Tra secolarità e secolarismo 
di Gianfranco Ravasi 
La distinzione lessicale è fluida, eppure è necessario isolare due ambiti nominalisticamente affini, ma sostanzialmente alternativi. Intendiamo riferirci alla coppia «secolarità» (o laicità) e «secolarismo» (o laicismo). La secolarità è una categoria di matrice cristiana che libera la religione da ogni concezione integralistica e teocratica, memore della distinzione sancita dallo stesso Cristo in modo lapidario: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Matteo 21,21). Può sorprendere, ma il fondatore del cristianesimo era un laico, come ribadisce uno scritto neotestamentario, la Lettera agli Ebrei: «È noto che il Signore nostro è germogliato dalla tribù di Giuda e di essa Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio... Perciò, se Gesù fosse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote» (7,14; 8,4). Gesù non apparteneva, infatti, alla tribù sacerdotale di Levi ma a quella laica di Giuda, per cui il sacerdozio che egli incarnerà non è ereditario-biologico bensì carismatico-spirituale. 
La secolarità è, allora, «la necessaria e legittima conseguenza della fede cristiana», scriveva il teologo tedesco Friedrich Gogarten (...) A Dietrich Bonhoeffer si deve la famosa definizione del nostro tempo come "mondo maggiorenne" che abbandona la famiglia originaria: al Dio teofanico, trionfale e onnipotente il cristianesimo ha sostituito il Dio "kenotico" (ossia umiliato nell'incarnazione, come dice San Paolo ricorrendo al verbo greco kenoun, «svuotarsi»), cioè il Cristo crocifisso. (...) 
Il Concilio Vaticano II con un suo documento fondamentale, Gaudium et spes, proponeva alla Chiesa questa secolarità positiva, stanziandosi quindi nel mondo come seme fecondo di critica, di trasformazione, di santificazione morale e spirituale, senza volerlo sacralizzare fondamentalisticamente, come accade in una certa concezione musulmana o come avveniva in passato con le teocrazie e le commistioni "impertinenti" tra fede e politica. (...) 
Delineiamo, invece, l'altro termine del nostro binomio, il secolarismo (...) è, invece, il parallelo antitetico del sacralismo. Esso ha avuto una genesi ramificata, posta alle origini stesse della modernità con una serie di irruzioni: pensiamo all'imporsi della scienza, all'indipendenza della filosofia dalla teologia, all'Illuminismo, all'urbanizzazione (...) Questo fenomeno generatore del secolarismo è detto «secolarizzazione» (...). Il secolarismo/laicismo che tendenzialmente respinge ogni presenza storica e sociale della religione relegandola esclusivamente nel santuario esistenziale della coscienza e in quello spaziale del tempio e del culto. (...) Il secolarismo contemporaneo non combatte ma ignora Dio, pronto eventualmente a relegarlo nel limbo inoffensivo della sua trascendenza. È quello che è stato suggestivamente definito come "apateismo", frutto della crasi tra "apatia" e "ateismo" (...). 
in “Il Sole 24 Ore” del 22 novembre 2015 

 
«L'immaginazione spirituale lavora sull'unico realismo delle nostre immagini, che è quello che si trova in Cristo, perché solo lì noi affondiamo in qualcosa di nostro e allo stesso tempo di Dio. Allora si tratta di una realtà che è vera, ma che tuttavia si deve ancora rivelare e realizzare come nostro divenire.
Io non mi proietto in un'immaginazione falsa, per cui mi identifico con una cosa assolutamente irreale, che non è mia e non c'entra niente con me.
No, la mia vera realtà è ciò che io sono in Cristo, ciò che è custodito in Lui. Guardandomi in Lui, io ho la mèta del mio divenire, la visione di ciò che sono in realtà, e trovo la forza per trasformare il mio quotidiano alla misura di questa visione.
Allora capisci che, affinché un'immaginazione sia reale, deve appoggiarsi nello sguardo di Dio. Guardarsi come ci vede Dio. Ciò che è nella visione di Dio: questo è quanto esiste realmente e allo stesso tempo è l'orizzonte sul quale esercitiamo la nostra creatività immaginativa. (...)
L'immaginazione spirituale, proprio perché si muove su questo orizzonte, è creativa, forte, potente, reale e trasformatrice».
Marko Ivan Rupnik, L'arte della vita. Il quotidiano nella bellezza, 91-92

Ma l’Italia vuole riconciliazione
di Roberto I. Zanini
«I dati confermano l’impressione di una perdita di incisività e di significato del sacramento della confessione, soprattutto fra i giovani e le categorie più acculturate, particolarmente fra le giovani donne laureate». Un trend che riguarda la popolazione in generale, ma anche i praticanti, i cattolici impegnati o aderenti ai movimenti ecclesiali. A parlarne in questi termini è il sociologo delle religioni Alessandro Castegnaro, che insegna alla Facoltà teologica del Triveneto ed è presidente dell’Osservatorio socioreligioso del Triveneto, probabilmente una delle poche, se non l’unica istituzione che negli ultimi anni (2011) abbia fatto una ricerca sul tema. Riguarda le regioni del Nordest, che però, spiega lo stesso Castegnaro, su questi temi si collocano nella media nazionale. 
Insomma, quanti sono gli italiani che si confessano? 
«Quelli che dicono di confessarsi almeno una volta l’anno sono quasi un terzo della popolazione adulta e circa il 40% dei cattolici, con una piccola percentuale che dice di farlo occasionalmente, a distanza di anni. Nei fatti si tratta di una minoranza più ampia dei praticanti assidui, ma più ristretta di chi a messa si reca ogni tanto». 
A quali categorie sociali appartengono?
«In gran parte sono pensionati e casalinghe. Si confessano di meno le persone professionalmente attive, i giovani e i laureati. In media un giovane su cinque. Tradizionalmente le donne si confessano di più, ma le giovani donne e le laureate si confessano meno dei corrispettivi maschili». 
Si allontanano i settori più attivi e scolarizzati della popolazione. «Eppure le donne laureate sono il gruppo sociale con maggiore interesse per la dimensione spirituale. Insomma, le donne che si discostano dai precetti della Chiesa sono quelle più interessate dalla spiritualità. Come annota Jose Casanova della Georgetown University, uno dei più importanti sociologi delle religioni: 'Stiamo perdendo le donne, le giovani generazioni di donne...'. Che poi si riavvicinano, in parte, quando hanno figli che vanno al catechismo». 
I motivi di questo distacco? 
«Complessivamente il 70% degli italiani ritiene la confessione non necessaria o è critico su come viene fatta». 
I cattolici più assidui cosa pensano? «Il 50% di chi ha una religiosità devozionale, legata, per esempio, alla figura di un santo, non la ritiene necessaria o vorrebbe un cambiamento. I praticanti e gli appartenenti a gruppi religiosi si confessano più o meno nel 65% dei casi, ma anche in questo gruppo la metà pensa che non sia strettamente necessaria e chiede un cambiamento». 
Si è perso il senso del peccato? 
«Non abbiamo elementi che consentano di attribuire questa presa di distanze dalla confessione a un perduto senso del peccato. L’inchiesta dice che circa il 65% della popolazione pensa che abbia senso parlare di peccato. Piuttosto la confessione è uno degli elementi al centro delle tensioni che attraversano l’evoluzione della religiosità, che in Italia vive una fase di svolta». 
Cosa intende dire? 
«La maggioranza pensa che si possa essere buoni cattolici anche senza seguire le indicazioni della Chiesa in ambito sessuale e sociale. Per queste persone i punti di riferimento sono la coscienza e la legge di Dio. Meno del 37% dei cattolici (la percentuale si alza di qualche punto fra i frequentanti) riconosce a papa e vescovi l’autorità di dire

