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Un Bimbo. Il Dio che rischia non è solo spirito
di Serena Noceti
«In principio era il Logos, il Logos era presso Dio e il Logos era Dio... E il Logos divenne carne».
Con la loro incisiva lapidarietà queste parole del Quarto Vangelo, che vengono proclamate nelle chiese ogni anno nella liturgia del Natale, consegnano a una prospettiva essenziale, davanti al profluvio di parole sulla solidarietà, la condivisione, la bontà con cui si offre la reinterpretazione del Natale in una società ormai secolarizzata e post-cristiana, ma sempre segnata nei tempi del vivere collettivo dalla sua tradizionale storia cattolica.
Sono parole che sintetizzano la coscienza di fede cristiana sulla ineliminabile relazione di Dio con il mondo, sulla sua compromissione radicale con la storia dell'umanità, e insieme vogliono esprimere una parola significativa sull'umano, a partire dalla concreta vicenda di Gesù di Nazareth.
Le parole del Vangelo di Giovanni sono parole che possono raggiungere nella loro paradossalità anche gli uomini e le donne - credenti e non - abitatori di questa tarda modernità, perché parlano di «divenire» e di «carne», di un definitivo (che non è l'assoluto) nel frammento di un'esistenza singolare e limitata; perché hanno la capacità di interpellarci attraverso il tempo a riconsiderare in modo nuovo la nostra stessa storicità, dischiudendone orizzonti di senso e di resistente speranza.
Quando la Bibbia ricorre al termine «carne», infatti, esprime l'essere umano integrale visto nella sua fragilità, nella debolezza, nella mortalità, nello stare in una rete di relazioni che qualificano l'identità singolare e nell'essere determinato e «de-finito» dallo spazio e dal tempo.
La fede cristiana si sviluppa intorno a un'idea di salvezza che è pienezza dell'umanità, nel mondo e con il mondo, di cui la storia del Logos incarnato è fondamento e paradigma. La progressiva tecnicizzazione del mondo e della vita, lo sviluppo rapido dei sistemi di comunicazione e di trasporto, l'evoluzione dei sistemi sociali stanno modificando in maniera sostanziale proprio la nostra percezione dello spazio e del tempo. «Com-presenti» al mondo intero e segnati da un egemonico presente che sembra presentarsi a noi già compiuto, pronto per essere consumato e abbandonato per fare spazio non al futuro, ma a nuovi presenti, siamo affascinati da una «possibile onnipotenza» e insieme sperimentiamo un inedito dis-orientamento: abbiamo smarrito il senso del tempo, di una storia collettiva che goda di radici che custodiscono identità in divenire, di una progettualità di futuro capace di una speranza che orienti le prassi dell'oggi.
L'annuncio cristiano ha al centro non una verità a-storica su Dio, ma la paradossale affermazione che mediatore di salvezza per l'umanità intera è l'uomo Gesù Cristo, nella singolarità della sua vicenda umana, data nello spazio e nel tempo: una biografia segnata dalla parzialità come ogni altra esistenza umana (a iniziare da quella di sesso), ma capace di interpretare il «qui ed ora» nella permanente dinamica trasformativa del futuro. Davanti a quella volontà di potenza che ci fa perdere di vista la nostra condizione di fragilità il cristianesimo proclama non una verità a-storica sul divino e sulla trascendenza, ma il volto di Gesù di Nazareth. Nel Natale ricorda che, se contraddistingue l'umano (e il divino) lottare per ridurre ogni fragilità e vincere ogni alienazione, è proprio della maturità umana la coscienza che individuazione del senso, esercizio di libertà, crescita autentica sono connessi con il limite e il determinato.
Non «semplicemente» il «farsi uomo» di Dio, ma il «farsi carne» (sarx), lo sperimentarsi nella condizione spazio-temporale e nella storicità di un divenire libero e responsabile, per una salvezza che passa dall'impotenza della sarx di Gesù e quindi non impone, non vincola, ma si propone alla libertà di ognuno. È una proposta di fede che chiede di superare ogni concezione di un Dio «apatico» e immutabile e ogni comprensione della verità che sia a-storicamente pensata, per aprirsi a una rivelazione di Dio nella storia e come storia, che comporta interpretazione e coscienza del relativo. Al di là del pittoresco e dell'aurea di innocente candore veicolata dai nostri presepi, il Natale è una memoria coinvolgente e pericolosa perché costringe ad abbandonare un'idea infantile di salvatore che, quale onnipotente e deresponsabilizzante Deus ex machina sceso nei contesti dolorosi della vita in cui si è sperimentato il limite del nostro possibile, viene a liberarci dalla finitudine dell'umano e dal rischio della libertà.
Fin dall'inizio del cristianesimo si è vigilato per mantenere la verità della «carne» di Gesù davanti alle ricorrenti tentazioni gnostiche, alle riduzioni spiritualizzanti o etiche della fede, al concentrarsi sulla natura divina di Cristo a detrimento della concretezza della sua persona umana. Anche oggi, in un tempo in cui è sempre più evidente la tentazione di risolvere l'esperienza cristiana nell'interiorità o in una spiritualità dedita a un sacro che semplifica e rifugge dalla complessità del mondo, mentre molti tentano di ri-ascrivere il cristianesimo a un destino di civil religion, la memoria del «Natale nella carne» si pone come interruzione necessaria per i cristiani affinché ritornino a declinare un annuncio significativo per tutti, perché ancorato all'effettività corporea di Gesù quale luogo dell'esserci di Dio, capace di ridisegnare il pensiero sull'umano e sul divino.
in “l'Unità” del 24 dicembre 2012
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«La Natività ci insegna la fiducia nel futuro»
colloquio con Massimo Ammaniti
a cura di Paolo Conti
«La nascita che il Natale cristiano richiama ha un fortissimo carico simbolico anche per i non credenti. Indica l'ingresso di nuovi membri nel gruppo umano, cioè nel mondo. Dunque un avvenimento legato tanto all'idea complessiva di fertilità quanto alla capacità di una società di incrementarsi e di progettare un futuro. Cioè di immaginare che le generazioni in arrivo saranno in grado di migliorare il mondo così come lo conosciamo. Ragionando, possiamo capire perché la scarsa natalità italiana sia strettamente legata alla crisi economica che viviamo. L'Italia, in questo momento, sembra lontanissima dall'idea stessa di fertilità...».
Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore di Psicopatologia dello sviluppo all'Università La Sapienza di Roma, sa bene che il Natale, così come lo conosciamo è solo l'involucro chiassoso, multicolore e superficiale di un contenuto ben più impegnativo: «Infatti la festa andrebbe, anche laicamente, ritrovata e riscoperta, liberata da quegli automatismi legati al consumismo che ne hanno oscurato il senso stesso. Partiamo da un presupposto. Il Natale cristiano, in molti modi, riguarda anche i non credenti. Nel senso che ricorda alla nostra civiltà l'arrivo di un personaggio che ha comunque modificato la concezione della morale introducendo per esempio il concetto di perdono, la comprensione dell'altro e superando la vecchia legge dell'"occhio per occhio, dente per dente"».
Naturalmente, ricorda il professore, c'è una differenza fondamentale: «Per i cristiani quell'uomo è il Messia, per chi non crede è comunque una nascita importantissima per un'intera cultura, la nostra».
Fin troppo ovvio aggiungere che quel lontano Natale segna da due millenni anche le espressioni intellettuali, dalla letteratura all'arte e all'architettura, del mondo occidentale.
Messo da parte il Natale cristiano, resta il «significato» anche non religioso di una nascita festeggiata in buona parte del mondo. Perché un piccolo bambino incarna un'immagine così eloquente per qualsiasi civiltà? Si potrebbe dire, in tempi crudi e pragmatici come i nostri, che la nostra esistenza è fatta da persone che arrivano, cioè nascono, e da altre che partono, cioè muoiono... Per Ammaniti non è così: «In realtà la nascita continua a rappresentare moltissimo anche nell'organizzazione sociale contemporanea. Simbolicamente quando il gruppo cresce, aumentano le possibilità di una sua conquista del controllo non solo sulla natura e dunque sul "mondo" ma anche sugli altri gruppi umani. Non è escluso che l'affermazione dell'homo sapiens rispetto all'homo neanderthalensis sia stata legata proprio all'aumento della quantità di individui».
Insomma, per ritornare al nostro Natale 2012 e all'imminente 2013, se una società guarda al futuro, si riproduce, e se invece stenta a farlo, vede l'avvenire come un pericolo? «Esattamente questo è il punto. In Italia, lo sappiamo bene, il tasso di natalità non garantisce nemmeno il mantenimento della popolazione attuale. Siamo intorno a 1,25 figli a coppia. Invece in Francia, dopo un periodo di calo, si è tornati a sfiorare quota 2 figli a coppia. In quel Paese c'è stata una chiara scelta politica: aiutare i genitori, sostenerli quando crescono i figli. Insomma il concetto di fertilità non riguarda solo le singole donne o le singole coppie ma l'intera società. Ecco, in questo momento l'Italia non è un Paese "fertile" non solo tecnicamente ma anche psicologicamente». Le cause di tutto questo sono molto chiare a Massimo Ammaniti: «Fare figli con consapevolezza significa sentirsi pienamente calati nel ruolo di genitori. Dunque avere speranza rispetto al futuro con progettualità e positività».
