... ma questa foto mi piace!
 

 

 

Lewis: Salmi, che ironia! 
di Antonio Giuliano 
«Questo non è un lavoro accademico. Non sono un ebraista, né un biblista, né uno storico antico, né un archeologo. Scrivo per ignoranti su cose che anch’io ignoro». Dice proprio così C.S. Lewis (1898-1963) introducendo un’opera curiosissima Reflections on the Psalms ora tradotta per Lindau in italiano ne I Salmi (pp. 176, euro 19) grazie ad Edoardo Rialti (con prefazione di Jonah Lynch), in libreria da oggi.
Per carità, se il celebre autore de Le Cronache di Narnia e Le lettere di Berlicche non fosse quel fine umorista che abbiamo imparato a conoscere, potremmo anche credergli. In realtà la materia biblica Lewis la mastica eccome se negli anni, oltre a sedurre milioni di lettori, si è ritagliato un posto di rilievo tra gli apologeti cristiani. Non per nulla tra i più entusiasti ammiratori dello scrittore anglicano c’è Benedetto XVI il quale gli riconosce quella capacità unica di trattare i pericoli dell’uomo moderno in modo spiritoso e ironico. E non è nemmeno falsa modestia quella con la quale C.S. Lewis - «Jack» per gli amici, visto che i nomi Clive Staples li riteneva un brutto tiro dei suoi genitori - si approccia ai Salmi, poema biblico per eccellenza del dialogo tra Dio e l’uomo. È l’umiltà del «convertito più riluttante della storia» come lui stesso si definì prima di quella notte del 1929 in cui «ad un certo punto disse - mi arresi, riconobbi che Dio era Dio». Fatale gli fu l’amicizia fraterna con il cattolico J.R.R. Tolkien, suo collega ad Oxford, poiché Lewis prima che scrittore di successo, era già insigne studioso di filologia e letteratura e professore nelle più prestigiose università. Ma suo maestro fu anche quel genio di G.K. Chesterton da cui apprese l’arte dell’umorismo, il più salutare antidoto all’orgoglio perché ti consente di osservarti dall’esterno e ricordarti, sorridendo, di non essere Dio.
Con questo spirito umile e intriso di humour tipicamente britannico Lewis rilegge il Salterio, che di colpo ci appare più spassoso e familiare che mai. Il tono confidenziale e leggero prende il lettore per mano: «Dove troviamo una difficoltà possiamo sempre aspettarci una sorpresa». Lo stile divertito e brillante rende semplici anche argomenti profondi. E la leggerezza e l’arguzia 


Se da un bombardamento si fosse salvata una statua della Madonna;
se un giovane avesse scoperto la sua vocazione ai piedi di una statua dedicata al papa;
se un malato avesse ritrovato la salute invocando un beato in via di canonizzazione;
se...
di certo qualcuno avrebbe gridato: "Miracolo! Miracolo!"
e ne avrebbe tratto motivo per difendere la veridicità della fede.
 
Io non seguo questo filone della spiritualità.
 
Ma ora che una statua del Crocifisso si è rotta;
ora che ha ucciso un giovane;
ora che siamo nei pressi della canonizzazione di quel personaggio a cui era dedicata la statua;
ora che quel giovane abitava in una via intitolata all'altro personaggio canonizzato;
ora che...
cosa dovrebbero dire i seguaci di quella spiritualità?!
 