Adotta un terrorista
di don Aldo Buonaiuto - 24 novembre 2015
Ho sognato e immaginato che in questi giorni il grido e la preghiera di milioni di credenti possa aver scosso anche il cuore di Dio proprio come lo raggiunse ai tempi di Caino quando gli chiese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo”. E così vorrei credere o almeno sperare che quel terrorista Salah Abdeslam sia scappato non solo per la paura ma anche grazie ad una mano invisibile che lo abbia bloccato per farlo ravvedere e magari anche per costituirsi. Può sembrare assurda questa ipotesi eppure per coloro che credono nel Dio di “tutte le cose visibili e invisibili” tale intraprendenza non dovrebbe stupire. Anzi, l’iniziativa del Signore ce l’aspettiamo e la desideriamo ardentemente.
E poi c’è il grande messaggio evangelico da non dimenticare che il cristiano dovrebbe mettere in pratica; parole forti e scomode quelle di Gesù che non si possono banalizzare: “Amate i vostri nemici, amate coloro che vi odiano, pregate per coloro che vi perseguitano… ” ecco il comandamento. Si può vincere il terrorismo per un amore più grande. Desiderare il ritorno del figlio perdutosi nell’oblio delle tenebre che possa sentirsi spinto dalla misericordia del Padre. Mi rivolgo innazitutto ai cristiani: “adottate” un terrorista dunque come impegno spirituale, seguendo gli insegnamenti biblici.
Il cristiano dinanzi all’orrore e al terrore dei criminali ha solo un modo di rispondere: quello di amare pregando per il loro cambiamento. Questa è l’unica e vera “arma” che può illuminare i cuori e le menti di coloro che progettano le stragi. Il Dio dei cristiani, e cioè lo stesso ed unico Padre di tutte le fedi monoteiste, può unirci nel desiderio di adottare ogni potenziale terrorista affinché si converta. L’odio non ha mai risolto nulla e tanto meno le inutili chiacchiere che siamo costretti ad ascoltare continuamente. I mille sfoghi anche comprensibili, la rabbia, le accuse, i falsi allarmi, le speculazioni e le incredibili falsità di chi mentre condanna il nemico gli vende le armi… (...)
Rivalutare la tenerezza. Anche Dio dà le carezze 
di Enzo Bianchi 
(...) Il termine ebraico tradotto nelle lingue neolatine con «misericordia» possa essere reso con «tenerezza». In verità il vocabolario ebraico dell’amore è molto ricco (chen, chesed, rechem/rachamim, termini che a volte si influenzano reciprocamente e mescolano i loro significati), anche se va riconosciuto che nella traduzione dall’ebraico al greco e poi al latino della Vulgata questa varietà lessicale si è progressivamente condensata intorno al termine «misericordia». (...) Poiché rechem/rachamim designa un movimento intimo, istintivo, causato da un fremito di amore che diventa com-passione, soffrire con, sensibilità; e poiché si tratta di un sentimento materno, che nasce dalle viscere, dalle interiora della madre, allora sembrerebbe più indicato tradurre con tenerezza invece che con misericordia, «cuore per i miseri». Occorre anche riconoscere che spesso si comprende la misericordia non nella sua autentica portata biblica, ma la si equivoca come un termine che designerebbe un sentimento di pietà, dall’alto in basso (come d’altronde può avvenire anche con il termine «compassione»).
Nel contempo, però, anche il concetto di tenerezza non è esente dai medesimi rischi, soprattutto quando si usa l’aggettivo «tenero», che può assumere connotazioni sdolcinate: dire che qualcuno è tenero, spesso suona inadeguato a definire la sua capacità di affetto e di com-passione. Può essere anche utile ricordarne l’etimologia: «tenerezza» viene dal latino tenerum, che significa «di poca durezza, che acconsente al tatto», dunque «sensibile»; ed è significativo che in alcuni dizionari lo si accosti, in senso figurato, a «sdolcinato», addirittura a «effeminato»…
Queste precisazioni lessicali sono necessarie per interpretare con fedeltà il pensiero di papa Francesco, che 

«Arrivò senza essere aspettato, venne senza essere stato concepito. Solo la madre sapeva ch'era figlio di un annuncio del seme che sta nella voce di un angelo. Era accaduto ad altre donne ebree, a Sara per esempio. Solo le donne, le madri, sanno cos'è il verbo aspettare. Il genere maschile non ha costanza né corpo per ospitare attese. Risento l'aggravante di ignorare fisicamente la voce del verbo aspettare. Non per impazienza, ma per mancanza di tenuta: neanche durante le febbri malariche mi veniva di ricorrere al repertorio delle immaginazioni di guarire, di stare in attesa di. 
Nei risvegli mattutini scorrendo Isaia leggo: "Lieti quelli che aspettano lui» (Is 30,18). Non ho conosciuto questa saggia e fisica letizia. Ma più forte di questa notizia, nello stesso verso è scritto: «Perciò aspetterà Iod/Dio di farvi misericordia». C'è un'attesa prima, che spetta a Dio e ha lo stesso verbo ebraico hacchè. Nella sua riduzione al formato della specie umana, il Suo tempo infinito si contrae nel finito di un'attesa. Dio aspetta: «Per farvi misericordia».
Il tempo di Avvento sta a imitazione di, sta dirimpetto all'eternità di un Dio che accetta di farsi periodico, irrompendo nel mondo a mesi stabiliti con nascita, morte e risurrezione. Chi ha in corpo le risorse per concepire attese, conosce dal verso di Isaia l'immensità della corrispondente attesa di Dio».
Erri De Luca, Nocciolo d'oliva, 13-14
 

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Mi piace un sacco l'idea che non ci si accontenti di ciò che è l'oggi.



