Decide il Poppolo

di Massimo Gramellini

«Popolo di Raiuno! Popolo di Canale 5! Benvenuti a Decide il Poppolo, il programma a reti unificate che da oggi sostituisce il Parlamento. (Vivissimi applausi dalla platea). Basta Casta, gli onorevoli adesso... siete voi!!! (boati). Ma veniamo al tema di questa sera. Si vota sui lavoratori clandestini: regolarizzarli o rispedirli indietro? Chiamo sul palco Malik Barak, che ci esporrà in tre minuti le ragioni per cui andrebbero accolti... Grazie, Malik... E ora, per i fautori del rimpatrio forzato, Giasone Pecoracci... Grazie anche a te, Giasone... Popolo! Pensate di aver acquisito una conoscenza approfondita del problema? (Coro: Sììììì!)... Allora... si decide! Se volete regolarizzare i clandestini come Malik, il codice di televoto è lo 01. Se invece volete cacciarli come proposto da Giasone, il codice è lo 02... Notaio, push the botton! Stop al televoto...

Ecco, mi stanno consegnando la busta con l'esito della votazione... Il popolo sovrano ha deciso... Vorrei un po' di atmosfera... Regista, spegni lo studio... La volontà... insindacabile... del popolo... italiano... è che i lavoratori... clandestini... siano... rimandati a casa loro! Mi dispiace, Malik. Domani verrete tutti rimpatriati, ma non disperare: ci sono ancora i ripescaggi... Popolo di Raiuno! Popolo di Canale 5! Vi aspetto la settimana prossima per una nuova puntata di Decide il Poppolo. Voteremo la Finanziaria: siete favorevoli all'abolizione delle tasse?». Mi sveglio di soprassalto. Il telefono dorme ignaro sul comodino, attaccato al caricatore. E' stato solo un sogno.

Per ora.

La Quaresima, un tempo per liberarsi dalle maschere

di Maria Cristina Bartolomei

L'antica tradizione del Carnevale continua a essere nel mondo diffusamente viva, in forme molto diverse.  (...) Il Carnevale sta in ogni caso sotto il segno distintivo della maschera. Il comportarsi in modi abitualmente non consentiti poteva avvenire solo con la protezione di una maschera che cancellasse l'abituale identità (...) In gioco è qui la questione della nostra identità e del suo riconoscimento sociale.

In Sostiene Pereira lo scrittore Antonio Tabucchi sostiene che in noi abita una «confederazione di anime»: di volta in volta noi consentiamo all'una o all'altra di prevalere e di esprimersi. Una bella metafora per richiamare alla complessità di ogni personalità umana, che è sempre eccedente sia i modi in cui giunge a esprimersi nelle circostanze in cui si viene a trovare sia le modalità in cui viene percepita e riconosciuta da altri. Se il riconoscimento è un bisogno essenziale per ognuno, esso però è anche

Se l'uomo si fa lupo

di
Enzo Bianchi

Mentire, rubare «non è il vero essere umano». Certo, solo gli esseri umani mentono e rubano, è proprio della nostra natura ferita cadere in comportamenti deprecabili, ma l'efficace uscita di Benedetto XVI contiene un senso ben più profondo.

Rubare, mentire e più in generale trasgredire uno dei dieci comandamenti - le dieci parole che narrano la verità intima dell'uomo - non è solo questione di commettere un peccato, di infrangere un precetto religioso, vuol dire anche e soprattutto tradire la propria e l'altrui dignità umana. Umano, infatti, non è ciò che fan tutti, cedendo al proprio istinto, assecondando il proprio egoismo o usando in modo distorto delle proprie capacità intellettive. Umano, invece, è ciò che rende l'uomo degno di tal nome, ogni gesto e parola che crea comunione, che accresce la vita, che manifesta solidarietà verso i propri simili. Homo homini lupus recita l'antichissimo adagio ma, appunto, così facendo l'uomo si mostra lupo non uomo!

In questo senso il messaggio biblico, e quello evangelico in particolare, sono una «buona notizia» innanzitutto antropologica: ci aiutano a capire, svelano ai nostri occhi l'autentica qualità dell'uomo. «Ecce homo!» ha esclamato Pilato di fronte a Gesù: un'espressione che da parte sua voleva solo additare l'imputato, l'uomo che si stava giudicando. Ma l'evangelista che narra la scena va più in profondità e fa di quell'esclamazione di un pagano l'annuncio che l'uomo secondo il pensiero e il volere di Dio è quel condannato ingiustamente, che non ha mai mentito né rubato ma, al contrario, ha proclamato e vissuto la verità fino a identificarvisi e ha donato tutto se stesso agli altri, nulla trattenendo per sé.

Quando diciamo che certi comportamenti appartengono alla «natura umana», che sono inevitabili, quando ne sminuiamo la gravità chiamando tutti a correi, quando ci rifugiamo nell'«errare humanum est», noi in realtà offendiamo la dignità umana, sviliamo l'uomo che invece è capace di pensare, agire, vivere secondo una volontà di bene e non di male. Del resto, quando alcuni gesti malvagi vengono portati all'estremo, la nostra reazione non è forse proprio quella di considerarli disumani, bestiali, estranei all'uomo come lo concepiamo idealmente? Il Vangelo ci dice - e Benedetto XVI ce lo ha ricordato - che in ciascuno di noi alberga l'uomo vero, creato a immagine e somiglianza di Dio, una persona capace di rapportarsi con gli altri e con le cose non nello spazio della preda e della menzogna, ma in quello della condivisione, della solidarietà, della verità che è carità, attenzione agli altri e alla vita piena.

Grazie a tutti coloro che ci hanno accompagnato con la preghiera, l'attenzione, la lettura dei micro-post sul blog.

 “Lo ha espresso il Concilio Vaticano II con una formula che viene ripresa da Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor Hominis: l'uomo si realizza pienamente nel dono di sé. In altri termini, quando ci liberiamo dall'egoismo, dalla ricerca del successo, del potere, della gloria, e ci dedichiamo agli altri, siamo veramente uomini” .


C. M. Martini, Il segreto della prima lettera di Pietro, 125




* “Il rimanere con l'intelletto illuminato in tal modo fu così intenso che gli pareva di essere un altro uomo e che il suo intelletto fosse diverso da quello di prima”.