don Chisciotte

 
“Tutti i contendenti del 25 aprile “
di Michele Serra
È stato un 25 aprile nervoso, e questa non è una novità. È almeno dai primi anni Settanta che la festa della Liberazione è (anche) occasione di attrito tra “ufficialità”, vera o presunta.
E vivaci movimenti che valutano di essere “i veri partigiani”, a volte rubando la scena ai reduci sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi di quella guerra giusta e vittoriosa.
Ma quest’anno il nervosismo ha assunto le forme, davvero molto contemporanee, di uno sbriciolamento tipicamente “local”, che nel nome delle cause più varie, alcune nobili alcune abbastanza stravaganti, ha inteso rivendicare la Resistenza come una cosa propria, indegnamente usurpata dalle varie autorità sui vari palchi cittadini.
A Roma è stata la questione mediorientale a prendersi la scena, con scontri verbali molto aspri tra “brigate ebraiche” e simpatizzanti della causa palestinese, entrambe le fazioni ovviamente arciconvinte di essere “i veri partigiani”. A Torino alcuni No Tav hanno contestato l’Anpi, colpevole di “essere nel Pd”, mentre si sa che “i veri partigiani” eccetera eccetera. A Palermo è stata molto percepibile la causa dei No Muos, che sarebbe (il Muos) il nuovo sistema di puntamento satellitare americano, che comporta servitù militari indesiderate; e pur trattandosi di una lotta del tutto rispettabile e degna di coronamento, non è facilissimo stabilire se e quanto si sia “veri partigiani” a seconda che si sia favorevoli o contrari a un nuovo sistema di puntamento satellitare. A Milano esponenti della Giunta Pisapia sono stati contestati da un drappello di No Canal, contrari al passaggio di un nuovo canale nel loro quartiere. E anche qui si dovrà riconoscere la non immediata identificazione tra le due circostanze, di portata storica piuttosto impari: l’opposizione a un canale artificiale e la liberazione dal nazifascismo.
Già: perché è poi di questo, dopotutto, che si tratterebbe. Il 25 aprile del 1945 vennero liberate dai tedeschi e dai loro alleati repubblichini Milano e Torino; e l’esecutivo del Comitato di Liberazione Nazionale proclamò, via radio, l’insurrezione. Per convenzione quel giorno venne considerato dai fondatori della nuova democrazia il più rappresentativo della lotta di liberazione partigiana al fianco degli angloamericani. Ovviamente è del tutto lecito non festeggiarlo, cosa che i nostalgici del regime fascista hanno sempre fatto, e anche buona parte degli italiani di destra che considerano 25 aprile e Primo Maggio “feste comuniste”.
Ma partecipare avocando a sé, alla propria lotta non importa se globale o di cortile, non importa se la più degna o la più insostenibile, la titolarità del verbo “resistere”, oltre a essere leggermente narcisista è un poco sconveniente nei confronti di chi (milioni di italiani) considera il 25 aprile la festa della libertà ritrovata, dunque una festa di tutte le persone libere: punto e basta. Una festa del “noi”, non una festa dell’“io”, che ce ne sono già tante.
Che poi quegli ideali fondativi siano stati onorati oppure traditi, e in quale misura onorati e in quale traditi, è un dibattito decisivo e avvincente; che esistano molte possibili forme di resistenza, alcune del tutto nuove, e la pigra consuetudine democratica non le valorizzi e anzi le inibisca, è pure verissimo; ma insomma, se un giorno all’anno milioni di italiani vogliono festeggiare non “le resistenze”, ma quella Resistenza lì, quella guerra, quella vittoria, la nascita di quella democrazia che poi, con alterne fortune, è ancora la nostra, perché fare di una festa di popolo, cioè di tutti, il proprio cortile politico? Un corteo non è un cortile. In Francia a nessuno verrebbe in mente di salire in groppa al 14 luglio per farsi notare e fare pubblicità alle proprie faccende politiche o alla propria singola lotta. E il 25 aprile è il nostro 14 luglio, il compleanno della nostra libertà. D’accordo, non siamo la Francia. Ma se ci riuscisse, ogni tanto, di essere almeno l’Italia?
 
da Repubblica, 26 aprile 2014

Per amore ribelli:
il contributo alla Resistenza dei sacerdoti e dei laici ambrosiani
Un'attività determinante negli ultimi, tragici mesi della seconda guerra mondiale, che portò alla salvezza di tanti perseguitati dal nazifascismo, e che tuttavia ancora oggi è poco nota. Anche per "colpa" di quegli stessi protagonisti, che scelsero di rimanere lontano dai clamori, nonostante gesti di vero eroismo.
di Luca Frigerio
qui l'articolo: 
 

 

 