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4.  Noi ci accorgiamo che una vera intercessione è difficile; può essere fatta solo nello Spirito Santo e non sarà necessariamente compresa da tutti. Ma se un desiderio essa suscita è questo: di essere in questo momento nei luoghi del conflitto, nelle strade di Bagdad o di Riad o di Bassora, nelle strade di Tel Aviv, dove cittadini inermi sono minacciati e uccisi. Stare là in pura passività, senza alcuna azione politica o alcun clamore, fidando solo nella forza della intercessione. Stare là, come Maria ai piedi della croce, senza maledire nessuno e senza giudicare nessuno, senza gridare alla ingiustizia o inveire contro qualcuno
Se la guerra sarà abbreviata, e noi lo chiediamo con tutto il cuore, uniti insieme con il Papa, se la forza dei negoziati soverchierà di nuovo - lo speriamo presto - la forza maligna degli strumenti di morte, ciò sarà certamente anche perché nei vicoli delle città dell’Oriente, nei meandri attorno alle moschee o sulla spianata del muro occidentale di Gerusalemme ci sono piccoli uomini e piccole donne, di nessuna importanza, che stanno là, così, in preghiera, senza temere altro che il giudizio di Dio; prostrati, come dice Neemia, davanti al Signore loro Dio, confessando i loro peccati e quelli di tutti i loro amici e nemici, finché non si avveri la profezia di Isaia: “In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: ‘Benedetto sia l’Egiziano, mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità’” (Is 19,21-25).
Carlo Maria Martini, meditazione 29 gennaio 1991

 «2.  Se una preghiera non raggiunge questa duplice solidarietà, se intercede perché il Signore soccorra l’uno e abbatta l’altro, ignora ancora il bisogno di salvezza di chi è eventualmente nel torto, di chi ha scelto contro Dio e contro il fratello, lo abbandona, non gli mette la mano sulla spalla, e la sua non è una preghiera di intercessione. Nella misura dunque in cui facciamo delle scelte esclusive nel nostro cuore, e condanniamo e giudichiamo, non siamo più con Gesù Cristo, nella situazione che lui ha scelto, e dobbiamo dubitare della validità e della genuinità della nostra preghiera di intercessione.
3.  Vorrei far notare che questo mettersi in mezzo non va concepito come un mezzo tattico, tanto per superare un’emergenza. È chiamato a diventare un modo di essere di chi vuole operare la pace, del cristiano che segue Gesù. Non abbiamo il diritto di restare in una situazione difficile solo fino a quando è sopportabile. Occorre volerci restare fino in fondo, a costo di morirci dentro. Solo così siamo seguaci di quel Gesù che non si è tirato indietro nell’orto degli ulivi».
Carlo Maria Martini, meditazione 29 gennaio 1991

