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di Alessandro D'Avenia
«Quando ho finito di leggere il suo romanzo ho sentito un fuoco dentro di me, qualcosa di misterioso si è svegliato e mi sono detto: io voglio vivere così. Ora lei deve spiegarmi come mai questo è accaduto». Me lo ha chiesto venerdì pomeriggio Mattia, 17 anni. Eravamo in una scuola di una città emiliana, di pomeriggio. Ci sarebbe stato un professore a parlare di un libro: c'erano centinaia e centinaia di ragazzi, spontaneamente. Lo stesso era successo una settimana prima in una città lombarda, lo stesso in un'altra ancora due settimane fa e così via... Ogni settimana, ragazzi che non vorrebbero stare a scuola al mattino, poi tornano volontariamente al pomeriggio e pongono domande sulla loro vita a partire da un libro, loro che si dice non leggano mai... Sono stufo di luoghi comuni e piagnistei sui giovani italiani: viziati, superficiali, disinteressati. Da quando è uscito il romanzo sto girando come una trottola per le scuole e il più delle volte sono i ragazzi stessi che spingono i professori a organizzare gli incontri. Vado anche se mi costa fatica, dovendomi anche io occupare dei miei studenti, ma volevo vedere con i miei occhi. Sono stato in decine di scuole, ho incontrato migliaia di ragazzi da Trieste a Marsala, perché mi interessa avere il polso di questi giovani tanto vituperati dai media e dai giornali: mi parlano di impegno, studio, famiglia, amore, dolore, morte, paure, sogni... Trovo un desiderio di impegnarsi e di fare cose grandi che nessuno racconta. Basta luoghi comuni, basta piagnistei! Non basta stare chiusi in uno studio televisivo o davanti a Internet per conoscere e parlare di giovani. Mai come oggi si parla così tanto dei giovani e si parla così poco con i giovani. Bisogna passare il tempo con loro, bisogna stare in mezzo a loro, ascoltare. Con questo non voglio dire che i ragazzi non siano viziati, o che si accontentino a volte di marche, gadget e affini (basta accompagnarli in un viaggio di istruzione per saperlo...). Ma questo accade perché viziati sono gli adulti. Siamo noi, incapaci di additare mete alte e porti da raggiungere, di manifestare con i nostri occhi che siamo fatti per una vita grande, piena. Siamo noi, malati di pessimismo, ad accontentarci e a non trovare altra ricetta se non accontentarli. Abbiamo sostituito la felicità con il benessere, ma per fortuna i ragazzi hanno un anti-corpo che noi adulti perdiamo con il tempo, con il nostro abitudinarismo borghese e comodo, fatto di cellulari e maxischermi, partite di calcio e televisori accesi durante i pasti. I ragazzi hanno un anticorpo: sono giovani. Se solo potessi far leggere le cose che mi scrivono! Ne do un breve saggio. «Sono un liceale e ti scrivo per un aiuto, un consiglio o un parere. La scuola non va... non riesco a metterci il cuore come dici tu... poi il problema più grosso... non riesco a darmi uno scopo in questa vita che mi sembra così tanto monotona. Forse questo è dovuto al fatto che non ho un sogno... anche quello non riesco a trovarlo. Penso alle cose che mi fanno vibrare il cuore e sono tutte banalità... quando esco il sabato sera e quando vedo la mia squadra giocare». «Mi riconosco molto in Leo. Un ragazzo che cerca il suo sogno, come cerco di fare io. Anche se mi sembra di non riuscirci, mi sembra di non trovare nulla che mi appassioni davvero. Cerco di non abbattermi, perché credo che la vita sia troppo breve per essere tristi, o odiare qualcuno o qualcosa. E credo che sia necessario essere curiosi e avere voglia di vivere, di essere felici e di procurare felicità agli altri». «Ho capito che non bisogna accontentarsi delle banalità che ci offre la vita, ma bisogna combattere e impegnarsi in ogni cosa». Non ho cambiato una virgola di queste lettere. Sembreranno incredibili, proprio perché noi adulti siamo i primi a non credere in questi ragazzi, che non conosciamo. Ragazzi che, oppressi dal dolore per le loro vite impoverite e derubate, chiedono consigli a uno sconosciuto, che ha avuto la fortuna di pubblicare un libro in cui trabocca la passione per la sua e le loro vite. Se non portiamo i ragazzi a fare uso della libertà, che è scegliere, le loro vite piombano nella paura o nella monotonia del benessere e dell'individualismo. Le cose non bastano mai, si rovinano, si rompono. Siamo ancora capaci di sognare le loro vite, di prenderci cura del loro destino, di proteggerli, ascoltarli e sfidarli in grandi imprese, portandoli a scegliere ogni giorno? Abbiamo insegnato loro la libertà di indifferenza: la libertà «da», invece di quella «per». Chiedete a un ragazzo che cosa sia la libertà e vi dirà: «Fare ciò che si vuole» o «ciò che finisce dove comincia quella di un altro». La prima definizione è falsa, la seconda è vuota. La libertà è decidere come giocarsi la vita, libertà è partecipazione avrebbe cantato Gaber. Ma quali dei nostri ragazzi toccano ciò che vale la pena scegliere? Quanti di loro vengono abituati da noi adulti a scegliere davvero e non solo tra due marche, tra due film, tra due cellulari, due giochi per la Playstation? Portiamoli di fronte a ciò che è grande, bello, vero (prima di tutto la loro stessa esistenza) e il fuoco della vita divamperà e brucerà pessimismo e paure. Credo in loro, perché credo nella grandezza della mia vita, non perché io sia migliore di nessuno, ma perché qualcuno ha creduto e amato la mia vita (con le sue luci e ombre, pregi e difetti, qualità e fragilità), mostrandomi che era troppo bella, grande, libera per sprecarla o tenermela per me. Invece «colla esperienza, [il giovane] trovandosi sempre in mezzo ad eccessive piccolezze, malvagità, sciocchezze, bruttezze ecc., a poco a poco si avvezza a stimare quei piccoli pregi che prima spregiava, a contentarsi del poco, a rinunziare alla speranza dell'ottimo o del buono, e a lasciar l'abitudine di misurar gli uomini e le cose con se stesso». E questo lo diceva Giacomo Leopardi già due secoli fa, un uomo che i luoghi comuni hanno reso capostipite dei pessimisti, lui che era un realista spietato, con il quale la vita non era stata generosa, era incapace di mentire sul vuoto di certo ottimismo borghese, che dietro luccicanti promesse da consumare nascondeva soltanto la monotonia, la noia, la chiusura di chi ha sostituito le idee con le cose, l'essere con il fare, l'amore con il controllo. I ragazzi sono viziati, perché gli abbiamo insegnato a sognare cose piccole, da soddisfare con il portafoglio. Proprio loro, insoddisfatti, ci salveranno dai vizi che abbiamo loro trasmesso. Lo stanno già facendo a colpi di suicidi, dipendenze, depressioni. Lo stanno già facendo a colpi di domande, sogni, ribellioni.
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di Maria Elisabetta Gandolfi
Non sarò breve. Perché non me la sento di ridurre tutto ciò che la cronaca ci ha riportato in tema di donne a un'ennesima maldestra espressione dell'antiberlusconismo. C'è una questione di donne. E sotto l'eterno riproporsi del (in buona parte falso) dilemma tra libertà individuali e morale (...), un trasversale sussulto d'indignazione ha visto la luce. Da un punto passano molte linee; tuttavia è un inizio. Ma, come ha scritto Paola Springhetti (Vino Nuovo 19 febbraio), questo non sembra aver toccato più di tanto la comunità ecclesiale, eccezion fatta per le dichiarazioni di suor Eugenia Bonetti e suor Rita Giaretta. Ma, via, riconosciamolo: un po' che sono suore, un po' che si occupano di "cause perse", sono state di fatto derubricate a lodevole testimonianza, vox clamantis in deserto...; pittoresco, ma abbiamo altro da fare. (...). Sarei pronta, tuttavia, a scommettere che alla variopinta manifestazione di domenica 13 c'erano molte donne "cattoliche". C'è una questione sul ruolo della donna nella società e nella Chiesa. È un discorso complesso che attraversa la carne e il sangue delle donne e che pone più di un'inquietudine anche agli uomini: "se Atene piange, Sparta non ride".
Vedo almeno tre snodi su cui la Chiesa potrebbe riflettere.
1) L'essere e il corpo. Mariapia Veladiano (...) dice in un'intervista che è un dramma oggi essere brutti "in un mondo che identifica il bello, con il buono e giusto. È la materialità dell'idolo, direbbe la Bibbia. Oggi non è il buono a essere bello, ma il contrario. E sotto il bello non c'è nulla": come altro definire questo novello trend che spinge (alcuni) padri e madri a offrire le proprie figlie al potente di turno con la stessa leggerezza con cui si fa il picnic fuori porta una domenica di primavera? Salvo poi stracciarci le vesti e scuotere sconsolati la testa di fronte all'ennesimo caso di anoressia finito in tragedia. Che cosa fa più scandalo: quel corpo così bello diventato un carcere, o quello sguardo di sfida che mostra un corpo scavato ed emaciato che tutti guardano inorriditi? Quell'urlo disperato che dice "io posso" anche di fronte alla morte? È una malattia da prendere sul serio questa, quanto più gli elementi che la compongono sono schegge mal assortite del nostro vivere odierno. E non è un caso se gli studi sull'anoressia sono stati avviati da una sopravvissuta ai campi di concentramento, Hilde Bruch.
2) La maternità e i ruoli. La parità per le donne è oggi un bel principio sulla carta ma alla prova dei fatti trova ancora i suoi buoni ostacoli. Anche perché spesso viene sbrigativamente interpretata come una sorta di taglione da applicare col coltello: un tanto all'uomo e un tanto alla donna. L'esempio della maternità è un caso lampante: da un lato essa, atto creativo per eccellenza, rischia di rinchiudere le donne nell'ambito del lavoro di cura quasi come una condanna entro la quale non v'è spazio intellettuale. Dall'altro le donne, per essere riconosciute in campo professionale devono assumere e assommare modelli che rinnegano qualsiasi specifico femminile, col bel risultato che, ad esempio, spesso le donne tra loro sul posto di lavoro si fanno la guerra. O devono continuare a sperare nella graziosa elemosina delle quote rosa. Ma in tutto questo il rapporto tra uomini e donne è migliorato?
3) La donna nella Chiesa. Su tutto questo la Chiesa (gerarchica, perché la teologia femminista ha sviluppato una riflessione rimasta al margine della vita delle comunità), duole dirlo, non pare avere gran che da dire, se non un'insistita esaltazione dello "spirito materno", così etereo e così consunto che pare finto. Ho trovato invece che abbia in merito qualcosa da dire un teologo di 96 anni (!), il gesuita francese Joseph Moingt: in un saggio pubblicato a gennaio su Etudes e che sarà disponibile in italiano anche sulle pagine del prossimo numero de Il Regno, egli discute un'ipotesi semplice e coraggiosa: il declino della Chiesa cattolica in Occidente potrebbe essere legato al ruolo che le donne hanno al suo interno. Esse svolgono compiti indispensabili - come la trasmissione della fede ai nuovi nati - ma non sono responsabili per essi; sono altri che decidono.
Non si tratta di rivendicare il sacerdozio per le donne (parità rovesciata) ma di dare seguito all'idea di popolo di Dio, di cui le donne sono tanta parte, che era stata valorizzata dal Concilio Vaticano II e che porta con sé lo spazio per un confronto. "La Chiesa ha forse paura di perdere potere consultando i propri fedeli? L'alternativa - afferma Moingt - è perderli", donne in primis.
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di Massimo Gramellini
Va bene il pensiero cinico dominante, che si fa un punto d'onore di schernire qualsiasi passione ideale. Ma com'è possibile che non vengano i brividi nel vedere una fiumana di ragazzi che si riversa per le strade del Nord Africa chiedendo libertà? Nell'ascoltare le voci drammatiche che raccontano di un genocidio in atto alle porte di casa nostra, dove un dittatore pazzo sta facendo sparare addosso alla sua gente da un manipolo di mercenari? Il petrolio, l'invasione, il califfato: preoccupazioni sensate, ma nell'alfabeto interiore di un essere umano sono parole che arrivano dopo. Prima c'è l'amore per la libertà. Non sarà, lo sto chiedendo anche a me stesso, che nel distacco titubante con cui seguiamo gli eventi libici si nasconde un velo di razzismo, che ci induce a considerare gli arabi degli immaturi, privi dei bollini necessari per iscriversi alla democrazia e quindi da tenere sotto il tallone di qualche babau, possibilmente amico nostro?
Gioca un ruolo la delusione del 1989: alla caduta del Muro festeggiammo l'avvento di un mondo più giusto e invece ci siamo ritrovati dentro uno più largo, nel quale gli occidentali hanno perso peso. In noi si è fatto strada il pensiero tipico dei perdenti: che d'ora in poi qualsiasi cambiamento altrui peggiorerà la nostra vita. Ma i cambiamenti sono la vita. Il modo migliore per scongiurare invasioni e califfati consiste nello schierarsi a fianco dei ragazzi arabi in lotta per la libertà. Aiutarli a ottenerla dai tiranni oggi. E a difenderla dai fanatici domani.
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di Andrea Riccardi
Le rivolte arabe hanno sorpreso tutti. Le proteste nascono da dure condizioni di vita ma anche dall'umiliazione di regimi corrotti. È una rivolta in buona parte di giovani: il 61% degli egiziani, il 58% dei libici e il 74% degli yemeniti hanno meno di trent'anni. I giovani non si sono rassegnati all'intimidazione che ha trattenuto i loro padri per anni. Gente alfabetizzata e globalizzata reagisce in modo nuovo: si sente soggetto, non solo oggetto della storia. Il sistema autoritario non riesce a bloccare chi ha vissuto una rivoluzione mentale. Si sollevano società civili e classi medie umiliate con la coscienza di non essere più isolate, ma parte di una comunità globale con nuovi mezzi per comunicare. «Siamo tutti egiziani» - si leggeva su un cartello in piazza Tahrir, mentre fraternizzavano musulmani e cristiani. Eppure papa Shenouda, capo di vari milioni di copti (sempre critico verso le vessazioni del governo), ha sostenuto Mubarak: ha chiesto ai suoi giovani di non scendere in piazza. Le minoranze cristiane hanno paura. Gli autocrati sembrano garantirle di fronte alla marea musulmana. Ma trapelano sospetti che il ministro dell'Interno di Mubarak abbia avuto connivenze nell'attentato alla chiesa copta di Alessandria. Allora si capisce meglio la furente reazione egiziana alle proteste italiane e alle parole di Benedetto XVI per la strage. A piazza Tahrir un giovane cristiano brandiva un cartello: «Sono copto e sto qui malgrado papa Shenouda». Un piccolo episodio ignorato riguarda la sinagoga vicino piazza Tahrir, sempre protetta da blindati. Con la rivolta, i militari sono spariti e i dimostranti, divenuti padroni della zona, hanno rispettato il tempio. Sintomo di un sentire maturo? Certo preoccupano le dichiarazioni di alcuni religiosi contro Israele ed è inquietante l'arrivo di due navi iraniane nel Mediterraneo via Suez. Il futuro politico delle rivolte arabe non è chiaro. Un ingegnere libico ha detto all'inviato de La Stampa: «Vuol sapere come finirà? Non lo so proprio, so soltanto che non ci fermeremo». La politica e le analisi europee sono state a lungo bloccate dall'alternativa secca tra autocrati e pericolo islamico. Di fronte agli ultimi eventi ci si è troppo limitati alla legittima, ma riduttiva domanda se ne guadagnasse l'islamismo. Ma, per esportare la democrazia in Iraq contro un sanguinario dittatore, si è combattuta una guerra. Poca simpatia è spirata da noi verso il «vento di libertà» di piazza Tahrir. Si tratta di un nuovo '68, di un '89 o che altro? Per il «vento della libertà», laddove è vittorioso, comincia ora un delicato viaggio verso la democrazia attraverso le istituzioni e la politica. L'entusiasmo per la libertà riuscirà a fondare un senso della cittadinanza che superi il fondamentalismo delle identità? In ogni caso mi pare dovuta un'apertura di credito da parte di chi crede nei valori democratici e nella libertà. La paura è un cattivo consigliere. Ha bloccato la politica occidentale verso gli arabi con il timore dell'Urss e poi del fondamentalismo. Certo si capiscono gli interessi economici (come in Libia). Ma c'è un limite, già da tempo oltrepassato da Gheddafi. E mille morti pesano. La radicalizzazione repressiva poi fa il gioco degli estremisti. Il ministro Frattini, reduce dall'Egitto, ha indicato una prospettiva nuova al convegno tra cristiani e musulmani sulle ragioni della convivenza, tenutosi mercoledì a Sant'Egidio: «Bisogna passare dalla partnership della convenienza a quella della convivenza»
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Sempre più numerosi i casi in Sudan di abusi sessuali da parte della Security nei confronti di donne e giovani “colpevoli” di aver partecipato alle manifestazioni di piazza. La denuncia di Sudan democracy first group.