Ignazio di Loyola, Autobiografia, n. 30

“Di fatto la coscienza di Chiesa è spesso molto scarsa. Si ha una religiosità individuale, si compie una ricerca personale di Gesù e tuttavia manca il senso di Chiesa. E d'altra parte è normale che sia così, perché lo si acquista gradualmente, crescendo in essa, sacrificandosi e pagando di persona. E' più facile vivere il senso di appartenenza in una comunità religiosa. E' più difficile riferirlo alla Chiesa in quanto tale. Notiamo infatti una presenza di individualismo di gruppo, magari anche religioso, che non è vero e proprio sensus Ecclesiae. Posso dire sinceramente che nella mia esperienza ho vissuot da gesuita, fino all'età di cinquantatre anni, la solidarietà soprattutto con la Compagnia di Gesù. Quando sono diventato vescovo, allora ho capito che cos'è la solidarietà con la chiesa, con una comunità universale. In essa la mia appartenenza alla Compagnia di Gesù mi inseriva fortemente, in quanto ne era una specificazione concreta” (p. 57).

"Siamo chiamati ad approfondire il nostro inserimento nel popolo cristiano come grazia grande, fondamentale, e da cui tutte le altre derivano; l'essere il popolo di Dio, il vivere l'esperienza di chiesa, sono realtà da stimare al di sopra di ogni altro bene”.


C. M. Martini, Il segreto della prima lettera di Pietro, 58



“Per Pietro, come per tutto il NT, l'unica forza generante, l'unico seme di vita nuova per sé incorruttibile, è la Parola del Signore. Ogni altra parola, ogni altra mediazione culturale e persino ogni mediazione teologica (

«Tu non puoi dire: “Amo il fratello, ma non amo Dio”. Come tu menti se dici: “Amo Dio”, quando non ami il fratello, allo stesso modo ti inganni se dici: “Amo il fratello” e ritieni di non amare Dio. Tu che ami il fratello, ami necessariamente colui che è lo stesso Amore; ora “L'amore è Dio” (1Gv), chiunque ama il fratello dunque necessariamente ama Dio».


Agostino, Trattato sulla prima lettera di Giovanni, IX, 10

“La nostra vita, la nostra quotidianità, il nostro corpo sono il vero sacrifico che si unisce a quello di Gesù. La vera dignità del cristiano è di essere un solo edificio con Gesù, essere il sacerdozio santo che offre il sacrificio della propria vita” .


C. M. Martini, Il segreto della prima lettera di Pietro, 54

Il testo di riferimento per le meditazioni di tutta la settimana sarà:

Carlo Maria Martini, Il segreto della prima lettera di Pietro, Piemme 2005




Obiettivo degli EESS:

“Cercare la volontà che il Signore mi presenta adesso, in questo particolare momento della mia biografia, del mio cammino, dei miei doveri, delle mie prove, delle mie speranze” (p. 16)



Sulla speranza escatologica

* “La speranza della vita eterna non è di per sé soltanto speranza della mia salvezza personale, di andare in paradiso, ma speranza che si manifesti il Regno, che venga il giudizio finale sulla storia, a mostrare la glorificazione del Cristo Risorto, che venga il momento in cui l'umanità intera riconoscerà la regalità di Cristo. E' una speranza che muove tutto il  nostro operare, perché comincia a realizzarsi fin da ora e, a partire dai suoi segni premonitori, noi dirigiamo anche il nostro lavoro pastorale e apostolico” (p. 43).

Questo pomeriggio partiamo per gli Esercizi Spirituali ad Assisi, fino a venerdì.

Grazie per chi pregherà per noi!

Ci ritroveremo sul sito, con qualche aggiornamento (compatibilmente con i tempi e la preghiera!).

Messaggio di papa Benedetto XVI per la Quaresima 2010

La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo (cfr Rm 3,21-22)

Cari fratelli e sorelle,

ogni anno, in occasione della Quaresima, la Chiesa ci invita a una sincera revisione della nostra vita alla luce degli insegnamenti evangelici. Quest'anno vorrei proporvi alcune riflessioni sul vasto tema della giustizia, partendo dall'affermazione paolina: La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo (cfr Rm 3,21-22).

Giustizia: “dare cuique suum”

Mi soffermo in primo luogo sul significato del termine “giustizia”, che nel linguaggio comune implica “dare a ciascuno il suo - dare cuique suum”, secondo la nota espressione di Ulpiano, giurista romano del III secolo. In realtà, però, tale classica definizione non precisa in che cosa consista quel “suo” da assicurare a ciascuno. Ciò di cui l'uomo ha più bisogno non può essergli garantito per legge. Per godere di un'esistenza in pienezza, gli è necessario qualcosa di più intimo che può essergli accordato solo gratuitamente: potremmo dire che l'uomo vive di quell'amore che solo Dio può comunicargli avendolo creato a sua immagine e somiglianza. Sono certamente utili e necessari i beni materiali
L'impossibile Tigre Boschi

di Massimo Gramellini

«Sono profondamente dispiaciuto per avervi deluso. La fama e la ricchezza mi hanno fatto credere di essere esente dalle regole che tutti rispettano. Ma sono stato uno stupido, non si gioca con i valori. Ora spetta solo a me cercare di ricominciare». Osservata dall'Italia, la penitenza in mondovisione del golfista fedifrago Tiger Woods (Tigre Boschi) appartiene ad altre galassie. Da noi si dice: fra moglie e marito non mettere il dito. Quelli invece ci mettono le telecamere della diretta. Impensabile che Marrazzo o Delbono, per citare gli ultimi uomini pubblici coinvolti in vicende di sesso, si prestino a simili riti di purificazione.

Nei Paesi protestanti come gli Usa il reprobo non si limita a pentirsi. Prende l'impegno solenne di diventare un'altra persona. Il prezzo da pagare per il perdono non è tanto l'umiliazione pubblica, ma l'impossibilità di una recidiva. Il giorno che Woods venisse di nuovo pescato dietro qualche gonnella, per gli americani (e per gli sponsor che lo hanno reso ricco) sarà un uomo finito. Nell'Italia cattolica, invece, non esiste il concetto di «unica chance». Qui si pecca e si viene perdonati di continuo per reati veri, altro che un tradimento coniugale. E l'obiettivo del pentimento è farla franca per poterla rifare ancora. Anche se si è ricchi e famosi. Anzi, soprattutto. Provo a immaginarmi un noto leader che si scusa in tv con la moglie e giura ai fan che non la tradirà mai più. Sicuro che prima della fine gli scapperebbe una barzelletta sulle albanesi e dovrebbe ricominciare il suo discorso daccapo. All'infinito.

Per sorridere... pensandoci su!


E poi dicono che ridere allunga la vita....

Dicono che tutti i giorni dobbiamo mangiare una mela per il ferro e una banana per il potassio.

 Anche un'arancia per la vitamina C e una tazza di the verde senza zucchero per prevenire il diabete.