«Non avrete il mio odio»
di Massimo Gramellini
Se ciò che chiamiamo Occidente ha un senso, questo senso palpita nelle parole con cui il signor Antoine Leiris si è rivolto su Facebook ai terroristi che al Bataclan hanno ucciso sua moglie.
«Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa.  
L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio».
«Intercedere non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione. Intercessione vuol dire allora mettersi là dove il conflitto ha luogo, mettersi tra le due parti in conflitto.
Non si tratta quindi solo di articolare un bisogno davanti a Dio (Signore, dacci la pace!), stando al riparo.  Si tratta di mettersi in mezzo.
Non è neppure semplicemente assumere la funzione di arbitro o di mediatore, cercando di convincere uno dei due che lui ha torto e che deve cedere, oppure invitando tutti e due a farsi qualche concessione reciproca, a giungere a un compromesso. Cosi facendo, saremmo ancora nel campo della politica e delle sue poche risorse. Chi si comporta in questo modo rimane estraneo al conflitto, se ne può andare in qualunque momento, magari lamentando di non essere stato ascoltato. 
Intercedere è un atteggiamento molto più serio, grave e coinvolgente, è qualcosa di molto più pericoloso. 
Intercedere è stare là, senza muoversi, senza scampo, cercando di mettere la mano sulla spalla di entrambi e accettando il rischio di questa posizione. (…) 
Non dunque qualcuno da lontano, che esorta alla pace o a pregare genericamente per la pace, bensì qualcuno che si metta in mezzo, che entri nel cuore della situazione, che stenda le braccia a destra e a sinistra per unire e pacificare. È il gesto di Gesù Cristo sulla croce, del Crocifisso che contempliamo questa sera al centro della nostra assemblea. Egli è colui che è venuto per porsi nel mezzo di una situazione insanabile, di una inimicizia ormai giunta a putrefazione, nel mezzo di un conflitto senza soluzione umana. Gesù ha potuto mettersi nel mezzo perché era solidale con le due parti in conflitto, anzi i due elementi in conflitto coincidevano in lui: l’uomo e Dio. 
Ma la posizione di Gesù è quella di chi mette in conto anche la morte per questa duplice solidarietà; è quella di chi accetta la tristezza, l’insuccesso, la tortura, il supplizio, l’agonia e l’orrore della solitudine esistenziale fino a gridare: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 46). 
Questa è l’intercessione cristiana evangelica. Per essa è necessaria una duplice solidarietà. Tale solidarietà è un elemento indispensabile dell’atto di intercessione. Devo potere e volere abbracciare con amore e senza sottintesi tutte le parti in causa. Devo resistere in questa situazione anche se non capito o respinto dall’una o dall’altra, anche se pago di persona. Devo perseverare pure nella solitudine e nell’abbandono. Devo avere fiducia soltanto nella potenza di Dio, devo fare onore alla fede in Colui che risuscita i morti. 
Tale fede è difficile, per questo l’intercessione vera è difficile. Ma se non vi tendiamo, la nostra preghiera sarà fatta con le labbra, non con la vita. 
Naturalmente un simile atteggiamento non calpesta affatto le esigenze della giustizia. Non posso mai mettere sullo stesso piano assassini e vittime, trasgressori della legge e difensori della stessa. Però, quando guardo le persone, nessuna mi è indifferente, per nessuno provo odio o azzardo un giudizio interiore, e neppure scelgo di stare dalla parte di chi soffre per maledire chi fa soffrire. Gesù non maledice chi lo crocifigge, ma muore anche per lui dicendo: “Padre, non sanno quello che fanno, perdona loro” (Lc 23,34)».
Carlo Maria Martini, meditazione 29 gennaio 1991
4. «Mi pare di poter portare una seconda ragione per cui la nostra preghiera non è stata esaudita. Io temo che spesso non l’abbiamo bene indirizzata. Abbiamo chiesto la pace come qualcosa che riguardava gli altri; abbiamo insistito perché Dio cambiasse il cuore dell’altro, nel senso naturalmente che volevamo noi. In realtà, il primo oggetto della autentica preghiera per la pace siamo noi stessi: perché Dio ci dia un cuore pacifico
“Dona nobis pacem” significa anzitutto: Purifica, Signore, il mio cuore da ogni fremito di ostilità, di partigianeria, di partito preso, di connivenza; purificami da ogni antipatia, pregiudizio, egoismo di gruppo o di classe o di razza. Tutti questi sentimenti negativi sono incompatibili con la pace. Eppure emergono vistosamente proprio ai nostri giorni, stimolati dalle notizie, dalle immagini che vediamo, stimolati dalle vibrazioni delle voci dei bollettini di guerra, dalla curiosità stessa eccitata da un conflitto la cui tecnologia sfiora l’inverosimile. 
Così, mentre preghiamo per la pace, nel fondo del nostro cuore finiamo per parteggiare, per giudicare, per auspicare l’uno o l’altro successo di guerra. L’istinto si scatena, la fantasia si sbizzarrisce, e la preghiera non tende verso quella purificazione del cuore, dei sensi, delle emozioni e dei pensieri che sola si addice agli operatori di pace secondo il Vangelo. È esigente essere operatori di pace secondo il Vangelo; è un dono che non si compra a poco prezzo, perché viene dallo Spirito e occorre accettare di pagarlo a caro prezzo».
Carlo Maria Martini, meditazione 29 gennaio 1991 
«3.  Intravediamo una prima ragione del motivo per cui non siamo stati esauditi! Nelle nostre preghiere non siamo partiti da una chiara ammissione e ammenda delle nostre colpe. (...)
Noi confessiamo: Ci siamo attaccati al nostro benessere, ne abbiamo approfittato in tutti i modi, lo abbiamo eretto a idolo, e poi pretendevamo che tu, o Dio, ci esaudissi, nel timore che questo benessere ci venisse a mancare. (…) Però non possiamo nasconderci come questi egoismi evidenti, che vengono a galla, abbiano origini oscure e tenebrose nel fondo dei nostri stessi cuori. Noi non abbiamo saputo fare un esame di coscienza nel profondo. 
Ha detto giustamente qualcuno: “I fiumi di sangue sono sempre preceduti da torrenti di fango”. In tali torrenti abbiamo sguazzato un po’ tutti noi umani, uomini e donne di ogni paese e latitudine: l’immoralità della vita, gli egoismi personali e di gruppo, la corruzione politica, i tradimenti e le infedeltà a livello interpersonale e familiare, il menefreghismo, l’indolenza e lo sciupio delle energie di vita per cose vane, frivole o dannose, l’insensibilità di fronte ai milioni di esseri umani la cui vita è soffocata con l’aborto, il volgere la testa di fronte alle miserie di chi sta vicino o di chi viene da lontano, il commercio della droga. 
Sì, in questi torrenti di fango ci siamo lasciati coinvolgere, ci siamo magari talora anche divertiti in maniera spensierata e irresponsabile. E poi vorremmo che Dio venisse incontro a una preghiera che spesso nasce proprio dalla paura di perdere le nostre comodità, il nostro benessere, di dover un giorno pagare di persona per i nostri errori.
4.  Se oggi c’è una guerra - lo ha ripetuto il Papa - non è perché le cose si siano mosse quasi per caso o per sbaglio, pur se ci sono delle responsabilità precise, a cui nessuno potrà sfuggire. C’è una guerra perché, per tanto tempo, si sono seminate situazioni ingiuste, si è sperata la pace trascurando quelli che Giovanni XXIII chiamava “i quattro pilastri della pace”, cioè verità, giustizia, libertà e carità. Ogni colpa pubblica e privata contro questi quattro pilastri, ogni atto di menzogna, ingiustizia, possesso egoista e dominio sull’altro, pregiudizio e odio, hanno scavato la fossa e l’edificio è crollato sotto i nostri occhi. 
Perché la pace è un edificio indivisibile, e ciascuno di noi l’ha distrutto per la sua parte di responsabilità. 
Ogni seria preghiera per la pace deve quindi nascere dal pentimento e dalla volontà di ricostituire anzitutto nella nostra vita personale e comunitaria “i quattro pilastri”: verità, giustizia, libertà, carità. Senza tale volontà umile e sincera, la nostra preghiera e la nostra invocazione sono ipocrite».
Carlo Maria Martini, meditazione 29 gennaio 1991
 
«1.  Io lo dico e ne do testimonianza: il mio cuore è turbato, la mia coscienza è lacerata, i miei pensieri si smarriscono. Tutti noi, senza fare eccezione tra credenti e non credenti possiamo ripetere: i nostri cuori sono turbati, le nostre coscienze: sono lacerate, i nostri pensieri si smarriscono, le nostre opinioni tendono a dividersi
Smarrimento e angoscia che non ci coinvolgono solo sul terreno del lutto per i morti, delle lacrime per tutti i feriti, del lamento doloroso per i profughi, per i senza tetto, per coloro che vivono nell’angoscia dei bombardamenti giorno e notte. 
Lo smarrimento e la divisione delle opinioni avvengono pure sul terreno delle riflessioni etico-politiche, che in questi giorni si succedono facendo balenare i più diversi giudizi. 
Vorrei dire molto di più: lo smarrimento e l’angoscia toccano persino l’ambito della fede e della preghiera, che è quello che ci riunisce questa sera, perché siamo qui per vegliare, digiunare, intercedere, facendo nostre le intercessioni e le grida di tutti gli uomini e le donne, di tutti i bambini, di tutti i vecchi in qualche modo coinvolti nel conflitto del Golfo, di qualunque parte essi siano. 
2.  Mi domando allora con voi: perché rischiamo di essere smarriti persino nell’ambito della fede e della preghiera? 
La risposta è molto semplice. Perché ci viene spontaneamente sulle labbra la domanda, quasi una protesta a Dio, come Giobbe: abbiamo già pregato, abbiamo chiesto tanto la pace, hanno pregato i nostri bambini, i nostri malati offrendo le loro sofferenze, ma tu, Signore, non ci hai esaudito! 
Ecco un grande motivo della nostra sofferenza civile, umana, religiosa, che tocca il cuore della fede: perché, Signore, non ci ascolti? perché nascondi il tuo volto? eppure in te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati. Ma io grido di notte e tu non ascolti, di giorno e tu non te ne dai pensiero! 
Vengono alle labbra queste parole dei Salmi, parole non inventate da noi, bensì pronunciate dai credenti di Israele di oltre duemila anni fa, che già si sono trovati davanti a Dio con questo lamento e con questa angoscia nel cuore. 
E facciamo nostre anche le parole amare di confessione e di pentimento del profeta Neemia, che si riferiscono a un lamento dolente del popolo di Israele, in un momento oscuro della storia, alcuni secoli prima di Cristo. Sentiamo emergere in noi il grido: “Abbiamo peccato come i nostri padri! Tu, Signore, hai agito fedelmente mentre noi ci siamo comportati con empietà”».
Carlo Maria Martini, meditazione 29 gennaio 1991
 