Stupri e violenze sessuali come strumenti di lotta politica e di repressione. È quello che sta accadendo in queste ore a Khartoum, in Sudan. Violenze contro donne e ragazze colpevoli solo di aver partecipato, in alcuni casi neppure quello, a manifestazioni di piazza contro il regime che governa il paese dal 1989. La denuncia, prima apparsa su alcuni siti sudanesi e su youtube, è stata poi ripresa da un'organizzazione locale a difesa dei diritti civili e democratici, Sudan democracy first group, che ha elaborato un documento in cui cita almeno sei casi molto documentati di abusi sessuali, molestie fisiche e verbali nei confronti di donne sudanesi, avvenuti tra il 30 gennaio scorso e il 16 febbraio. Crimini perpetrati dagli uomini della Security del partito al potere, il Partito nazionale del congresso. E compiuti, in prevalenza, negli uffici dell'intelligence nazionale (Niss) a Khartoum Nord. Le denunce citate risalgono al dopo manifestazione in piazza, a Khartoum, del 30 gennaio - seguita poi da quella del 2 febbraio - sulla scia delle vicende tunisine ed egiziane.
In piazza contro il regime, accusato per le sue responsabilità storiche e politiche in relazione alla secessione del Sud; per la diffusissima corruzione e per il nepotismo; per la mancanza di giustizia; per l'incitamento all'odio e alla divisione; per aver continuato la guerra in Darfur; per la crescita della povertà, della disoccupazione e per una situazione economica disastrosa. In seguito a queste proteste sono state arrestate numerose persone; il Niss ha preso di mira i movimenti studenteschi, le università e i giornali. E il rischio tortura era già stato paventato da Amnesty International. Nell'atto di denuncia del Sudan democracy first group si cita il caso di S.E. arrestata la mattina del 13 febbraio in Al Jamhouria Street mentre stava acquistando alcuni fogli e materiale per l'ufficio. È stata accusata di diffondere volantini e testi per incitare la gente alla ribellione. L'hanno portata negli uffici della Security dove l'hanno interrogata, violentata e picchiata. Volevano che rivelasse la sua appartenenza ai gruppi politici più attivi nei giorni delle manifestazioni. È svenuta in più di un'occasione. Violentata anche al suo risveglio. Nel referto medico c'è scritto che ha subito diversi abusi. Lo stesso trattamento riservato a Samah Mohammed Adam, arrestata il 30 gennaio. O a Marwa al Tijani, fermata il 3 febbraio («più piangevano e più mi colpivano e abusavano»). O ad Asmaa Hassan Al Turabi il 16 febbraio. Solo per citare alcuni dei nomi trovati nel report dell'organizzazione sudanese. Nel quale si ricorda come i reati di violenza sessuale, come lo stupro, le molestie e l' aggressione sessuale, non rappresentino affatto uno strumento nuovo in mano al partito al potere contro coloro che si battono per il rispetto dei diritti, o per manifestare idee diverse rispetto a quelle del regime, o per contrastare la guerra, a difesa della giustizia e della democrazia. «Negli anni novanta, durante il periodo della "Casa fantasma" molti uomini vennero violentati e fatti oggetto di vessazioni. E alcuni di questi casi furono pure documentati». Decine di migliaia di donne e ragazze sono state sottoposte a violenze sessuali in Darfur e nel Sud Sudan e sui Monti Nuba durante gli anni dei conflitti scoppiati in queste regioni. Violenze documentate in relazioni locali e internazionali. Il Sudan democracy first group ritiene che «i reati legati alla violenza sessuale, nelle loro varie forme e ovunque si verifichino, rappresentano il fondamento della decadenza dell'oppressione e della crudeltà su cui si è basata la politica del Png per oltre due decenni. Riteniamo inoltre che questi crimini sono la peggior offesa alla lotta per la dignità e per l'umanità di tutta la gente sudanese». L'appello dell'organizzazione è alla comunità internazionale affinché vigili e non chiuda gli occhi di fronte a questi crimini.
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di Fabio Colagrande
In queste ore come credenti non dovremmo avere a cuore più che il nostro benessere quello del nostro fratello in pericolo di vita? Il cristianesimo conta solo in certi ambiti della nostra vita quotidiana? Oppure è una fede che dovrebbe imprimere una direzione etica precisa ad ogni nostro gesto o pensiero? Mi vengono in mente queste domande mentre leggo le notizie che arrivano dalla Libia in fiamme e le reazioni del nostro Paese, dei suoi politici e di noi cittadini.
Di fronte ad un'insurrezione popolare, a quanto pare repressa in modo così sanguinoso da allertare tutte le cancellerie internazionali, la reazione di noi italiani è spesso di preoccupazione. Ma non siamo angosciati dalla carneficina in atto, quanto dalle possibili ricadute del conflitto sulla nostra serenità o dal possibile futuro vuoto di potere che potrebbe seguire al rovesciamento di Gheddafi. Inutile nasconderlo, il nostro primo cruccio, di fronte alle notizie di una guerra civile in atto a poca distanza dalla Sicilia, sono le conseguenze dell'interruzione della fornitura di gas e petrolio che la Libia ci assicura abitualmente e dell'inevitabile fuga verso l'Italia di centinaia di migliaia di profughi africani. Sono timori più che legittimi che rispondo a una visione matura, di real-politik, degli avvenimenti internazionali o sono reazioni miopi ed egoistiche che tradiscono un approccio cristianamente poco etico e forse poco lungimirante?
Preoccuparsi dell'impatto di quei fatti sulla nostra vita di cittadini è più che corretto. Ma come credenti non dovremmo avere a cuore più che il nostro benessere quello del nostro fratello in pericolo di vita? Non dovremmo forse innanzitutto riflettere sulla circostanza che a poche centinaia di chilometri da noi c'è un popolo che rischia di essere vittima di un genocidio? Sono domande ineludibili per chi considera la dimensione evangelica una prospettiva centrale della propria esistenza, da richiamare non solo negli attimi della preghiera personale, della partecipazione all'Eucarestia o durante le sacrosante battaglie in difesa della vita o del matrimonio.
Eppure, sono certo, questo discorso suona a molti demagogico, poco lucido e realista, un po' idealista. Sembra ad alcuni più opportuno e perspicace non angosciarsi sul rischio di uno sterminio che forse potrebbe essere evitato, ma riflettere pensosamente sul rischio che in Libia, come in Tunisia o in Egitto, come conseguenza del nuovo vento rivoluzionario del Maghreb, giungano al potere i fondamentalisti islamici. Secondo questa impostazione è dunque consigliabile guardare subito al «dopo», considerare la catastrofe conseguente alla scomparsa di leader politici autoritari, considerati da una certa propaganda dittatori, ma che in realtà ci facevano il favore di tenere sotto controllo il terrorismo di matrice integralista, di bloccare il flusso migratorio verso l'Europa, e soprattutto con cui si facevano affari d'oro.
È una chiave di lettura accettabile dal punto di vista cristiano? O ci stiamo dimenticando qualcosa? Forse è colpa mia che mi faccio troppe domande.
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di Stefano Femminis
Non potrebbe ciò che sta avvenendo in Nord Africa far cambiare anche l'immagine che, su questa sponda del Mare Nostrum, abbiamo dei musulmani (immigrati compresi)?
«Forse in Tunisia, ma in Egitto è difficile. In Libia, poi, non se ne parla». Magari un po' banalizzate, ma si possono riassumere così le opinioni di analisti ed esperti di cose internazionali che ancora a inizio gennaio, quando già si sollevavano le prime onde dello tsunami arabo, escludevano quell'effetto domino che invece si sta puntualmente verificando. È l'imprevedibilità tipica dei momenti in cui si scrive la Storia con la maiuscola.
In un contesto così mutevole è quindi imprudente avventurarsi in previsioni trionfalistiche. Una cosa, però, va registrata, almeno come auspicio: ciò che sta avvenendo in Nord Africa potrebbe cambiare radicalmente l'immagine che, su questa sponda del Mare Nostrum, abbiamo dei musulmani (immigrati compresi), così come viene solitamente trasmessa dai media e dal dibattito politico. E sono essenzialmente tre le "fotografie" che prima sembravano nitide e fedeli, mentre oggi la cronaca ci restituisce sfuocate, facendoci ipotizzare che sia il caso di sostituirle con nuovi ritratti.
1) Il musulmano medievale. È stata sconfessata la diffusa convinzione che islam e modernità siano incompatibili: lo stereotipo che identificava il musulmano "medio" come un retrogrado in ritardo culturale di 4-5 secoli rispetto all'Occidente è stato spazzato via in poche settimane da una generazione transnazionale che non solo padroneggia le nuove tecnologie forse meglio dei giovani di casa nostra, ma che ne ha fatto - primo caso nel nuovo millennio - lo strumento chiave per una ribellione tanto massiccia quanto pacifica.
2) Il musulmano teocratico. Un altro assioma largamente condiviso era l'inesistenza di un islam laico, l'impossibile conciliazione tra questi due termini: i Paesi a maggioranza musulmana - si diceva - possono restare laici solo se guidati da regimi "occidentalizzati", che di fatto negano all'islam diritto di parola nella società e nella politica: era così, infatti, in Tunisia, Egitto, Libia, mentre l'Iran era, specularmente, la dimostrazione di quanto vero fosse l'assioma. I fatti hanno dimostrato che nel Nord Africa, e persino in Paesi della Penisola arabica come Yemen e Bahrein, i musulmani sono scesi in piazza non certo per chiedere l'istituzione della legge coranica o la teocrazia, quanto piuttosto libertà, democrazia, trasparenza, pari opportunità, sviluppo, tutti valori che siamo abituati a definire "occidentali" e che forse ora sarà il caso di chiamare in modo nuovo. Una rivolta "laica", insomma, come ha riconosciuto un attento osservatore quale il gesuita e islamologo Samir Khalil Samir. E anche gli scricchiolii iraniani dicono tutta l'insofferenza di una parte del mondo sciita per la santa alleanza fra trono e altare in salsa islamica.
3) Il musulmano tagliagole. Persino lo spettro di un fondamentalismo ormai congenito al mondo islamico diventa meno spaventoso. Non si deve essere così ingenui da pensare che questa non rimanga una minaccia reale. Tuttavia, è stato definitivamente smascherato il giochino dei vari rais che, per decenni, hanno gonfiato e strumentalizzato questa paura, poiché avevano tutto l'interesse a presentarsi come baluardi della libertà (in particolare della libertà di business degli imprenditori occidentali...). Sappiamo quanto forti siano risuonate, solo pochi mesi fa, le voci dei vescovi che, al Sinodo per il Medio Oriente, denunciavano l'oppressione di molte comunità cristiane e il dramma della diaspora. Un appello confermato dai recenti attentati che hanno colpito le minoranze cristiane, in particolare quello di Alessandria d'Egitto contro i copti. Eppure, è un fatto che nelle piazze di quello stesso Egitto, musulmani e cristiani hanno combattuto insieme e insieme hanno pregato. Ed è altrettanto vero che i fondamentalisti sono stati i primi a essere sorpresi, senza mai riuscire ad assumere il controllo della rivolta.
E a questo punto mi chiedo: tutto questo non potrebbe avere risvolti concreti anche in Italia, contribuendo ad affrontare con minori tensioni e chiusure questioni chiave come la costruzione delle moschee, l'insegnamento scolastico di religioni diverse da quella cristiana, lo spazio da concedere a tradizioni culturali e religiose diverse da quelle nazionali? Questioni su cui sinora le strumentalizzazioni hanno avuto la meglio, ma che prima o poi andranno affrontate e governate. Questioni che chiamano in causa anche il mondo cattolico, che si interroga su cosa voglia dire custodire le proprie radici in un mondo necessariamente plurale.
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di Massimo Gramellini
Le due notizie sono atterrate insieme sul tavolo della redazione e l'ho considerato un segnale. Prima notizia. La società di andrologia lancia l'allarme: il calo del desiderio e i problemi di erezione legati a blocco psicologico sono sempre più diffusi. Fra i settantenni? Manco per niente, come testimonia la cronaca politica. Fra i ragazzi di vent'anni, la prima generazione esposta fin dall'adolescenza alle radiazioni dei siti porno e all'utilizzo esasperato del corpo femminile da parte della pubblicità. Più vedo meno godo. Per le giovani donne si prospetta, oltre al danno, la beffa. Esibite in pubblico come stinchi di macelleria e ignorate nell'intimità. Però c'è la seconda notizia.
Nel bel mezzo della lezione, una bambina della scuola elementare Pezzani di Milano punta il dito contro la finestra e urla alla maestra: «Ma quella ha il sedere di fuori!» «Quella» è la modella gigantesca di un gigantesco poster che fronteggia la scuola e reclamizza una gonna virtuale che non arriva a scaldare neppure le chiappe. Gli autori della pubblicità hanno parlato di «espressione artistica» e di fronte all'arte, si sa, l'uomo sensibile si inchina. Ma a furia di inchinarsi smette di stupirsi, con tutto quel che ne consegue. Le maestre e le mamme della scuola hanno dichiarato guerra alla chiappa. Finora non l'avevano notata. Una più, una meno. Ci voleva una bambina per gridare che la regina era nuda. Le donne dovrebbero farle un monumento. E anche i maschietti della sua classe, se grazie a lei non entreranno nella prossima indagine della società di andrologia.
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Ascoltate, o re, e cercate di comprendere; / imparate, o governanti di tutta la terra. / Porgete l'orecchio, voi dominatori di popoli, / che siete orgogliosi di comandare su molte nazioni. / Dal Signore vi fu dato il potere / e l'autorità dall'Altissimo; / egli esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri propositi: / pur essendo ministri del suo regno, / non avete governato rettamente / né avete osservato la legge / né vi siete comportati secondo il volere di Dio. / Terribile e veloce egli piomberà su di voi, / poiché il giudizio è severo contro coloro che stanno in alto. / Gli ultimi infatti meritano misericordia, / ma i potenti saranno vagliati con rigore. / Il Signore dell'universo non guarderà in faccia a nessuno, / non avrà riguardi per la grandezza, / perché egli ha creato il piccolo e il grande / e a tutti provvede in egual modo. / Ma sui dominatori incombe un'indagine inflessibile. / Pertanto a voi, o sovrani, sono dirette le mie parole, / perché impariate la sapienza e non cadiate in errore. / Chi custodisce santamente le cose sante / sarà riconosciuto santo, / e quanti le avranno apprese vi troveranno una difesa. / Bramate, pertanto, le mie parole, / desideratele e ne sarete istruiti. / Il rispetto delle leggi è garanzia di incorruttibilità / e l'incorruttibilità rende vicini a Dio. / Dunque il desiderio della sapienza innalza al regno. / Se dunque, dominatori di popoli, / vi compiacete di troni e di scettri, / onorate la sapienza, perché possiate regnare sempre.