 Tutti i giorni dobbiamo bere due litri d'acqua (sì, per poi eliminarli in pipì, che richiede il doppio del tempo che hai perso per berli).

Tutti i giorni bisogna bere un Actimel o mangiare uno yogurt per avere gli 'L.Casei Defensis', che nessuno sa bene che cosa cavolo sono però sembra che se non ti ingoi per lo meno un milione e mezzo di questi bacilli (?) tutti i giorni inizi a vedere sfocato.

Ogni giorno un'aspirina, per prevenire l'infarto, e un bicchiere di Vino rosso, sempre contro l'infarto ed un altro di bianco, per il sistema nervoso, ed uno di birra, che già non mi ricordo per che cosa era.

 Se li bevi tutti insieme, ti può dare un'emorragia cerebrale, però non ti preoccupare,perché non te ne renderai neanche conto.

 Tutti i giorni bisogna mangiare fibra. Molta, moltissima fibra, finché riesci a "produrne" tanta da poter fare un maglione. Si devono fare tra i 4 e 6 pasti quotidiani, leggeri, senza dimenticare di masticare 100 volte ogni boccone. Facendo i calcoli, solo per mangiare se ne vanno 5 ore.

 Ah, e dopo ogni pasto bisogna lavarsi i denti, ossia dopo l'Actimel e la fibra lavati i denti, dopo la mela i denti, dopo la banana i denti... e così via finché ti rimangono 3 denti in bocca, senza dimenticarti di usare il filo interdentale, massaggiare le gengive, il risciacquo con Listerine...

Bisogna dormire otto ore e lavorare altre otto, più le 5 necessarie per mangiare, 21. Te ne rimangono 3, sempre che non ci sia traffico.

Secondo le statistiche, vediamo la tele per tre ore al giorno.

Già, non si può, perché tutti i giorni bisogna camminare almeno mezz'ora (attenzione: dopo 15 minuti torna indietro, se no la mezz'ora diventa una). 

Bisogna mantenere le amicizie perché sono come le piante, bisogna innaffiarle tutti i giorni. E anche quando vai in vacanza, suppongo.Inoltre, bisogna tenersi informati, e leggere per lo meno due giornali e un paio di articoli di rivista, per una lettura critica.

Ah!, si deve fare l'amore tutti i giorni, però senza cadere nella routine: bisogna essere innovatori, creativi, e rinnovare la seduzione.

 Bisogna anche avere il tempo di spazzare per terra, lavare i piatti, i panni, e non parliamo se hai un cane o ... dei FIGLI???               

  Insomma, per farla breve, i conti danno 29 ore al giorno.

L'unica possibilità che mi viene in mente è fare varie cose contemporaneamente: per esempio: ti fai la doccia con acqua fredda e con la bocca aperta così ti bevi i due litri d'acqua. Mentre esci dal bagno con lo spazzolino in bocca fai l'amore (tantrico) col compagno/a che nel frattempo guarda la tele e ti racconta, mentre tu lavi per terra. 

Ti è rimasta una mano libera?? Chiama i tuoi amici! E i tuoi genitori. Bevi il vino (dopo aver chiamato i tuoi ne avrai bisogno). Il BioPuritas con la mela te lo può dare il tuo compagno/a, mentre si mangia la banana con l'Actimel, e domani fate cambio.

Però se ti rimangono due minuti liberi, invia questo messaggio ai tuoi Amici (che bisogna innaffiare come una pianta). Adesso ti lascio, perché tra lo yogurt, la mela, la birra, il primo litro d'acqua e il terzo pasto con fibra della giornata, già non so più cosa sto facendo ... però devo andare urgentemente al bagno. E ne approfitto per lavarmi i denti....

1. Disciplina della Chiesa cattolica e prospettive di riflessione.

2. Prospettive della tradizione protestante.

3. Teologia e prassi delle Chiese ortodosse.

In calo le offerte alla Chiesa

La crisi economica colpisce le offerte dei fedeli di strati sociali medio-alti e sono in flessione anche le donazioni di enti pubblici e privati per le opere di carità della Chiesa cattolica.

di Giacomo Galeazzi

Cala l'elemosina alla Chiesa, resiste solo l'obolo della vedova. La crisi economica colpisce le offerte dei fedeli di strati sociali medio-alti e sono in flessione anche le donazioni di enti pubblici e privati per le opere di carità della Chiesa cattolica. A resistere è tuttavia il cosidetto «obolo della vedova», ovvero le poche euro, inviate tramite appositi bollettini postali, da una popolazione povera composta per lo più da madri di famiglia, vecchiette e pensionati che risparmiano sulla spesa quotidiana. Lo riferisce all'Osservatore Romano monsignor Giovanni Pietro Dal Toso, sottosegretario del Pontificio Consiglio «Cor Unum», il dicastero vaticano della solidarietà. Dove la crisi si fa sentire di più «è nel settore del finanziamento dei medi e grandi progetti in favore dei Paesi poveri. Sono diminuiti drasticamente sia le donazioni sia i fondi pubblici destinati a questo scopo», spiega il presule. La macchina della carità del Papa anche quest'anno ha distribuito circa sei milioni e mezzo di dollari statunitensi, destinati a popolazioni colpite da calamità naturali e al finanziamento di progetti nei Paesi in via di sviluppo. Intanto diminuiscono anche le quote dell'otto per mille destinate alla Chiesa cattolica: dal 2008 al 2009 il calo è stato del 3,8%. I fondi attribuiti dallo Stato alla Chiesa in base alle firme dei contribuenti sono scesi da 1002,5 milioni di euro a 967,5 per il sostentamento del clero, la carità, il culto, la pastorale. Il 2009 rappresenta il punto minimo delle entrate dell'ultimo triennio.




Coda: «Purifichiamo la fede, nuovi linguaggi per dire Dio»

intervista a mons. Piero Coda a cura di Lorenzo Fazzini

Mai Dio senza l'altro. Facendosi coinvolgere nei silenzi e parole dei non credenti. Perchè questa è l'economia della salvezza di Cristo. Piero Coda, presidente dell'Associazione teologica italiana , è «entusiasta» del «cortile dei gentili» quale metafora di quel confronto che l'attuale pontefice chiede con i non credenti.

Quale la dinamica di questo dialogo?


«Quando è condotto senza intenzionalità ideologiche, il dialogo chiede al credente una testimonianza coerente di vita e di intelligenza del Dio fattosi uomo in Gesù Cristo. Il Concilio afferma che c'è bisogno di una purificazione della fede: ciò significa liberarla dalle incrostazioni desuete accumulatesi nei secoli perché brilli oggi nella sua luce sempre attuale ».

