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«Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.
Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio.
Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.
Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria.
Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante.
Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo.
Perdonatemi, guerre lontane, se porto fiori a casa.
Perdonatemi, ferite aperte, se mi pungo un dito.
Chiedo scusa a chi grida dagli abissi per il disco col minuetto.
Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del mattino.
Perdonami, speranza braccata, se a volte rido.
Perdonatemi, deserti, se non corro con un cucchiaio d'acqua.
E tu, falcone, da anni lo stesso, nella stessa gabbia,
immobile con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto,
assolvimi, anche se tu fossi un uccello impagliato.
Chiedo scusa all'albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo.
Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte.
Verità, non prestarmi troppa attenzione.
Serietà, sii magnanima con me.
Sopporta, mistero dell'esistenza, se strappo fili dal tuo strascico.
Non accusarmi, anima, se ti possiedo di rado.
Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque.
Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna.
So che finché vivo niente mi giustifica,
perché io stessa mi sono d'ostacolo.
Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche,
e poi fatico per farle sembrare leggere.
Wislawa Szymborska
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«Chi esercita la carità in nome della Chiesa
non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa.
Egli sa che l’amore nella sua purezza e nella sua gratuità
è la miglior testimonianza del Dio nel quale crediamo
e dal quale siamo spinti ad amare.
Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui
e lasciar parlare solamente l’amore».
papa Benedetto XVI, Deus caritas est, 31
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«Molti pensano che il papa non sia un vescovo: i vescovi avrebbero la cura pastorale concreta e diretta delle comunità cristiane, il papa sarebbe solo il capo che governa la chiesa universale. E’ vero il contrario: il papa è papa solo in quanto è un vescovo, cioè il vescovo della chiesa di Roma. La chiesa, infatti, non è una realtà massicciamente unitaria, che poi si suddivide in tante provincie locali: è bensì un insieme di chiese locali che sono la chiesa di Cristo per la profonda comunione che le unisce fra di loro nell’unica fede.
Il ministero papale ha il suo fondamento nella figura di uno fra gli apostoli, Pietro, al quale Gesù ha consegnato il carisma di essere il garante dell’autenticità della fede e dell’unità della chiesa. Essendo stato l’apostolo Pietro il pastore della comunità cristiana di Roma, colui che viene nominato vescovo di Roma, eredita dall’apostolo Pietro anche il suo ministero verso la chiesa universale. Basti chiarire che l’espressione “il romano pontefice”, spesso usata per indicare il papa, vuol dire esattamente “il vescovo di Roma” e così sta scritto nel concilio Vaticano II: “Il romano pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli” (LG 23). Quando uno diventa papa, infatti, non viene consacrato con un particolare sacramento, cosa che avviene quando un cristiano diventa vescovo. Infatti l’ordinamento canonico prevede che, nel caso venga eletto uno che non è già vescovo (cosa possibile perché non solo i vescovi sono eleggibili al papato, né i cardinali devono necessariamente essere tutti vescovi), deve ricevere subito l’ordinazione episcopale e solo così può assumere il ministero papale.