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Il servizio pubblico dell'ipocrisia
di Aldo Grasso
Che bella notizia, se davvero Massimo Giletti potesse lasciare la Rai, a patto che si porti dietro anche Sergio Mariotti, in arte Klaus Davi! Non è un problema di persone, ma di servizio pubblico. Spesso ci si indigna con la Rai perché manda in onda programmi come «L'isola dei famosi» o «I raccomandati» con Emanuele Filiberto o «Ballando con le stelle» o altre insulsaggini del genere: ma il pubblico della sera è un pubblico che fa una scelta di intrattenimento e da alcuni mesi, con l'avvento del digitale, ha la possibilità di scegliere con discernimento, le opzioni non mancano.
Dove il servizio pubblico ha completamente fallito la sua missione (la sua ragion d'essere) è nella programmazione del mattino e del pomeriggio, dove lo spettatore si trova in una condizione di maggiore fragilità. In quelle ore la tv funziona come sottofondo, un'ospite in casa cui si presta attenzione in maniera saltuaria, come una routine contro la solitudine. Ebbene, proprio nella condizione in cui l'audience è più indifesa, si insinuano i peggiori programmi della Rai, da «Uno mattina» a «I fatti vostri», da «Pomeriggio sul due» a «La vita in diretta». E la grande novità annunciata da Viale Mazzini è che, dopo aver deluso su Raiuno, Maurizio Costanzo trasloca su Raidue, nel preserale: largo ai giovani!
Ma la trasmissione che più rappresenta il fallimento della nozione di servizio pubblico è «L'arena» condotta, appunto, da Massimo Giletti, nel primo pomeriggio della domenica. Non tanto per le risse continue e volgari (che sono pur sempre un modello di discussione) o per i personaggi invitati, ma per quell'ipocrisia di far credere allo spettatore di stare affrontando un problema fondamentale per la vita del Paese: non c'è alcun bisogno di credere a una verità per sostenerla. Questa è la verità che oggi insegna il servizio pubblico.
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Libertà, gridano. E ne parla il web, ne parlano i nostri giornali. Le folle che stanno sfidando regimi e bombe, decennali assetti di potere, interrogano la nostra libertà. Si sottopongono a pericoli e violenze in tutto il Maghreb e in parte del mondo arabo per il pane e per la libertà. Vorrei che prima di tutte le possibili analisi politiche, del timore per scenari futuri, delle accuse alla speculazione sui prodotti primari, e prima della presa di coscienza delle conseguenze che specialmente in Italia si avranno, arrivasse, dritta come una spada, la grande questione: la libertà muove gli uomini. Anche là dove sembra impossibile.
Certo, queste sollevazioni chiedono pane insieme alla libertà. Situazioni divenute intollerabili dal punto di vista sociale hanno acceso gli animi. Ma come sempre accade, la mancanza e la necessità di un bene particolare (il pane) ha fatto vedere in modo più lampante la mancanza di un bene più grande (la libertà). L'uomo è fatto così. Vuole sempre un bene più grande. La sua fame è infinita. Non di solo pane vive.
Ogni faccenda che riguarda la libertà è complicata. Perché la libertà è la cosa più profonda, più «cara» come dice Dante, più intima di un uomo. La sua parte inespugnabile. Può solo venderla o barattarla lui. Ma nessuno può spegnergliela. Però la libertà non si muove, non cerca la propria soddisfazione in una specie di ambiente puro. È sempre esposta al torbido, al parziale, all'interesse, alle passioni. Non esiste libertà in azione allo stato puro, se non nei santi. E anche i movimenti di libertà che si stanno esprimendo in queste dure giornate non sono "limpidi". Sarebbe stupido pretenderlo. Ma quando un uomo si muove per la libertà, interroga sempre tutti noi: tu per cosa ti stai muovendo? Noi, per cosa ci stiamo muovendo? E, anzitutto, ci stiamo muovendo? Pare che in molte zone della nostra società regni l'immobilità. Non solo nel senso della mancanza di cambiamenti significativi
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Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio» (Mc 10,23-27).
Oggi viene pubblicato un commento di un battezzato su una delle questioni recenti della politica italiana: lo riporto qui sotto, sperando che susciti nei lettori tanta INDIGNAZIONE.
Se l'originalità cristiana è trattata così, non ha più senso nulla: né il valore della vita (quello delle donne e degli uomini ridotti a merce di piacere e di scambio); né la solidarietà (schiacciata dal “benessere”); né il bisogno di un salvatore (e non di tanti soldi); né l'anelito al bene comune (e non solo quello degli “amici” che la pensano come me e che portano vantaggi a me); né l'appello alla Verità (che è piegata ai sofismi).
Dalle parole finali dell'autore valuto le sue parole: «Noi, che dovremmo essere testimoni della speranza, che viene dall'amicizia con Cristo, spesso ci riduciamo a essere parte del gioco del potere che poi, alla fine, è comandato da altri».
L'autore risponde con un esplicito affondo sulla magistratura italiana: «Il rispetto per la giustizia mi chiede di sospendere il giudizio, ma rimane l'evidenza di un conflitto tra poteri che non fanno più quello che dovrebbero: servire il bene comune. Dall'altra parte mi sembra che in questa guerra tra politica e magistratura, la seconda abbia già vinto. È lei ormai a fissare le regole senza avere alcun punto di riferimento o argine nell'apparato statale. Il potere giudiziario italiano è una realtà indipendente e sovrana che non risponde a nessuno dei suoi atti. Non si era mai vista una magistratura muoversi con la prepotenza con cui lo sta facendo oggi nel nostro paese». Secondo l'autore «la moralità dei politici va giudicata dall'impegno nel perseguimento del bene comune che consiste nel benessere del popolo e nella libertà della Chiesa. Diversa è la moralità privata che giudicherà Dio e nel caso questa si macchi di un reato non toccherà né a noi xxx né a noi cittadini giudicare. Il giudizio è della legge: purtroppo mi pare che per ora ci sia solo la presunzione del reato per cui xxx è inquisito, ma sembra che ancora prima del processo la magistratura abbia scritto la sentenza della colpevolezza».
Quanto agli episodi di indignazione emersi in ambienti del mondo cattolico e anche tra esponenti in vista della Chiesa italiana, l'autore replica secco: «L'indignazione non è un atteggiamento cattolico. Tutti gli uomini di buona volontà, che sono più di quelli che sembra al di là di ogni schieramento partitico, devono guardare e portare la situazione con sofferenza, non con indignazione. Sofferenza per un confronto intriso di un odio che si sta diffondendo nella vita del nostro paese, devastando i cuori e le coscienze dei giovani che crescono pensando che il disprezzo sia il modo normale di agire e di vivere i rapporti. Agli ecclesiastici, invece, direi di aprire di più il cuore e le coscienze: perché non si indignano davanti alla persecuzione dei cristiani? Perché non esprimono sofferenza per la devastazione della famiglia? Perché non levano la voce davanti a leggi contrarie alla vita dal suo concepimento fino alla morte? Noi, che dovremmo essere testimoni della speranza, che viene dall'amicizia con Cristo, spesso ci riduciamo a essere parte del gioco del potere che poi, alla fine, è comandato da altri».
Non ho volutamente scritto il nome dell'autore: chissà se il lettore di questo post cambierà la sua valutazione sul testo quando saprà chi lo ha scritto (leggi qui).
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di Massimo Gramellini
Da che mondo è mondo coi dittatori ci si indigna in pubblico e si fanno affari in privato. A volte non ci si indigna neppure: si rimane zitti. Un silenzio interrotto solo dal fruscio dei soldi. Mai visto un politico o un imprenditore andare in Cina inalberando cartelli per il rispetto dei diritti civili. Si diventa esportatori della democrazia solo quando conviene, come in Iraq o in Afghanistan. Però esiste un limite che gli statisti cercano di non valicare ed è il rispetto di sé e del Paese che si rappresenta. Quel senso del decoro e delle istituzioni che ti impone di stringere la mano a Gheddafi, ma ti impedisce di baciargliela. Che ti costringe a riceverlo con tutti gli onori, ma non ti obbliga a trasformare la sua visita in una pagliacciata invereconda, con il dittatore a vita che tiene lezioni di democrazia all'università e pianta la sua tenda beduina in un parco storico della Capitale per ricevervi una delegazione di ragazze prese a nolo.
Berlusconi non ha fatto che applicare alle relazioni internazionali le tecniche di adulazione con cui i vecchi cumenda lombardi stordivano il cliente da intortare. Disposti a tutto pur di compiacerlo, considerando la dignità non tanto un accessorio quanto un ostacolo alla conclusione di un affare. Qualche lettore penserà: il cumenda di Stato è solo meno ipocrita degli altri. Verissimo. Ma a me sta venendo il dubbio che l'antica ipocrisia «borghese», contro cui da ragazzo mi scagliai anch'io, fosse preferibile all'attuale sguaiataggine.
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Un cartellone gigantesco provoca proteste. E solleva anche le obiezioni di chi grida alla censura
S H, chi era costui? Fino a ieri è abbastanza probabile che nessuno lo sapesse, fatta eccezione, forse, per qualche specialista della moda in grado di ravvisare in lui una griffe di pret-à-porter. Da domani, invece, grazie al manifesto gigantesco esposto in varie città, tutti lo sapranno e, magari, compreranno. La pubblicità avrà, insomma, raggiunto il suo scopo, e pazienza se a scapito della fantasia in primo luogo e poi anche - ma si sa che ormai contano meno di niente - della raffinatezza, dell'eleganza, della classe, del buongusto, elementi che, nel campo del made in Italy, si pensava dovessero contare qualcosa. Il gigantesco manifesto mostra, infatti, una gigantesca donna il cui cortissimo vestitino non riesce a nascondere che sotto non porta proprio niente di niente. Lo sforzo dei pubblicitari non deve essere stato, insomma, così straordinario se, per lanciare una nuova linea di abiti, non ha saputo partorire di meglio dell'ennesima ragazza seminuda che, da lassù, sgambetta beata e bene in vista. L'unica, modesta e poco originale novità consiste nell'aver esasperato ancora un po' di più - di uno o due centimetri lungo il metro del pudore - la nudità di un corpo femminile e questo mentre, appena dieci giorni fa, un milione di donne erano andate in piazza invocando più rispetto e più decenza. Come è ovvio alcuni, non pochissimi, hanno protestato e, come è altrettanto ovvio, in risposta, comitati, associazioni più l'uno o l'altro politico hanno, sia pure con qualche cautela - probabilmente per non passare per censori - deplorato. Servirà a convincere i pubblicitari di turno a spremersi un poco di più le meningi, a cercare di far colpo sul pubblico con trovate un po' meno scontate? Certamente no. Dispiace dirlo - per chi in quell'azienda si guadagna il pane - ma l'unico vero deterrente sarebbe quello di non comprare.
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dal Vangelo secondo Marco 10, 13-16
Presentavano a Gesù dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s'indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.
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30 agosto 2010
Immigrati, Gheddafi provoca l'Europa
E Berlusconi: «Si è chiusa una ferita»
Il raìs:«L'Italia finora ha fatto poco rispetto a ciò che abbiamo subito». Poi elogia il premier: «Coraggioso»
Lo ha definito «il mio amico», il «leader della rivoluzione». E nel suo intervento alla caserma «Salvo D'Acquisto» per le celebrazioni del secondo anniversario del trattato italo-libico Silvio Berlusconi ha sottolineato che «tutti dovrebbero rallegrarsi» della nuova amicizia tra Italia e Libia sancita il 30 agosto 2008 con la storica firma di Bengasi. In quell'occasione, ha sottolineato il premier, «è stata chiusa una ferita ed è iniziata una vita nuova»: «Chi non capisce i vantaggi di questa intesa - ha detto il presidente del Consiglio -, appartiene al passato. Noi invece guardiamo al futuro»...
http://www.corriere.it/politica/10_agosto_30/berlusconi-gheddafi-cerimonia-trattato-italia-libia_29726bf4-b473-11df-913c-00144f02aabe.shtml
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L'home sharing della terza età
di Sara Ficocelli
Negli Usa è boom di agenzie specializzate che aiutano gli over 60 a trovare coinquilini per condividere l'affitto e darsi una mano a vicenda. Il fenomeno è diffuso anche in Europa e qualcosa si sta muovendo anche in Italia
Sembra il soggetto di un telefilm: quattro anziani che a malapena si conoscono decidono di vivere sotto lo stesso tetto per pagare affitto e bollette. La versione canuta di "Friends" è l'ultima novità della società americana. Over 60 divorziati, settantenni senza pensione, genitori che non possono contare sull'assistenza dei figli: che fine fanno, in un'America sopraffatta dalla crisi, queste persone? Uniscono le forze e dividono le spese. Dando vita a una tipologia di convivenza completamente nuova, più economica dell'ospizio e non meno funzionale. Il fenomeno è particolarmente diffuso negli Stati che più hanno subìto la crisi, New Jersey in testa. Qui esistono addirittura agenzie specializzate che aiutano gli over 60 a trovare coinquilini fidati e gradevoli. (...) "Le richieste aumentano in continuazione, anno dopo anno - spiega il direttore esecutivo Renee Drell - ma il picco lo abbiamo registrato nel pieno della crisi economica". Gli anziani in cerca di coinquilini negli ultimi due anni negli Usa sono aumentati del 19% e l'associazione è passata dai 1.610 clienti del 2009 ai 1.912 del 2010. Il richiedente-tipo è una donna divorziata tra i 50 e i 55 anni e le ragioni per cui si rivolge a servizi di Home Sharing sono prettamente economiche. Salvo, poi, trarne benefici sotto il profilo umano e psicologico. (...)
Non si tratta però di un fenomeno solo americano. Nella periferia di Londra, un gruppo di anziane stufe di vivere sole ha fondato la "Older Women CoHO", una sorta di "comune" dove ogni inquilina ha un proprio mini appartamento ma divide con le altre le spese e gli spazi comuni. Non lontano da Vancouver, in Canada, una palazzina decadente è stata ristrutturata e trasformata in "casa delle generazioni", dove famiglie e anziani convivono sotto lo stesso tetto, coltivando un orto biologico e gestendo spazi comuni. Il "cohousing", così è stato ribattezzato l'universo di queste nuove forme di convivenza, è un fenomeno trasversale che interessa non solo gli anziani ma tutte quelle persone che, non più giovanissime, non ce la fanno a pagare un affitto da sole. Il fenomeno è nato in Danimarca verso la fine degli anni '60 e poi si è espanso in Gran Bretagna, Belgio, Paesi Bassi e Germania. Negli ultimi anni, complice la crisi, reti di associazioni sono spuntate anche in Usa, Canada, Australia e Giappone.
L'Italia è lontana dall'abbracciare questa mentalità ma negli ultimi anni qualcosa si è mosso anche qui, a cominciare dalla nascita della società di servizi Cohousing 2. Con riferimento agli anziani, l'anno scorso è partito il progetto "Abitare solidale", promosso dalle associazioni Auser e Artemisia a Firenze, Bagno a Ripoli e Scandicci, che aiuta gli over 60 che hanno case grandi e pensioni scarne ad arrotondare ospitando per piccole cifre studente fuori sede, giovani coppie, lavoratori in trasferta, famiglie di immigrati o donne fuggite da un marito violento. Stesso principio alla base del progetto "Abitare insieme", a Varese. A Imola è nato anche il "Condominio solidale", una struttura dedicata a persone di terza età composta da 13 normalissimi mini appartamenti, in cui però vengono forniti sostegno umano e assistenza infermieristica. Un modo semplice per dare una mano agli anziani. Senza fargli perdere autonomia, libertà e voglia di vivere.
