzione di pagare il pizzo. Durante l'omelia di domenica scorsa, pronunciata nella Santa Maria del Carmine alla Concordia, nei quartieri Spagnoli di Napoli, ai fedeli ha riferito che qualcuno aveva chiesto la tangente sui lavori di ristrutturazione dell'antico edificio. Gli emissari della camorra non hanno avvicinato direttamente il parroco ma avrebbero avanzato le loro richieste alle maestranze impegnate. Don Mario non vuole dare soldi alla camorra perchè, come ha spiegato ai fedeli, non ha alcuna «intenzione di collaborare con quei criminali». Pagare la tangente? Sarebbe stato diseducativo, ha detto il sacerdote nel corso dell'omelia, soprattutto per i bambini. «I soldi li avete donati voi fedeli - ha detto dall'altare il sacerdote - Se avessi pagato quella tangente lo avrei fatto con i soldi vostri». A seguito della denuncia di don Mario la procura di Napoli ha aperto un'inchiesta. Ad indagare è la polizia e il questore Santi Giuffrè ha assicurato che nei confronti del racket l'attenzione «è molto alta» e  «parecchia gente si rivolge a noi per denunciare». Al sacerdote, che non ama la ribalta e che oggi, forse per questo motivo, non era in chiesa, è giunta la solidarietà del mondo politico e di numerosi sacerdoti, con in testa l'arcivescovo di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe.  «La chiesa di Napoli e il suo vescovo si stringono intorno a don Mario Ziello, per condividerne la scelta e il coraggio, per continuare a lottare, con lui, contro il malaffare, la prepotenza, la violenza, la barbarie di quanti non meritano di dirsi napoletani, anzi agiscono contro Napoli», ha scritto Sepe in una nota diffusa alla stampa sottolineando che da sempre la chiesa di Napoli è accanto «silenziosamente ogni giorno lottano al fianco delle vittime di ogni sopruso e diventano voce di chi non ha voce».Un altro sacerdote che per lunghi anni è stato impegnato in un quartiere difficile come quello di Forcella, don Luigi Merola, usa parole durissime: «Dobbiamo ricordare a tutti che i i camorristi sono fuori dallo Stato ma anche dalla Chiesa. E la Chiesa del coraggio, l'intera Chiesa di Napoli, fa bene a denunciare i soprusi».
Delle prime cose che imparai da solo ricordo questa: imparai a non attendere.

Vedevo che ti spazientivi quando l'autobus tardava, se papà non tornava in orario la sera, oppure la primavera stentava ad affacciarsi. La vita per te era già difficile così come era, senza che si producessero altri contrattempi, senza che quel poco di semplici eventi sui quali uno faceva conto, mettessero anche loro una dose supplementare di incomodo. Era male per te se il quattro d'aprile pioveva, perché il proverbio annunciava: quattro aprilante, giorni quaranta, avvisando che se pioveva quel giorno ci sarebbe stata pioggia fino a metà maggio. Qualche volta pioveva su molta primavera nostra.

Ti spazientivi, avevi moti di sconforto e di stizza, piccoli gesti bruschi o un tono di voce increspato, vicino alla tosse. Io mi stupivo, mi confondevo nel vedere che delle povere incostanze avevano forza di farti cedere nel comportamento, nella tenuta.

Pensai a come chiedere delle informazioni. Come poteva uno stare in pace in attesa di qualcosa, anche se questa cosa non arrivava?

Con preoccupazione decisi di rivolgermi a papà. Diceva che ero un bambino che non sapeva chiedere. Non volevo fare brutta figura con lui. Trattengo a mente i fili di un esile colloquio. Si era di domenica mattina e tu eri uscita a comprare il giornale. Papà si radeva nel piccolo bagno che aveva la serratura difettosa e perciò la porta restava dischiusa. Mi accostai allo spiraglio e chiesi il permesso di fargli una domanda. "Sentiamo," rispose continuando a radersi allo specchio.

Presi sul tragico un mio pensiero ridicolo: che allo specchio erano in due, perciò diceva "sentiamo." Avrei voluto rinunziare perché quella sua espressione mi metteva di fronte a un uditorio ufficiale. Quella che era una mia iniziativa di chiedere si rivoltava in cuor mio in un'interrogazione da parte loro. Oggi so che in ogni frase pronunciata c'è l'anima di una domanda, allora temevo che in ogni domanda fosse contenuta una risposta che non sapevo riconoscere.

Ero lì a prendere la parola davanti agli uomini.