Uno psicoanalista non è un economista e quindi il professore non intende avventurarsi per i sentieri più tecnici della crisi. Però sa bene cosa passa per la testa di questi italiani così poco fertili: «Il dramma dell'Italia è che circola poca fiducia in ciò che ci aspetta. Chi dovrebbe fare figli non ha un lavoro stabile e sicuro, dispone di poco denaro e quindi semplicemente prova paura. È un segnale terribile, per una società. Guardando i dati europei complessivi si arriva alla stessa deduzione. A ciò si aggiunga una caratteristica dell'attuale generazione in età fertile: si è molto presi da sé stessi, e qui la crisi non c'entra. Quindi con difficoltà si riesce a pensare di potersi prendere cura stabilmente di un nuovo essere umano e di trasmettergli qualcosa di concreto e importante». Diciamo che l'Italia «starà meglio», non solo economicamente ma anche psicologicamente, quando riprenderà a fare figli? «Esatto. Riflettere laicamente sul Natale, in questo senso, può essere utile...». Parola di psicoanalista.
in “Corriere della Sera” del 23 dicembre 2012
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Il mondo è più strano che grande.
Luisito Bianchi, La messa dell'uomo disarmato, 194
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Che don Piero di san Terenzo si manifesti in modo patologico è fuor di dubbio: i suoi eccessi (non semplici "provocazioni") sono sotto gli occhi di tutti.
Conoscendo altre situazioni analoghe, mi sorge una lecita domanda: quante saranno state le sue manifestazioni "non eccessive" - ma comunque sconsiderate - sulle quali fedeli, confratelli e superiori avranno chiuso uno o due occhi?
Non so nel caso specifico, ma è nota quella progressione che va dal latente al manifesto, dal meno-grave al più grave... e c'è da aspettarsi che prima di arrivare a quegli eccessi, anche don Piero sia passato dalla battutina aspra alla ragazzina, alla (s)considerazione in una riunione parrocchiale; dal consiglio retrò durante una confessione all'invettiva accalorata in una predica; dalla catechesi moralistica allo sbotto con le signore che curano la pulizia della chiesa o con le catechiste...
Tutte cose già viste in altri casi, non pochi casi.
Chi in quelle occasioni alzò la voce a denunciare la cosa? Chi aiutò con Piero a uscire da quella spirale? Chi gli offrì altri percorsi formativi e di accompagnamento?
Solitamente il gesto eclatante (di cui tutti sembrano meravigliarsi e indignarsi) è preceduto da una infinità di piccole omertà.
don Chisciotte
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La pagina 12 (!) del quotidiano della CEI "Avvenire" è dedicata alla dolorosa questione delle pazze parole e degli atteggiamenti malati di don Piero, parroco di san Terenzo.
In un boxino intitolato "Secondo noi" (quindi è della redazione) si leggono - tra le altre - queste espressioni vergognose:
"Dopo che il suo Vescovo con saggezza e fermezza era già intervenuto con gesti concreti e parole inequivocabili, il sacerdote che così tanto era riuscito a sbagliare (entrando, poi, in un vortice di esternazioni imbarazzate e ulteriormente imbarazzanti) ha riparato. Ha ammesso che l'unica «provocazione» senza senso e prudenza era stata la sua. E ha chiesto scusa alle donne che aveva offeso. Giusto, e a tempo di record".
Mi domando: perché il giornale di partito si nasconde dietro un dito? Anche stavolta dà il cattivo esempio di una "disinformazia" di parte.
don Chisciotte
Qui si può leggere tutto il testo del boxino.
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La natura umana è stata pensata fin dalle origini
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Ci viene rivelato che questo Figlio è entrato nel mondo. Ma ciò in un senso inaudito. Non solo per via psicologica, nell'animo di una persona pia profondamente dotata; non solo in termini spirituali, nei pensieri di una grande personalità; realmente, storicamente invece, così da produrre l'unità personale con un essere umano. Dio s'è fatto uomo, figlio di una madre umana, uno di noi - ed è rimasto ciò che Egli è eternamente, Figlio del Padre nel cielo. Egli, che come Dio era in tutto, ma sempre «dall'altro lato del confine», nell'eterno riserbo, è venuto al di qua del confine, ed è stato ora presso di noi, con noi.
Di questo evento parla il Natale. Questo è il suo contenuto, questo soltanto. Tutto il resto - la gioia per i doni, l'affetto della famiglia, il rinvigorirsi della luce, la guarigione dall'angustia della vita - riceve di là il suo senso. Quando quella consapevolezza però svanisce, tutto scivola sul piano meramente umano, sentimentale, anzi brutalmente affaristico.
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Chi oggi voglia esprimere un pensiero che renda il messaggio cristiano, incorre in una grande difficoltà. Non appena impiega le parole che da sempre hanno dato espressione a questo pensiero, nota che esse sono diventate inattendibili. Così come sono correnti nell'uso del nostro tempo, il loro senso si è fatto scolorito e inautentico. E' trapassato in ciò che ha dimensione culturale generale o che attiene al sentimento.
Anzi in più modi si è mutato, cosicché colui che parla coscienziosamente viene posto dinanzi al compito del «discernimento di ciò che è cristiano». Deve distanziare le parole dalle assimilazioni e dalle falsificazioni, cui sono ampiamente soggiaciute. Deve conferire loro di nuovo il loro senso; renderle chiare e attendibili.
È impresa faticosa, poiché il linguaggio dovrebbe pur essere in verità lo spazio costruito secondo la verità, cosicché colui che parla possa entrarvi senza diffidenza e muoversi con sicurezza. Le sue parole dovrebbero essere forme dotate di senso, che come memoria oggettiva del popolo preservino le cognizioni del passato, in modo che il presente sia in grado di proseguire a edificare su di esse. Invece, chi parla ha continuamente la sensazione che le fondamenta non reggano e le strade non conducano nella giusta direzione.
Ora, è sempre stato necessario vigilare sull'attendibilità delle parole cristiane.
Infatti, se il sacro messaggio è ciò che rivendica d'essere, in realtà esso si colloca sempre di traverso rispetto ai pensieri dell'epoca. Esso trae sempre l'uomo che l'ascolta fuori da quanto si pensa in funzione dell'epoca, per condurlo in ciò che vale dall'eternità.
Tuttavia anteriormente era pur più facile certo pronunciare e percepire rettamente le parole. Esse non erano ancora attratte e coinvolte così in profondità nella generale mescolanza culturale; pertanto erano più nitide e autentiche.
Forse ritorneranno tali nel processo ulteriore del tempo - allorché si sarà sviluppata una coscienza decisamente non cristiana, le cui manifestazioni ormai siano inconfondibili. Allora, si potrebbe pensare, anche la coscienza cristiana diverrà più decisa e la sua parola più univoca: per gli uni espressione più veritiera del messaggio di Dio, per gli altri più chiaro motivo per rifiutarlo.
Forse già oggi ciò che uno scritto proveniente dalla zona orientale dice in virtù della sua fede ha un carattere più deciso del nostro discorrere.
Noi ci troviamo nella confusione e facciamo bene a esercitare continuamente il discernimento. Perciò intendiamo farlo anche ora per comprendere meglio che cosa significhi il messaggio di Natale.
Romano Guardini, Natale e Capodanno. Pensieri per far chiarezza, 9-11.
Il testo originale tedesco è del 1954.
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La festa globale
di Alfredo Somoza - 20.12.2012
Anno dopo anno il Natale si allontana sempre di più dal suo significato originario, cioè ricordare la nascita in Medio Oriente di quel bambino ebreo che sarebbe diventato “figlio di Dio”, aggiungendo un nuovo capitolo alla tradizione monoteista mosaica. Una religione, quella cristiana, che si sarebbe sviluppata soprattutto in Europa e poi dall'Europa nel mondo, grazie al colonialismo.
Il Natale, nel senso religioso della ricorrenza, è una festa di preghiera e di speranza: in questi termini coinvolge però solo i cristiani, e cioè una minoranza dell'umanità. Invece la festa del Natale, intesa in senso laico, tocca miliardi di persone in più.
Per diventare veramente globale, una ricorrenza religiosa come il Natale doveva essere depotenziata dal punto di vista della fede e caricata di nuovi significati e di nuovi simboli. I significati acquisiti sono quelli del buonismo classico: il giorno di Natale “si torna tutti buoni”, e la speranza di un futuro migliore è permessa per 24 ore.
Il simbolo laico è ormai planetario: Babbo Natale, ovvero Santa Claus trasformato in un omone vestito di rosso che abita nel Circolo polare artico, nella patria dei lapponi, circondato da renne e da un esercito fantastico che costruisce giocattoli. È la libera reinterpretazione di un'altra figura religiosa, san Nicola di Mira, il vescovo turco che, secondo i resoconti disponibili, nella sua vita fu protettore dei bambini e diede esempio di grande generosità, donando ai più poveri nei momenti del loro massimo bisogno. Dal santo caritatevole all'icona della Coca Cola il passo è stato relativamente breve, e il giorno di Natale diventiamo tutti buoni come san Nicola. Ecco il nuovo significato della festa, ormai depotenziata dal suo aspetto religioso.
Il Natale della bontà e del dono, e soprattutto di quest'ultimo, è quindi il migliore volano per le vendite di fine anno, periodo nel quale si registrano per esempio i picchi di acquisti di prodotti di elettronica.
Arriviamo infine così alla festa globale dei buoni sentimenti per la gioia dei fabbricanti di gadget (e di cibi pregiati). Una festa che non discrimina per appartenenza etnica o religiosa, ma solo per possibilità economica. Una festa laica che va bene in Italia e Germania, ma anche in India, Cina o Nigeria. Una festa non più comandata dal vescovo, ma dai media.