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Artista: Roberto Vecchioni
Album: In Cantus
Titolo: Le Cinque Stagioni
La prima stagione fu subito estate;
eravamo noi l'albero e il fiore;
eravamo le stelle illuminate a spiare le nostre posizioni d'amore:
ci stremava la notte,
ci consumava il giorno di falsa lontananza, d'infinito ritorno;
e “una cosa sola siamo” continuavi a dirmi,
“più di quanto ti amo, nemmeno tu puoi amarmi”.
L'autunno m'incalzò di vento
e il vento barattò le parole e le parole furono silenzi:
tu giocavi all'assenza
ed io cercavo, con la bussola della solitudine,
il tuo profumo perso nella stanza,
quando eravamo io e te
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di Roberto Beretta
Deve essere un vivaio di seminaristi e preti? Avrei dovuto collezionare i racconti di divi trisposati, politici abortisti o attori porno che hanno servito all'altare...
Alla fine, il vicario parrocchiale mi ha comunicato la ferale notizia: il nuovo parroco «non vuole più le chierichette sull'altare»... Rimasto basito per lo choc, sul momento non ho trovato parole per reagire al diktat, che mi dicevano assoluto e inderogabile. Però il mio cervello ha cominciato a vorticare alcuni pensieri; questi, nell'ordine.
1) Hai voglia a discettare di «emergenza educativa», a creare addirittura dicasteri per la «nuova evangelizzazione», a promuovere preoccupati dibattiti sulla secolarizzazione, ad arrovellarsi sulle strategie della pastorale dei «lontani» e la sacramentalizzazione dei divorziati risposati... Ci sono evidentemente parrocchie così avanti nella pratica del cristianesimo e chiese talmente raffinate nell'annuncio di salvezza, che l'unica «emergenza» ancora da risolvere sono le chierichette.
2) Forse in passato si pensava a tener lontane le ragazze dai preti, per ovvi motivi «morali» (o anche solo di prudenza per i possibili pettegolezzi). Ma oggi, in tempi di pedofilia, bisognerebbe forse preoccuparsi maggiormente della vicinanza di adolescenti maschi... Aboliamo i chierichetti, allora?
3) Lo si sappia o no, il divieto d'accesso delle donne all'altare dipende da un tabù ancestrale: quello di non «contaminare» il sacro col sangue, soprattutto mestruale e «impuro». Si tratta dunque di un retaggio pagano, o almeno vetero-testamentario. Sarà per questo richiamo all'antico che (nei siti tradizionalisti) ci si occupa tanto delle chierichette e si accusano di «modernismo» i loro fautori?
4) Certo, il servizio all'altare dei maschietti è stato storicamente un vivaio di seminaristi e preti... Ma avrei dovuto collezionare le dichiarazioni di divi trisposati, politici abortisti, attori pornografici, pensatori anticlericali che hanno candidamente confessato di aver servito all'altare da bambini! Se poi la moderna pastorale delle vocazioni si basa ancora sul «piacere» infantile di servir Messa, credo ci sia seriamente da preoccuparsi sul tipo di prete che s'intende promuovere.
5) Altro argomento contro le chierichette è che si tratta solo del primo spiraglio per arrivare alle donne-prete. E se invece fosse proprio il contrario? Ovvero: se l'accesso delle femmine ai servizi sacri «minori» servisse proprio a disinnescare certe più esigenti recriminazioni «femministe», oltre che a dare un poco di legittimo spazio alle donne nei riti?
Comunque, ancora sconvolto dall'entità teologica del problema, sono corso a casa a cercare conforto nei sacri testi. E per fortuna, al numero 47 dell'istruzione vaticana Redemptionis sacramentum ho trovato queste parole: «A tale servizio dell'altare si possono ammettere fanciulle o donne a giudizio del vescovo diocesano e nel rispetto delle norme stabilite». Fiuu, la mia fede è salva: le chierichette non sono proibite! Almeno nella mia diocesi...
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Non mi piace e non trovo utile né veritiera la retorica, anche quando viene da Benigni, un grande uomo.
Mi suscita addirittura repulsione se proviene dagli autori dei testi di Morandi o della Canalis.
Benigni e la «memorabile» Italia
C'è da cantare e da far festa
Aprire gli occhi alle sette meno un quarto del mattino. I figli stanno per andare a scuola. Tendi l'orecchio: mentre si lava la faccia, uno di loro canta. Canta l'inno di Mameli, con quella voce appena arrochita che viene ai maschi, a quindici anni. Resti a ascoltare stupita. Come mai Mameli?, gli domandi, quando s'affaccia in cucina. Mamma, risponde, vai su Youtube a vederti Benigni sul Risorgimento, è stato bellissimo.
Bello, davvero. Bello e inusuale, oggi, sentire parlare d'Italia a quel modo: con memoria e gratitudine. Ci voleva un poeta per osare, in tempi avviliti e rabbiosi, parlare così dell'Italia. Perché i poeti, come ha detto Benigni, sono spinti dal desiderio. E il desiderio è il motore grande che muove la storia e i popoli: il desiderio di un bene comune, di continuare, e tramandare passioni e memoria nei figli.
Ci voleva anche un po' di coraggio, in questo febbraio 2011, per esortarci all'«allegro orgoglio» di appartenere al luogo in cui viviamo, al popolo da cui veniamo; per dirci che «occorre volere bene al Paese in cui si è nati». Benigni ha avuto questo coraggio, in tempi in cui da tv e giornali ci si rovesciano addosso ogni giorno cronache di miserie e insulti. Ci ha raccontato da quanto lontano viene la nostra storia, e quanta bellezza ha creato, e in quanti sono morti per raggiungere quell'unità d'Italia che oggi è scontata o contestata. Da Balilla ai Carbonari, da Mazzini a Garibaldi a Pisacane, Benigni ha raccontato il Risorgimento come un'opera "visionaria e carnale": la resurrezione del corpo dell'Italia dilaniato dai dominatori stranieri. Retorica? Forse, anche, perché quegli anni come tutte le epoche hanno avuto le loro ombre e vittime, e i padri della patria non erano santi, e i garibaldini men che meno. Ma in un tempo di avvilimento e veleni è controcorrente la splendente retorica di Benigni: a ricordare a noi ex studenti distratti la nostra storia piena di eroi e passioni e peccatori. A dirci anzi che se apriamo gli occhi, questo nostro è un Paese grande e «memorabile».
L'Italia si è commossa, l'altra sera. Sul Web, centinaia di commenti meravigliati: gente che dice grazie, perché ha capito che cos'ha alle spalle questo Paese di cui spesso all'estero oggi si sorride; e quanto è costato metterlo assieme, smembrato com'era, e che il 17 marzo qualcosa da festeggiare c'è, davvero. A nome di tanti Napolitano ha detto grazie a Benigni. Qualcuno invece non ha apprezzato: chi soffia male sui localismi, chi sogna nuovi confini e piccole Italie privilegiate. Non ha apprezzato probabilmente anche chi nelle lacerazioni ha il suo pane. Non piace, quell'istante di timido incredulo orgoglio comune, a chi ama disfare più che costruire.
Ci ha ricordato in fondo, Roberto Benigni, ciò che spesso avvertiamo senza dircelo: la coscienza della cultura e della ricchezza e della bellezza di questo Paese, di ciò che ha dato, di ciò che è. Ha preso voce sul palco dell'Ariston quella sorta di tacita contentezza che proviamo quando, venendo da lontano, le ruote dell'aereo toccano terra, e siamo tornati in patria; e con tutti i nostri vizi e scandali, sappiamo in fondo che non cambieremmo questa terra con nessuna.
C'erano, certo, sui libri di scuola, i nomi e le battaglie ricordati nella lezione di Sanremo; ma si sa che i libri non bastano, se non c'è un maestro capace di affascinare e commuovere. Benigni l'altra sera è stato questo. Poi, quando ha intonato l'inno di Mameli a bassa voce, immaginando il canto solitario e notturno di un soldato ragazzo, alla vigilia di un'epica battaglia, quella marcia che cantavamo a scuola o allo stadio senza capire bene le parole, d'improvviso è sembrata una preghiera. Una sommessa preghiera per l'Italia. E davanti allo schermo si è rimasti zitti. La mattina, alle sette meno un quarto, quel figlio quindicenne che dal bagno canta: fratelli d'Italia... Un po' più contento, un po' più grato di appartenere a un popolo; di essere nato in un memorabile Paese.
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Davanti al volto di luce di Gesù, Pietro esclama: «E' bello che noi siamo qui». Stare qui, davanti a questo volto che è l'unico luogo dove possiamo vivere e sostare. Qui siamo di casa, altrove siamo sempre fuori posto; altrove non è bello, e possiamo solo camminare, non stare. Qui è la nostra identità, abitare anche noi una luce, una luce che è dentro la creta, dentro il guscio d'argilla ma, che è il nostro futuro, e che fa nascere gioia.
Sul volto di Gesù è apparsa la bellezza originaria con cui Dio ha creato il mondo e di cui ha dotato il volto dell'uomo. Quella tunica di luce, tunica di bellezza che rivestiva Adamo all'origine e che con il peccato fu coperta dalla tunica di pelle, è finalmente riapparsa.
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di Elio Boscaini
Il 15 febbraio 1966, il Tribunale di Roma assolveva don Lorenzo Milani dall'accusa di apologia di reato per essersi espresso a favore dell'obiezione di coscienza al servizio militare. Don Milani aveva 42 anni ed era parroco di 42 anime! Lo scriveva lui stesso. A quella sentenza non potevo essere presente - frequentavo soltanto la terza liceo classico ed ero a Lucca - ma dall'eco data dalla stampa alla notizia, percepivo che rappresentava una pietra miliare nella vicenda civile e religiosa del nostro paese. Mi sembra bello ricordare quell'avvenimento, a poche settimane dalla celebrazione dei 150 anni dell'Unità d'Italia. Perché la Lettera ai cappellani militari, la Lettera ai giudici e la motivazione stessa della sentenza partono sì dal problema allora rovente dell'obiezione di coscienza al servizio militare, ma contribuiscono ad un esame critico di tutta la storia nazionale seguita all'Unità. Proprio partendo dal "ripudio" della guerra, don Lorenzo costruisce una discussione colma di passione sui fondamenti del vivere civile, sugli strumenti di lotta contro le ingiustizie, sul diritto-dovere di migliorare le leggi, sulla responsabilità legata ad ogni scelta personale. Nello scrivere la Lettera ai giudici (Barbiana, 18 ottobre 1965) - la scrive con i suoi ragazzi! - si scusa di non poter scendere a Roma perché malato: «Ci tengo a precisarlo - scrive - perché dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di avere poco rispetto per lo Stato. E questa è proprio l'accusa che mi si fa in questo processo. Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in nessun modo per me. Vi spiegherò anzi quanto mi stia a cuore imprimere nei miei ragazzi il senso della legge e il rispetto per i tribunali degli uomini». Con i suoi ragazzi a scuola 12 ore al giorno e 365 giorni l'anno, ha rivisitato la storia italiana in cerca di una guerra giusta, cioè in regola con l'art.11 della Costituzione: «Non è colpa nostra se non l'abbiamo trovata».
Dall'Africa ho riportato con me L'obbedienza non è più una virtù, della Libreria editrice fiorentina, che raccoglie i documenti del processo di don Milani. Nel rivisitare la nostra storia, il profeta di Barbiana, che peli sulla lingua (sulla penna, bisognerebbe dire) proprio non ne aveva, scriveva: «Ai miei ragazzi insegno che le frontiere sono concetti superati. Quando scrivevamo la lettera incriminata abbiamo visto che i nostri paletti di confine sono stati sempre in viaggio. E ciò che seguita a cambiar di posto secondo il capriccio delle fortune militari non può esser dogma di fede né civile né religiosa. Ci presentavano l'Impero come una gloria della Patria! Avevo 13 anni. Mi par oggi. Saltavo di gioia per l'Impero. I nostri maestri s'erano dimenticati di dirci che gli etiopici erano migliori di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini mentre loro non ci avevano fatto nulla (...). Che gli italiani in Etiopia abbiano usato gas è un fatto su cui è inutile chiuder gli occhi».
Nella sua risposta ai cappellani militari toscani che avevano sottoscritto il comunicato dell'11 febbraio 1965 in cui «considerano un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà», don Lorenzo se la prendeva con quegli ufficiali che per due volte (1896 e 1935) avevano aggredito « un popolo pacifico e lontano che certo non minacciava i confini della nostra Patria. Era l'unico popolo nero (etiopico, ndr) che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo europeo. Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione? Stateci attenti perché quel giornale considera la vita d'un bianco più che quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l'uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa?».
Grazie, don Lorenzo, perché continui ad insegnarci che non serve avere le mani libere se poi si tengono in tasca... e che conoscere la storia dell'Italia unita significa anche non dimenticare un passato che non è stato solo glorioso e che continuamente ci rimanda ai rapporti del nostro Paese con i popoli d'Africa che aspirano a più giustizia e maggiore libertà.
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Quando finalmente noi "uomini di chiesa" riusciremo a mostrare:
- di non essere attaccati al cadreghino;
- di rispettare le normative, compresa quella dell'andare in pensione a 75 anni;
- che non siamo indispensabili;
- che sappiamo lasciare lo spazio ad altri e magari promuovere il loro servizio;
- che i nostri siti non sono "stampa di partito"...
??
La domanda resta aperta, e la risposta incerta.
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Sembra che tutti proveniamo da qui. Che la nostra grande madre passeggiasse tre milioni e mezzo di anni fa nella Piana dell'Hadar, circa 150 km a nord-est di Addis Abeba. (...) In realtà siamo tutti africani e lì, ci dicono gli scienziati, si è conformata l'umanità. L'Etiopia, dove tutto è antico.