Se un papa intende accentuare il fatto di essere il vescovo di Roma rispetto al suo ministero al suo compito di capo della chiesa universale, il suo ministero si arricchirà sempre di più della grazia della celebrazione dei sacramenti, della predicazione e della catechesi, del contatto con le comunità parrocchiali, più che svolgersi soprattutto sul piano della stesura di documenti, della firma di decreti, della elaborazione di ordinamenti canonici, di incontri di rappresentanza, di trattative diplomatiche. Inoltre la esaltazione del suo ministero di vescovo di una chiesa locale porta con sé la valorizzazione del ministero di tutti gli altri vescovi nelle loro chiese locali, con i quali egli condivide lo stesso ministero e lo stesso tipo di vita. La conseguenza è che molte responsabilità, che lungo la storia si è assunto il papa con la sua curia, possono ritornare alla loro sede naturale e originaria, che è quella dei vescovi: per ciascuno singolarmente nella sua chiesa e, per il collegio episcopale, nella guida delle comunità cristiane di una regione, di una nazione o anche di un continente intero. Sarebbe un ritorno, in forme che oggi, ovviamente, dovrebbero essere reinventate per risultare adeguate al nostro contesto, a quell’antica articolazione della chiesa e del ministero episcopale dei cinque patriarcati, con i loro sinodi episcopali per la guida di vasti raggruppamenti di comunità ecclesiali omogenee fra di loro per la loro storia e la loro cultura. Di tutto questo sembra che la chiesa di oggi senta il bisogno, perché sia esaltata in essa più l’opera della grazia di quella della legge e ogni comunità cristiana possa meglio impostare la sua missione fra gli uomini in mezzo ai quali essa vive».
Severino Dianich, teologo
9 maggio 2013
www.vivailconcilio.it/
http://www.cittadellaeditrice.com/munera/del-papato-e-dellepiscopato-interviene-severino-dianich/
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http://www.cittadellaeditrice.com/munera/del-papato-e-dellepiscopato-interviene-severino-dianich/
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«Non amiamo gli altri perché sono buoni. Ma li facciamo diventare buoni perché li amiamo. La sfida al male non consiste nel condannare, nello scomunicare. E non consiste neppure nel discutere. "Tutte le volte che ho vinto una discussione ho perso un'anima" (mons. Fulton Sheen). La vera sfida avviene sul piano dell'amore. In un film famoso, Il Porto delle nebbie, c'è un dialogo che sintetizza efficacemente la portata di questa sfida. Il disertore riconosce dinanzi alla fidanzata di essere una creatura abbietta. La ragazza lo interrompe: 'Tu non puoi essere cattivo perché io ti amo'! Se c'è tanto male nel mondo, ciò è dovuto al fatto che a questo male noi abbiamo opposto la nausea, il disgusto, la condanna. Mentre dovevamo opporre l'amore. L'amore [di Gesù per lui] "impedisce" a Zaccheo di essere cattivo».
Alessandro Pronzato, Vangeli scomodi, 221
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“Avvenire”, dritto e rovescio: Grande cinema? Sì! Ma “Credenti, sveglia!”
di Gianni Gennari
Su "Avvenire" ieri leggo a pagina 13 il saggio imperativo di Walter Kasper: «Credenti, sveglia»; su tutti i giornali trovo il "lancio" di "Chiamatemi Francesco". Sempre su "Avvenire" (pagina 17) Tiziana Lupi, esperta anche di cinema, e Stefania Falasca, che segue da vicino papa Francesco, definiscono il film: «Racconto senza retorica, e con diversi limiti».
Però, uno che « sta sveglio», come consiglia il cardinale Kasper, vede anche «limiti» in questa operazione mediatica in grande stile, che si esrpime in termini trionfalistici: «dal 3 dicembre in 700 sale», e ci sarà anche «una versione televisiva in 4 puntate» ("Corsera", p. 51). E poi l'annuncio: una copia del film è già stata «spedita» a Obama e lo ha visto anche «Checco Zalone, cui è piaciuto moltissimo» e «per il Vaticano (è) bello e veritiero». Del film parlano benissimo persino i giornali che di Francesco parlano sempre male, e anche malissimo. Una grande processione pubblicitaria ove leggi che sarà proiettato con solennità «in Vaticano».
Qualche perplessità: si legge che il regista «è ateo, e lo resta, ma la figura di Francesco lo ha fatto quasi vacillare», e che il film sarebbe piaciuto al «cerimoniere del Papa». E la ciliegina sulla torta? Eccola ("Mattino", p. 16): «il (suo) primo sorriso il giorno in cui è diventato Papa»! Davvero? Da intendere che prima non aveva mai sorriso? L’ «Evangelii Gaudium» è piena anche dei sorrisi, antichi e nuovi, di una vita intera di pastore!