Da qualche mese, con alcune coppie abbiamo raccolto una mailing list percondividere il vangelo del giorno (rito ambrosiano) e commenti-preghiere che da esso scaturiscono nella quotidianità dei fedeli (non si tratta quindi di una riflessione del sottoscritto).

La cosa è stata affiancata anche da 
un gruppo su Facebook: "Il vangelo del giorno (rito ambrosiano)"(https://www.facebook.com/groups/1828558784106618/ ).

Un amico pubblica (di solito la sera precedente) il vangelo della liturgia ambrosiana del giorno; ciascuno (spesso mentre va al lavoro) ha la gioia di leggerlo; se vuole lascia un "commento".
Lo porto anche alla vostra conoscenza, se volete dare una sbirciatina o aderire al gruppo. Magari potete farlo conoscere, specialmente a chi fatica a trovare tempo e modi per la preghiera quotidiana.
Può anche essere un'idea per
caratterizzare l'avvento!
Buon cammino!

«Siamo sempre lo straniero di qualcun'altro».
Tahar Ben Jelloun

Tra i ragazzi in fuga dal regime di Afewerki che noi sosteniamo
di Federica Iezzi
Chi sono i rifugiati eritrei che attraversano il Mediterraneo? I ragazzi che arrivano al diciottesimo compleanno con in mano l’amara comunicazione del servizio militare obbligatorio. Sulla carta 18 mesi, che spesso però si protraggono per anni, in cui i giovani di Eritrea subiscono percosse, maltrattamenti, indottrinamenti nel campo di addestramento di Sawa, al confine con il Sudan. Il tutto per 59 miseri dollari al mese.
Aklilu, 18 anni e in partenza per Sawa, ci confessa «Mi hanno preso in uno dei costanti rastrellamenti a Maakel Katema, un quartiere nel cuore di Asmara. Non avevo nè la tessera del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, né quella per il servizio militare. Adesso mi mandano a Sawa, dicono per 18 mesi, ma c’è gente che da lì non torna da anni». La polizia eritrea pattuglia ogni strada del Paese alla ricerca di coloro che cercano di eludere il servizio militare obbligatorio. Trovarli significa cattura, reclusione e identificazione come dissidente.
Di fronte alla disumanità sistematica del regime di Isais Afewerki, la comunità internazionale continua a elargire pacchetti di aiuti all’Eritrea, credendo che il mero sostegno finanziario possa contribuire ad arginare il flusso di rifugiati e richiedenti asilo. Dunque si avalla in silenzio la contorta visione di Afewerki secondo la quale gli eritrei stanno migrando per ragioni prevalentemente economiche e non politiche. Secondo le stime delle Nazioni Unite fino a 5.000 eritrei al mese fuggono dal loro Paese. Un sofisticato e accurato mercato nero si è evoluto per agevolare la migrazione di massa.
Ci dice Hagos, padre e marito insospettabile e contrabbandiere di professione «Il trucco è sapere che non ci si può fidare: le spie sono ovunque. Sedute in un bar che ti osservano mentre prendi un caffè, alla fermata dell’autobus, al mercato mentre compri il pane». Il governo eritreo sorveglia i confini, controlla i movimenti dei suoi abitanti in ogni quartiere e mantiene sotto controllo la popolazione con una rete integrata di spie.
Il viaggio di un eritreo inizia nelle periferie dei villaggi di Shieb e Ghinda. Le porte sul retro dei negozi e le baracche di metallo si aprono. Qui si nasconde chi fugge. Dopo aver ottenuto da funzionari governativi corrotti, documenti di identificazione falsi, pagando fino a 75.000 nafka (più o meno 5.000 dollari), alcuni iniziano la marcia verso i confini con l’Etiopia o con il Sudan. Rispettivamente verso le città di Omhajer e Teseney. 200.000 rifugiati eritrei sono fermi nei principali quattro campi profughi della regione del Tigray, e nei due della regione di Afar, nel nord-est dell’Etiopia. Altri 100.000 hanno trovato una casa nei campi profughi di Gadaref e Kassala, regioni orientali aride sudanesi. Controcorrente il campo delle Nazioni Unite di Shagarab, nel Sudan dell’est, in cui vivono almeno 30.000 persone. Diventato negli anni una calamita per i trafficanti: più di 500 rapimenti, centinaia le persone scomparse. Costante paura per i rimpatri forzati in Eritrea.
Quelli che proseguono devono sopportare il disumano passaggio attraverso il Sahara. C’è un solo viaggio alla settimana. Direzione Libia. Hagos ci dice «So come controllare i banditi che infuriano nel deserto, so come corrompere la polizia e i militari. E so il deserto».
I contrabbandieri stipano 30 persone nella parte posteriore dei loro pick-up. O usano sovraffollati camion senza targa, dai vetri oscurati. Poco spazio per acqua, provviste e carburante. Viaggiano per 12 giorni. 2.000 dollari per arrivare nella città di 

Non abbiate paura del conflitto 
di Jorge Mario Bergoglio
Congresso internazionale di teologia sul tema «Evangelizzazione della cultura e inculturazione del Vangelo», da lui preparato e tenutosi presso la facoltà di Teologia della Compagnia di Gesù a San Miguel (Argentina) dal 2 al 6 settembre 1985

«Quando Giovanni Paolo II, nel suo discorso alla comunità universitaria di Lovanio, esortava a «promuovere una pastorale dell’intelligenza», proclamava una verità: «Fede e cultura procedono entrambe dalla ricchezza infinita del Verbo divino, che è insieme ragione e senso, fonte e pienezza». Il Verbo è fonte della fede: della fede che tende, per natura, a far crescere la nostra vita umana verso la sua pienezza. Il Verbo è pienezza anche della cultura: perché in ogni cultura, nel meglio di essa, c’è un’espressione di quel Verbo, incarnata in un modo particolare. Su questa base, il Pontefice continuava a spiegare il suo pensiero, dicendo che «la fede è fonte di cultura, e la cultura è effusione della fede. Questa è la concezione che senza dubbio condividete e che mi ha portato a creare il Pontificio consiglio per la cultura». 
 