Il Natale, nella sua versione contemporanea, ha anticipato di decenni la globalizzazione e il suo valore fondante, quello dell'uguaglianza universale a partire dell'omologazione nei consumi. Un mondo forgiato dalle multinazionali che offrono gli stessi prodotti ovunque, fabbricandoli dove è più conveniente. È una festa antica e insieme del futuro, che domani potrebbe vedere insidiato il suo primato da Halloween o dal capodanno cinese, ma che oggi gode di una popolarità difficile da scalfire. E se la profezia dei maya si dimostrerà errata, buon Natale anche quest'anno!
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Papa Roncalli e la Chiesa vista da Taizé
di Frère Alois di Taizé
Quello che viviamo a Taizé oggi, come comunità ecumenica, sarebbe impensabile senza la realtà del Concilio. Se, da ragazzo cattolico di 16 anni, sono potuto andare a Taizé nel 1970 e approfondire la mia fede con cristiani di diverse confessioni, è grazie al Concilio Vaticano II. Ho sentito spesso frère Roger ripetere queste parole: «Il fondatore di Taizé è Giovanni XXIII». E in un certo senso è vero. Anche Giuseppe Roncalli, il fratello più giovane del Papa, un giorno espresse questo pensiero. Passato qualche anno dalla morte di Giovanni XXIII, Giuseppe Roncalli si recò a Taizé insieme a dei familiari, per due volte. Osservò l'insieme della nostra vita e della nostra accoglienza, e notò come semplicemente fossero accolti i giovani. E una sera disse a suo nipote Fulgenzio, che lo accompagnava: «Ciò che uscirà da Taizé è mio fratello, il Papa, che l'ha iniziato».
Per far capire tale influenza di Giovanni XXIII e del Vaticano II su Taizé, mi sembra importante tratteggiare la presenza di frère Roger a Roma durante i quattro anni conciliari. Su richiesta del cardinale Gerlier, allora arcivescovo di Lione, papa Giovanni XXIII ricevette frère Roger e frère Max già qualche giorno dopo la sua elezione. Da subito, tra il Papa e il priore di Taizé si creò un legame che potremmo quasi definire di parentela, un legame di cuori. Frère Roger sarebbe ritornato ogni anno a trovare il Papa. Il cardinale Marty, arcivescovo di Parigi affermò un giorno: «È grazie al fatto che Giovanni XXIII conobbe personalmente i fratelli di Taizé che trovò il coraggio di invitare degli osservatori non cattolici al Concilio».
Dal momento in cui riceve la lettera d'invito per lui e per frère Max al Concilio, frère Roger è convinto di non dover semplicemente partecipare all'assemblea, ma di dover portare a Roma la vita di Taizé. Desidera innanzitutto che Taizé vi garantisca una presenza di preghiera, in particolare di preghiera per l'unità dei cristiani.
Bisogna trovare dunque un'abitazione in città, in cui diversi fratelli possano abitare, per pregare insieme come a Taizé, e accogliere. Viene così preso in affitto un appartamento di quattro stanze in via del Plebiscito, in pieno centro di Roma, non molto lontano dal Vaticano.
L'accoglienza è essenziale, in questo alloggio romano dei fratelli, specialmente in occasione dei pasti, a mezzogiorno e alla sera.
I ricordi di questa accoglienza si trovano in molti diari del Concilio pubblicati negli ultimi anni, dei cardinali Congar, de Lubac, del vescovo brasiliano Hélder Câmara.
Ad esempio, dopo essere stato invitato dai fratelli, padre Congar scrive: «Hanno saputo ricreare il proprio clima nell'appartamento che abitano. Ricevono molti ospiti. Praticamente non c'è pasto a cui non siano invitati a volte fino a cinque o sei vescovi. E così, in questo momento, si tiene un Concilio fatto di conciliaboli e di amicizie, che contribuisce a creare il clima del Concilio propriamente detto». Sempre, prima di sedersi a tavola, gli ospiti partecipano alla preghiera comune dei fratelli. Le pietanze sono frugali. Alcuni vescovi si confidano tra loro: «Prima di andare a pranzo dai fratelli di Taizé, meglio mangiare qualcosa a casa propria...». Nell'appartamento c'è spesso del riso, salsa al pomodoro e un po' di vino, e sempre dei fiori sulla tavola.
Gli ospiti vengono spesso da molto lontano. Frère Roger vuole approfittare dell'opportunità offerta dall'assemblea conciliare e dare preferenza a chi viene da altri continenti, in special modo ai latinoamericani, con i quali si stringeranno delle amicizie durature. Si susseguono anche osservatori ortodossi e protestanti, esperti, uditori e uditrici laici, giornalisti... Attorno alla mensa si approfondisce l'esperienza unica di tutti i padri conciliari nella basilica di San Pietro: un'esperienza di comunione ecclesiale e umana determinante.
Frère Roger scrive ai fratelli di quanto gli scambi insegnino ad accettare la diversità, e i dibattiti spingano a capire chi è lontano, per origine e posizione. E non si risparmia la fatica di tessere legami con le minoranze opposte agli orientamenti del Concilio. Scriveva ai fratelli: «Ogni volta che qualcuno interviene per chiedere una maggior attenzione alla Bibbia, a una pietà di cui Cristo vivente sia il centro, la mia anima trasale di contentezza. [
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"Quando ci libereremo dal «complesso del convertire» (gli altri)? Di fare proselitismo a ogni costo? Quando smetteremo di imporre i nostri itinerari obbligati? Quando finiremo di giocare noi al Medico, al Maestro, al Salvatore, riconoscendo che uno solo è il Medico, il Maestro e il Salvatore, e noi siamo soltanto « servi inutili », e spesso ingombranti? Quando accetteremo, umilmente, di cercare insieme, di camminare insieme? Quando cesseremo di fare entrare Dio a forza in certe anime? E se fosse già entrato, silenziosamente, rispettosamente, magari per la porta di servizio, senza avvertirci, senza chiederci il permesso, senza lasciare nessuna orma visibile «fuori»?
Anche il «fare il bene» può condurre a combinare guai notevoli. Un certo tipo di fare del bene. Senza discrezione. Senza pudori. Con troppo orgoglio. Con una inconfondibile aria di superiorità. Al di fuori di un certo stile, di un certo modo insegnatoci dal Cristo.
Certa gente si illude di fare del bene a una determinata persona assediandola costantemente, asfissiandola senza misura con consigli esortazioni rimproveri minacce. Diventa una specie di persecuzione, che il più delle volte porta a risultati opposti a quelli sperati. Ognuno è custode del proprio fratello. Perfettamente d'accordo. Ma non deve essere il poliziotto del proprio fratello. Che ne spia ogni mossa, che ne studia tutti i movimenti, che ne interpreta (quasi sempre male) tutte le intenzioni.
Crediamo, poi, che per mettere sulla buona strada una persona, basti toglierle accuratamente tutte le occasioni di male, restringerle ostinatamente tutti gli spazi della libertà, tenerla continuamente sotto controllo. Dobbiamo essere testimoni, non poliziotti. Compagni di viaggio, non giudici. Amici, non spie.
Il prodigo cammina verso la Casa. Ogni tentativo di conversione può risultare una barriera. Il Padre ce l'ha già «dentro»".
Alessandro Pronzato, Vangeli scomodi, 297-298
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Dall'eccedenza, che è la sua vita, il suo dare la vita per amore, Gesù trae anche la regola nostra, la regola del cristiano.
Dunque gli uomini pensano secondo misura, Dio pensa secondo eccedenza.
Mentre un'antropologia puramente della proporzione, dell'equilibrio, tenderebbe a intendere maturazione come armonico assestamento dei diversi piani, una vera antropologia cristiana richiede un al di là, un andare oltre.
C. M. Martini, Le tenebre e la luce, 154-158
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Porsi in ascolto, prima lezione per l'Anno della fede
di Maria Cristina Bartolomei
Per la Chiesa cattolica inizia l'anno dedicato ad approfondire la fede. Un tema a portata fortemente ecumenica, che unisce i credenti in Cristo, accomuna cristiani ed ebrei, e avvicina i credenti di tutte le religioni. Riscoprire la fede significa cercare di comprenderne più a fondo non solo e tanto i contenuti, ma l'atteggiamento che essa è, le sue fonti e ragioni, le sue conseguenze, cominciando innanzitutto a riflettere sulla fede con la quale si crede (a Dio: un fidarsi peculiare e diverso dalla Fiducia che si ha in altre persone o realtà, anche se non mancano punti di contatto tra i due casi), prima che sulla fede che si crede, ossia ai contenuti che la Fede crede e propone a credere. Tutto questo comporta il tornare ad attingere alla Parola di Dio dal cui ascolto è suscitata la fede. Come ha formulato il teologo Gerhard Ebeling, infatti: «La fede è la Parola di Dio che raggiunge il proprio fine».
La fede è però un tema, si può pensare, che segna anche una identità e appartenenza che distinguono e separano, se non oppongono: i credenti dai non credenti; i credenti nelle diverse religioni; gli ebrei dai cristiani, e i cristiani tra loro, giacché ognuno ha una "sua" fede, diversa. Ma una tale considerazione dipende da una insufficiente, angusta comprensione della chiamata biblica alla fede: che è innanzitutto chiamata a riconoscere che vi è un unico Dio e che tutti gli umani sono tra loro affratellati dal rapporto istituito con loro da Dio che è l'orizzonte del senso del loro essere.
Da qui discende la "Regola d'oro" dell'amore del prossimo, trasversale alle più diverse culture, e che nelle religioni è l'altra faccia dell'amore per Dio.