«Matriarche» e profetesse, Bibbia riletta dalla parte delle donne
di Fernanda di Monte 
La parola di Dio è rivolta anche alle donne? Come liberare la Bibbia dalle categorie patriarcali? Sono alcuni interrogativi che guidano Adriana Valerio (in "Le ribelli di Dio"), docente di Storia del cristianesimo all’università Federico II di Napoli, nel far emergere dalla storia e dall’esegesi quelle donne che «parallelamente a una tradizione maschile» hanno elaborato teologicamente modi diversi di interpretare la Bibbia, di ricercare itinerari di fede. Perché anche se tutto inizia a fine Ottocento tra i protestanti, con la Woman’s Bible di Elisabeth Cady Stanton, suffragista americana, è solo negli ultimi decenni che si sviluppa in ambito teologico un lavoro interpretativo attento alle tematiche «di genere», nutrito di contributi talvolta divergenti.
Guardato con sospetto dalle Chiese, talvolta censurato, a volte semplicemente ignorato, questo genere di studi ha camminato in prevalenza sulle gambe delle donne. Ora Adriana Valerio aggiunge il suo apporto. Rivelare le donne della Bibbia significa, ad esempio, «non parlare più di 'patriarchi' di Israele ma di 'genitori', come l’originale ebraico abot indica, evidenziando il ruolo esercitato dalle 'matriarche' come Sara, Rebecca, Rachele nel piano di Dio». Vuol dire scoprire che «il ministero più alto nella Bibbia ebraica non era il sacerdozio ma la profezia, e dopo Mosè essa passa a una donna, Debora, non a Samuele né Elia»... 
Con gli occhi della storica ma in modo appassionante, la studiosa fa emergere i punti di rottura tra il comportamento di Gesù e la tradizione, dedotti da studi comparati sul testo biblico: «Il regno di Dio è vicino a tutti, senza discriminazioni; alcuni tabù di tipo religioso, come considerare impure le donne durante il ciclo mestruale, con Cristo non hanno più valore, come conferma l’episodio della donna 'sanguinante' che lo avvicina; alcuni peccati, soprattutto sessuali, non sono più associati con un determinato sesso, come mostrano gli episodi della samaritana o dell’adultera; infine la testimonianza delle donne viene fortemente sottolineata: sono loro le testimoni della sepoltura e una donna, Maria di Magdala, sarà la prima annunciatrice della resurrezione». 
Anche il versetto della prima Lettera ai Corinti (14,34) «Le donne tacciano nell’assemblea» – che ha determinato l’esclusione femminile da qualunque ruolo autorevole – a parere dell’autricenon va inteso «con un valore universale e assoluto», perché «fu interpretato diversamente da alcune donne del passato, come Domenica da Paradiso (1473-1553), Juana Ines de la Cruz (1648-1695) o Margareth Fell (1614-1702), e oggi l’esegesi lo intende circoscritto alle donne di Corinto particolarmente rumorose in assemblea». 
in “Avvenire” del 31 gennaio 2014

 
Connessi ma non troppo, come curare la dipendenza da tecnologia
di Marta Serafini
Probabilmente, durante la lettura di questo articolo, controllerete almeno una volta le mail, risponderete a un messaggio su WhatsApp e butterete un occhio alle notifiche di Facebook. Se lo farete è facile che siate dei «dipendenti tecnologici non patologici», categoria in cui, secondo uno studio del Mental Health Center dell’Università di Glasgow, rientra il 59 per cento della popolazione. Se invece vi sarete limitati alla lettura del pezzo senza mai interrompervi pur non essendo amish o luddisti, allora è probabile che siate tecnofili moderati, ossia persone che usano la tecnologia in modo saggio ed equilibrato e che non si fanno venire un attacco di panico se il WiFi non funziona. Ma sappiano soprattutto gli appartenenti alla prima categoria che una maniera per ricostruire un rapporto equilibrato con il proprio smartphone c’è. Lo racconta Giovanni Ziccardi in «Entro 48 ore» (pp.176, Marsilio Editori), saggio dedicato al downshifting: «Ci sono modalità responsabili e intelligenti di usare le tecnologie anche in un mondo che porta, al contrario, a un utilizzo frenetico e poco ragionato».
C’è stato un tempo in cui, in metropolitana, il telefono non prendeva ed evitavamo di stare tutti con la testa ricurva su Angry Birds e Candy Crush. Allora leggevamo la free press e ogni tanto ci capitava pure di sbirciare il libro del vicino. Ora niente, l’interazione sociale è pari a zero. Abbiamo occhi solo per il nostro schermo. Si tranquillizzino però gli ansiosi, non siamo del tutto irrecuperabili: «Se ci fermiamo a riflettere sul nostro quotidiano digitale, possiamo evidenziare i nostri punti deboli e, correggendoli, aumentare sensibilmente la qualità di tutto ciò che facciamo, sia nella vita personale sia nella vita professionale», sottolinea Ziccardi. La via verso la salvezza è il downshifting, ossia «uscire» per qualche tempo dalle tecnologie per poi rientrarvi con maggior responsabilità e sostenibilità. Attenzione, però. Ricostruire il proprio io digitale è un esercizio non semplice, ed ecco perché 

Clicca sull'immagine per vedere il video.