La gloriosa Chiesa ortodossa d'Etiopia (Tewahedo) fa risalire i propri natali all'incontro dell'apostolo Filippo con l'eunuco della regina d'Etiopia Candàce (Atti 8, 27-40), a cui avrebbe consegnato la missione evangelizzatrice di quella terra. Ma c'è chi parla di una fondazione precedente: quello dei Magi con il volto nero
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di Marco Garzonio
Oggi (ieri, 15 febbraio) il cardinale Martini compie 84 anni. Festeggia la ricorrenza nel suo ritiro di Gallarate, attorniato dalle cure amorevoli e generose di chi lo sta accompagnando nella faticosa, diuturna battaglia per reggere gli effetti del male, il Parkinson. Eppure sempre attentissimo, curioso di quanto accade in Italia, nel mondo, nella Chiesa, nella cultura e nella vita comune. Lo sanno i lettori del Corriere. Quelli che ogni giorno gli scrivono, confidandogli preoccupazioni, dubbi, anche angosce. E quelli che non osano prendere carta e penna ma sono comunque attenti ad ogni sua parola, tanto da attendere l'ultima domenica del mese per andarsi subito a leggere il paginone con lettere e risposte. Il dialogo a distanza (ora riprodotto in volume, Il comune sentire, edito da Rizzoli) è la continuazione ideale dello stile episcopale inaugurato da Martini a Milano e proseguito per gli oltre 22 anni in cui è stato arcivescovo. Poco dopo gli inizi del suo ministero aveva riscoperto e reintrodotto nell'uso liturgico un'antica preghiera: "Dona sempre al tuo popolo pastori che inquietino la falsa pace delle coscienze". E a quelle parole si è sempre rivelato fedele, praticando, lui professore e studioso di fama internazionale, virtù quali l'ascolto, il servizio, la preghiera, la ricerca mai paga di una senso da dare all'esistenza: nelle scelte forti, importanti, circa la vita (inizio e fine, bioetica) e in quelle quotidiane, alle prese con le gioie e le difficoltà, gli affetti e il lavoro, nella città. Un misto di realismo e di fede, di scommessa sull'uomo e sui destini comuni che, alla fine del mandato per raggiunti limiti di età, nel 2002, gli diede l'opportunità di affidare due consegne: ai giovani e agli amministratori pubblici. Incoraggiò i primi ad «attraversare la città» senza paura, come faceva Gesù, a vivere sino in fondo i disagi, le difficoltà, ma anche le speranze e gli ideali, la voglia di cambiare e di essere protagonisti. Ai secondi, nel discorso di ringraziamento a Palazzo Marino per la medaglia d'oro del Comune, riservò un accorato e stringente appello sulla scia del predecessore e ispiratore, Sant'Ambrogio. Incitò la politica a «dare forza e amabilità a un'esistenza vissuta nel rispetto delle regole»; ammonì che «finché la nostra società stimerà di più i "furbi", che hanno successo, un'acqua limacciosa continuerà ad alimentare il mulino dell'illegalità», «togliendo stima sociale all'onestà», indebolendo «il senso civico». Lui stava per partire per Gerusalemme, ma a governanti, città tutta, Paese lasciò l'impegno: «Compito culturale urgente è innescare un movimento di restituzione di stima sociale e di prestigio al comportamento onesto e altruistico, anche se austero e povero». A monito citò Ambrogio: «Quanto è fortunata quella cittadinanza che ha moltissimi giusti»! A Gallarate, pur tra fatiche e impedimenti, Martini continua ad essere quel punto di riferimento che non solo i milanesi, ma la Chiesa tutta e l'Italia hanno imparato ad amare e, inutile nasconderselo, a contestare: perché nel suo stile e nella sua azione ha continuato e continua a raccogliere consensi, ma anche dissensi. Ricorda il ruolo dei Profeti dell'antico Israele, che sono stati fra i punti di forza del Martini scienziato della Parola biblica, vescovo, predicatore di appassionati esercizi spirituali negli angoli più lontani della cattolicità. Una Chiesa profetica è quella che ha sognato per anni e per la quale, come confidò a padre Georg Sporschill in Conversazioni notturne a Gerusalemme (edito da Mondadori), nella vecchiaia ha deciso di pregare. Perché: oggi la profezia latita nella Chiesa? La risposta di Martini sta nella sua scelta orante. Nel chiedere a Dio e nel ricordare ai confratelli e a tutti che la profezia non è qualcosa di astratto o per pochi, ma, sulla scia appunto dell'Israele della Scrittura, è cercare il punto d'incontro fra il progetto di Dio e le urgenze della storia. Una testimonianza radicale, senza badare alle sollecitazioni dei potenti né alle tentazioni di lasciar perdere mortificati dalle difficoltà, accettando di essere piccolo gregge (cioè minoranza) e granello di senape e lievito, disposti a pagare un prezzo anche salato nel seguire la via di Gesù. Come motto episcopale Martini scelse Pro veritate adversa diligere, per la verità amare le avversità. In realtà il motto completo, preso da San Gregorio Magno, ha un altro paio di paroline «ed essere guardinghi verso il successo». Insomma, una prospettiva per lui e un'indicazione di marcia per tutti. E quindi l'occasione per unirsi alle schiere di fedeli e di estimatori nel dire: grazie e tanti auguri, Eminenza!
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di Massimo Faggioli
È da alcuni anni che la conferenza episcopale americana ha una donna come portavoce: ma quello che è successo domenica scorsa in Italia, col messaggio letto da suor Eugenia Bonetti alla manifestazione in difesa della dignità delle donne, scavalca qualsiasi organigramma istituzionale e rappresenta un precedente per il rapporto tra chiesa italiana, questione femminile e mondo della politica. In quegli undici minuti, il messaggio letto da suor Eugenia di fronte alla piazza contiene molti altri messaggi. La chiesa italiana è fatta non solo di monsignori ma anche (e soprattutto, quando si parla di trasmissione della fede cristiana) di donne, ed è una chiesa che conosce le “donne di strada” e i loro destini meglio degli impresari del mercimonio dei corpi e delle anime. I veri benefattori di quei corpi e di quelle anime sono altri (si pensi a don Benzi, scomparso nel 2007), come tutti sanno ma molti fanno finta di non sapere. Il dibattito degli ultimi giorni sul “vado/non vado alla manifestazione” è stato spazzato via in un attimo dalle parole di suor Eugenia, in uno dei rari momenti di evangelismo politico nella storia dell'Italia contemporanea: “Sono qui per dare voce a chi non ha voce, alle nuove schiave, vittime della tratta di esseri umani per sfruttamento lavorativo e sessuale, per lanciare un forte appello affinché sia riconosciuta la loro dignità e ripristinata la loro vera immagine di donne, artefici della propria vita e del proprio futuro. A nome loro e nostro, che ci sentiamo sorelle e madri di queste vittime”. In secondo luogo, il patrimonio sociale del cattolicesimo, quando liberato dagli slogan prefabbricati e dalle etichette ideologiche, ha una capacità salutarmente “eversiva” che non ha bisogno di cosmesi pubblicitarie né di quella ostentazione di vittimismo che pervade il discorso pubblico del cattolicesimo contemporaneo in Occidente. L'antropologia cristiana è sottoposta sì ad un assedio culturale, ma l'assedio è mosso dagli alleati politici del cattolicesimo istituzionale (come Berlusconi) non meno che dal cosiddetto “relativismo”. Infine, risulta evidente che la componente femminile nella chiesa è più capace di reagire alla sclerotizzazione politico-carrieristica della chiesa cattolica, per il semplice motivo che nella chiesa le donne non devono e non possono fare carriera: il fatto di essere donne le ha private (finora) del sacerdozio, e senza sacerdozio svanisce qualsiasi meccanismo di carriera ecclesiastica. Per questo motivo le donne nella chiesa possono permettersi di essere meno attente alle ricadute del loro dire e agire pubblico sulla loro carriera all'interno della chiesa, diversamente dai sacerdoti e dai teologi (anche quelli laici) che in qualche modo dipendono funzionalmente dalla gerarchia ecclesiastica. Questo della libertà data alla componente femminile della chiesa dal fatto di non essere ordinate è un argomento liberal contro una delle battaglie del cattolicesimo liberal post-conciliare, quello del sacerdozio femminile. Ma questa è una questione che va al di là dei confini interni della chiesa e ha conseguenze sull'essere della chiesa nel mondo. (...)
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di Guido Mocellin
Quali tratti avrebbe l'identikit di noi cattolici italiani se ci giudicassero solo dalle notizie uscite su di noi questa settimana sui nostri quotidiani?
(...) Sempre, tra le prime cose che ho detto ai giovani che pensano di fare i giornalisti (anche per responsabilizzarli), è rientrata questa mia convinzione: nelle nostre società secolarizzate, caratterizzate dalla dimensione pluralista, il sistema dei media è in posizione tale che, a parte nuclei sempre più ristretti di aderenti o adepti, è probabile che la maggior parte delle persone apprenda dai media la maggior parte di quello che sa di una religione; e che sulla base di queste informazioni così assunte elabori una propria visione di quella data religione (e perfino un iniziale proposito di adesione). Mi chiedo dunque, con un po' di ironia ma anche con una certa inquietudine, quale visione del cristianesimo, e segnatamente di quello praticato in Italia in fedeltà alla tradizione cattolica romana, si sia fatta questa settimana «la maggior parte delle persone» sfogliando i nostri giornali.
Come già nella settimana scorsa, anche in questa (5-11 febbraio) la pesca è stata «magra»: solo 140 titoli, sulla base della rassegna stampa della CEI, di argomento religioso, dispersi su più di 50 temi - mancandone uno capace di più forte attrattiva. Mediamente, ciascun tema non ha ottenuto che 2 titoli e mezzo. Resistono in vetta alla classifica le notizie sull'atteggiamento delle istituzioni e dei rappresentanti cattolici di fronte a due punti dell'agenda politica interna: la crisi politico-istituzionale aperta dal «Rubygate» (ma sono appena 18 titoli) e l'iter della legge sul testamento biologico (15 titoli), su cui l'interesse è stato richiamato anche dal secondo anniversario della morte di Eluana Englaro. La politica estera, invece, ha interpellato i credenti, stando ai media, in merito alla crisi egiziana e a nuovi episodi di cristianofobia in Indonesia (13 titoli in tutto). La cronaca lo ha fatto a proposito dello sgomento per i quattro bambini rom morti in un campo nomadi a Roma (9 titoli) e, all'opposto, della «simpatia» che, alle scuole medie, il presidente della CEI, card. Bagnasco, ha rivelato di aver sentito nei confronti dell'«universo femminile» (5 titoli). Infine, le più rilevanti (ma con soli 7 titoli) tra le notizie propriamente religiose: un memorandum di 144 teologi di lingua tedesca intorno ad alcuni aspetti della vita attuale della Chiesa meritevoli di riforma, e un'applicazione digitale legata al sacramento della riconciliazione, da usarsi prima e dopo la confessione vera e propria: in sostanza un aiuto per l'esame di coscienza e per la penitenza, quando consiste nella preghiera. Ma anche su queste due l'immagine mediatica è risultata distorta: il primo è parso occuparsi solo del celibato, mentre il secondo è stato confuso con la confessione tout-court, così che le inevitabili precisazioni da parte della Santa Sede sono state lette come una «marcia indietro».
Proviamo allora a riguardare la fotografia come chi non sapesse nulla, prima, della Chiesa e dei cattolici italiani. Deve trattarsi di un gruppo di persone che fa (faceva?) politica, ma è molto diviso al suo interno rispetto all'attuale maggioranza di governo e al suo leader; un gruppo di persone brave, assai sensibili alle situazioni di povertà e di bisogno, e che in altri paesi rischiano la vita a motivo della loro fede; un gruppo tuttavia dove convivono simpatici bambinoni, pronti a interrogare la propria coscienza di fronte a un telefonino, e austeri intellettuali critici verso i capi delle loro istituzioni: i quali sono costretti dal loro ruolo a vivere a una tale distanza dalla vita quotidiana da definire «simpatia nei confronti dell'universo femminile» la cotta presa per una ragazzina più di cinquant'anni fa...
Forse hanno ragione i teologi tedeschi quando scrivono: «Non si riuscirà ad attuare il rinnovamento delle strutture ecclesiali in un angosciato isolamento dalla società, ma solo con il coraggio dell'autocritica e con l'accoglienza di impulsi critici - anche dall'esterno. Questo fa parte delle lezioni dell'ultimo anno: la crisi degli abusi non sarebbe stata rielaborata in modo così deciso senza l'accompagnamento critico svolto dall'opinione pubblica. Solo attraverso una comunicazione aperta la Chiesa può riconquistare fiducia. Solo se l'immagine di Chiesa che essa ha di sé e l'immagine di Chiesa che gli altri hanno di lei non divergono, essa sarà credibile». Qui c'è un compito per la Chiesa, ma anche per chi disegna l'immagine.
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Secondo un recente sondaggio inglese condotto dal sito goodmobilephones.co.uk e basato su 2.137 volontari inglesi con una relazione stabile, il 61 per cento delle persone invia regolarmente e giornalmente al partner un messaggino con la fatidica frase "I love you", ma soltanto il 22 per cento la esprime con la stessa regolarità guardandosi negli occhi. E i maschi tendono a manifestare i propri sentimenti via sms molto più delle donne. Insomma evidentemente il telefonino fa sentire protetti, nasconde le insicurezze e scalda il cuore molto più del classico face-to-face. Uomini e donne trasversalmente lo preferiscono per liberare i propri sentimenti e lasciarsi andare a dichiarazioni romantiche almeno una volta al giorno . L'11 per cento dichiara di messaggiare frasi idilliache e affettuose soprattutto perché si sente in colpa per lo scarso tempo trascorso insieme, il 39 per cento invia sms di amore perché sente la mancanza dell'innamorato/a e un quarto di tutti i volontari lo fa non troppo spontaneamente, più che altro perché “l'altro se lo aspetta e altrimenti si seccherebbe”. Del resto che l'amore ai tempi dei cellulari sia molto cambiato è ormai un dato di fatto. Si riscontra nelle coppie di adolescenti innamorati dell'amore, ma anche nelle coppie più mature e non per questo meno propense a messaggiare frasi roventi e appassionate. Basti pensare alle numerosissime applicazioni per iPhone dedicate a San Valentino, che consentono per 79 centesimi di attingere da un ricchissimo repertorio di frasi poetiche da riversare sul proprio compagno/a, o alla pellicola di Vincenzo Salemme, Sms sotto mentite spoglie, nella quale un marito ancora appassionato iniziava a bombardare la moglie con messaggi da amante (con risvolti comici ed equivoci madornali). L'altro dato che emerge dal sondaggio britannico riguarda alcune differenze significative di genere. Sembrerebbero gli uomini per esempio i più romantici, con una media di tre messaggi d'amore al giorno contro un sms giornaliero da parte delle donne. Forse il sesso forte è diventato più sentimentale o forse semplicemente la spiegazione è in un retaggio ancestrale che vede l'uomo, legato al clichè del duro, un po' più represso nel manifestare le proprie emozioni e dunque il telefonino diventa una valvola di sfogo. Fa riflettere infine la risposta alla domanda “Sei mai stato lasciato con un messaggino?”. Solo il 18 per cento dichiara di aver ricevuto un sms di congedo sentimentale, ma un nutrito 71 per cento delle signore sostiene invece di aver comunicato il ben servito al partner con un semplice e sintetico sms.
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Secondo il New York Post c'è un aumento del 36% nel numero di cause discusse il 14 febbraio
E lo chiamano San Valentino. In realtà, più che la festa degli innamorati, il 14 febbraio sta diventando «il giorno dei divorzi» visto che, dati americani alla mano - raccolti dal sito specializzato Avvo.com e pubblicati dal “New York Post” - negli ultimi due anni c'è stato un aumento del 36% nel numero di cause discusse proprio in tale data o comunque in questo periodo. «Abbiamo riscontrato un aumento medio del 40% per quanto riguarda le richieste di avvocati divorzisti attorno al giorno di San Valentino rispetto ai sei mesi precedenti
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«Se non ci siamo mossi finora, quando potrà accadere?!».
Magari proprio OGGI!
Parola di egiziano!!