Quali le 'incrostazioni' più urgenti da purificare?

«Penso a quanto Giovanni XXIII diceva nell'indire il Concilio, ovvero il concetto di aggiornamento: la sostanza della fede è immutabile, mentre il linguaggio che la esprime va plasmato sintonizzandosi sui segni dei tempi. Viviamo una situazione di epocale transizione culturale. Abbiamo ereditato una forma di chiesa radicata nel tardo Medioevo: la modernità, la società plurale, l'innovazione tecnologica, i movimenti migratori provocano la Chiesa a essere più plastica, affinché vi giochino il loro ruolo attivo tutti gli stati di vita. Urge far spazio a una coscienza cristianamente formata secondo il vangelo e la dottrina cristiana che penetri tutte le realtà antropologiche e sociali. Serve più spazio alla dimensione femminile. C'è bisogno insomma di più profezia come testimonianza della novità evangelica e come espressione di pluralità».

Il dibattito culturale è segnato dai 'nuovi atei'. Da essi vi sono contributi positivi al confronto tra laici e cristiani?

«Mi sembra che l'atteggiamento aggressivo di alcuni autori abbia caratteristiche diverse rispetto all'ateismo di forte convinzione e di fragile ideologia degli anni Sessanta. Tale atteggiamento, a mio parere, nasce da due prospettive: esiste un ritorno ideologico corrosivo, regressivo e non produttivo contro la tradizione cristiana; e c'è un disincanto per cui la testimonianza di Dio offerta dalla Chiesa non intercetta le domande più profonde. Vi è qui una richiesta ai credenti di maggior radicalità non solo esistenziale ma anche culturale. La cultura cristiana è a un punto cruciale: o si rifonda a partire dall'evento di Gesù Cristo morto e risorto, e vivo nella storia, oppure decade ed è emarginata. Il cristianesimo può offrire al mondo una nuovissima fioritura di sé. A un recente dibattito il filosofo della scienza Orlando Franceschelli, parlando della proposta cristiana, diceva: 'Non ci siamo ancora detti il meglio'. Dobbiamo trovare nuovi linguaggi, argomentazioni e concettualizzazioni per i nostri interlocutori: la loro attesa è così profonda che altrimenti resta delusa».

Come riuscire a dire Dio oggi?

«Non si può dire Dio senza l'altro. Non posso parlare di Dio senza che colui al quale mi rivolgo entri a determinare il mio dire. Sono chiamato ad ascoltare il silenzio, la parola e il grido dell'altro. Devo accogliere quel che lui mi dice, anche nella sua critica. Questo atteggiamento ha un fondamento teologico: il Dio di Gesù dice la sua Parola all'uomo al punto da farsi uomo, anzi il grido dell'uomo».

Cosa significa questo nel nostro contesto culturale?

«Ad esempio, non si può dire Dio senza quel che la scienza e le sue scoperte sull'universo ci comunicano. Dire Dio passa sempre attraverso una determinata concezione cosmologica. Dante ci ha parlato di Lui secondo la visione dell'universo del suo tempo. Oggi non siamo ancora capaci di questo. Già capire tale scommessa è un traguardo importante ».

in “Avvenire” del 29 gennaio 2010

Un'indagine Demos-Coop dimostra che le nuove generazioni s'informano via Internet e lo fanno in modo molto attivo

Da internauti a "infonauti": i giovani e la democrazia web

La rete è anche la via principale d'accesso a tv e radio

di Luigi Ceccarini e Martina Di Pierdomenico

I giovani sono protagonisti importanti di questa dinamica. In sette casi su dieci utilizzano quotidianamente internet per informarsi, al pari della Tv. E molto più del giornale cartaceo (19%) o del satellite (37%). E' un dato interessante se consideriamo che vengono spesso rimproverati di informarsi poco. Evidentemente bypassano i canali tradizionali ricorrendo alla rete. Tutto questo avviene, secondo l'indagine Demos-Coop, nel quadro di un utilizzo più diffuso delle tecnologie digitali per informarsi. (...) I più giovani sono nativi digitali, come li ha definti Marc Prensky. Sono fruitori "impegnati" di questa tecnologia. Il 74% di chi ha un'età compresa tra 15 e 24 anni (+19 punti percentuali rispetto al 2007) e il 63% di quelli tra 25 e 34 anni (+15 punti percentuali rispetto al 2007) dichiarano che per informarsi utilizzano internet "tutti i giorni". Questo stile, come prevedibile, si riduce progressivamente nelle successive coorti di età. Fino ad arrivare al 7% tra quanti hanno superato i 64 anni. Ciò è dovuto al fatto che le risorse individuali necessarie a fare di internet uno strumento di uso quotidiano - non solo di informazione ma anche di lavoro e svago - sono meno disponibili presso i settori più adulti della popolazione. (...)

Internet caratterizza il loro stile di informazione, per questo oltre a internauti potremmo definirli info-nauti. (...) Dall'indagine si rileva una significativa differenza generazionale nell'approccio agli strumenti di informazione. Gli utenti più anziani tendono ad essere fruitori "passivi", si affidano alla rigidità dei palinsesti della tv tradizionale e delle pagine stampate dei quotidiani cartacei. Gli info-nauti invece valorizzano l'interattività e la flessibilità dei sistemi digitali di informazione. Sono fruitori "attivi", che costruiscono in modo individualizzato l'approccio ai new media.

Un altro punto importante che emerge dall'indagine riguarda il nesso democrazia e comunicazione; i cittadini intervistati ritengono che indipendenza e libertà di informazione oggi appartengano in primo luogo alla rete internet (35%). Poi alla Tv (25%), quindi ai quotidiani (20%). Generalmente nella credibilità di un media si riflette la conoscenza e l'utilizzo dello stesso. Per questo il dato su internet appare particolarmente significativo, perché è meno utilizzato della Tv (87% vs. 38%), ma nonostante ciò viene ritenuto più democratico. Detto in altri termini: si guarda la Tv ma non ci si fida troppo. (...) Da un lato, quindi, i giovani si fanno promotori di innovazione, privilegiando la rete come arena del confronto democratico. Dall'altro, sono anche portatori di elementi tradizionali. Le classiche fratture ideologiche si riflettono infatti nel mondo dei nuovi media. Gli info-nauti si configurano come estensione, nel virtuale, della politica reale.
Spidlík, il profondo respiro dell'Oriente

Dal Centro Ezio Aletti, nel cuore di Roma a pochi passi dalla basilica di Santa Maria Maggiore, il cardinale gesuita Tomás Spidlík, che domani, 17 dicembre, compirà 90 anni rilegge il suo Novecento con grande gratitudine per i doni ricevuti. Circondato dalle icone della spiritualità orientale e dai dipinti e mosaici del suo confratello Marko Ivan Rupnik tornano alla mente di questo anziano porporato, nato nel 1919 a Boskovice in Moravia, come in un album dei ricordi, i grandi autori, da Pavel Florenskji all'amato Teofane il Recluso, che hanno costellato la sua vita di intellettuale cattolico più studiato nel mondo ortodosso per la sua conoscenza della spiritualità dell'Oriente cristiano.