Le culture: luogo di mediazione 
Il Verbo divino è la Sapienza. Con quella Sapienza dobbiamo stringere una rinnovata alleanza. L’alleanza con la Sapienza eterna implica partecipare di essa a tutti i livelli della sua manifestazione. Rivelare i misteri di Dio, creare, restaurare e perfezionare le creature: ecco altrettante opere della Sapienza divina, proprie del Verbo di Dio, Gesù Cristo, Sapienza incarnata. Si possono distinguere due ambiti privilegiati di manifestazione. Da un lato, il Vangelo, che è rivelazione del disegno salvifico della Sapienza di Dio, per mezzo di suo Figlio, sua immagine visibile. Rivelazione che salva restaurando e ricapitolando tutte le cose in lui. Dall’altro lato, le diverse culture, frutto della sapienza dei popoli, sono un riflesso, nel loro movimento ascendente, della Sapienza creatrice e perfezionatrice di Dio. 
Le culture sono il luogo in cui la creazione si fa autocosciente nel suo grado più alto. Per questo chiamiamo «cultura» il meglio dei popoli, il culmine della loro arte, il vertice della loro tecnica, ciò che permette alle loro organizzazioni politiche di perseguire il bene comune, alla loro filosofia di dare ragione del loro essere, e alle loro religioni di legarsi al trascendente attraverso il «culto». Ma questa sapienza dell’uomo, che lo porta a giudicare e a ordinare la sua vita a partire dalla contemplazione, non si dà né in astratto, né individualmente, né istantaneamente: piuttosto è contemplazione di ciò che si è lavorato con le mani; contemplazione che ha origine dal cuore e dalla memoria dei popoli; contemplazione che si fa attraverso la storia e in base al tempo. Così come Cristo, Sapienza incarnata, è l’unico Mediatore tra Dio e gli uomini, si potrebbe dire che le culture dei popoli, in quanto sapienza, sono luogo privilegiato di mediazione tra il Vangelo e gli uomini, garantite dal loro essere frutto del lavoro collettivo nel corso della storia. L’assoluto del Vangelo trova proprio nel cuore 

Anche Dio ha traslocato in città 
di Andrea Riccardi 
Dio vive nella città? Vive ancora nella città contemporanea, quella di donne e uomini così diversi dai cristiani devoti di altre generazioni? La città contemporanea appare l’incarnazione della crescita del mondo, quella della tecnoscienza e della padronanza dell’uomo sulla vita; ma è anche la realtà dell’agglutinarsi problematico dei drammi della società. In questa città sembra non ci sia spazio per Dio, per la vita di fede, se non in qualche angolo ben riparato o in qualche spazio residuale. Questa è l’opinione corrente, con cui fare i conti. La risposta alla domanda se Dio vive nella città appare, di primo acchito, negativa. Dio avrebbe lasciato la Babele umana, quella città costruita dall’uomo per farsi grande ed esaltarsi, ma che rappresenta anche il suo dramma e l’abisso della sua debolezza.
Si potrebbe dire che la città è un mondo. Grandi città contemporanee, come Istanbul, sono chiamate «città-mondo», per la complessità degli universi che contengono, unite, talvolta in modo inestricabile, tra loro, entro gli stessi confini urbani. (...) Dio è uscito dalle città? Questo sarebbe accaduto, anche se oggi l’umanità abita quasi pienamente in esse. Pensare Dio, il Dio della fede cristiana, fuori dalle città esprime una coerenza di pensiero che viene da lontano. È quello dell’affermazione della modernità laica e secolare contro la Chiesa e lo spazio della fede. (...) Questa lettura (...) è stata anche assunta dai cristiani e dalle loro Chiese: ha informato una pastorale difensiva in talune stagioni o ha spinto alla missione evangelizzatrice in altre, mentre in alcuni momenti ha generato una lettura pessimistica del presente e tant’altro. (...) Ignorare la portata antropologicamente trasformatrice della globalizzazione è spesso vivere e pensare come se la storia passasse invano. (...) La città globale è una realtà, anzi la nostra realtà. Insomma Dio vive nella città, in questa città globale. Bisogna riscoprire la sua presenza, renderla eloquente con una nuova pastorale, trovare le parole e i gesti per esprimerla. La città globale è anche un mondo saturo di religiosità. Spesso nelle città esiste un lessico religioso che non è cristiano o si riferisce al cristianesimo solo in modo marginale. La città globale è anche religiosa. Ma di quale religione? (...) In questo rinnovato quadro di convivenza umana, frutto dell’urbanesimo e della globalizzazione, non si possono riproporre modalità e strutture di vita della Chiesa che appartengono ad altri tempi. Soprattutto la Chiesa non è chiamata a una «battaglia» ideologica contro la secolarizzazione, ma a una conversione pastorale nella nuova situazione dell’uomo e della donna contemporanei. Il cardinale Bergoglio, nel 2011, sosteneva che «Dio vive nella città e la Chiesa vive nella città. La missione – continua – non si oppone a cercare di apprendere dalla città – dalle sue culture e dai suoi cambiamenti – mentre noi usciamo a predicarle il Vangelo». La Chiesa ha la missione di evangelizzare gli uomini e le donne della città, ma deve anche capirla e porsi in atteggiamento di ascolto verso le sue tante voci. Perché Dio vive nella città. Questa non è il luogo della morte di Dio. Così si può vivere il Dio nei cristiani nella città plurale e questo diventa un fatto di popolo, pur convivendo con altri percorsi religiosi e umani. Siamo lontani dal pessimismo ideologico verso la secolarizzazione (...).
in “Avvenire” del 4 novembre 2014 