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di Liliana Cavani
Quando ho fatto il documentario "La donna della Resistenza" (1965) intervistando varie partigiane ho scoperto con sorpresa che avevano combattuto (fisicamente) per un mondo dove la donna avesse avuto emancipazione. Erano contadine, operaie, intellettuali (ricordo Ada Gobetti) e ciascuna con le sue parole mi disse che aveva rischiato la vita per una "palingenesi" sociale (ricordo questa frase) che prevedeva il riconoscimento della parità della donna. Una sopravvissuta a Dachau e un´altra ad Auschwitz mi dissero che durante la guerra erano persuase che il loro sacrificio avrebbe contribuito a dare uno scossone alla vecchia cultura. E in effetti le donne ottennero nel dopoguerra il diritto al voto (in Svezia lo ottennero 40 anni prima). Ma la vera rivoluzione culturale che le donne antifasciste speravano di ottenere non avvenne mai neanche col Sessantotto anche se di certo aprì molte teste. Del resto la storia della donna Italiana salvo punte rarissime (...) è tra le meno emancipate del mondo occidentale. La cosa che mi stupisce è che questo accada in un Paese che ha un grande e popolare culto di Maria (vergine), una ragazza di duemila anni fa che con il suo FIAT ha affrontato con coraggio l´avventura culturale e spirituale più spericolata che si possa immaginare. Oggi la fonte comunicativa più influente sul costume è quella dei media, specialmente tv e Cinema. Ebbene a mio parere i media oggi propagano (consci o meno) per gran parte il Regresso in atto nel Paese. La famosa frase "la donna sta seduta sulla sua ricchezza" è propalata in tutto il suo significato nei programmi tv e nel Cinema più popolare. Vale a dire che con la testa la donna non ci fa nulla, non va da nessuna parte, in nessun Consiglio di Amministrazione, in nessuna posizione dove sia necessaria preparazione e intelligenza. Come può accadere tutto questo in un Paese che in percentuale è il più cristiano d´Europa, che non ha mai avuto un governo comunista (vale a dire materialista) ma ha avuto una scuola con le ore di religione? Sta di fatto che accade e fra le cause penso alla cultura-maschia del Ventennio che ha pervaso la generazione dei nostri nonni e si è trasmessa ai nostri padri per cui la donna (se non è tua madre tua figlia o sorella) è in primis oggetto di piacere. Oggetto che si prende o si compra e ci si vanta. E l´uomo è uomo soprattutto se si fa donne gratis o pagate che sia. E la donna è donna se per cultura e costume considera la seduzione il mezzo più diretto per essere presa in considerazione e per trovare orizzonti di carriera. Questa cultura-maschia di marca fascista connessa alla tradizione paternalistica plurimillenaria è la cultura corrente. E a causa di queste ragioni così radicate non deve stupirci (e infatti molti italiani non si stupiscono) se chi ha la più alta carica del Governo fa i comodi suoi. "Beato lui!" diceva un intervistato dalla tv. Ma l´Italia non è un Paese sperduto oltre le valli del Pamir. Siamo un Paese inserito in un Occidente che dalla rivoluzione francese in poi ha preteso dai suoi rappresentanti o regnanti comportamenti di probità in linea con quello che gli Stati si aspettano dai cittadini. Il rispetto massimo della dignità della donna è tra i requisiti. Nell´Occidente dove in media la cultura è laica il costume è politica. E cultura laica significa pari diritti uomo e donna. Di conseguenza se non è neanche pensabile avere una specie di harem da cittadino lo è ancora di meno per la più alta carica politica. Il fatto che il consenso al premier a quanto pare sia sempre alto è il sintomo del nostro Regresso con tutte le vecchie porcherie che si porta dietro. È in atto un furto di Progresso. Hanno ragione le donne democratiche che per la prossima manifestazione hanno in mente una maglietta con scritto "Mi riprendo il mio Futuro". Un Futuro che è stato interrotto.
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Non siamo in grado di capire tutto di questa rivoluzione, ma certamente ci affascina e ci attira.
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di Giorgio Bernardelli
Sia quelli pro sia quelli contro il «rito ambrosiano» si agitano sopra le righe sulla nomina del nuovo arcivescovo di Milano. Ennesimo esempio dei danni provocati dal clericalismo
Non c'è vaticanista che si rispetti che in queste ultime settimane non abbia detto la sua su Milano. Si avvicina, infatti, il 14 marzo, il giorno in cui il cardinale Dionigi Tettamanzi compirà 77 anni e scadranno dunque i due anni di proroga del mandato stabiliti dal Papa per il porporato brianzolo al compimento del canonico settantacinquesimo anno d'età. C'è addirittura un collega - Paolo Rodari, del Foglio - che si è messo in testa di farci una specie di cronaca minuto per minuto della nomina del successore di Ambrogio. Non si spiegherebbe altrimenti l'articolo con cui qualche giorno fa ci ha reso edotti delle lettere che - come prassi per qualsiasi nomina episcopale - il nunzio ha inviato in giro in vista della predisposizione del fascicolo su cui discuterà la Congregazione per i vescovi, prima di presentare le candidature al Papa.
Sono tutti col fiato sospeso per questa nomina. Quelli che da tempo hanno deciso che la Chiesa di Milano è diventata una sorta di setta degli Esseni, con riti e parole d'ordine proprie. E che ora, dunque, è arrivato il momento di ricondurre all'ovile di Santa Romana Chiesa, premessa indispensabile perché sotto la Madonnina la fede possa ritornare «ai fasti d'un tempo». Ma sono in fibrillazione (e secondo me è ancora peggio) anche quelli che nell'arcidiocesi di Milano stessa alla setta degli Esseni ci credono davvero e quindi scrutano i segnali di fumo in arrivo da Roma auspicando che il nuovo pastore sia «sulla lunghezza d'onda» dei due che lo hanno preceduto. O anche quelli che - a Milano o altrove - stanno con le antenne alzate perché sostengono che dalla scelta del successore di sant'Ambrogio «dipenderanno gli equilibri della Chiesa italiana».
Da milanese lasciatemi dire che questa eccitazione sopra le righe per quello che sarà il mio nuovo pastore mi sembra la prova più provata dei danni provocati dal clericalismo alla Chiesa italiana. Sono fiero di essere cresciuto nella Milano del cardinale Martini (che noi ex giovani ambrosiani cresciuti alla sua scuola ricordiamo per averci messo tra le mani la Parola di Dio, molto più che per la «Cattedra dei non credenti» a cui certi commentatori riducono i suoi oltre vent'anni di episcopato). E sono altrettanto fiero di aver avuto per arcivescovo in questi anni il cardinale Tettamanzi (che abbiamo amato per l'attenzione a ogni persona concreta come immagine di Dio, che con forza in questi anni ha saputo trasmetterci). Eppure confesso di non perdere il sonno al pensiero di chi verrà dopo di loro. Sono convinto infatti che resti vera l'immagine del vescovo di cui parla la Lumen Gentium, la costituzione del Concilio Vaticano II in cui si racconta il mistero della Chiesa. Beh, almeno lì dentro il vescovo non è descritto come superman o il leader maximo: è il pastore che serve il suo gregge. E proprio nel paragrafo che parla del suo compito di governare sulla diocesi che gli è affidata, il Concilio si premura di ricordargli persino che tra i suoi compiti c'è quello di ascoltare il popolo di Dio.
Il vescovo che arriva e mette tutto a posto oppure il vescovo che detta la sua linea esistono solo nella testa di chi non ha capito che la Chiesa è una cosa un po' più complessa di una partita a Risiko. Perché un vescovo è tale solo se sa camminare insieme al suo gregge. Se entrambi sanno lasciarsi almeno un po' cambiare l'uno dall'altro. Perché anche la nostra Chiesa ambrosiana ha le sue contraddizioni e allora ben venga un nuovo pastore che con un passo un po' diverso ci scuote e ci aiuta a provare a superarle. Ma Milano è anche una piazza che i suoi vescovi non li lascia troppo tranquilli: è una città e una Chiesa che provocano, come hanno sperimentato bene sulla loro pelle gli stessi sant'Ambrogio e san Carlo.
Per questo io ho una sola preghiera riguardo al mio nuovo arcivescovo: che il Papa abbia il coraggio di osare. Mi piacerebbe che fosse un pastore non troppo collaudato, uno che ha ancora voglia di imparare a fare il vescovo. Perché è vero, questa è una diocesi un po' particolare: è grande (probabilmente troppo: per visitare tutte le parrocchie ci vogliono una decina d'anni), il suo arcivescovo è sempre sotto i riflettori. Ma alla fine ciò che conta non è se dice tutto giusto o se buca lo schermo, ma se sa farsi amare da questa gente.
Adesso spero che qualcuno non si metta a radiografare queste ultime righe per individuare chi è il candidato per cui fa il tifo Vino Nuovo. Non ne ho la più pallida idea. E me ne vanto.
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di Massimo Gramellini
Anch'io domenica scenderò in piazza contro chi disprezza il corpo e l'anima delle donne. E cioè contro i vecchi bavosi che le riducono a gingilli. Contro gli arrivisti che le utilizzano come merce di corruzione presso i potenti. Contro le ragazze che si vendono, spacciando la loro bramosia di denaro e di fama per libertà. Contro i genitori disposti ad accettare l'idea umiliante che la carne della propria carne diventi strumento di carriera. Contro chi pensa che non esista una via di mezzo fra il burqa e il bunga bunga e invece esiste: chiamiamolo burqa bunga, oppure dignità. Contro i pubblicitari che da trent'anni riempiono di seni & sederi le tv e i muri delle nostre città per promuovere prodotti (telefoni, gioielli, giornali di sinistra) che nulla c'entrano con la biancheria intima. Contro le tante signore «impegnate» che hanno accettato questo insulto senza protestare. Contro gli autori televisivi che hanno ridotto il vestito delle ballerine a un filo interdentale, imponendo al Paese un'estetica trucida e volgare. Contro gli autori televisivi che hanno fatto la stessa cosa, ma sostenendo che si trattava di una forma sottile di ironia, mentre di sottile c'era solo la gonna. Contro chiunque considera il corpo delle donne un fatto pubblico, quando invece è un bene privato da esibire soltanto a chi si vuole, e nell'intimità. Contro i giornali e i siti «seri» affollati di culi & sederi. E contro coloro che se ne lamentano, ma intanto cliccano lì.
In fondo domenica scenderò in piazza un po' anche contro me stesso.
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di Sandra Bonzi
Pur rendendomi conto che nel trionfo di Pm10, benzene, ossidi di azoto e monossido di carbonio nei quali siamo immersi l'idea stessa di prevenzione sia abbastanza ridicola, io non mi arrendo e mi ostino a provarci. Ma nonostante chili di arance e kiwi, litri di centrifughe di carote, mele e zenzero, bustine di papaya liofilizzata, pasticche di Echinacea, impacchi di pompelmo rosa e olii essenziali bruciati in casa come se fossimo in un tempio buddista, l'influenza è arrivata. L'importante è che non colpisca mio marito. Perché io posso reggere tutto - le barzellette del premier, il filo interdentale della Minetti e perfino la contemporaneità tra l'ennesima ondata di pidocchi a scuola e la lavatrice rotta - ma non mio marito che con un raffreddore si trasforma in una noiosissima lagna. Essendo dotata - come tutte le donne - di una salute di ferro, sono sempre stata io ad accudire i miei in tutti i malanni possibili. Ho fatto brodini e passati di verdure, spremute, spugnature, misurato febbri, letto storie, distribuito medicinali. Ma quest' anno l'influenza ha colpito anche me. Per essere più precisi ha steso l'intera famiglia a eccezione di mio marito. Un nosocomio. «Non preoccuparti amore - ha dichiarato lui, orgoglioso di poter finalmente dare un senso al suo inespresso ruolo di capobranco - Adesso c' é papi che si occupa di tutto». Sono stramazzata. Ci sono parole che non posso più sentire senza un brivido lungo la schiena. Ma con 40 di febbre, mi sono fidata e mi sono addormentata. Poco dopo, mi ha svegliata. «Scusa amore - ha sussurrato - vorrei farti una spremuta, ma dov'è lo spremiagrumi? E soprattutto dove sono le arance?». Ho grugnito e sono risprofondata nelle tenebre, dalle quali mi sono sentita strappare presto. Non era la spremuta, bensì Federico che con gli occhi lucidi e il corpo-stufetta mi chiedeva aiuto. «Ma dov'è papà?». «Sta cercando lo spremiagrumi». Accolto il figlio maschio nel lettone, siamo svenuti assieme stremati dalla febbre sempre più alta. Dopo poco, il respiro affannoso di Alice mi ha svegliata. «Mamma mi fa malissimo la gola, ho bisogno di bere». «Ma il papà dov'é?». «Sta cercando le arance». Con questi ritmi sospetto che anche la Fiom l' avrebbe già licenziato. Fatto posto nel lettone anche alla ragazza, mi sono riaddormentata, ma dopo qualche minuto una mano mi scuoteva. Era lui, il pater familias, il capobranco che, pallido come un lenzuolo, mi implorava di portarlo al pronto soccorso: «Mi sono tagliato l'indice». Sono certa che dopo aver creato l' uomo, Dio abbia sospirato: «Posso fare di meglio...».
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Ogni consigliere esalta il consiglio che dà, / ma c'è chi consiglia a proprio vantaggio. / Guàrdati da chi vuole darti consiglio / e prima infórmati quali siano le sue necessità: / egli infatti darà consigli a suo vantaggio; / perché non abbia a gettare un laccio su di te / e ti dica: «La tua via è buona», / ma poi si tenga in disparte per vedere quel che ti succede. / Non consigliarti con chi ti guarda di sbieco / e nascondi le tue intenzioni a quanti ti invidiano. / Non consigliarti con una donna sulla sua rivale / e con un pauroso sulla guerra, / con un mercante sul commercio / e con un compratore sulla vendita, / con un invidioso sulla riconoscenza / e con uno spietato sulla bontà di cuore, / con un pigro su una iniziativa qualsiasi / e con un salariato sul raccolto, / con uno schiavo pigro su un lavoro importante. / Non dipendere da costoro per nessun consiglio. / Frequenta invece un uomo giusto, / di cui sai che osserva i comandamenti / e ha un animo simile al tuo, / perché se tu cadi, egli saprà compatirti.
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intervista a Jürgen Moltmann, a cura di Lorenzo Fazzini
Teologo della speranza e della croce, Jürgen Moltmann chiede ai cristiani di «riversarsi » nel mondo dei non credenti per annunciare quel Dio «che sta con i senza Dio». Il pensatore protestante saluta come «urgente e necessaria» l'apertura di un confronto fra laici e cristiani su Dio, come suggerito da Benedetto XVI.
La sua riflessione si è incentrata sulla speranza. Come essa può interagire nello scambio tra credenti e non credenti?
«Non esiste una chiara linea di confine fra credenti e non credenti, come fra cristiani e musulmani. La fede è universale come l'incredulità. In ogni credente si trova l'incredulità ed in ogni ateo la fede. In ciascun essere umano si svolge un dialogo fra fede e incredulità: 'Signore, io credo, ma tu aiutami nella mia incredulità', grida il padre del giovane malato nel Vangelo di Marco. Nessuno è soddisfatto della propria incredulità. La speranza è più ampia perché legata all'amore per la vita. Speriamo finché respiriamo e, se dubitiamo e diventiamo tristi, la speranza persa ci tormenta. Dove viene distrutta la speranza nella vita inizia la violenza e la morte».
Cosa offre «in più» la fede cristiana?
«Il cristianesimo costituisce la 'religione della speranza': chi spera in Dio ha sempre aperti nuovi orizzonti. La fede è fiduciosa speranza: il futuro non è estrinseco al cristianesimo, bensì l'elemento della sua fede, la nota su cui si accordano le sue canzoni, i colori con cui sono dipinti i suoi quadri. Una speranza viva risveglia ogni nostro senso per il nuovo giorno e ci riempie di un meraviglioso amore per la vita, poiché sappiamo che siamo attesi e, quando moriremo, ci attende la festa della vita eterna. La speranza abbraccia credenti e atei perché Dio spera in noi, ci accoglie e non abbandona nessuno ».
Lei ha scritto molto sulla Croce, che sembra non interessare più l'Europa. Il Crocifisso può tornare ad essere eloquente?
«La questione di Dio e del dolore è il punto di partenza del moderno ateismo europeo. Muore un bambino, migliaia di persone vengono uccise, innocenti cadono per mano terroristica. E dov'è Dio? All'antico interrogativo della teodicea non vi è risposta: se Dio è buono e onnipotente, perché la sofferenza? Se Dio vuole il bene ma non impedisce il dolore, non è buono. La giustificazione migliore di Dio, dice chi lo denigra, è di non esistere. Ma l'ateismo è una risposta? Se Dio non esiste, perché la sofferenza sulla terra? Non ci serve un Dio da accusare? Questa discussione mi è sempre parsa teorica».
Come affrontare tale scandalo?