Questo invece il videoclip della canzone "originale"!

 
Perché sarà sempre la più bella storia mai raccontata 
di Enzo Bianchi 
Perché da duemila anni cristiani e non cristiani sentono il bisogno di raccontare o di riascoltare la storia di Gesù di Nazareth? Perché questa singolarità di Gesù tra i grandi maestri iniziatori delle vie religiose? La risposta potrebbe essere semplice: la sua singolarità di uomo-Dio attira certamente i credenti che diventano suoi discepoli, e la sua umanità così autentica ed esemplare intriga anche uomini e donne che non sono attratti da vie religiose. Mi sento di poter dire che quanti sono impegnati a cercare Dio (quaerere Deum) e quanti cercano l’uomo (quaerere hominem) si sentono attirati da Gesù Cristo. 
Gesù non ha scritto nulla, ma altri hanno scritto di lui, hanno tentato dei ritratti, lo hanno narrato, e così ne hanno tramandato la storia: una narrazione plurale, che ha colto aspetti e accenti diversi nelle sue parole, che ha dato diverse interpretazioni delle sue azioni. Si pensi ai quattro Vangeli, agli scritti del Nuovo Testamento, ma poi a tanti altri tentativi, non ritenuti autentici dalla chiesa, ma che rappresentano comunque narrazioni “altre” di Gesù. Anche perché Gesù di fatto ha chiesto a chi voleva seguirlo di diventare lui stesso, con la propria vita, un suo narratore, capace di portare la buona notizia del Vangelo tra gli uomini: con la sua parola e la sua vita Gesù ha voluto narrare Dio agli uomini (exeghésato: Gv 1,18), e ogni suo discepolo cerca lui pure di narrare agli altri la vita di Gesù. Narrazioni senza fine!
Ma la figura di Gesù e i testi dei Vangeli hanno sollecitato e sollecitano, ieri e oggi, letterati, artisti, registi anche dichiaratamente non cristiani. Perché? Se vi può essere un elemento di interesse a motivo di un mercato “religioso” che vende, vi sono però anche riletture e riscritture della figura di Gesù di alto spessore letterario e artistico (come dimenticare Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini?), che richiedono ben altra spiegazione. Mi pare che spesso esse si insinuano nella distanza, a volte sentita come abissale, esistente tra il Gesù dei Vangeli e la presentazione che per secoli ne è stata fatta in ambito ecclesiastico, per interessi dottrinali, teologici, morali, pedagogici
Spesso si coglie in queste riscritture

 

In questa serie di immagini ambientate nella miniera d’oro della Serra Pelada, in Brasile - fotografie per le quali l’aggettivo “incredibili” sembrerebbe il più appropriato - Sebastião Salgado documentò nel 1986 l’abuso in atto, senza precedenti, dei più elementari diritti umani
Migliaia di uomini - che alcuni definirebbero “cercatori d’oro”, ma che opportunamente andrebbero chiamati con l’appellativo più pertinente di schiavi - sono ritratti mentre risalgono da un’enorme cava su primitive e precarie scale a pioli, portando sulle spalle pesanti sacchi ricolmi di terra e fango in cui potrebbe nascondersi una pagliuzza, una micro-pepita, un frammento d’oro.
E’ una storia che nasce nel XIX secolo con un primo, fortunoso ritrovamento di oro, e che finì per scatenare una vera e propria immigrazione dalle campagne vicine o lontane. Trasportati da sogni di ricchezza e libertà, migliaia di uomini abbandonarono il loro lavoro nelle regioni agricole del nord e del nord-est del Brasile per dirigersi a Serra Pelada. Nessuno fu portato con la forza, ma tutti divennero schiavi della speranza di fare fortuna, sopportando condizioni di vita disumane. Una volta arrivati, era impossibile uscirne.
Ogni volta che in un appezzamento di terreno della miniera - chiamato barranco - si scopriva l’oro, gli uomini che trasportavano i sacchi di terra e fango, e che ricevevano una paga appena sufficiente per mangiare, avevano diritto di scegliere uno dei sacchi e di guardarci dentro. Al suo interno poteva nascondersi la fortuna.
La vita di ognuno di loro era un’interminabile sequenza di discese fino al fondo della miniera e di risalite alla superficie, ad un’altezza vertiginosa.
La miniera d’oro di Serra Pelada era controllata dalla polizia militare dello stato federale del Pará, con frequenti attriti tra i soldati e i lavoratori della miniera, chiamati garimpeiros (arrampicatori). A volte, durante le liti, i poliziotti sparavano contro i lavoratori.
Oggi la miniera di Serra Pelada è in abbandono. La gigantesca cava a cielo aperto che era stata scavata con le mani è diventata un piccolo lago inquinato.
 