La presa di parola nella comunità ecclesiale 
di Giovanni Nicolini 
"La presa di parola nella comunità ecclesiale", nella mia vicenda di cristiano e di prete, è antica di ormai cinquant'anni. La Bologna di Lercaro e del Concilio e la guida spirituale di Giuseppe Dossetti ci hanno regalato questa "presa della parola" come possibilità e consuetudine di ogni messa feriale. 
Ovviamente, una "presa di parola" generata dal quotidiano ascolto della parola come preghiera personale di ciascuno. E con una "verifica-revisione" della lectio continua offerta dal Lezionario. (...) Questa è la preghiera personale di ciascuno e diventa appunto "la presa di parola" nella liturgia quotidiana, dove sempre viene commentato un libro della Bibbia. Non dunque la predica del prete che presiede, ma una conversazione, alla quale tutti sono invitati. 
La nota forte di questa esperienza è l'ascolto della parola, come “parola nella storia". Dio ha parlato sempre "nella storia": al suo popolo e a ognuno dei suoi figli e delle sue figlie, nella tessitura concreta delle vicende, delle culture, dei grandi eventi e del cammino di ciascuno. E per questo la parola di Dio si è sempre "relativizzata", cioè si è sempre posta "in relazione" con la storia di ciascuno e di tutti. (...) Nella Bibbia, persino Dio si pente e si converte. Dunque, quella parola, che in te si relativizza e si incarna, quella parola che è antica e sempre nuova, più che dare risposte e sentenze, pone domande e allarga gli orizzonti. Al punto che nessuno la possiede. Nessuno possiede la verità! E non perché la verità non c'è, ma perché la verità è sempre più grande, e l'unico modo per essere nella verità è, come suggerisce anche il grande Giovanni, di camminarci sempre. (...) Con il papa argentino arrivato a Roma tutto questo si sta dilatando, a partire da una piccola parrocchia "inventata" (vuol dire "trovata"!) in Vaticano e lui che ogni mattina dice messa e commenta la parola. Il gesto rivoluzionario attua quello che il documento conciliare chiedeva sessant'anni fa. Ma il Concilio era "troppo avanti" per la chiesa di allora, che, miracolosamente, aveva prodotto un evento troppo profetico. Oggi non è così. Papa Francesco rende presente e urgente quello che con qualche compromesso il Concilio aveva generato. La sua "gioia del vangelo", che m'è sembrata un po' la risonanza dell'omelia di esordio del Concilio: «Gode la madre Chiesa» del santo papa Giovanni XXIII, è una divina conversazione, fatta sul balcone che guarda tutte le chiese e tutto il mondo di oggi e di domani. La riforma della chiesa che il papa ha avviato è la più grande e importante di tutta la storia della chiesa. E di questa riforma, la parola del Signore è la fonte e il cuore: una parola data a tutti e affidata a tutti! È l'unica via per uscire da una stretta che ormai diventava soffocante! (...) Con questo papa la tensione si è radicalmente attenuata. Il problema non è più il conto di chi è dentro e di chi è fuori. Lui stesso osserva che la pecora smarrita del gregge non è una sola: ne sono scappate novantanove su cento! E il papa fa notare che non possiamo continuare a pettinare l'unica che è rimasta. Bisogna uscire per cercare e per incontrare le altre novantanove. Siamo tutti fuori. Tutti in cammino. Il compito non è più quello di stabilire chi è dentro e chi è fuori, ma è quello di portare il vangelo a tutti quelli che sono in cammino, qualunque sia la loro condizione. E questo lo si è visto bene nell'occasione del Sinodo e della sua preparazione. (...) Tende a collocare ogni situazione e ogni questione nella concreta tessitura della storia. E non chiede un giudizio, ma invita a porsi il problema: come portare il vangelo anche là? (...)
in “Servitium” n. 220 del luglio/agosto 2015 
Galantino: sarebbe bello un Sinodo nazionale
Una Chiesa che si mette in ascolto, che dialoga al suo interno con lo stile della sinodalità e che al contempo cerca strade nuove per portare il messaggio del Vangelo nell’Italia di oggi: è il ritratto, con un auspicio, che il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, traccia (...) “È una Chiesa che si aspetta molto da se stessa, che cerca un luogo in cui fare discernimento insieme, come ha indicato il Papa ai vescovi italiani durante l’assemblea generale del maggio scorso”, afferma monsignor Galantino. Per poi aggiungere: “Ho percepito, in maniera molto chiara, una sorta di ‘fastidio’ verso quei convegni cosiddetti ‘accademici’: c’è, infatti, una sorta di ‘convegnite’ acuta che non tocca solo la Chiesa ma un po’ tutte le realtà. Oggi, invece, la gente ha bisogno di ritrovarsi, di discernere, di dialogare; ha bisogno di idee e di percorsi chiari”. (...)
“Penso che il Papa ancora una volta c’inviterà a fare opera di discernimento e di verifica rispetto a due tipi di attese: in quale maniera la Chiesa italiana sta coniugando l’incontro tra fede e storia? E come si sta misurando con il mondo contemporaneo?”. Galantino aggiunge: “Molto spesso – senza dare giudizi, ma con grande umiltà e serenità – c’è da denunciare quell’atteggiamento per cui si pensa di essere Chiesa prescindendo da ciò che avviene intorno a noi, con il rischio di fare proposte e con un linguaggio che dicono niente agli uomini e alle donne d’oggi. Non si tratta di cedere alla contemporaneità, ma – come c’invita il Concilio Ecumenico Vaticano II, soprattutto nella Gaudium et Spes – di essere uomini e donne di Vangelo, che vogliono annunciarlo e testimoniarlo all’uomo di oggi. (...) “Dobbiamo guardare all’esperienza del Sinodo appena concluso, in cui sono emerse chiaramente la vitalità, la bellezza, ma anche la fatica che comporta il cammino della sinodalità”. Quindi un auspicio: “Sarebbe bello che la Chiesa italiana affrontasse un’esperienza che da troppo tempo non fa: un Sinodo nazionale”.
Avvenire, 5 novembre 2015
 
 