«Per chi è tormentato dal dolore non si tratta di avere una risposta a un perché: egli cerca un aiuto e una speranza per uscire dal dolore. Quando ero in pericolo di vita non mi sono chiesto perché mi trovassi in quella situazione: ho domandato aiuto urlando. Una divinità buona ed onnipotente non può aiutarci. Al centro del cristianesimo si trova la passione di Dio sulla croce di Cristo. In ciò si palesa una passione per la vita colma di compassione per le devastazioni della vita. 'Solo il Dio sofferente può aiutare' scrisse Bonhoeffer in cella guardando il Dio crocifisso. Nel Cristo moribondo il dolore di Dio ha trovato la sua espressione umana: Dio soffre le nostre pene. Cristo viene per cercare ciò che è perduto e lui stesso si dà per perso per trovare i persi. Chi si avvicina a Cristo prende parte al dolore di Dio e percepisce la sua desolazione. È successo a Giovanni Paolo II e a Madre Teresa».
Come valuta l'invito di Benedetto XVI per un nuovo dialogo tra credenti e atei?
«L'iniziativa del Papa è eccellente, urgente e necessaria. Se la teologia si ritira in spazi chiusi, la gente perde interesse verso Dio. Non è solo un problema religioso, ma anche una questione pubblica. Dopo il 1945 era molto viva la ricerca di Dio rispetto ad Auschwitz. L'ateismo venne dibattuto così aspramente tanto che lo scrittore Heinrich Boll disse: 'Non mi piacciono questi atei, parlano sempre di Dio'. Dopo il riflusso nella felicità privata l'interesse verso Dio è scomparso. Da allora è aumentato il numero di quanti lo hanno perso e non sentono la mancanza della fede. Per instaurare un dialogo con costoro i cristiani devono lasciare le mura della Chiesa e andare nel mondo. I preti operai francesi andarono nelle fabbriche, i teologi della liberazione andarono fra la gente oppressa e ne condivisero il destino. Ora gli accademici vanno tra i colti e condividono i loro dubbi ».
«Lumi, religioni e ragione comune » è il titolo del Cortile dei gentili a Parigi. Come affrontare tali tematiche?
«Quando Paolo ad Atene si riallacciò al 'Dio sconosciuto' non ebbe un grande successo. Non si può pregare un Dio sconosciuto: non si sa se sia buono o cattivo. Ma si può chiamare il 'Dio nascosto' e urlare. Gli ebrei chiamano Hester panim il volto nascosto di Dio. Chi lo percepisce, chiama a sé il volto manifesto di Dio. Non so se l'espressione 'dialogo' sia giusta: un dialogo ha lo scopo di far conoscere meglio i dialoganti. Esso finisce quando un interlocutore viene convinto. Ciò non accade invece riguardo alle esperienze di Dio. Perciò il discorso con i non credenti è molto diverso dal dialogo interreligioso. Il confronto fra fede e incredulità esige che la Chiesa volga il suo cuore all'esterno. Lo deve a tutti gli atei sinceri: di' ciò che credi e credi a ciò che dici. Prendi sul serio le domande e le accuse di chi non può credere, e cerca con lui una risposta da Dio. Già troppo a lungo la gente ha relegato il cristianesimo nell'angolo della fede ed esaltato il dialogo fra le religioni per proseguire indisturbata la secolarizzazione. È tempo che la fede cristiana esca dall'angolo: Cristo non ha fondato una nuova religione, ma ha portato una vita nuova!».
Lei ha scoperto Cristo durante l'ultima guerra. Di solito si considerano le esperienze di male come cause di allontanamento da Dio. Come tali realtà possono avvicinarci a lui?
«A 16 anni volevo studiare matematica; la religione era molto distante dalla 'laicità' di casa mia. Nel 1943 mi arruolai come soldato, sopravvissi alla tempesta che distrusse Amburgo con 40.000 morti. Quando l'amico accanto a me venne dilaniato da una bomba, per la prima volta urlai a Dio. Sperimentai come lui celasse il suo volto. Fatto prigioniero, ricevetti una Bibbia: i Salmi delle lamentazioni esprimevano ciò che provavo. Capii che Cristo è colui che ci capisce e che è venuto a cercare chi è perduto: è colui che ci trova. Per volontà di Cristo ho cominciato ad aver fiducia in Dio. Non sarei arrivato all'idea che esiste un Dio e che Dio è amore appassionato e disposto a soffrire. In guerra ho sperimentato cosa sia l'abbandono di Dio. Perciò credo che Dio sia con i senza Dio. E che lo si possa trovare fra di loro. In essi Dio attende coloro che credono».
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Confesso che ho vissuto (1998)
di Angelo Branduardi
C'è quest'aria ancora insanguinata di parole che ho parlato io e i sogni che ho sognato e disegnato,
c'è la casa, il sole, l'albero, l'uomo accanto all'albero con lei
la stessa che ho voluto qui con me
e se c'è ancora luce grazie a Dio sul silenzio mio
se troppo ho immaginato e camminato ma con occhi da sorprendere
e un cuore per comprendere
se mai tutto quel che ho avuto
e se dovrò cucirmi addosso anch'io lo strappo al velo di un addio
però confesso che ho vissuto
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Una nuova sfida attende la stampa cattolica. La logica di Noè
di Jean-Claude Guillebaud
In principio né di destra né di sinistra, più indipendenti nei confronti dei capitali, del mercato. E più indipendenti di fronte all'opinione pubblica e al politicamente corretto, anche se, a volte, cedono alla tentazione dei buoni sentimenti. Sono i giornalisti cattolici, secondo il filosofo André Comte-Sponville, uno dei partecipanti alle "Journées d'études François de Sales" svoltesi il 27 e 28 gennaio ad Annecy, in Francia, e dedicate al ruolo della stampa cattolica nella società e nella Chiesa. Le principali relazioni saranno disponibili in rete (presse.catholique.org) dal 7 febbraio. Di seguito riportiamo la nostra traduzione di un articolo di uno degli intervenuti al dibattito, pubblicato su "La Croix" del 28 gennaio.
Se pensiamo, come nel mio caso, che il messaggio evangelico abbia molte cose da dire agli uomini di oggi, inclusi i non credenti, allora l'utilità della stampa cattolica è indubitabile. Scrivendo questo, non mi riferisco né all'evangelizzazione né al proselitismo passato di moda. Si dà il caso che, in confronto al tumultuoso sistema mediatico, questa stampa parli di un "altro" luogo, si fondi su logiche diverse da quelle che governano troppo spesso il mondo dei media. Questo scarto rispetto a tale mondo le dà dei vantaggi e certe libertà. Per definizione, essa è meno sottoposta alla stretta logica della competizione, alla fretta febbrile della caccia allo scoop. È estranea a quelle che potremmo chiamare le "parole della tribù". Meno prigioniera dell'informazione mercificata, più restia all'incessante bricolage di una "ricetta" adeguata a un mercato, è abitata dall'idea di progetto e conserva una fedeltà ostinata al concetto di senso. È, per definizione, naturalmente più disposta a far prevalere la duplice natura dell'informazione: "merce", certo, ma anche produzione della mente indissolubilmente legata a una ricerca di verità. Com'è noto, questa ambivalenza ontologica dell'informazione, che era stata riaffermata con forza nel 1944, al tempo delle disposizioni che rifondavano lo statuto della stampa, è stata oggi largamente dimenticata. Rischia addirittura, in ogni momento, di essere snaturata dal grande circo mediatico dove prevale la sola logica commerciale: più rapida, più semplice, più ricreativa, più redditizia. Ebbene, a meno che non sia più se stessa, la stampa cattolica è teoricamente meglio equipaggiata per resistere a questa deriva. È un vantaggio, ma è anche una sfida che bisogna, giorno dopo giorno, raccogliere. Sfida che esige da essa non meno professionalismo giornalistico, ma di più; implica che sia altrettanto rapida, altrettanto completa, altrettanto leggibile - e persino "competitiva" - ma con un sovrappiù di esigenza etica. Senza cadere nell'autocompiacimento, riconosciamo che è proprio così. (...) Tale fenomeno procede da una fiducia intuitiva che i lettori accordano a questi giornali. Essi sanno che vi troveranno meno versatilità eccitante, meno catastrofismo sistematico, meno seduzione, più riflessione e prospettiva. Si sarebbe tentati di affermare più "serietà". Non basta dire che la fiducia sta diventando un bene raro nell'universo mediatico. Logicamente, questo "credito" può e deve giocare a favore di molte altre testate della stampa cattolica. Quest'ultima appare a volte come un'arca di Noè di fronte a quel bombardamento di "messaggi" (informazioni istantanee, internet, blog, opinioni affrettate, pubblicità) che il saggista americano Roy Ascott chiamava il "secondo diluvio". Propongo a mia volta di battezzare "logica di Noè" questa opportunità che si offre oggi alla stampa cattolica nel suo insieme. La sensazione di essere inghiottiti che provano oggi i cittadini disorientati è reale. Come è altrettanto reale questa nuova opportunità, che tuttavia ci impone degli obblighi.
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Vogliamo toccare la gioia. Le parole si facciano carne
«Non tocco mai la gioia». Così dice una ragazza triste in un film girato da un gruppo di liceali. Queste parole costituiscono una sfida, perché manifestano il bisogno di una cultura intera. Tutti cerchiamo la gioia. È la ricerca che accomuna buoni e cattivi: chi è buono, è buono per essere felice; chi è cattivo non lo sarebbe, se non sperasse di potere, con ciò, essere felice. Questa ragazza vuole la gioia, fin qui niente di nuovo. Ma la chiede attraverso il senso più basilare che abbiamo: il tatto. Non i sensi nobili e collegati più direttamente all'intelligenza: la vista e l'udito. No, lei vuole «toccare» la gioia. Vuole che la felicità sia comprensibile alle dita, alla pelle. Questa generazione, nutrita di virtuale, chiede in modo ancora più forte che la salvezza diventi tattile: «L'uomo ha bisogno di vedere e di fare sì che questo tale vedere divenga toccare. Egli deve salire la "scala" del corpo, per trovare su di essa la strada alla quale la fede lo invita» (J. Ratzinger). Ma la gioia non raggiunge il tatto perché spesso chi ha la gioia (condizione necessaria ma non sufficiente) e vorrebbe trasmetterla ci prova a parole. Ma le parole non bastano più. Quanti maestri scoraggiati di fronte a ragazzi disinteressati alle loro parole, quanti sacerdoti sfiancati dall'apatia dei ragazzi alle loro parole, quanti genitori pieni di fede rattristati dalla perdita di essa nei loro figli nonostante le tante parole... Non con i discorsi si raggiunge oggi la vita delle persone, ma solo con la vita che si mette in gioco in prima persona, nella carne, nel corpo. La gioia, oggi, è chiamata a rendersi percepibile, non all'ascolto, non alla vista. Non basta più. Deve camminare per le strade del mondo, farsi permeabile al tatto, si deve poter toccare: al supermercato, in aula, in cucina, sul campo di calcio. I ragazzi vogliono toccarla, ma la realtà li delude. Lo sapeva bene un grande cercatore della gioia: «Al solo sentirla nominare tutti si drizzano e ti guardano nelle mani, per vedere se mai tu sia in grado di dare qualcosa al loro bisogno!» (Agostino). Non c'è risposta più assurda che quella data a una domanda non posta. In realtà, la domanda c'è e c'è anche la risposta, almeno questo pretende il cristiano, tanto che qualcuno invitava a «dare ragione della speranza che è in voi». Ecco il punto: riuscire a dare ragione. Ma quella ragione non può essere più fatta solamente di parole, discorsi. Si tratta di dare ragione attraverso qualcosa di immediatamente percepibile al tatto. La verità deve tornare a sedurre la vita, incantarla, estasiarla. Come? «Tutto me trae, tant'è bello», diceva Jacopone da Todi di Cristo. Ecco il valico ancora aperto attraverso cui la verità si fa permeabile al tatto e la gioia percepibile: la bellezza. La bellezza mette d'accordo tutti, è gioia tattile. I ragazzi lo sanno, la cercano in ogni angolo. Dove si è nascosta la bellezza? O dove si sono nascosti i sensi capaci di percepirla, atrofizzati di fronte all'assenza del loro cibo? La bellezza ci "tocca" solo quando è amore che si realizza, evidenza di un dono: una donna che si fa bella per il marito, una spiaggia che i secoli hanno levigato per i nostri occhi, una rosa che un giardiniere ha curato, un capolavoro che è costato fatica e disperazione ad un artista, una lezione che un professore ha preparato con rinnovato slancio, un sorriso vero a chi entra in ascensore con noi... Il Verbo stesso di Dio non è una spiegazione, non è un concetto, ma è carne tangibile, è la bellezza stessa che si dona nel linguaggio del corpo: il pane. E questo dono è per me. Ma siamo noi affamati di ricevere e donare questo dono? Chi guarda nelle nostre mani lo trova? Nessuno può donare ciò che non ha. Nessuno può far toccare ciò che non lo tocca.
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di Toni Jop
Scandalo! Il prete ha letto l´Unità in chiesa! Dagli al prete “comunista” che dal pulpito dichiara di essere d´accordo con quella comunista di Concita De Gregorio, prete spudorato, prete politicizzato. Come le toghe? Basta non essere d´accordo col premier del bunga bunga, denunciarne la triste abitudine di monetizzare le donne per essere comunisti? Il ciclone è partito da Mogliano, anzi meno, dalla chiesa di una piccola frazione di questo centro schiacciato con qualche mollezza nella pianura padana a pochissimi chilometri da Venezia. Campanili e nebbia, governo leghista. Qui, raccontava un giornale locale, don Giorgio Morlin avrebbe letto questo quotidiano
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Se le attività economiche non devono essere finalizzate e coordinate a fini sociali viene il dubbio che l'unico sviluppo da perseguire sia quello dei portafogli di qualcuno
di Annachiara Valle
Ascolto allibita l'intervista (meglio sarebbe dire il comizio senza contraddittorio) di Berlusconi al Tg1. Continua a dire che bisogna cambiare l'articolo 41 della Costituzione in modo da far sviluppare le imprese, liberare l'economia da lacci e laccioli e permettere alle imprese di fare tutto quello che vogliono. Berlusconi dimentica di citare il testo dell'articolo 41 e dubito che qualche italiano vada a verificare che cosa ci sia scritto. Per questo vale la pena riportarlo integralmente. L'articolo 41 dice, al comma 1 che: «L'iniziativa economica privata è libera». C'è qualcuno che può dirsi contrario? C'è qualcosa da cambiare in questa frase? Comma 2: «Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Se Berlusconi ritiene questi lacci e laccioli significa che pensa che gli imprenditori possono svolgere la propria attività economica anche se questa reca danno alla sicurezza, alla libertà o alla dignità umana? È questa la libertà che si sta cercando? Comma 3: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Altri insopportabili cavilli che frenano lo sviluppo? E poi lo sviluppo di chi? O meglio di cosa? Perché viene il dubbio, alla fine, che se le attività economiche non devono essere finalizzate e coordinate a fini sociali, se non devono tener conto della sicurezza, della libertà e della dignità umana, in realtà l'unico sviluppo che si vuole perseguire è quello dei portafogli - peraltro già gonfi - di qualcuno.
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di Nadia Urbinati
Anticipiamo parte del prologo del libro "Liberi e uguali" di Nadia Urbinati, in uscita in questi giorni da Laterza.