Dalla Scrittura veniamo istruiti a comprendere la fede come un dono e un mistero, non un muro contro cui urtare, bensì un mare di senso in cui immergerci. Però, pregiudizi, più o meno consapevoli, possono indurre a intendere la fede come l'invito e l'autorizzazione a entrare in un recinto dal quale guardare a chi è "fuori"
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Vi prego, mettiamoci nella persona di quell'amorosissimo padre che tanto sospirava il ritorno del figlio perduto e, non sapendo dove andare per cercarlo, fece tutto quello che era in suo potere, portandosi chi sa quante volte sulla via (Lc 15), perché il figlio, ritornando, scorgesse da lontano il sorriso sul volto del padre e affrettasse il passo per buttarsi più presto fra le sue braccia.
Noi invece sappiamo dove sono i nostri miseri fratelli e figli, vediamo la quercia sotto la quale stanno, le ghiande di cui si cibano; vediamo quali tristi compagnie frequentano.
Andiamo dunque a chiamarli, invitiamoli a riconciliarsi col Padre, diamo loro il pane della vita senza attendere che ce lo domandino. Persuadiamoci che è assolutamente necessario uscire dalle nostre case, poiché tocca al pastore cercare le pecorelle; e chi vuol fare pesca più abbondante, ascolta le parole del Salvatore e non sta in casa, ma va al mare (Mt 17), e non rimane a riva ma spinge la barca dove le acque sono più profonde (Lc 5).
beato Andrea Carlo Ferrari, Lettera Pastorale, Como 14 ottobre 1894
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Avvento
tratto da Romano Guardini, La Santa Notte. Dall'Avvento all'Epifania, 11-21
Le festività della Chiesa certo rammentano fatti trascorsi, ma sono anche presente, attuazione viva; poiché ciò che è accaduto una volta nella storia, deve farsi continuamente evento nella vita del credente. Allora è venuto il Signore, per tutti; ma Egli deve venire sempre di nuovo per ciascuno. Ognuno di noi deve sperimentare l'attesa, ognuno l'arrivo, perché gliene nasca la salvezza.
Quando udiamo così tale notizia, forse ci viene il pensiero: quel che è importante nella vita, debbo essere io a trovarlo! Deve scaturire dal mio stesso impegnarmi e lottare. Così, anche la salvezza deve necessariamente essere cosa della mia serietà e del mio sforzo. Che significato deve avervi l'attendere Uno che viene da altrove?
Ma non sarebbe un pensiero giusto. Certo - debbo di necessità volere ed eseguire io stesso, per quanto concerne ciò che mi è più proprio; tuttavia questo non sarebbe tutto e nemmeno la cosa decisiva.
Che cosa v'è di più importante per me che trovare un amico nella vita? Un amico è una persona che non pensa solo a se stessa, ma anche a me; uno, cui sta a cuore che le cose mi vadano per il verso giusto. Quindi un amico è una realtà grande e preziosa. Ma io me lo posso creare da solo? Certo no! Posso andare a prendermelo da qualche parte? In verità, allo stesso modo, no. Io posso essere ricettivo e vigile, al fine di notare quando mi si avvicina una persona che può divenire importante per me - ma è necessario che venga! Venga verso di me dallo spazio a perdita d'occhio della vita umana. In qualche occasione ci incontriamo, veniamo a dialogare e poi si sviluppa quella realtà bella e feconda che prende il nome di amicizia...
Così è anche per l'amore. L'uomo ha bisogno della donna, che gli sia compagna, e la donna dell'uomo, che le possa essere come una 'patria', affinché poi essi nella reciprocità creino quel mondo vivo, che si chiama famiglia e casa - ma l'uno può fabbricarsi l'altro? Ancora una volta no. Lo può cercare; cercare tuttavia significa avere delle mire, e la mira, l'intenzione cosciente come guasta facilmente ogni cosa! No, ma l'altro deve necessariamente una volta venire a lui dall'ampiezza del mondo, dalla moltitudine delle persone, in qualche momento...
Se riflettiamo con precisione, le cose stanno in modo simile per la nostra professione, il nostro lavoro di vita, la nostra posizione nella totalità dell'esistenza - parecchio di questo possiamo conquistarlo lottando - ma dell'altro, e non irrilevante, deve necessariamente risultare dalle combinazioni della vita. Deve aprirsi la possibilità; io debbo vedere: qui, ora - e poi gettarmici dentro. Certo allora sono io stesso a buttarmi e a impegnarmi nell'opera, ma prima mi si è schiusa la possibilità.
Molte cose, importanti, decisive poggiano su combinazioni e incontri, che non ho disposti io stesso, che non ho potuto far emergere con l'energia mia propria. Sono venuti, mi si sono offerti.
Anche la nostra salvezza poggia su una venuta. Gli uomini non hanno potuto escogitare né produrre da sé Colui che la opera; Egli è venuto presso di loro dal mistero della libertà divina. Quanto spesso hanno tentato di farlo! In tutti i popoli ci appaiono figure di salvatori, che sono scaturite dall'esperienza vissuta della distretta [bisogno pressante, necessità] dell'esistenza. Portano i tratti dei Greci e dei Romani, degli Indiani e dei Germani, e incarnano nella loro immagine [di Salvatore] ciò che il loro popolo e la loro epoca hanno inteso come salvezza. Poiché però sono nati dal mondo, non sono stati in grado di portarlo all'aperto, nella libertà, e poiché sono formati della materia del tempo, sono passati con esso.
Il Salvatore reale è venuto dalla libertà di Dio: in un piccolo popolo, che certo nessun consiglio delle nazioni avrebbe scelto; in un'epoca, che nessuno potrebbe dimostrare fosse quella giusta; in una figura di fronte alla quale, se ci riesce di strapparci il velo dell'abitudinarietà, ci coglie lo stupore: perché proprio in questa? Così la decisione della fede in buona parte consiste nell'eliminare i criteri propri di ciò che è giusto e conveniente e nell'accogliere Colui che si appressa, venendo dalla libertà di Dio: «Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!» (Mt 21, 9).
Questo ci dice l'Avvento. Ogni giorno ci esorta a meditare sul miracolo di questa venuta. Ma ci ricorda pure che essa adempie il suo senso quando il Redentore non viene solo presso l'umanità nella sua totalità, ma anche presso ciascun uomo in particolare: nelle sue gioie e angosce, nelle sue conoscenze chiare, nelle sue perplessità e tentazioni, in tutto ciò che costituisce la sua natura e la sua vita, a lui solo proprie. Egli deve farsi consapevole: Cristo è il mio redentore; Colui che mi conosce fino in quanto mi è più gelosamente proprio, assume il mio destino nel suo amore, mi illumina lo spirito, mi tocca il cuore, mi volge la volontà a ciò che è giusto, retto.
Così l'Avvento è il tempo che ci ammonisce a interrogarci, ciascuno nell'intimo della sua coscienza: Egli è venuto da me? Io ho notizia di Lui? V'è confidenza tra Lui e me? Egli è per me dottore e maestro? Ma poi subito l'ulteriore domanda: Nel mio intimo la porta è aperta per Lui? E la decisione: La voglio spalancare.
Amici miei, come potrebbe avvenire questo?
Scendiamo al piano assolutamente pratico. Che cosa potremmo fare? Soprattutto cercare di fare qualche esperienza di Lui. Potremmo prenderci un libro che tratta di Lui, e leggervi ogni giorno di queste settimane che portano al Natale. Ma non leggere come facciamo per istruirci su qualche argomento, bensì con cuore aperto, nell'anelito dello spirito. Leggere così che dalle parole possa farcisi incontro la verità viva; nel modo inteso da Agostino quando nelle Confessioni narra come sia venuto agli scritti di Plotino e da essi gli si sia dischiusa la spiritualità di Dio. «E io percepii» dice, «come si percepisce col cuore». In questa parola v'è tutto Agostino - ma anche l'uomo in genere, poiché quando un grande parla attingendo a quanto gli è più proprio, in lui parla l'essenza di tutti. «E» - dice proseguendo - «non vi fu più possibilità di dubitare» (Conf. 7, 10). Così deve farsi chiaro per noi Gesù Cristo; «luminosamente evidente», come dice la bella espressione[1], il suo essere, il suo agire e il suo destino.
Perché ciò tuttavia possa avvenire, occorre più che un semplice leggere e pensare. Per quanto indispensabile sia questo, non basta. Poiché quel che in questo caso deve conoscere è più profondo dello spirito naturale; più profondo del cuore che la nascita ci ha dato. E l'uomo nuovo in noi, che «è nato da Dio» e cresce verso la vita eterna (Gv 1, 13). Così Agostino afferma che, dove si tratti della verità, v'è certamente il magister exterius docens, il Maestro che insegna dall'esterno; quindi, la persona che ci parla o il libro che leggiamo. Le sue parole però rimangono esterne, finché non parla il magister interius docens, il Maestro che insegna dall'interno. Ma quegli è Dio.
Non basta dunque soltanto leggere e pensare; dobbiamo anche pregare. Vi può essere chi ha in capo i testi dell'Antico e del Nuovo Testamento, ha familiarità con lo stadio attuale della Leben-Jesu-Forschung, della «ricerca sulla vita di Gesù», e tuttavia non sa quanto è l'essenziale, l'autentico! Dobbiamo pregare che Colui, il quale solo ha conoscenza del Cristo vivente, lo Spirito Santo, voglia operare affinché la sacra figura del Signore ci si faccia luminosamente evidente. Che ci avvenga quanto intende Giovanni quando dice: «Abbiamo visto la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1, 14).