Il Libro che mette in cammino 
di Lidia Maggi 
Welcome to God’s land! Quando leggiamo la Bibbia incontriamo un narratore che ci prende per mano per farci entrare nel mondo delle Scritture. Grazie alla sua guida sapiente, ne impariamo a conoscere le geografie, a entrare nel cuore dei personaggi. Non è sempre un processo veloce e molto dipende da noi, dalle resistenze che mettiamo tra noi e il testo. Iniziamo ogni volta il viaggio nelle Scritture portandoci dietro le nostre precomprensioni, a volte i nostri pregiudizi, di cui neppure siamo consapevoli. 
Solo proseguendo nel cammino, man mano che ci inoltriamo nella Bibbia, scopriamo che qualcosa in noi muta: ci disfiamo dei bagagli che pensavamo essenziali, e che invece scopriamo inutili e ingombranti, per imparare a conformare l’abbigliamento al clima e al contesto. Insomma, la Bibbia ci trasforma; ma per farlo ha bisogno del nostro tempo. La Bibbia non è un testo immediato, richiede tempo perché si dischiuda in tutta la sua bellezza paesaggistica. A tratti, è terra misteriosa, incolta; a tratti, coltivata e accogliente. Più lungo è il viaggio, più essa ha la capacità di trasformarci per sintonizzarci su un’altra realtà, quella di Dio. Il mondo della Bibbia non è il nostro, e non soltanto perché ne sentiamo una distanza culturale e geografica; piuttosto, perché ci apre a una dimensione altra da noi, quella di Dio. La Bibbia ci fa entrare nello spazio e nel tempo di Dio. Ci trasforma, modifica la nostra visione del mondo. Ci apre all’attesa, ci spinge a invocare: «Venga il tuo Regno». Il tempo biblico è gravido di attesa: è tempo messianico, che ci permette di sentire i cieli aperti; è la terra non più orfana di Dio. In questo senso, le vicende bibliche non sono alle nostre spalle: la memoria promuove l’attesa; e quest’ultima può fluire solo se radicata nel ricordo della promessa: è memoria del futuro. Il passato riscritto, rivissuto, rivisitato apre al futuro, in quanto trasforma il nostro tempo, lo dilata, lo libera dall’immediato, dalla fretta, disponendoci ad attendere, invocando la venuta ultima, la manifestazione piena di Dio.
La verità dei personaggi biblici. Nel mondo biblico incontriamo diversi personaggi, nei confronti dei quali, almeno inizialmente, ci poniamo con la curiosità del turista rispetto a un panorama esotico. Osserviamo Abramo nella sua tenda di beduino, mentre conversa con strani ospiti; Davide nel suo palazzo, ignaro degli intrighi di corte; Ruth che spigola nei campi; un pellegrino che sale a Gerusalemme salmodiando... Tutto ci incuriosisce, poiché siamo turisti che guardano un mondo differente dal proprio. Poi, piano piano, con la sapienza del cammino biblico, scopriamo che questi personaggi, apparentemente così lontani, sono in realtà molto più vicini di quanto pensiamo. Ci fanno da specchio, ci parlano e, attraverso le loro vicende, mettono in scena i nodi più profondi di ogni esistenza, quelli che ci riguardano; scavano nei nostri stati d’animo, scoperchiano aspetti di noi stessi che non avremmo mai voluto vedere. Insomma, ci leggono dentro e ci cambiano. Sono personaggi veri, quelli che incontriamo nel mondo delle Scritture; ma non nel senso che 


“Lascio il mio posto a chi ha famiglia”: rinuncia al trapianto e muore
di Renato Balducci
«Sono solo, non ho famiglia. Lascio il mio posto a chi ha più bisogno di me. A chi ha figli e ha più diritto di vivere». Walter Bevilacqua lo aveva confessato al parroco poco tempo fa. La morte l'ha colto durante la dialisi a cui si sottoponeva ogni settimana all’ospedale San Biagio di Domodossola. Il cuore ha ceduto durante la terapia e la bara è stata portata a spalle al cimitero dagli alpini di Varzo, penne nere come lui. Dietro al feretro le sue sorelle Mirta e Iside: «Era proprio come lo descrivono: altruista, semplice. Un gran lavoratore. Sapeva che un trapianto lo avrebbe aiutato a tirare avanti, ma si sentiva in un’età nella quale poteva farne a meno. E pensava che quel rene frutto di una donazione servisse più ad altri» racconta Iside. 
Una vita piena di sacrifici, così come quelle di altri pastori di montagna, stretti alla loro terra. Solitario e altruista, nel momento più delicato della vita ha detto no al trapianto. «Sono in molti che aspettano quest’occasione. Persone che hanno famiglia e più diritto a vivere di me. È giusto così» aveva detto, con quella naturalezza che l'ha sempre contraddistinto. Bevilacqua è morto pochi giorni fa a 68 anni, una storia venuta alla luce quando il parroco del paese, don Fausto Frigerio, l’ha raccontata in chiesa durante la messa, un esempio da affidare a tutti. Quella frase pronunciata tanto tempo prima, gli era rimasta impressa: «Me l’aveva detto durante una chiacchierata. So che l’aveva confidato anche a un conoscente con cui si trovava in ospedale per le terapie» racconta il prete. (...)
Se assegniamo al progetto iniziale di Expo il valore "100"
(tanto che nel 2008 Milano ha vinto la gara per l'assegnazione),
al momento dell'inizio della manifestazione (1 maggio 2015)
il progetto era compiuto al... 50%, diciamo?! (non lo so precisamente).
Certo, rispetto al nulla (punto 0), si è fatto tanto;
certo, rispetto a crolli, inondazioni, incidenti, attentati... è andato tutto liscio.
Ma se è stato un trionfo (così ci dicono) avendo realizzato il 50%,
cosa non sarebbe stato se avessimo fatto quel 100% promesso?!
E avremmo potuto farlo (nel mondo ideale e irreale!).
E' la solita questione del "bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno"?
In parte sì. Più a fondo, io credo si tratti di una impostazione culturale e spirituale.
Fatico ad accettare che si viva così:
all'inizio "si butta lì" una parola, una espressione, un progettino;
poi si lavora non bene (a volte proprio male);
e alla fine si dice che siamo bravi (chiudendo gli occhi su tutto il resto: malaffare, ritardi, sprechi, inadempienze)
e in fondo al cuore ci si accontenti dell' "Anche stavolta ci è andata bene!"
 
Capisco che io sia fatto male e ragioni malissimo:
se Dio Trinità avesse reagito così con l'umanità, avrebbe accorciato e gettato il tutto da molto tempo ormai.
Anche Dio Trinità si è abituato a lavorare "italian style" con gli uomini.
E così c'è spazio anche per me, in questo mondo al 50%.
Ma nemmeno Dio Trinità si accontenta e continua a proporci il 100, anzi il 1000!!
don Chisciotte Mc