L'identificazione dell'individualismo con una visione della vita che si rispecchia nella massima «me ne frego» è quasi un luogo comune nel nostro paese. Ma si tratta di un'identificazione sbagliata benché straordinariamente popolare. L'individualismo è il fondamento politico e ideale della democrazia e non è identico né a egoismo antisociale né a indifferenza verso gli altri e la politica. Questo rende la distinzione tra forme di individualismo un esercizio tutt'altro che scolastico e inutile. Secondo i critici e gli storici del costume, la massima del «me ne frego» rifletterebbe la componente più longeva del nostro «carattere nazionale», quella che resiste ai mutamenti di regime e sopravvive inossidata alle più diverse stagioni politiche. L'individualismo che in questi anni recenti si è ripresentato con una prepotenza e una volgarità che non cessano di stupire è proprio di una società moderna che è strutturalmente individualista, fatta di cittadini che sottostanno a regole sociali e politiche basate sul principio delle eguali libertà e opportunità, che cioè condividono la cultura dei diritti. Questo individualismo possessivo e conformista, litigioso e docile, facilmente disposto a manipolare le norme e subire il dominio dispotico della logica consumistica, si interseca con l'immagine di una società priva di un centro di valori etici che fungano da forza di gravità, come il rispetto per gli altri, siano essi cittadini e non; l'eguaglianza di cittadinanza ma anche di umanità; la solidarietà come amicizia tra cittadini, ma anche come empatia tra esseri umani. Senza queste forze etiche a un tempo dell'individuo e del cittadino, la libertà individuale che i diritti civili garantiscono ed esaltano può trovarsi di fronte a due rischi: essere sentita come normalità dai molti, poiché avere diritti significa anche poter vivere il proprio quotidiano con una certa sicurezza e senza quasi accorgersi di essi; e diventare un privilegio di alcuni, così da essere erroneamente identificata con i particolari diritti goduti da chi è maggioranza su un territorio per voto, opinione o tradizione. Questa inversione di significato, che ha spesso effetti nella pratica quotidiana e perfino amministrativa, segnala un'incrinatura del legame tra eguaglianza e libertà. È lo specchio di una profonda trasformazione della cultura etica e dell'educazione dei sentimenti che ha facilitato una torsione dell'individualismo democratico in individualismo antisociale e tirannico, oppure apatico e indifferente verso i destini della comunità umana più larga, nazionale o universale. Studiare l'individualismo è importante per vedere e comprendere criticamente questo inquietante fenomeno di ridefinizione della libertà secondo la logica del possesso (individuale e/o collettivo), e di rilettura della democrazia in chiave di regime della maggioranza. La strada che propongo di seguire è quella suggerita dall'analisi sociopolitica di Alexis de Tocqueville nel suo libro-indagine La democrazia in America (1835-1840). Tocqueville proponeva di trattare l'individualismo come una categoria politica, non morale; come un «sentimento ragionato» di cittadini che vivono insieme secondo regole e principi democratici, e di individui che operano in un'economia di mercato secondo calcoli di interesse. Di qui occorre partire quando lo si voglia analizzare criticamente. Perché è importante procedere da questa premessa politica? Lo è per due ragioni tra loro legate: innanzitutto perché avendo chiaro il carattere dell'individualismo democratico è possibile sottoporre l'individualismo ad una analisi critica coerente; e in secondo luogo per impedire che la critica dell'ideologia individualista si traduca in soluzioni antindividualiste, esterne o contrarie all'ordine democratico. Ora, se ci soffermiamo sui fenomeni che più colpiscono la nostra immaginazione
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Nasce Confession: un'applicazione destinata ai possessori di iPhone e iPad per fare un completo esame di coscienza
Quante volte figliolo? Di quali peccati ti sei macchiato? Vuoi chiedere perdono a Nostro Signore? E se sì, preferisci farlo con l'aiuto del tuo smartphone? Da tempo le porte della fede si sono spalancate a Internet, ma l'ultima frontiera della fede virtuale va oltre e permette addirittura di farsi un esame di coscienza preliminare alla confessione via iPhone o iPad. Si chiama Confession: a Roman Catholic App, è un'applicazione destinata ai possessori di iPhone e iPad ed è la prima a ricevere (almeno negli Stati Uniti) la benedizione della Chiesa. A svilupparla hanno pensato i tecnici della LittleiApps, azienda americana che si autodefinisce «di ispirazione cattolica-romana», che grazie al proprio prodotto conta di fornire un valido strumento a «coloro che praticano già il Sacramento e a tutti quelli che intendono tornare a farlo». In un comunicato stampa diramato dalla società americana si legge anche un chiaro riferimento alle parole pronunciate da Papa Benedetto XVI nel giorno della celebrazione della 45esima giornata mondiale delle comunicazioni: «I nuovi media, se usati saggiamente
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di Alessandro Speciale
Si é molto scritto in questi giorni della “indignazione” che serpeggia, nella Chiesa, per gli svaghi del dopocena del nostro presidente del Consiglio, e della insoddisfazione della 'base' nei confronti di una gerarchia accusata di essere troppo timida, troppo diplomatica. Si citavano a sostegno, ad esempio, le quattro pagine di lettere pubblicate la scorsa settimana da Famiglia Cristiana
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di Eva Cantarella
«La vergine rossa» la chiamavano ai tempi in cui (una delle prime donne a esservi ammesse) studiava a Parigi, alla École Normale Supérieure. Una definizione che aveva qualche ragione, ma non era certo sufficiente a descriverla. Definita abitualmente filosofa, era certamente tale, professionalmente. Ma considerarla solo sotto questo profilo vorrebbe dire dimenticare gli aspetti del suo carattere e del suo pensiero che, dopo la morte, hanno fatto di lei un'icona. Nata a Parigi nel 1909 da una famiglia ebraica di intellettuali, Simone, ottenuta nel 1931 l'agrégation in filosofia, inizia a insegnare in diversi licei di provincia, dove la sua personalità e il suo comportamento fanno subito di lei un personaggio singolare, non di rado guardato con sospetto. Incapace di accettare ogni forma di discriminazione, Simone organizza corsi per i lavoratori, appoggia le rivendicazioni operaie, partecipa agli scioperi dei minatori disoccupati, alla testa dei cui cortei sfila portando la bandiera rossa. Ma la sua vita non era solo militanza politica. Era, in modo non meno appassionato, insegnamento e ricerca. Tra gli autori prediletti, Platone: i greci, a suo giudizio, avevano elaborato un modello di vita superiore, anche se con un limite: non avevano riconosciuto il lavoro come valore umano. L'influenza di Marx nella sua formazione è evidente. Ma neppure lui era perfetto: non aveva dato indicazioni compiute nella direzione di una filosofia del lavoro. Il marxismo, dunque, non era in grado di rispondere alla «necessità interiore» che, come scrive, guidava la sua vita: la ricerca della verità, che per lei si poteva raggiungere solo nel contatto con la realtà. Per questo, nel 1931, parte per la Germania. In quel Paese i problemi sociali non erano solo dibattito intellettuale, come in Francia, erano una realtà. Ma la sinistra la delude: nessuno dei partiti rivoluzionari, incluso quello comunista, ha la capacità di instaurare un vero regime socialista, in cui l'essere umano si riappropri del dominio sulla natura, gli strumenti e la società. Nel 1934 chiede un anno di congedo dall'insegnamento, e va a lavorare in fabbrica, alla Renault di Parigi. Un'esperienza durissima, che matura in lei la convinzione che le condizioni stesse del lavoro devono cambiare, che bisogna pensare a un «regime nuovo» dell'impresa. Terminata l'esperienza per ragioni di salute, nel 1936 partecipa come volontaria alla guerra di Spagna. Infine, la svolta religiosa e l'esperienza mistica, la «vocazione particolare» che le dà delle «ragioni legittime» per chiedersi se «in un'epoca in cui gran parte dell'umanità è sommersa dal materialismo, Dio non voglia che ci siano uomini e donne che si sono donati a lui, e che tuttavia restano fuori dalla Chiesa» (Attesa di Dio, Adelphi). Interessante, nella sua riflessione sulla religione, il collegamento tra la visione greca dell'uomo e quella dei Vangeli, accomunate, per lei, dal senso della miseria umana, alla quale i greci avrebbero opposto la virtù, i Vangeli la Grazia. Quando viene allontanata dall'insegnamento per motivi razziali, dopo un breve soggiorno negli Stati Uniti, torna in Europa, per aiutare le Forze francesi libere in Inghilterra. Ma la sua resistenza fisica è ormai al limite e nel 1943 muore, sola, in un sanatorio inglese, a soli 34 anni. Superfluo, a questo punto, dire che le interpretazioni del personaggio sono state molte e diverse. In vita fu vittima di tutti i luoghi comuni ai quali si faceva (e si fa) ricorso per ridicolizzare le donne trasgressive: l'aspetto fisico, l'abbigliamento, persino i grandi occhiali da vista che le coprivano il volto. Per alcuni era un'anoressica, una fanatica, una pazza... Ci volle tempo perché le fosse resa giustizia (in Italia, e se ne possono ben comprendere le ragioni, le sue opere vennero tradotte e pubblicate grazie ad Adriano Olivetti). Ovviamente il giudizio sul contenuto e il valore del suo pensiero filosofico spetta agli esperti. Ma non è necessario essere tali per capire l'eccezionalità del suo carattere indomito e del suo spirito critico e libero, capace di non delegare mai ad altri, per nessuna ragione, le proprie scelte: né in campo politico, né in campo religioso.
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La prima lettura della Messa di oggi - rito ambrosiano
La bellezza di una donna allieta il volto / e sorpassa ogni desiderio dell'uomo. / Se sulla sua lingua vi è bontà e dolcezza, / suo marito non è un comune mortale. / Chi si procura una sposa, possiede il primo dei beni, / un aiuto adatto a lui e una colonna d'appoggio. / Dove non esiste siepe, la proprietà viene saccheggiata, / dove non c'è donna, l'uomo geme randagio. / Chi si fida di un agile ladro che corre di città in città? / Così è per l'uomo che non ha un nido / e che si corica là dove lo coglie la notte.
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Una ricerca dell'Università di Cardiff ha analizzato le vite di un milione di europei, scoprendo che le persone stabilmente sposate hanno un tasso di mortalità inferiore del 10-15%. Più dura l'unione, più crescono i benefici. E l'Oms avverte: "Effetto meno positivo per i conviventi"
di Elena Dusi
"Tutto sommato, vale la pena di fare lo sforzo". Il British Medical Journal prende in esame il matrimonio e i suoi effetti sulla salute. Soppesati pro e contro, i medici promuovono la stabilità della vita di coppia, che favorisce l'equilibrio emotivo nelle donne e obbliga gli uomini a darsi da fare per frenare il declino fisico. "Le persone sposate - concludono David e John Gallacher (padre e figlio) dell'università di Cardiff - hanno un tasso di mortalità del 10-15 per cento più basso rispetto alla media". Per le donne, la soddisfazione di una relazione stabile ha effetti soprattutto sulla psiche. Per gli uomini, la pressione delle mogli affinché mangino cibo sano e riducano gli stravizi funziona invece sul piano fisico. Lo studio, condotto su oltre un milione di persone in sette paesi europei, è pubblicato dal British Medical Journal come editoriale in vista di San Valentino. Anche se il suo tono a volte è leggero e scherzoso, lo studio conferma i risultati ottenuti in molte ricerche passate sui benefici di una vita di coppia stabile rispetto alle altalene emotive dei rapporti mordi e fuggi. Equilibrio, vita sana, una vasta rete di amicizie e il supporto della famiglia allargata fanno propendere la bilancia verso il "sì". Ma come ogni medicina, anche il matrimonio può avere effetti collaterali e richiede le sue precauzioni. "Affinché Cupido possa fare bene alla salute, è richiesto un certo grado di maturità" raccomandano i dottori Gallacher. Secondo i quali, le cotte adolescenziali saranno anche esperienze da sogno capaci di far raggiungere al cervello picchi intensi di dopamina, "ma risultano spesso in un aumento dei sintomi depressivi". E non hanno gli stessi benefici dei rapporti a lungo termine "in cui prevale l'ormone dell'attaccamento, l'ossitocina". L'età consigliata dai medici per impegnarsi in una relazione seria è 25 anni per gli uomini e 19 per le donne, anche per ragioni di maggiore fertilità. Più a lungo il matrimonio dura, maggiori saranno i benefici per la salute. Ma se proprio l'unione non dovesse funzionare, vale il vecchio adagio "meglio soli che male accompagnati". Non è delle più sorprendenti la conclusione dei dottori Gallacher secondo cui "Non tutte le relazioni fanno bene alla salute, i rapporti tesi e difficili hanno un impatto negativo sull'equilibrio mentale e la loro rottura produce effetti benefici. Molto meglio allora tornare a essere single". I buoni consigli dei medici inglesi (gli stessi che da sempre hanno dato le mamme) si appoggiano anche a un rapporto pubblicato l'anno scorso dall'Organizzazione mondiale della sanità. Sposarsi (e solo sposarsi: convivere non è la stessa cosa, soprattutto per le donne) riduce depressione, ansietà e sbalzi emotivi. L'università di Chicago ad agosto scorso ha misurato il livello di cortisolo, un ormone legato allo stress, in un gruppo di individui e ha notato che nelle coppie sposate il valore era ridotto. Mentre uno studio della Michigan State University, pubblicato a dicembre, ha trovato che gli uomini sposati si comportano meglio dei single: bevono meno e commettono meno reati.
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Le (nuove) vie del Signore
di Dario Paladini
Nascerà in Abruzzo il primo "Parco religioso" d'Italia, una Disneyland del sacro con tanto di catacombe e finti monasteri. Le pecorelle smarrite, infatti, si recuperano (anche) col marketing. Ne sanno qualcosa i giovani di "Scegli Gesù" che applicano i dogmi del design e della comunicazione per trasmettere il lieto annuncio. Mentre nei seminterrati o nei vecchi magazzini stanno nascendo nuove chiese. In via Arqua 15 a Milano, una traversa di via Padova, nel cortile di una vecchia casa di ringhiera i magazzini e i depositi al piano terra sono diventati i templi di sei chiese evangeliche, di cui cinque fondate da immigrati. Si distinguono più per la nazionalità dei fedeli che dal punto di vista religioso: c'è la chiesa dei russi, dei filippini, dei peruviani e ecuadoriani, degli argentini e quella di nigeriani e ghanesi.
(...) "Le nuove vie del Signore": le chiese si svuotano e ci si affida a parchi tematici, ai dettami del marketing e della pubblicità per recuperare le pecorelle smarrite o trovarne di nuove. E c'è poi chi predica sulle spiagge con una chiesa gonfiabile e chi disegna santini manga.
Sul blog "Via Padova -> Milano" il racconto di una domenica nel cortile di via Arqua. Queste nuove chiese, che prendono ispirazione da realtà diffuse in America e Asia, sono arrivate o sono nate in Italia negli anni Novanta. C'è chi le chiama sette, in senso dispregiativo, ma gli studiosi preferiscono parlare di "chiese alternative". "Difficile dire quante siano in Italia - ammette Massimo Introvigne, direttore del Centro studi nuove religioni (Cesnur)- . Se consideriamo le principali denominazioni, sono oltre cento e coinvolgono tra i 70 e gli 80mila stranieri in Italia". Chiese dai nomi lunghi e fantasiosi, fondate da persone assolutamente normali che, pur non avendo una formazione teologica, nel fine settimana infiammano seminterrati e vecchi magazzini di periferia. La coppia di filippini Beatriz e Mauricio De Lara tre anni fa ha dato vita alla "Church international christian ministry". "Abbiamo ricevuto da Dio un messaggio: ci chiedeva di fondare una chiesa" spiega Mauricio, che per 18 anni ha fatto l'operaio e ora si dedica a tempo pieno al nuovo ruolo, mantenendosi grazie alle offerte "dei fratelli e delle sorelle" (qualche centinaio), mentre la moglie continua a lavorare come badante. "Non è facile - prosegue -, ci sono tanti problemi economici, ma è Dio che ci dà la forza di continuare".
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di Monique Hébrard
Fine osservatrice delle evoluzioni nella Chiesa, Monique Hébrard ha letto per la CCBF (Conférence catholique des baptisés de France) l'ultimo libro di Yves de Gentil-Baichis, (Conciliaires ou traditionnels? Enquête sur les futurs prêtres, DDB, p. 135,