«Epifania» non solo dello spirito, ma anche del cuore. L'aprirsi degli occhi e insieme l'animo che viene toccato. Allora la figura di Cristo emerge dalle pure e semplici espressioni che ne parlano. Egli diviene reale, si fa vicino, e tra Lui e noi s'instaura quel legame, che significa obbedienza, fedeltà, fiducia, accordo e si chiama «fede». Fede reale e non un semplice «tener-per-vero», che è l'ordine esterno, mentre la fede reale è la chiarezza nello spirito, l'esser toccati nel cuore, la coscienza viva della realtà santa e sacra. E ciò che solo Dio può dare, ma noi dobbiamo pregarlo di concedercela.
Sarebbe questa la seconda cosa che possiamo fare in Avvento.
Credo però che dobbiamo aggiungerne una terza, esercitare l'amore. Non si può conoscere Cristo come si conosce una persona qualsiasi della storia, ma solo da quella profondità interiore che nell'amore si ridesta.
Forse si obietterà: Che cosa dici ora? Che si possa conoscere Cristo soltanto se lo si ama - ma come debbo amarLo se non so ancora nulla di Lui? E' giusto - sebbene invero l'amore abbia molti gradi, e già nella prima ricerca possa essere amore, in quanto è più di un mero voler sapere. Ma lasciamo stare questo aspetto e pensiamo che è amore verso Cristo il nostro quando amiamo i suoi fratelli. San Giovanni nella sua prima lettera dice: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (Gv 4, 20).
In questi giorni dunque vogliamo esercitare l'amore, perché ci si aprano gli occhi a scorgere Cristo. Vogliamo farlo dove ci troviamo, in rapporto alle persone con cui viviamo: dare loro il diritto d'essere così come sono; accoglierle continuamente e vivere con loro in amicizia... Da quest'ambito prossimo attorno a noi, la nostra famiglia, la cerchia degli amici nostri, la nostra professione, poi l'amore si dilata a coloro che stanno più lontano, a seconda del modo in cui la vita ci porta appresso il loro essere e il loro bisogno.
Queste tre cose sono strettamente congiunte.
Dapprima il cercare e pensare e leggere, affinché il nostro sapere su Cristo si arricchisca. Infine, interroghiamoci dunque onestamente: che è tutto quel che leggo nel corso d'una settimana? Quanto di ciò è superfluo? Quanto inutile? E quanto tempo dedico a libri che parlino di quanto è più importante? Se ci interroghiamo con serietà e rispondiamo con lealtà, probabilmente ci vergogneremo.
La seconda cosa è chiedere a Dio che ci illumini. A questo bastano le parole più semplici. Ma se vogliamo testi colmi di energia divina, sono a nostra disposizione, pensiamo soltanto ai due stupendi inni Veni, Creator Spiritus e Veni, Sancte Spiritus, entrambi contenuti nel Messale.
La terza cosa è per noi aprire la strada all'illuminazione con l'esercitare l'amore. Non in pure parole, ma sul serio; non in sentimenti, ma nell'agire.
L'Avvento reale sorge dall'intimo. Dall'intimo del cuore umano credente e soprattutto dalla profondità dell'amore di Dio. Ma dobbiamo preparare la via al suo amore. Non per nulla nel Vangelo della Messa della quarta domenica d'Avvento appare la figura del Precursore, e la «voce di uno che grida nel deserto» risuona: «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sia riempito ogni monte e ogni colle sia abbassato; i passi tortuosi siano diritti; i luoghi impervi spianati. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!» (Lc 3, 4-6).
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«O Signore, quanto mi era piacevole, nella pienezza dello sforzo, sentire il mio stesso evolvere come un accrescimento del tuo potere su di me!
Quanto mi era piacevole, pure, sotto la spinta interiore della vita, o nel gioco di una favorevole casualità, abbandonarmi alla tua Provvidenza!
Dopo aver scoperto la gioia di utilizzare ogni forma di sviluppo per farti, o lasciarti crescere in me, fa' che io acceda senza sgomento a quell'ultima fase della comunione nella quale io ti possederò perché diminuirò in Te.
Dopo aver scoperto in Te Colui che è un "più di me stesso", fa' che io sappia pure riconoscerti, venuta la mia ora, sotto le apparenze di ogni potenza, estranea o nemica, che sembrerà volermi distruggere o soppiantare.
Quando sul mio corpo (e ancor più sul mio spirito!) il logorio dell'età comincerà a segnare la sua impronta; quando su di me piomberà dall'esterno, o quando, dall'interno, nascerà in me il male che diminuisce o rapisce; nel minuto doloroso in cui, tutto a un tratto, mi accorgerò di essere malato o d'invecchiare; in quel momento ultimo, soprattutto, in cui mi sentirò sfuggire a me stesso, totalmente passivo nelle mani delle grandi forze ignote che mi hanno formato; in tutte quelle ore cupe concedimi, o Signore, di intuire che Tu stesso (purché la mia fede sia abbastanza grande) apri un varco doloroso nelle mie fibre, per penetrare fin nel cuore della mia sostanza, e per rapirmi in Te».
Theillard de Chardin, L'ambiente divino
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Il Concilio? È stata la cura, non la causa della crisi della Chiesa
di Enzo Bianchi
Negli ultimi anni si odono sempre di più voci ecclesiastiche che imputano all'evento concilio i mali di cui ha sofferto e soffre ancora la chiesa: riduzione della pratica cultuale, mancanza di vocazioni religiose e presbiterali con conseguente invecchiamento delle forze pastorali e delle figure testimoniali, collocazione periferica delle voci culturali cattoliche... Questa accusa contrappone la “crisi” a situazioni migliori e meno precarie negli ambienti cattolici che hanno rifiutato il concilio e mostra di voler colpire anche il messaggio espresso dagli stessi testi conciliari. Eppure ci appare un'accusa non munita di discernimento.
È vero, la crisi si è manifestata negli anni della realizzazione del concilio, ma non è stata indotta da quell'evento bensì dalla rivoluzione culturale antropologica avvenuta alla fine degli anni sessanta nei confronti della quale, anzi, il concilio ha rappresentato già un avvio di risposta profetica. Con ogni probabilità, se il concilio non avesse iniziato a ridare dinamica alla vita della chiesa, data la stagnazione che durava da decenni, la ricaduta di quello sconvolgimento epocale avrebbe pesato molto di più. Quelli che imputano al concilio la crisi, dovrebbero domandarsi come mai altre chiese che non hanno avuto un concilio
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«Ne deriva la necessità di considerare il rapporto effettivo di un pastore con una comunità, come una delle condizioni essenziali che legittimano la sua posizione particolare nella chiesa. Le condizioni formali della validità della sua ordinazione e della legittimità della sua missione hanno senso in quanto informano una certa materia, cioè l'effettiva operosità carismatica del pastore nella comunione della sua chiesa. Il titolo della legittimità della missione condiziona l'esercizio del sacramento validamente ricevuto, perché intende garantirgli un legame di comunione con un'istanza superiore, quella gerarchica. Ma ugualmente gli dovrebbe essere garantito il legame di comunione con l'istanza inferiore, quella comunitaria. Come la mancanza di comunione di un prete con il suo vescovo non invalida il sacramento, così la mancanza di comunione di un pastore con la sua comunità e la dissoluzione di fatto dei suoi rapporti pastorali non cancellano in lui il carattere ricevuto con l'imposizione delle mani. Però, come il primo titolo di legittimità condiziona la sua posizione nella chiesa, così anche il secondo la dovrebbe condizionare. Un pastore di chiesa non può essere imposto perennemente ad una comunità, anche se di fatto non vuole o non riesce a stare in essa come principio della sua comunione, semplicemente perché è stato validamente ordinato e perché di quel compito, che non attua, è stato legittimamente investito».
Severino Dianich, Teologia del ministero ordinato, 281
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Lettera al Clero
del vescovo Albino Luciani (futuro papa Giovanni Paolo I)
tratto da
Albino Luciani, Un vescovo al Concilio. Lettere dal Vaticano II, Città Nuova Editrice, Roma 1983, pp. 90-95
Messa nuova, mentalità nuova!
Miei cari confratelli, scritta la lettera sulla necessità di ben leggere, nuove difficoltà e obiezioni da dissipare ho intravisto circa il rinnovato rito della Messa.
Alcune vengono da noi stessi. Per formazione di seminario e per influenza d'ambiente, sinora noi siamo stati - in liturgia - troppo individualisti. La Messa? Era la mia Messa; cercavo di prepararmici devotamente, di celebrarla con raccoglimento; era la regina delle mie pratiche di pietà; era celebrata da me per i miei fedeli, meno dai miei fedeli con me; i miei fedeli erano laggiù, in chiesa, destinatari, non protagonisti; mi bastava che seguissero, che capissero la Messa, che però non sentivano come nostra Messa. Non dicevo loro: prepariamoci insieme, ringraziamo insieme! Dicevo invece al mio confessore: ho celebrato, ma non abbastanza raccolto, e temo che i miei fedeli non siano rimasti del tutto edificati nel guardarmi all'altare! Mai detto al confessore: per colpa mia, i miei fedeli ed io non siamo abbastanza famiglia alla Messa! Per pigrizia mia, nella mia parrocchia, l'assemblea dei partecipanti alla Messa non riesce splendente testimonianza di carità e neppure manifestazione della speranza, aspettazione fervida della futura assemblea celeste!