Dunque: sicuri che il tutto non sappia almeno un po' di "corte" e di "cortigiani"? Si sa che quando qualcuno ha dedicato a papa Francesco una statua, è stato lui stesso a pregarlo di toglierla… Ha ragione Kasper, anche qui: «Credenti, sveglia»!
Però, uno che « sta sveglio», come consiglia il cardinale Kasper, vede anche «limiti» in questa operazione mediatica in grande stile, che si esrpime in termini trionfalistici: «dal 3 dicembre in 700 sale», e ci sarà anche «una versione televisiva in 4 puntate» ("Corsera", p. 51). E poi l'annuncio: una copia del film è già stata «spedita» a Obama e lo ha visto anche «Checco Zalone, cui è piaciuto moltissimo» e «per il Vaticano (è) bello e veritiero». Del film parlano benissimo persino i giornali che di Francesco parlano sempre male, e anche malissimo. Una grande processione pubblicitaria ove leggi che sarà proiettato con solennità «in Vaticano».
Qualche perplessità: si legge che il regista «è ateo, e lo resta, ma la figura di Francesco lo ha fatto quasi vacillare», e che il film sarebbe piaciuto al «cerimoniere del Papa». E la ciliegina sulla torta? Eccola ("Mattino", p. 16): «il (suo) primo sorriso il giorno in cui è diventato Papa»! Davvero? Da intendere che prima non aveva mai sorriso? L’ «Evangelii Gaudium» è piena anche dei sorrisi, antichi e nuovi, di una vita intera di pastore!
Dunque: sicuri che il tutto non sappia almeno un po' di "corte" e di "cortigiani"? Si sa che quando qualcuno ha dedicato a papa Francesco una statua, è stato lui stesso a pregarlo di toglierla… Ha ragione Kasper, anche qui: «Credenti, sveglia»!
in “Avvenire” del 28 novembre 2015
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«C'è fannullone e fannullone. C'è chi è fannullone per pigrizia o per mollezza di carattere, per la bassezza della sua natura, e tu puoi prendermi per uno di quelli.
Poi c'è l'altro tipo di fannullone, il fannullone per forza, che è roso intimamente da un grande desiderio di azione, che non fa nulla perché è nell'impossibilità di fare qualcosa, perché gli manca ciò che gli è necessario per produrre, perché è come in una prigione, chiuso in qualche cosa, perché la fatalità delle circostanze lo ha ridotto a tal punto; non sempre uno sa quello che potrebbe fare, ma lo sente d'istinto: "Eppure sono buono a qualcosa, sento in me una ragione d'essere! So che potrei essere un uomo completamente diverso! A cosa potrei essere utile, a cosa potrei servire? C'è qualcosa in me, che è dunque?". Questo è un tipo tutto diverso di fannullone, se vuoi puoi considerarmi tale.
Un uccello chiuso in gabbia in primavera sa perfettamente che c'è qualcosa per cui egli è adatto, sa benissimo che c'è qualcosa da fare, ma che non può fare: che cosa è? Non se lo ricorda bene, ha delle idee vaghe e dice a se stesso: "Gli altri fanno il nido e i loro piccoli e allevano la covata", e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane chiusa e lui è pazzo di dolore. "Ecco un fannullone" dice un altro uccello che passa di là, "quello è come uno che vive di rendita". Intanto il prigioniero continua a vivere e non muore, nulla traspare di quello che prova, sta bene e il raggio di sole riesce a rallegrarlo. Ma arriva il tempo della migrazione. Eccessi di malinconia – ma i ragazzi che lo curano nella sua gabbia si dicono che ha tutto ciò che può desiderare – ma lui sta a guardare fuori il cielo turgido carico di tempesta, e sente in sé la rivolta contro la propria fatalità. "Io sono in gabbia, sono in prigione, e non mi manca dunque niente imbecilli? Ho tutto ciò che mi serve! Ah, di grazia, la libertà, essere un uccello come tutti gli altri!".