L'opera di questo gesuita sembra una lunga citazione (140 libri e più di 600 articoli, tradotti in tutto il mondo...). Ma dietro al cordiale sorriso e alla flemma di questo cardinale si annida la speranza ecumenica di sempre sul futuro del Vecchio Continente: che la Chiesa di Occidente impari, secondo la celebre frase del poeta russo Vjaceslav Ivanov, a «respirare con ambedue i polmoni».

Eminenza, qual è il bilancio dei suoi 90 anni e in sintesi del suo Novecento?

«Guardando indietro, sono stupito dei grandi segni della Provvidenza che mi ha protetto nei difficili periodi del Novecento: la crisi dopo la prima guerra mondiale, l'occupazione nazista, il totalitarismo comunista, la ricerca dell'identità nell'esilio. L'inno nazionale della Cechia comincia con le parole: Dov'è la mia patria? La mia risposta è semplice: sono ciò che sono nato e ringrazio tutti gli altri Paesi, soprattutto l'Italia, che mi hanno aiutato a sviluppare attraverso lo studio e la spiritualità ciò che mi fu impedito nella mia terra natale».

Lei ha conosciuto bene uno dei grandi testimoni del Novecento, Giovanni Paolo II. Qual è il suo ricordo?

«Era un Papa slavo e forse anche per questo ci siamo ben compresi, da subito, riguardo al suo amato aforisma "respirare a due polmoni". In questo spirito ho cercato di predicare gli esercizi spirituali nel 1995 alla Curia romana, dopo i quali è nata l'idea di costruire la cappella Redemptoris Mater che è stata realizzata nel 1999. A mio giudizio con la costruzione di questo luogo di culto dentro il Vaticano e l'enciclica di Giovanni Paolo II Redemptor Hominis e le domande di senso racchiuse in quel testo, come ad esempio la parte dedicata ai diritti dell'uomo, si chiude in un certo senso la parabola del Novecento con le sue tragedie».

Si narra che Karol Wojtyla fosse edificato ma anche divertito dalla sua capacità di predicare
Supertelegattone

di Massimo Gramellini

Negli ultimi giorni si sono visti in tv: vari telegiornali giocare di replay sulle immagini dello slittinista georgiano mentre va ad ammazzarsi contro un pilone; alcuni concorrenti del Grande Fratello prendersi a frustate in una replica della passione di Cristo; un conduttore della «Prova del cuoco» rievocare con compiacimento certe ricette a base di gatto che si cucinavano durante la guerra. L'unico a perdere il posto in tronco è stato il magnagatti. Se ne possono trarre riflessioni interessanti sullo stato di catalessi collettiva che ci opprime e sulle pochissime cose che ancora riescono a incrinarlo. Gli animali domestici, appunto. L'elogio della cocaina antidepressiva. Le tangenti, ma solo se consistono in prestazioni sessuali: quando sono in denaro strappano tutt'al più uno sbadiglio di rassegnazione. La violenza nemmeno quello, come se la tecnologia avesse trasformato la morte di un uomo in un videogioco. Quanto alla volgarità, ormai è una manifestazione di simpatia.

I televisionari avranno preso nota. Coca, gatti, trans, ecco le residue autodifese da abbattere. Prossimamente sui nostri schermi aspettiamo di vedere gatti cocainomani che graffiano trans, trans che mangiano gatti in compagnia di fisioterapiste di mezza età, politici cocainomani intercettati a un festino di gatti trans. Allora nulla avrà più il potere di stupirci e si sarà raggiunto l'obiettivo: il rincoglionimento completo dell'umanità. Quel giorno, mi auguro, i gatti prenderanno il potere e incominceranno a mangiare noi.
Trovo che questa descrizione calzi a pennello su tanti aspetti della società occidentale contemporanea.