Ci avevano detto: celebrate da santi! E chi erano i santi? Erano Filippo Neri, che, avvenuta la consacrazione, andava in estasi ed in estasi restava due ore, ragione per cui l'inserviente, non potendo seguire l'estatico, lo piantava, andando pei fatti suoi e ritornando quando l'estasi era finita! Erano altri, che, celebrando, trovavano rituali, conforto, forza e lumi per la santità personale e per l'apostolato. Così il curato d'Ars, così Antonio Chévrier, così cento altri. Questa personale devozione è appena uno degli aspetti della Messa.
D'ora innanzi, bisogna vivere anche altri aspetti. Bisogna dire con più convinzione: meum ac vestrum sacrificium; dopo la consacrazione, laddove da parte del sacerdote vien detto che offriamo nos servi lui, sottolineeremo: sed et plebs tua sancta. Sì, sono sacerdoti anche i semplici fedeli; il loro sacerdozio non serve per transustanziare, ma serve per offrire. Avevamo forse timore di dirlo una volta, per non assomigliare a Lutero, che diceva: in Ecclesia, nullus rasus, omnis rasus (nessuno è sacerdote, tutti sono sacerdoti); dopo la Costituzione conciliare sulla Chiesa nessun timore: i fedeli, in un certo senso, sono sacerdoti e, come tali, hanno diritto e dovere di svolgere nella Messa una loro parte, che noi non dobbiamo usurpare. Dicano, dunque, il loro Amen, a ratifica, a consenso, a firma della nostra preghiera. Vengano pure, cantando e in piedi, a ricevere la Comunione dalle nostre mani. Legga pure uno di essi la lezione santa, che il celebrante ascolterà seduto e in silenzio come gli altri.
Oltre che troppo individualisti, siamo stati troppo tecnici e troppo rubricisti. «Darei la vita anche per la più piccola delle cerimonie!». L'ha detto santa Teresa di Gesù, l'hanno inculcato a noi. Ed ecco le cerimonie. Voce: quattro volte sia chiara, quattro volte media, segreta non so quante volte. Baci: quattro all'altare, uno al libro, uno alla patena. Mani: quindici volte iunctae ante pectus, sette volte iunctae super altare, otto volte extensae ante pectus; tre volte extensae super altare. Inchini: cinque profondi, otto medi, quindici leggeri. Non parlo degli occhi nove volte alzati, tre volte tenuti bassi, cinque volte fissati sul Santissimo Sacramento. Non parlo dei segni di croce, delle genuflessioni.
Tutte cose buone e da eseguire appuntino, intendiamoci, ma esse ci hanno preoccupato troppo, distogliendo la nostra attenzione da altre cose importanti e fissandola sul dettaglio e sull'esatta esecuzione del medesimo. Perfino il popolo s'è accorto della cosa e qualcuno, meno rispettoso, ha un po' sorriso. In Tre Messe basse, il Daudet scherzosamente descrive le colpe dell'abate Balanguère, che, per celebrare in fretta, freneticamente si abbassa, si solleva, abbozza i segni di croce, le genuflessioni, accorcia tutti i gesti... sguazza nel latino... non finisce l'epistola, sfiora il Vangelo, passa davanti al Credo senza entrare, saluta di lontano il Prefazio... precipitando così, a salti e a slanci, nel più profondo dell'inferno. Anche il buon popolo novellava di un don Giuseppe, uso, benché giovane, a celebrare anche lui a scappa e fuggi. Un suo benefattore di seminario l'andava ogni tanto a trovare nel paese in cui era cappellano, ma una volta s'era rattristato forte nel vederlo strapazzare le cerimonie della Messa e s'era confidato mestamente con un amico: «Povero Cristo in mano a Beppe!». Ma ecco il figlioccio portato improvvisamente via da una meningite. La mesta confidenza del benefattore allo stesso amico non si fece aspettare, questa volta capovolta: «Povero Beppe in mano a Cristo!».
Ci guarderemo bene dall'essere frettolosi e trascurati come l'abate Balanguère e don Beppe, ma neppure faremo consistere tutto o quasi tutto nel semplice eseguire con esattezza e precisione. I riti nuovi (o, meglio, rinnovati) non sono soltanto qualcosa da eseguire appuntino; sono segni, che portano noi a capire meglio certe verità misteriose e che portano a noi certi aiuti di Dio.
Il grandissimo aiuto è soprattutto Gesù realmente presente ma non dimenticheremo che anche il ritrovarsi insieme i fedeli, in veste e funzione di chiamati da Dio e di rispondenti al suo appello, è grande cosa. Tanto più grande, quanto più numerosi essi si accostano alla stessa mensa a mangiare lo stesso Corpo e Sangue di Cristo, che entrando, unico, in ciascuno di essi, li unisce sempre più tra loro col glutine della carità.
E cosa da non trascurare, che io, celebrante, rappresenti visibilmente Cristo; in nome suo, al «seggio presidenziale» o all'altare, presiedo l'Assemblea, ne sono responsabile, ne suscito e guido la preghiera comunitaria. Sacerdotem oportet praeesse! Presiedere e quindi trascinare con me, dietro a me, presidente, colla voce adatta, col gesto grave e, soprattutto, colla santità della vita. La grande cura non sarà solo nel prepararmi ad eseguire le cerimonie mie, ma anche nel penetrarmi di convinzione ed entusiasmo e nel preparare i fedeli a capire, a fare, a cantare, organizzando ed insegnando.
E insegnerò, soprattutto, a sentire e vivere i due grandi momenti della Messa, oggi ben distinti per il luogo. Mostrerò il seggio, il leggìo o l'ambone con il Lezionario e dirò: qui si svolge il primo tempo, il tempo del Libro! Dice il profeta: «II leone rugge, chi non tremerà? Il Signore parla, chi non profeterà?» (Amos). Ricordatelo: quando Dio parla, bisogna ascoltare con rispetto e rispondere. Dio ci parla nella prima lettura, nel Vangelo, nell'omelia; noi risponderemo subito con il canto, con il Credo, coi propositi santi; nel resto del giorno risponderemo con la vita buona, con generosi sforzi per migliorare. Si compirà così la Liturgia della Parola!
All'altare, invece, si svolge la Liturgia eucaristica, il cui centro è quando il Corpo e il Sangue di Cristo sono presenti sull'altare. In quel momento sale davvero a Dio Padre l'adorazione perfetta e viene fatta un'offerta straordinaria: vittima pura, santa, immacolata è il Cristo! Ma, perché supplichiamo Dio che guardi al dono offerto «con volto propizio e sereno»? Perché, colla Vittima pura, osiamo offrire anche le povere cose nostre: fatiche, pene, dolori. A questo punto la Liturgia nostra si inserisce nella Liturgia del Cielo. Lassù Giovanni (Ap 7) ha visto un angelo, che, turibolo d'oro in mano e carico di aromi, metteva tutto su un altare. «Metti anche i nostri doni, o Signore, su quell'altare altissimo!».
Se l'adorazione e l'offerta sono il centro, la cornice della Liturgia eucaristica è costituita dalla «grande preghiera», il Canone. Ma ciò che più risalta, nel Canone, è il ringraziamento: «Rendiamo grazie al Signore», dice l'Assemblea. «È cosa buona e giusta, è per noi dovere e salvezza rendere grazie a te sempre e dovunque», dice il celebrante. E aggiunge: non solo la terra, ma anche il Cielo; non solo noi, ma tutti, anche i Cherubini, i Serafini, tutti ringraziamo, ad una voce sola! Succede qui come quando una città fa una gran festa per regalare una medaglia d'oro a un insigne benefattore. Il cuore della festa è l'offerta della medaglia. Chi fa il discorso ufficiale, però non ama insistere sulla medaglia: sarebbe inopportuno dire: la medaglia che le regaliamo, è magnifica, è finissima! Conviene, invece, enumerare i meriti che hanno provocato il dono, e cioè ringraziare! Si cerchi di far sentire all'Assemblea la grandezza della «grande preghiera» nel suo inizio (prefazio) e nella sua conclusione (dossologia). Prima il Sanctus poi l'Amen finale detto o cantato da tutti con tutta l'anima siano davvero l'approvazione cordiale e corale di tutto un popolo.
Altre difficoltà vengono dall'esterno. Nella recente udienza del 14 gennaio il Papa ha insistito sul dovere di accettare e mettere in pratica senza riserve la riforma liturgica e ha chiesto che si modifichi, se del caso, la propria mentalità abituale a favore della nuova pedagogia spirituale nata dal Concilio.
Vedo dalla stampa che, per contro, qualcuno manifesta dei timori: «Tolto il latino - si dice - casca la maestà della Messa, cascano il senso del sacro e del mistero, è messo in pericolo tutto un tesoro di musiche, che fanno da secoli la gloria della Chiesa!». È sorta perfino l'associazione internazionale «Una voce», con lo scopo di assicurare che si conservi il latino almeno per certe parti e per certi casi. Un noto scrittore cattolico inglese s'è sentito pervaso a favore del latino liturgico dallo stesso ardente zelo, che Neemia (13,8 ss.) sentiva per l'ebraico contro l'uso dei dialetti aramaici. Non è arrivato, come Neemia a rimproverare, maledire, percuotere e strappare i capelli, limitandosi a scrivere ed a organizzare la partecipazione di gruppi alle sole «Messe vecchie»! Più di lui si avvicinano a Neemia i nuovi profeti, che in gruppo - comprese venerande signore - nelle chiese di Francia e nella stessa Notre-Dame di Parigi, a sfida e protesta, rispondono in latino al francese del celebrante!