Volevo sapere perché, quando gli eventi tardano, uno è in attesa. Pensavo alla tua caduta in una stizza, in una tensione che trasformava d'improvviso tutta una porzione di tempo in una fissità, in un indurimento di nervi, in un'attesa.

Chiesi perciò attraverso la porta socchiusa del bagno:



E' molto difficile sostenere lo sguardo fisso di un piccino:

è come se Dio fosse di fronte a voi

e vi squadrasse senza pudore,

prendendosi tutto il tempo,

persino un po' stupito di vedervi.



Christian Bobin, L'amore è una cosa meravigliosa..., 23

 


Le tracce web di un amore finito: "Farle sparire per non soffrire"

Più si è connessi, più si è a rischio. Il problema di "disinstallare" dal mondo digitale una passione che non c'è più. Le storie, le testimonianze di chi ci è passato, i trucchi

di Riccardo Staglianò


Disinstallare un amore è un lavoro da specialisti. Una volta era più facile. Si svuotavano i cassetti dalle canottiere di lei o dei calzini di lui, poi la penosa divisione di libri e cd e giù in strada a svitare la targhetta del campanello. Da lì iniziava quella che gli psicologi chiamano "elaborazione del lutto" e che gli esseri umani, meno burocraticamente, conoscono come la traversata del deserto. Lunga un mese, un anno, a volte molto di più.

Oggi la bonifica materiale, fisica, dei ricordi è solo l'inizio, la parte più facile. Gli oggetti che possono innescare lo struggimento si individuano e si fanno fuori alla svelta. Li metti in uno scatolone, li restituisci o li affidi alle acque. Non così per le cose immateriali, email, foto e tutto l'infinito campionario di tracce digitali di cui è disseminata una relazione. Il cui numero è direttamente proporzionale a quanto ci si è "toccati", e quanto in profondità. Impronte che, sulla scena del crimine - la rottura - non si vedono a occhio nudo. Ma che tornano in superficie in modo carsico, con il tempo, quando meno te l'aspetti. Magari proprio quando l'istinto di sopravvivenza aveva appena ricominciato a fare il suo mestiere, sbiadendo i ricordi. (...) E invece basta che, da una cartella inoffensivamente chiamata "varie" esca fuori quell'istantanea scattata con il cellulare di voi sorridenti in vacanza per riaprire una falla, allagare l'anima, condannarvi a tornare sulla scialuppa di salvataggio. Per questo servirebbero degli specialisti. Una Scientifica del cuore che scovi subito anche le tracce invisibili. E una squadra di artificieri che, una volta rinvenuto il frammento esplosivo (la lettera in cui ti giurava amore eterno, il biglietto elettronico di quel finesettimana a Parigi), sia in grado di disinnescarlo prima di saltarci in aria.

È una nuova pandemia sentimentale. Riguarda marginalmente i quarantenni, investe i trentenni, è "il" problema dei giovani Werther ventenni. Più sei connesso, più la tua vita passa attraverso la rete, più sei a rischio. Di seguito, grazie a testimonianze anonime di chi c'è passato, cerchiamo di ricostruire una piccola fenomenologia dell'amore (finito) al tempo di internet. Nomi e qualifiche sono inventati, mischiati, comunque resi irriconoscibili. I fatti sono invece tutti rigorosamente reali.

Per cominciare ci sono le email. (...)

Se non bastassero i messaggi spediti, c'è anche la minaccia di quelli che si potrebbero spedire. O le comunicazioni che si potrebbero iniziare. Prendete Skype (...) Lo stesso capita con la messaggistica. La lista dei contatti appare sempre con lo stato accanto. (...)

Un'immagine, si dice, vale più di mille parole. A volte fa anche altrettanto male. La brutta notizia è che siamo circondati. Armati di telefonini multimediali, ognuno è un fotografo che non risparmia un clic. Le nostre esistenze adulte sono documentate come prima solo gli esordi di un neonato. Un'iconografia parossistica che, se le cose vanno storte, vi perseguiterà. (...)

Lo stesso, ormai, vale per i video. (...)


La vera arma di distruzione di massa della privacy è però Facebook. Nonché, ovviamente, sogno incoffessabile per gli inconsolabili o gli stalker cibernetici. (...)


Ammesso che siate riusciti nell'impegnativissimo disboscamento della selva digitale del vostro computer o smartphone, aspettate a dirvi in salvo. Avete fatto tanto, chapeau. Dato prova di forza d'animo, l'analista sarà orgoglioso di voi. Ma le trappole, come gli esami, non finiscono mai. (...)
I computer disconoscono il diritto all'oblio. Non per cattiveria, sono stati pensati così. Ma la memoria totale, come spiegava Jorge Luis Borges nel celebre racconto su Ireneo Funes, può essere la più feroce delle condanne. Se ricordi veramente tutto del passato, nessun dettaglio escluso, rischi che questa zavorra diventi insopportabile e non ti faccia concludere niente del presente. Tanto più vero per quanto riguarda i sentimenti. (...)