Sebastião Salgado - Gold mine, Serra Pelada in the federal state of Pará, Brasile 1986
 


«Se dovessi scegliere una reliquia della tua Passione
Prenderei proprio quel catino colmo d'acqua sporca.
Girare il mondo con quel recipiente
E ad ogni piede cingermi dell'asciugatoio
E curvarmi giù in basso,
Non alzando mai la testa oltre il polpaccio
Per non distinguere i nemici dagli amici
E lavare i piedi del vagabondo, dell'ateo, del drogato,
Del carcerato, dell'omicida, di chi non mi saluta più,
Di quel compagno per cui non prego mai,
In silenzio,
Finché tutti abbiano capito nel mio
il tuo Amore».
Madeleine Delbrel
 

La Messa parrocchiale.
Non una Messa pontificale, non una Messa in una basilica o in una abbazia benedettina, ma la più povera delle Messe, celebrata dal più povero dei sacerdoti.
La nostra chiesa è la più povera delle chiese.
Il vescovo non s’illuda se in visita pastorale la trova quasi bella. Siamo anche noi dei poveri uomini che, quando viene il superiore, danno un colore di festa anche agli stracci.
Ma non vergognamoci della povertà della nostra chiesa, che s’intona assai bene con la Messa e fa meno paurosa la nostra povertà.
 
Quale preparazione possiamo fare noi poveri parroci, alla nostra Messa parrocchiale della domenica?
La liturgia è un momento composto, dicono alcuni. Vorrei che qualche mio confratello di città venisse a celebrare da me la domenica. Dopo, potrebbe parlare con più competenza di «momento composto».
Dov’è il popolo? La chiesa è ancora vuota. O perché piove, o perché fa caldo, o perché gela: bisogna attendere, i nostri clienti non hanno fretta.
Andiamo in sacrestia. Il sacrista è sbadato: i chierichetti litigano per il primo posto, come gli apostoli...
Finalmente, ci si avvia all’altare. Il momento richiederebbe il massimo raccoglimento: ma come si fa a non dare uno sguardo alla navata per vedere se c’è gente e come sta?
Adesso salgo l’altare. Incomincia la Messa parrocchiale.
L’abbiamo tanto desiderata la nostra Messa domenicale!
Quella di ogni giorno è così sola...
La domenica invece è la nostra giornata. Non so immaginare un parroco che non aspetti la domenica, anche se faticosa. Alla domenica io mi sento veramente padre, non sono più il solitario del presbiterio. Il Signore, la domenica, mi dà una famiglia.
S’avvia il colloquio tra noi e il nostro popolo.
Esso continua gli incontri settimanali nel nostro studio, per le strade, per i campi...
 
don Primo Mazzolari
 
 
 

Qui la scheda della
Celebrazione penitenziale comunitaria
Domandiamo insieme perdono a Dio Padre e ai fratelli

 

... tra persone di ogni parte del mondo.

Qui il sito della iniziativa.
 

 

 

Celebrazione penitenziale comunitaria
Domandiamo insieme perdono a Dio Padre e ai fratelli
Tutti possono partecipare
(anche coloro che non intendono confessarsi
o vivono in situazione matrimoniale irregolare)


Dopo la preghiera comune,
saranno a disposizione alcuni sacerdoti
per il sacramento della Riconciliazione


lunedì 14 aprile ore 20.30
presso la chiesa
di Limido Comasco


 

Puoi scaricare qui il testo
della meditazione biblica di ieri sera:
 
QUELLO CHE HO TE LO DO,
AFFINCHE' NESSUNO TRA NOI SIA BISOGNOSO
 
a cura di Marco Paleari

 

 

Meditazione quaresimale

QUELLO CHE HO LO DO,
AFFINCHE' NESSUNO TRA NOI SIA BISOGNOSO

a cura di Marco Paleari

venerdì 11 aprile dalle ore 21
c/o chiesa di Cascina Restelli

 