Cosa dire? Che s'abbia fiducia nella Liturgia nuova e si seguano senza esitazione le direttive del Papa e del Concilio.
Al Concilio, nella appassionata discussione sulla Liturgia, i casi si sono rivelati due.
Primo: «Lasciate tutto o quasi come sta e giace; con il latino, coi riti comprensibili solo in parte, a prezzo di non facili spiegazioni e impregnati di Medioevo latino-germanico! Piacerete ad un certo numero di iniziati dal gusto raffinato, nutriti di classicità o sentimentalmente legati a quel dato rito, a quel certo modo di cantare! Ma la massima parte dei fedeli resterà senza capire, non ricaverà dai riti tutto l'aiuto che potrebbe e continuerà ad estraniarsi dalla Chiesa!».
Secondo caso: «Cambiate coraggiosamente! Fate una Liturgia che il popolo di adesso capisce e sente! Cascherà qualche abitudine cara, si rinuncerà a qualche tradizione veneranda, ma ne risulterà la possibilità di adattarsi meglio alle varie situazioni e circostanze! Si seguiranno le leggi della vita e la Liturgia sarà la quercia antica, che affonda sempre più le radici nel terreno del passato e, nel medesimo tempo, rinnova ogni anno il suo fogliame».
Questa seconda soluzione è piaciuta alla stragrande maggioranza dei Padri, è stata sanzionata dal Papa, dev'essere aiutata con il massimo impegno dai sacerdoti, tra i quali sono sicuro di vedere volenterosi, aperti, docili, i miei.
Vittorio Veneto, 14 febbraio 1965.
* Bollett. Eccl., 1965, pp. 74-78.
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Sei amato solo dove puoi mostrarti debole
senza provocare in risposta la forza.
Theodor W. Adorno
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?"Se non riesci a “osservare i comandamenti” non considerarti mai perso,
non ti inacidire in modo moralistico o volontaristico.
Più a fondo, più in basso della tua vergogna o della tua caduta c'è Cristo.
Volgiti a lui, lascia che ti ami, che ti comunichi la sua forza.
E' inutile che ti accanisci in superficie: è il cuore che deve capovolgersi.
Non devi cercare nemmeno innanzitutto di amare Dio, ti basta capire che Dio ti ama.
Oggi".
Olivier Clèment
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Pontifex e le cavallette
di Massimo Gramellini
In occasione del Santo Natale e del Santissimo Twitter, dove Benedetto XVI sbarcherà a giorni con il profilo Pontifex, da ieri è possibile inviare una domanda al Papa digitando un massimo di 140 caratteri sul telefonino. Gli italiani, popolo profondo e spirituale, ne hanno immediatamente approfittato per rivelare a Ratzinger i loro tormenti interiori. «Benedè, di' la verità. Ogni tanto ce 'a metti 'a nutella dentro l'ostia?», «Se ti mando un po' di casse d'acqua, mi rimandi indietro i boccioni di vino?», «Santo Padre, ma è lei a essere responsabile dell'evoluzione di Terence Hill da Trinità a don Matteo?», «Visto che c'hai contatti boni, ti fai dire perché Noè ha caricato quelle minchia di zanzare?», «Se qui sulla terra c'è il digitale terrestre, in paradiso hanno il digitale celeste?», «Ok l'invasione delle cavallette e la tramutazione dell'acqua in sangue, ma la Santanché era indispensabile?», «E' vero che chi fa la spia è figlio di Maria?», «Si mette mai sui condotti d'aria con la gonna per imitare Marilyn Monroe?», «Se il diavolo veste Prada, lei veste Dolce & Gabbana?», «Che me prendi 'na stecca de sigarette, che 'ndo stai tu costano meno?», «Ti è piaciuto l'ultimo di Lady Gaga?», «Sopra la papamobile come stai messo co' la sinusite?», «Ma er papa c'ha 'e scarpette rosse perché giocava a basket?», «E' vero che il terzo segreto di Fatima è la birra non pastorizzata?».
Non si offenda, Santità. Siamo italiani. Comici per timidezza. E leoni da tastiera quando nessuno ci vede. Dal vivo, metà di questi le bacerebbe l'anello e l'altra metà, baciandolo, glielo sfilerebbe dal dito.
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Allora i discepoli si avvicinarono a Gesù per dirgli:
«Sai che i farisei, a sentire questa parola, si sono scandalizzati?».
Ed egli rispose: «Ogni pianta, che non è stata piantata dal Padre mio celeste, verrà sradicata.
Lasciateli stare! Sono ciechi e guide di ciechi.
E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!
Matteo 15,12-14
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Quel pulpito inaccessibile che in rete non avrà filtri
di Riccardo Luna
La strada che il social media team di Benedetto XVI ha scelto per esordire su Twitter è la più impervia che si potesse immaginare: presenta alcuni rischi di gestione del profilo appena varato e porta il Papa a commettere almeno un errore fondamentale rispetto al tipo di piattaforma. Partiamo da questo secondo punto. Ieri la sala stampa vaticana ha fatto sapere che il pontefice su Twitter non seguirà nessuno. Avere un account a zero follower è più di un errore: vuol dire non aver capito il senso dei social network. Qui la comunicazione ha superato la modalità classica “da uno a molti” per passare al “da molti a molti”: seguire qualcuno in rete non vuol dire perdere autorevolezza, vuol dire indicare persone di valore. Al contrario dire che il Papa non seguirà nessuno vuol dire trattare Twitter come se fosse una radio. Il Papa parla, gli altri ascoltano.
È un peccato, non in senso biblico ovviamente, perché seguendo gli altri non solo spesso si arriva prima sulle notizie, ma si capisce l'aria che tira fuori da San Pietro. In realtà rispetto alla radio, è prevista una buca delle lettere pubblica e qui veniamo ai possibili problemi di gestione: chiunque infatti ieri è stato invitato a postare domande al Papa segnandole con il cancelletto #askpontifex. In realtà non serve una autorizzazione per fare domande via Twitter, ma se le chiami in questo modo rischi di venirne travolto. Subito si è avuto un assaggio del tipo di curiosità da esaudire: da tutto il mondo sono piovute staffilate sul divieto per i preservativi mentre si muore di aids, sui preti pedofili e altre cose simili. Ci manca solo la questione dell'IMU e delle scuole cattoliche ma arriverà. Come è arrivato un appello per conoscere finalmente la verità su Emanuela Orlandi. Ora, se il Papa rispondesse davvero a tali questioni sarebbe un immenso passo avanti ma può davvero farlo? Non credo, ma anche se lo facesse innescherebbe una bufera di repliche senza censura e senza nessuna possibilità di gestione della conversazione globale. Il fatto è che la vita reale e la vita digitale non sono due cose separate, ma sono una legata all'altra. Non puoi pensare di comunicare da un pulpito inaccessibile nella vita reale e invece non avere nessun filtro in rete, perché a quel punto la distanza che hai creato con il resto del mondo nella vita reale si trasforma in una pressione rabbiosa una volta che stai sul web. Prevedo alcuni aggiustamenti in corsa.
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"Scrivo con una minuscola bilancia come quelle utilizzate dai gioiellieri.
Su un piatto depongo l'ombra e sull'altro la luce.
Un grammo di luce fa da contrappeso a diversi chili d'ombra".
Christian Bobin, Resuscitare, 23
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Quando l'amore è una truffa
di Antonella Boralevi - 12 novembre 2012
Adesso mettetevi sedute. Prendetevi dieci minuti di tempo. Quello che sento l'urgenza di dire è molto sgradevole. Vi farà arrabbiare. Proverò a farvi venire qualche dubbio. Anche un solo dubbio.
Perché quel dubbio, io ne sono convinta, può fare la differenza. Può salvare una vita. La vostra. La vita di un altro. La vita di tutti noi che ci arrampichiamo come formiche sul muro scivoloso dei giorni.
Diffidate di chi dice: «TI AMO».
Perché non dice quello che sembra.
Perché l'amore è una truffa.
E la parola “amore” è un'arma.
Letale, purtroppo, troppo spesso. Certe volte uccide l'anima, il futuro, la libertà. Altre volte fa scorrere il sangue.
Prendete Samuele Caruso. Un «bravo ragazzo», dice la madre, che continua a tenere gli occhi serrati contro la verità. Un bravo ragazzo che, una mattina, esce di casa con il coltello e dice: «Volevo usarlo su Lucia se avesse ammesso il tradimento». Lucia era, secondo lui, la sua fidanzata. Lucia ha 18 anni e con Samuele ha avuto un flirt. Poi si sono lasciati. Ma Samuele “la ama”. E “per amore” va ad aspettarla nell'androne del palazzo dove abita. Per amore, quando lei entra, tornando da scuola insieme alla sorellina Carmela di un anno più giovane, le salta addosso e mena fendenti. Venti. Venti squarci da cui zampilla sangue. Carmela si para davanti all'assassino, per difendere la sorella. L'assassino la sgozza.
Io sto male, e voi?