don Chisciotte

I desideri nel tempo della fretta

di Zygmunt Bauman

È stato Stephen Bertman a coniare i termini «cultura del momento» e «cultura della fretta» per definire il nostro modo di vivere in questa società. Sono definizioni idonee e che risultano particolarmente comode ogni volta che cerchiamo di cogliere la natura della condizione umana liquido-moderna. La mia tesi è che tale condizione si caratterizza principalmente per la sua tendenza (un caso fin qui unico) a rinegoziare il significato del tempo. Il tempo, nell'era liquido-moderna della società dei consumatori, non è né ciclico né lineare, com'era normalmente per le altre società note della storia moderna o premoderna. Direi che è invece puntinista, frantumato in una moltitudine di pezzetti distinti, ognuno ridotto a un punto che si avvicina sempre di più alla sua idealizzazione geometrica di non dimensionalità. Come ricorderete sicuramente dalle lezioni di geometria a scuola, i punti non hanno lunghezza, larghezza o profondità: esistono, si sarebbe tentato di dire, prima dello spazio e del tempo; sia lo spazio che il tempo ancora non sono cominciati. Ma come quell'unico punto che, secondo quanto ipotizzano le teorie cosmogoniche più avanzate, precedeva il big bang che diede inizio all'universo, ogni punto si presume contenga un infinito potenziale di espansione e un'infinità di possibilità che attendono di esplodere se adeguatamente innescate. E ricordiamo che nel «prima» che precedette l'eruzione dell'universo non vi era nulla che potesse fornire la benché minima avvisaglia che stava avvicinandosi il momento del big bang. I cosmogonisti ci dicono un mucchio di cose su quello che avvenne nelle prime frazioni di secondo dopo il big bang; ma conservano un odioso silenzio sui secondi, i minuti, le ore, i giorni, gli anni o i millenni prima. Ogni punto-tempo (ma non c'è modo di sapere in anticipo quale) potrebbe - soltanto potrebbe - recare in sé la possibilità di un altro big bang, anche se questa volta su scala ben più modesta, da «universo individuale», e i punti successivi continuerebbero a essere visti come punti recanti tale possibilità, indipendentemente da ciò che sarebbe potuto succedere con i punti precedenti e nonostante l'esperienza accumulata dimostri che la maggior parte delle possibilità di solito è predetta in modo errato, trascurata o mancata, che la maggior parte dei punti si è rivelata infruttuosa e che la maggior parte dei sommovimenti è morta sul nascere. Una mappa della vita puntinista, se mai venisse tracciata, assomiglierebbe a un camposanto di possibilità immaginarie o irrealizzate. O, a seconda del punto di vista, come un cimitero di occasioni sprecate: in un universo puntinista, i tassi di mortalità infantile e di gravidanze abortite della speranza sono molto elevati. È proprio per questa ragione che una vita «del momento» normalmente è una vita «della fretta». La possibilità che potrebbe essere contenuta in ogni punto lo seguirà nella tomba: per quell'unica, particolare possibilità non ci sarà una «seconda possibilità». Ogni punto può essere vissuto come un nuovo inizio, ma spesso e volentieri il traguardo arriverà poco dopo la partenza, e in mezzo sarà accaduto ben poco. Solo una moltitudine, in inarrestabile espansione, di nuovi inizi può - semplicemente può - compensare la profusione di false partenze. Solo le vaste distese di nuovi inizi che siamo convinti ci aspettino più avanti, solo una moltitudine sperata di punti le cui potenzialità da big bang ancora non sono state messe alla prova, e che perciò ancora non sono state screditate, possono salvare la speranza dalle macerie delle conclusioni premature e degli inizi abortiti. Come ho detto prima, nella vita «adessista» dell'avido consumatore di nuove Erlebnisse (esperienze vissute), la ragione di affrettarsi non è acquisire e collezionare il più possibile, ma rottamare e sostituire più che si può. C'è un messaggio latente dietro a ogni spot che promette una nuova opportunità inesplorata di beatitudine: non ha senso piangere sul latte versato. O il big bang avviene proprio ora, in questo esatto momento e al primo tentativo, oppure attardarsi in quel particolare punto non ha più senso: è tempo di spostarsi su un altro punto. Nella società dei produttori che ormai sta scomparendo dalla memoria (almeno nella nostra parte del pianeta), il consiglio, in un caso simile, sarebbe stato: «insisti». Ma non nella società dei consumatori: qui, gli utensili inefficaci devono essere abbandonati, non affilati e rimessi alla prova con più competenza, più impegno e migliori risultati. E si lascino perdere anche quegli elettrodomestici che non sono riusciti a fornire la «piena soddisfazione» promessa a quelle relazioni umane che hanno prodotto un «bang» meno «big» di quanto ci si aspettava. La fretta dev'essere massima quando si tratta di correre da un punto (che ha deluso, che sta deludendo o che sta cominciando a deludere) a un altro (ancora non collaudato). Si dovrebbe rammentare l'amara lezione del Faust di Christopher Marlowe: finire all'inferno per aver desiderato che il momento - solo perché piacevole - potesse durare per sempre. Data l'infinità di opportunità promesse e presunte, a trasformare in «punti» sbriciolati la più attraente novità del tempo, una novità che si può star sicuri che verrebbe abbracciata avidamente ed esplorata con passione, è la doppia aspettativa o speranza di prevenire il futuro e neutralizzare il passato. Riuscire a mettere a segno un doppio successo di questo tipo, dopo tutto, è l'ideale della libertà. (...) Partiamo dalla straordinaria impresa della neutralizzazione del passato. Essa si riduce a un unico cambiamento nella condizione umana, ma un cambiamento realmente miracoloso: la possibilità di «rinascere» con facilità. D'ora in poi, non sono solo i gatti a poter avere nove vite. Durante quel lasso di tempo terribilmente breve che trascorriamo sulla terra, deplorato non troppo tempo fa per la sua detestabile brevità e che da allora non si è prolungato più di tanto, gli esseri umani - come i proverbiali gatti - ora hanno la capacità di spremere molte vite, una serie infinita di «nuovi inizi». Rinascere significa che la/e nascita/e precedente/i, insieme alle relative conseguenze, viene o vengono annullata/e: sembra l'avvento dell'onnipotenza di tipo divino, sempre sognata ma fino ad ora mai sperimentata. Il potere di determinazione causale può venire disarmato, e il potere del passato di limitare le opzioni del presente può venire drasticamente contenuto, forse addirittura abolito del tutto. Ciò che eri ieri non preclude più la possibilità di diventare qualcuno di totalmente diverso oggi. Dal momento che ogni punto nel tempo, ricordiamolo, è pieno di potenziale, e che ogni potenziale è diverso e unico, si può essere diversi in modi realmente innumerevoli: è qualcosa che oscura perfino la sbalorditiva molteplicità di permutazioni e la strabiliante varietà di forme e sembianze che gli incontri casuali di geni sono riusciti finora e probabilmente continueranno a produrre in futuro nella specie umana. Si avvicina a quella capacità di eternità che sgomenta, in cui, considerando la sua infinita durata, ogni cosa può/deve, prima o poi, succedere, e in ogni caso potrà essere/sarà, prima o poi, fatta. Ora quella mirabile potenza dell'eternità sembra essere stata compressa nel tutt'altro che eterno intervallo di tempo di una singola vita umana. Di conseguenza, l'impresa di disinnescare e neutralizzare la capacità del passato di limitare le scelte successive, e quindi di circoscrivere pesantemente le occasioni di «nuove nascite», deruba l'eternità della sua attrattiva più seducente. Nel tempo puntinista della società liquido-moderna, l'eternità non è più un valore e un oggetto di desiderio, o per meglio dire, quello che era il suo valore e che la rendeva un oggetto di desiderio è stato espunto e trapiantato nel momento presente. Di conseguenza, la «tirannia del momento» della tarda modernità, con il suo precetto del carpe diem, gradualmente ma costantemente, e forse inarrestabilmente, rimpiazza la tirannia premoderna dell'eternità, con il suo motto del memento mori.


in “La Repubblica” del 15 febbraio 2010

Chi dice all'articolista che magari c'è un problema di educazione dei ragazzi, e non solo di "ritirata" dei prof? Dov'è la società adulta?! Ai festini o davanti alla tv?!

don Chisciotte

Basta con le gite scolastiche

Sbronze, droga e sesso. Accompagnatori dimezzati

«La più memorabile è stata quella ad Amsterdam. Una studentessa tornò incinta. E quando non c'è di mezzo il sesso, ci sono altri problemi: in gita girano droga, alcol, i ragazzi sono ingestibili. L'errore più grande? Chiuderli in camera. Si calarono dal balcone». Da quella volta A. P., insegnante in un liceo milanese, ha detto basta. «Mai più in viaggio di istruzione». Una decisione ormai comune a moltissimi professori. Via dalla gita. Troppe responsabilità

Auguri per il suo 83° compleanno!