«Esiste una lunga, spessa muraglia, che separa in due campi chiusi la Chiesa e la società umana. Il primo compito sacerdotale dei nostri giorni è di prendere coscienza di questo fatto e guardare il mondo in faccia [...]. Il prete d'oggi si chiede: di fronte a questo orizzonte che il fumo delle officine oscura, di fronte a queste università e questi laboratori nei quali nascono tanti problemi e tante scoperte, che devo fare?». «Il dolore, l'angoscia dei preti di oggi è di sentire che il 'paese reale' vive e si costruisce senza di loro e che essi vi sono estranei. Quando si esaminano, prendono coscienza che l'essenziale del loro ministero è consacrato al gregge dei fedeli. Ma con questa differenza, che la proporzione si è rovesciata: è alle pecore perdute che occorreva andare ma, di fatto, sono le pecore che restano quelle che occupano gran parte delle loro giornate». «La cristianizzazione di questo nuovo mondo, il moderno mondo urbano, richiede un completo rinnovamento intellettuale; ci vorrà forse del tempo per riuscire a disfarsi degli antichi metodi, propri della cristianità medievale».
card. E. Suhard, Il prete nella società. Lettera pastorale per la quaresima 1949. Le Prètre dans la Cité, Lahure, Paris 1949, 40.
 

 

I 100 colori della pelle dell’uomo
(testo di Alessio Lana)
Gli umani non sono bianchi, neri, rossi e gialli. Sotto la lente di un creativo, il colore della nostra pelle va oltre questa mera catalogazione arricchendosi di sfumature che sfuggono a un occhio non attento. Per questo la fotografa brasiliana Angélica Dass ha dato il via a Humanae, progetto in cui ritrae persone di diversa etnia e le classifica seguendo il Pantone, la scala cromatica usata da designer, artisti e creativi che definisce con precisione ogni colore esistente.
Vediamo così le migliaia di sfumature che ci caratterizzano, le centinaia di declinazioni in cui troviamo anche un colore semplice come il bianco. Il progetto è stato interamente riversato in un Tumblr in cui troviamo duemila fotografie con i relativi codici. Un lavoro infinito che forse non finirà mai, perché noi siamo molto più che bianchi, neri, rossi o gialli.
 
 


Non è che si dipinge con amore.

Si ama dipingendo.

 
Puoi scaricare qui il testo
della meditazione biblica di ieri sera:
 
POSIAMO I NOSTRI DESIDERI SOLO IN GESU'
 
a cura di Marco Paleari

 

Meditazione quaresimale

POSIAMO I NOSTRI DESIDERI SOLO IN GESU'
a cura di Marco Paleari

venerdì 4 aprile dalle ore 21
c/o chiesa di Limido Comasco


«Quando fai il segno della croce, fallo bene. Non così affrettato, rattrappito, tale che nessuno capisce cosa debba significare.
No, un segno della croce giusto, cioè lento, ampio, dalla fronte al petto, da una spalla all'altra. 
Senti come esso ti abbraccia tutto? Raccogliti dunque bene; raccogli in questo segno tutti i pensieri e tutto l'animo tuo, mentre esso si dispiega dalla fronte al petto, da una spalla all'altra. 
Allora tu lo senti: ti avvolge tutto, corpo ed anima, ti raccoglie,ti consacra, ti santifica.
Perché? Perché è il segno della totalità ed è il segno della redenzione. Sulla croce nostro Signore ci ha redenti tutti. Mediante la croce Egli santifica l'uomo nella sua totalità fin nelle ultime fibre del suo essere.
Perciò lo facciamo prima della preghiera, affinché rimanga in noi quello che Dio ci ha donato.
Nella tentazione, perché ci irrobustisca.
Nel pericolo, perché ci protegga.
Nell'atto della benedizione, perché la pienezza della vita divina penetri nell'anima e vi renda feconda e consacri ogni cosa.
Pensa quanto spesso fai il segno della croce. E il segno più santo che ci sia. 
Fallo bene: lento, ampio, consapevole.
Allora esso abbraccia tutto l'essere tuo, corpo ed anima, pensieri e volontà, senso e sentimento, agire e patire, e tutto vi viene irrobustito, segnato, consacrato nella forza di Cristo, nel nome del Dio uno e trino».
Romano Guardini, “I Santi Segni” (1927)