Quel tipo di fannullone è come quell'uccello fannullone. E gli uomini si trovano spesso nell'impossibilità di fare qualcosa, prigionieri di non so quale gabbia orribile, orribile, spaventosamente orribile... Non si sa sempre riconoscere che cosa è che ti rinchiude, che ti mura vivo, che sembra sotterrarti, eppure si sentono non so quali sbarre, quali muri. Tutto ciò è fantasia, immaginazione? Non credo, e poi uno si chiede "Mio Dio, durerà molto, durerà sempre, durerà per l'eternità?".
Sai tu ciò che fa sparire questa prigione? È un affetto profondo, serio. Essere amici, essere fratelli, amare spalanca la prigione per potere sovrano, per grazia potente. Ma chi non riesce ad avere questo rimane chiuso nella morte. Ma dove rinasce la simpatia, lì rinasce anche la vita».
Poi c'è l'altro tipo di fannullone, il fannullone per forza, che è roso intimamente da un grande desiderio di azione, che non fa nulla perché è nell'impossibilità di fare qualcosa, perché gli manca ciò che gli è necessario per produrre, perché è come in una prigione, chiuso in qualche cosa, perché la fatalità delle circostanze lo ha ridotto a tal punto; non sempre uno sa quello che potrebbe fare, ma lo sente d'istinto: "Eppure sono buono a qualcosa, sento in me una ragione d'essere! So che potrei essere un uomo completamente diverso! A cosa potrei essere utile, a cosa potrei servire? C'è qualcosa in me, che è dunque?". Questo è un tipo tutto diverso di fannullone, se vuoi puoi considerarmi tale.
Un uccello chiuso in gabbia in primavera sa perfettamente che c'è qualcosa per cui egli è adatto, sa benissimo che c'è qualcosa da fare, ma che non può fare: che cosa è? Non se lo ricorda bene, ha delle idee vaghe e dice a se stesso: "Gli altri fanno il nido e i loro piccoli e allevano la covata", e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane chiusa e lui è pazzo di dolore. "Ecco un fannullone" dice un altro uccello che passa di là, "quello è come uno che vive di rendita". Intanto il prigioniero continua a vivere e non muore, nulla traspare di quello che prova, sta bene e il raggio di sole riesce a rallegrarlo. Ma arriva il tempo della migrazione. Eccessi di malinconia – ma i ragazzi che lo curano nella sua gabbia si dicono che ha tutto ciò che può desiderare – ma lui sta a guardare fuori il cielo turgido carico di tempesta, e sente in sé la rivolta contro la propria fatalità. "Io sono in gabbia, sono in prigione, e non mi manca dunque niente imbecilli? Ho tutto ciò che mi serve! Ah, di grazia, la libertà, essere un uccello come tutti gli altri!".
Quel tipo di fannullone è come quell'uccello fannullone. E gli uomini si trovano spesso nell'impossibilità di fare qualcosa, prigionieri di non so quale gabbia orribile, orribile, spaventosamente orribile... Non si sa sempre riconoscere che cosa è che ti rinchiude, che ti mura vivo, che sembra sotterrarti, eppure si sentono non so quali sbarre, quali muri. Tutto ciò è fantasia, immaginazione? Non credo, e poi uno si chiede "Mio Dio, durerà molto, durerà sempre, durerà per l'eternità?".
Sai tu ciò che fa sparire questa prigione? È un affetto profondo, serio. Essere amici, essere fratelli, amare spalanca la prigione per potere sovrano, per grazia potente. Ma chi non riesce ad avere questo rimane chiuso nella morte. Ma dove rinasce la simpatia, lì rinasce anche la vita».
Vincent Van Gogh, Lettere a Theo