Qui trovate la possibilità di mandargli una lettera o un bigliettino d'auguri!

Grazie, padre Carlo Maria!


Tra i nostri Testi, un'intervista che gli è stata fatta qualche giorno fa: al di là dello stile dell'intervistatore, gustiamo la saggezza di questo uomo di Dio.

Inutile insistere sulla crisi della Chiesa come istituzione. È una crisi in atto da molto tempo e che si è cercato invano di nascondere nel secondo dopoguerra, restando legati al mito e rifiutando la realtà. Ora è esplosa in tutta la sua violenza e dovrà continuare: la si vede nel deserto fatto nel cuore dei seminari, nelle lotte intestine, nel disorientamento generale per cui vecchi punti fermi come l'obbedienza, il senso di sacrificio, il rispetto per certe forme tradizionali sono crollati e vengono irrisi. Ma si sbaglierebbe a tradurre questi segni in una condanna generica; la Chiesa (lo ha ricordato benissimo Jemolo) ha passato ben altre tempeste, è stata vittima del mondo, lo ha servito a volte in modi vergognosi: il tempo alla fine le ha sempre restituito il primato dello spirituale.

Qui sta il momento vero della crisi: probabilmente c'è una ragione alla crescente mancanza di vocazioni, c'è una ragione se dai seminari, dalle parrocchie e dai conventi fuggono i ministri stessi della Chiesa, quelli a cui è stato demandato il compito della memoria vitale. C'è infine una ragione maggiore se nelle chiese quasi sempre deserte si svolgono riti a cui nessuno presta più una vera fede e tutto si riduce a un giuoco di convenzioni. La crisi era nata molto prima, esattamente quando l'istituzione aveva sposato le leggi dello Stato, aveva preso il posto delle istituzioni civili. Prima di Paolo VI lo hanno gridato i nostri profeti, i Bernanos e i Mazzolari, ma la loro disperazione animata da una fede incrollabile non veniva presa sul serio, era interpretata come fenomeno letterario.

La crisi ha le sue radici nel lungo e insensibile tradimento consumato per secoli senza saperlo e per avere dimenticato di dare una minima credibilità alla fede che si intendeva esaltare nella più sterile delle ripetizioni. È una crisi d'amore e per anni ci si è illusi di poter comunicare la legge dell'amore che è spietata, piena di sangue e di rabbia ripetendo delle litanie che non avevano più alcun riscontro possibile con la realtà. Quando alla fine il divorzio fra realtà e fede è stato definitivamente convalidato, ecco che è apparsa la crisi in tutta la sua drammaticità. È stato così che i preti hanno misurato fino in fondo il loro tradimento ma chi se ne è andato non ha conosciuto più le lotte e i rimorsi di chi li aveva preceduti sulla strada del disinganno: una volta c'erano delle strutture che tenevano, oggi non ce ne sono più e così si va a cercare la Chiesa fuori dei seminari, delle parrocchie e dei conventi. Che cosa c'è rimasto dentro?

L'unica risposta ci viene dai sociologi e dagli storici: è una risposta fondata sulle statistiche e vale quello che vale. Di nuovo, bisogna cercare che cosa c'è al fondo della crisi. Anche perché
Dalla lectio di papa Benedetto XVI ai seminaristi (12 febbraio 2010)

Se continuiamo a leggere attentamente questo brano del Vangelo di Giovanni, troviamo anche un secondo imperativo: “Rimanete” e “Osservate i miei comandamenti”. “Osservate” è solo il secondo livello; il primo è quello del “rimanere”, il livello ontologico, cioé che siamo uniti con Lui, che ci ha dato in anticipo se stesso, ci ha già dato il suo amore, il frutto. Non siamo noi che dobbiamo produrre il grande frutto; il cristianesimo non è un moralismo, non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal mondo, ma dobbiamo innanzitutto entrare in questo mistero ontologico: Dio si dà Egli stesso. Il suo essere, il suo amare, precede il nostro agire e, nel contesto del suo Corpo, nel contesto dello stare in Lui, identificati con Lui, nobilitati con il suo Sangue, possiamo anche noi agire con Cristo.

L'etica è conseguenza dell'essere: prima il Signore ci dà un nuovo essere, questo è il grande dono; l'essere precede l'agire e da questo essere poi segue l'agire, come una realtà organica, perché ciò che siamo, possiamo esserlo anche nella nostra attività. E così ringraziamo il Signore perché ci ha tolto dal puro moralismo; non possiamo obbedire ad una legge che sta di fonte a noi, ma dobbiamo solo agire secondo la nostra nuova identità. Quindi non è più un'obbedienza, una cosa esteriore, ma una realizzazione del dono del nuovo essere.

Lo dico ancora una volta: ringraziamo il Signore perché Lui ci precede, ci dà quanto dobbiamo dare noi, e noi possiamo essere poi, nella verità e nella forza del nostro nuovo essere, attori della sua realtà. Rimanere e osservare: l'osservare è il segno del rimanere e il rimanere è il dono che Lui ci dà, ma che deve essere rinnovato ogni giorno nella nostra vita.

Segue, poi, questo nuovo comandamento: “Amatevi come io vi ho amato”. Nessun amore è più grande di questo: “dare la vita per i propri amici”. Che cosa vuol dire? Anche qui non si tratta di un moralismo. Si potrebbe dire: “Non è un nuovo comandamento; il comandamento di amare il prossimo come se stessi esiste già nell'Antico Testamento”. Alcuni affermano: ”Tale amore va ancora più radicalizzato; questo amare l'altro deve imitare Cristo, che si è dato per noi; deve essere un amare eroico, fino al dono di se stessi”. In questo caso, però, il cristianesimo sarebbe un moralismo eroico. E' vero che dobbiamo arrivare fino a questa radicalità dell'amore, che Cristo ci ha mostrato e donato, ma anche qui la vera novità non è quanto facciamo noi, la vera novità è quanto ha fatto Lui: il Signore ci ha dato se stesso, e il Signore ci ha donato la vera novità di essere membri suoi nel suo corpo, di essere rami della vite che è Lui. Quindi, la novità è il dono, il grande dono, e dal dono, dalla novità del dono, segue anche, come ho detto, il nuovo agire.