Il frate

di Francesco Guccini

album: L'Isola Non Trovata (1971)

Lo chiamavano "il frate", il nome di tutta una vita,

segno di una fede perduta, di una vocazione finita.

Lo vedevi arrivare vestito di stracci e stranezza,

mentre la malizia dei bimbi rideva della sua saggezza...

Dopo un bicchiere di vino, con frasi un po' ironiche e amare,

parlava in tedesco e in latino, parlava di Dio e Schopenhauer.

E parlava, parlava, con me che lo stavo a sentire

mentre la sera d'estate non voleva morire...

Viveva di tutto e di niente, di vino che muove i ricordi,

di carità della gente, di dèi e filosofi sordi...

Chiacchiere d'un ubriaco con salti di tempo e di spazio,

storie di sbornie e di amori che non capivano Orazio...

E quelle sere d' estate sapevan di vino e di scienza,

con me che lo stavo a sentire con colta benevolenza.

Ma non ho ancora capito mentre lo stavo a ascoltare

chi fosse a prendere in giro, chi dei due fosse a imparare;

ma non ho ancora capito, fra risa per donne e per Dio,

se fosse lui il disperato o il disperato son io;

ma non ho ancora capito con la mia cultura fasulla

chi avesse capito la vita chi non capisse ancor nulla...


Pur essendo figlio della teologia e della pastorale del suo tempo, Charles De Foucauld riesce ad aprire spiragli di delicato acume!










E' certo che accanto ai preti ci vogliono delle Priscilla e degli Aquila che vedano quello che il prete non vede, arrivino dove il prete non può arrivare, vadano da chi lo evita, evangelizzino, con un contatto benefico, una bontà che si riversi su tutti, un affetto sempre pronto a donarsi, un buon esempio che attiri quanti girano le spalle al prete e gli sono ostili. Essere apostoli con quali mezzi? Con quelli che Dio mette a sua disposizione. (...) I laici devono essere apostoli con tutti coloro che possono raggiungere: i vicini e gli amici anzitutto, ma non soltanto loro, perché la carità non ha confini, abbraccia tutti quelli che abbraccia il cuore di Gesù.

Con quali mezzi? Con i migliori secondo quelli ai quali si rivolgono: con tutti quelli con cui sono in rapporto, senza eccezione, con la bontà, la tenerezza, l'affetto fraterno, l'esempio delle virtù, con l'umiltà e la dolcezza che sempre attraggono e sono così cristiane; con alcuni senza mai dir loro una parola su Dio e la religione, pazientando come pazienta Dio, essendo buoni com'è buono Dio, mostrandosi loro fratelli e pregando; con altri, parlando di Dio nella misura in cui sono in grado di accettarlo e, appena hanno in mente di ricercare la verità con lo studio della religione, mettendoli in contatto con un prete scelto molto bene e capace di far loro del bene... soprattutto, bisogna vedere in ogni essere umano un fratello - "Voi siete tutti fratelli, voi avete un solo padre che è nei cieli".


Charles De Foucauld

Guidami, Luce gentile,

in mezzo alla tenebra che mi circonda,

guidami Tu innanzi!

Buia è la notte, ed io sono lontano da casa.

Guidami Tu innanzi!

Rendi saldi i miei piedi: io non chiedo di vedere l'orizzonte remoto,

mi basta un solo passo.

Non fui sempre così, né pregai sempre che Tu mi conducessi innanzi.

Mi piaceva scegliere e vedere la mia strada;

ma ora guidami tu innanzi!

Amavo il giorno splendente e, più forte del timore, l'orgoglio dominava il mio volere:

non ricordare gli anni passati!

Così a lungo m'ha la tua potenza benedetto,

che certo ancora vorrai guidarmi innanzi,

oltre lande e paludi, oltre rocce e torrenti,

fino a quando la notte sia trascorsa;

e con il mattino mi sorrideranno gli angelici volti

che ho per lungo tempo amati e per un tratto perduti.


card. John Henri Newman




Ma per noi non si tratta semplicemente di sogni. O se proprio si vuole, dei sogni di Dio, più lucidi di qualsiasi veglia.

Olivier Clément, Occhio di fuoco, 62.