Prendete Leonardo, il bambino di Cittadella di Padova. Ha dieci anni, va a scuola. Una mattina, arrivano a prenderlo i poliziotti. Lo trascinano fuori dal banco, lo portano a braccia nel corridoio e poi fuori, alla macchina, mentre lui si divincola e urla: «Non respiro, lasciatemi, non respiro». Accanto ai poliziotti c'è il papà del bambino, lo tiene per i piedi. Davanti al bambino c'è la famiglia della sua mamma, il nonno, la zia, lo zio. Hanno una telecamera e filmano tutto. Da settimane stavano lì, fuori dalla scuola, ad aspettare quello che sapevano sarebbe successo, con la telecamera per poi spedire il video a Chi l'ha visto?. Il bambino di Padova è lo strumento con cui madre e padre si fanno la guerra. “Per amore”, la madre da sette anni gli impedisce di vedere il papà e lo cresce nell'odio e nella paura di suo padre. “Per amore”, il padre, dopo anni di tragedie, porta via il bambino dalla sua vita. Per tutto questo “amore” che gli è caduto addosso, questo bambino ora vive in una casa-famiglia.
Prendete Jean-Paul Belmondo. Ha 79 anni, ha avuto un ictus nel 2001 e nel 2008 “per amore” Barbara Gandolfi, 37 anni, si è fidanzata con lui. Si erano conosciuti, ovviamente, a Saint-Tropez. Ora Belmondo sta guarendo, ha perfino girato un film. Certo, vederlo fa impressione, è un povero vecchio con lo sguardo vuoto. “Per amore”, la signora Gandolfi, dice la polizia e dicono i giudici, deve aver guardato molto bene i di lui conti in banca. Infatti pare che parecchio denaro («flussi sospetti») sia transitato, “per amore”, dal conto di lui a quello di lei. Belmondo l'ha lasciata.
Prendete Jeremy Forrest. Ha 30 anni, è sposato e insegna in una scuola. Una mattina esce di casa, bacia la moglie e i bambini, va in classe. E, “per amore”, scappa con la sua allieva Megan Stammers, di anni 15. “Per amore”, dall'Inghilterra, dove lui sarebbe incriminato per abuso sessuale, scappano in Francia, dove la loro fuga è lecita. È lecito che un uomo adulto e responsabile si appropri del futuro di una ragazzina di 15 anni, che lo guarda come un dio perché è il suo insegnante? Una ragazzina di 15 anni, nel 2012, è ancora una bambina o è già un'adulta, per la vita che fa, per le cose che vede intorno a sé? Chi ha sedotto chi? È “amore”? Dal 1991 i casi di “amore” tra allievi e professori in Inghilterra sono stati 191.
In tutti questi casi, e nei prossimi, e nei casi che io non conosco ancora e voi conoscete e forse vivete, l'amore non è amore. È un alibi, feroce, per Samuele. È una pistola puntata, per i genitori di Leonardo. È una rapina, per Barbara Gandolfi. È manipolazione, per Jeremy Forrest.
Di cosa parliamo quando parliamo d'amore? Questa è la domanda.
Ed è anche il titolo di una celeberrima raccolta di atroci racconti di Raymond Carver, usciti nel 1981: ognuno è una coltellata, in ognuno l'amore non esiste.
L'amore, come lo intendiamo noi, è un prodotto culturale. Una invenzione. Il corteggiamento, la donna idolatrata, il circo vischioso della devozione, li inventarono all'incirca nell'anno Mille i poeti del Sud della Francia, i “troubadours”. Certo, Saffo aveva già scritto 17 secoli prima della tortura dell'amore: «Eros mi squassa il cuore, come vento sui monti piomba sulla quercia». E Catullo si smarriva nel vortice dell'amore che forse è odio: «Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri, sentio et excrucior» (Odio e amo. Per quale motivo io lo faccia, forse ti chiederai. Non lo so, ma sento che accade, e mi tormento). Verso la fine della sua vita, nel 1606, Shakespeare crea Re Lear. E Cordelia. Re Lear mette in gara per il suo regno le tre figlie, darà il potere a chi di loro gli dimostrerà di amarlo di più. Goneril e Regan parlano e parlano, Cordelia, la dolce, sincera, giovanissima Cordelia, dice semplicemente: «Ti amo come una figlia ama un padre, no more no less (né più né meno)». Perderà, Cordelia, il regno e la vita, ma nell'ultima scena il suo corpo lieve, come lieve è l'amore vero, pesa più di un macigno tra le braccia del padre disperato, che solo adesso capisce.
Mi domando, vi domando: quante volte l'amore, quello che noi chiamiamo “amore”, è recita? È comodità? È esercizio di potere? È spaventoso atto di egoismo e di ferocia? Fino al 5 settembre 1981, in Italia la legge riconosceva le attenuanti per il “delitto d'onore”. Un massacro autorizzato che ha fatto centinaia di vittime innocenti.
Quanti genitori chiamano “amore” il loro bisogno di possedere il figlio? Quanti uomini e quante donne chiamano “amore” la loro angoscia di essere soli, la loro ansia di possesso dell'altro? Quanti mariti che picchiano la moglie chiamano “amore” la loro violenza? E quante mogli picchiate chiamano “amore” la loro connivenza, la loro paura di denunciare, di scappare, di salvarsi?
So che sto dicendo cose molto forti e vi chiedo scusa. Ma credo che occorra dirle. Quante madri single che hanno fatto del figlio il loro partner ideale chiamano “amore” la rapina della sua infanzia? Vi invito ad ascoltare i talk show in un giorno qualunque, a leggere un quotidiano in un giorno qualunque. A contare quante volte ricorre la parola “amore”. E a vedere che cosa la parola “amore” maschera, nasconde, rende accettabile, plausibile, persino “buono”.
Tutti, tutti coloro che approfittano degli altri, che trattano gli altri come pedine, che li usano, li manipolano, li violentano in tanti modi (non solo con l'abuso), dicono di farlo “per amore”.
L'“amore” è la scusa sempre pronta, sempre disponibile. L'amore salva chi dice di aver agito, di agire nel suo nome.
È una parola orrenda, “amore”. Adesso. Perché “amore” significa “faccio di te quello che voglio”.
L'opposto assoluto dell'amore come ce lo ha insegnato Gesù, come ce l'hanno insegnato certi poeti: io amo te e voglio il tuo bene, e per il tuo bene io mi sacrifico. La tua libertà sono le mie ali, il posto del mio cuore è nel tuo petto, ha scritto Pablo Neruda.
Ma noi non accettiamo questo amore, che è l'unico amore degno di questo nome, secondo me. Oh, no. Noi vogliamo amare per possedere, amare per rinchiudere, amare per fare quello che ci pare: impunemente.
Questo è l'“amore” oggi: una garanzia di impunità. Ecco, io vi invito a ribellarvi.
Vi invito ad amare per liberare l'altro e non per rinchiuderlo dentro la vostra prigione.
http://www.donnamoderna.com/attualita/News/AMORE-TRUFFA
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«Promessa sposa», cioè fidanzata! Noi sappiamo che la parola fidanzata viene vissuta da ogni donna come un preludio di tenerezze misteriose, di attese. Fidanzata è colei che attende. Anche Maria ha atteso; era in attesa, in ascolto: ma di chi? Di lui, di Giuseppe! Era in ascolto del frusciare dei suoi sandali sulla polvere, la sera, quando lui, profumato di vernice e di resina dei legni che trattava con le mani, andava da lei e le parlava dei suoi sogni. Maria viene presentata come la donna che attende. Fidanzata, cioè. Solo dopo ci viene detto il suo nome.
L'attesa è la prima pennellata con cui san Luca dipinge Maria, ma è anche l'ultima. E infatti sempre san Luca il pittore che, negli Atti degli apostoli, dipinge l'ultimo tratto con cui Maria si congeda dalla Scrittura. Anche qui Maria è in attesa, al piano superiore, insieme con gli apostoli; in attesa dello Spirito (At 1, 13-14); anche qui è in ascolto di lui, in attesa del suo frusciare: prima dei sandali di Giuseppe, adesso dell'ala dello Spirito Santo, profumato di santità e di sogni. Attendeva che sarebbe sceso sugli apostoli, sulla chiesa nascente per indicarle il tracciato della sua missione.
Vedete allora che Maria, nel Vangelo, si presenta come la Vergine dell'attesa e si congeda dalla Scrittura come la Madre dell'attesa: si presenta in attesa di Giuseppe, si congeda in attesa dello Spirito. Vergine in attesa, all'inizio. Madre in attesa, alla fine.
E nell'arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l'altra così divina, cento altre attese struggenti. L'attesa di lui, per nove lunghissimi mesi. L'attesa di adempimenti leali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele. L'attesa del giorno, l'unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più. L'attesa dell'«ora»: l'unica per la quale non avrebbe saputo frenare l'impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini. L'attesa dell'ultimo rantolo dell'Unigenito inchiodato sul legno. L'attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia.
Attendere: infinito del verbo amare. Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all'infinito.
mons. Tonino Bello, Avvento-Natale. Oltre il futuro, 46-48.
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dagli scritti di Charles de Foucauld
«La mia vita continua, sempre la stessa: occupatissima esteriormente benché molto calma: ogni giorno la stessa cosa: poveri e malati che si succedono; interiormente, mi rimprovero di non dare abbastanza tempo alla preghiera, alle cose puramente spirituali: di giorno, non smettono mai di bussarmi alla porta e la notte, che sarebbe il tempo propizio, m'addormento meschinamente: è per me una vergogna e una sofferenza, questo sonno che prende più posto di quanto vorrei; io non ho tempo per esso, ed esso se lo prende... Il mio esame di coscienza mi rimprovera soprattutto tre cose: tiepidezza verso Gesù; non Lo prego né tanto né così teneramente come potrei o dovrei; tiepidezza verso il prossimo: non vedo abbastanza, nel prossimo, Gesù, non lo amo come me stesso; tiepidezza dinanzi alla croce: non cerco di soffrire, sono pigro e ingordo...».