San Tommaso d'Aquino lo dice in modo molto preciso quando scrive: “La nuova legge è la grazia dello Spirito Santo” (Summa theologiae, I-IIae, q. 106, a. 1). La nuova legge non è un altro comando più difficile degli altri: la nuova legge è un dono, la nuova legge è la presenza dello Spirito Santo datoci nel Sacramento del Battesimo, nella Cresima, e datoci ogni giorno nella Santissima Eucaristia. I Padri qui hanno distinto “sacramentum” ed “exemplum”. “Sacramentum” è il dono del nuovo essere, e questo dono diventa anche esempio per il nostro agire, ma il “sacramentum” precede, e noi viviamo dal sacramento. Qui vediamo la centralità del sacramento, che è centralità del dono.

Trovi qui tutta la meditazione.

Un gesto d'amore concreto, reale: regalare una ecard di Medici Senza Frontiere!




Morirono all'istante a Vedelago (Treviso) dopo l'impatto fra la motocicletta sulla quale viaggiavano ed un'automobile che si stava immettendo sulla strada statale senza rispettare il diritto di precedenza. Il padre di una delle due vittime ha voluto un'installazione choc nel cortile della scuola che frequentavano. La carcassa della moto e due manichini che indossano gli stessi abiti insanguinati dei due fidanzati morti. E' questo il contenuto dell'installazione choc che sarà posizionata il prossimo 26 febbraio nel cortile della scuola di Fonte (Treviso) che i due frequentavano e nella quale si erano conosciuti ed innamorati. Obiettivo dell'iniziativa, ha spiegato il genitore, è quello di richiamare l'attenzione dei compagni di scuola sui rischi della strada. foto
E l'artista riscoprì la carne

Lingua non estetica, bensì etica quella dell'arte sacra, che parla dell'uomo e della storia nel corso dei secoli. La sua forma è specchio delle stagioni in cui si manifesta, di stupori e sogni, delusioni e lutti. Riflette il modo di essere della gente e la sua esperienza religiosa, l'opera politica dei governanti, l'assolutismo di principi e re gli scontri intestini, le violenze e le guerre. Non può dirsi asettico il verbo di Giotto, che racconta del francescanesimo, dell'avidità dei mercanti e dei drammi della Chiesa. Non resta ai margini delle questioni civili e morali l'umanesimo toscano al tempo di Beato Angelico e di Savonarola. Dopo l'armonia infranta della classicità, di fronte ai dubbi della ragione, agli interrogativi dei fedeli e alle accuse di Lutero l'arte si sente coinvolta. Diviene partecipe delle lacerazioni della Riforma, constata il fallimento dei papi e la decadenza della Chiesa, sente l'angoscia di intellettuali e santi, registra il coraggio di Trento con il pauperismo di Borromeo, esperimenta con i sensi dei mistici spagnoli la contemplazione, con i santi francesi l'azione sociale, l'evangelizzazione con gesuiti e cappuccini. Nel tempo dell'inquisizione è testimone del travaglio di Cartesio e Pascal, dell'eticismo dei calvinisti, del libertinaggio di corte, di conflitti ideologici e spirituali, della purificazione giansenista e della sua deriva. Pittura della storia in cui portante è la funzione della fede, che si accompagna agli eventi e alle persone nel riscatto e nella catarsi. La forma della carne, si  pone, nell'analisi e nell'esegesi dei dipinti, come forma della fede contenuta nel prologo giovanneo: Et Verbum caro factum est. Se Dio si fa uomo, se si offre allo sguardo nella realtà corporea, se da invisibile si rende visibile, allora assume evidenza il superamento della proibizione levitica, come accerta la Chiesa dei padri. Non ha motivo l'aniconia né tanto meno l'iconoclastia. Per questo l'ortodossia latina afferma, con i primitivi e i pittori del realismo e del naturalismo, l'rgenza di una iconologia che traduca la consistenza fisica di Cristo, della Vergine e dei Santi. Del resto è Tertulliano a sottolineare nell'apologetica che Cristo è carne, ossa e sangue come ogni persona. Non è nell'astrazione la verità, ma nella corporeità che la pittura cristiana rappresenta secondo i molteplici stili dell'arte. L'utilizzo delle icone sacre si rivela scelta estetica, memore del pulchrum costitutivo dell'idea di Dio, con finalità culturale e cultuale: ut devotionem pariant ac pietatem. Di fatto l'immagine si connota come predicazione visuale in consonanza con la Scrittura, comunicando un messaggio recepito dagli occhi e rielaborato dalla mente, attraverso un metodo antropologico che la Chiesa fa suo. Così l'arte si carica di valori trascendenti. La sua espressione subito risulta efficace, grazie a un linguaggio, insieme popolare e intellettuale, che parla al sentimento e alla ragione. Connessa con la filosofia e la letteratura, esplicative del Rinascimento e del Barocco, l'arte sacra entra in rapporto con la visione della carne, quale essenza dell'uomo. Mette in chiaro come non solo la carne del Logos sia sacra, ma ogni carne nella unidualità di materia e spirito. Ripercorre con l'innocenza della Bibbia la creazione di Adamo ed Eva, la nudità dei corpi, l'energia del sesso, la gioia della procreazione, l'erotismo del Cantico dei Cantici, l'elegia di Sara e Rebecca, la bellezza sensuale di Giuditta e Susanna, la passione di Maria di Magdala. Temi di un amore fisico, concepito dal Creatore, che formano la verità fenomenologica della natura, la sua corporeità sessuata e autocosciente. Illuminata dalla Scrittura l'arte riscopre la sacralità dell'uomo che desidera la donna e ne documenta l'amore con immagini di interiorità. Celebra con fantasia il corpo dei profeti e dei santi dell'Antico e del Nuovo Testamento e il corpo di mistici, martiri e fedeli che formano la Chiesa. Corpo quale asse prospettico dell'orizzonte terrestre e di quello celeste; corpo vivente nell'eros e nell'agape, consapevole di essere manifestazione della gloria divina. Sarebbe assurdo negare nella pittura dei secoli XVI e XVII la fragranza voluttuosa di angeli e santi, avallata da una teologia ardita, come quella dei gesuiti, che consente nella volta del Gesù di Roma l'apparizione della carnalità quale sacramento. Se in non pochi ambienti imperversa la sessuofobia, nella cerchia degli umanisti e dei biblisti è considerata consustanziale alla beatitudine la corporeità, senza la quale non potrebbe esserci né vita né grazia. Da qui scaturisce il sentimento sacro dei corpi e la visione delle Sante e della Vergine, nei cui volti gli artisti esprimono l'idea suprema della bellezza. Sa di poesia la nudità del piccolo Gesù, ma anche di dogma significante l'umanità. Profuma di paradiso la carne di Caterina nello sposalizio, di Agnese che carezza l'agnello, di Agata nel martirio, di Cecilia che suona l'arpa e di tante altre donne che sugli altari rifulgono di splendore. Pura è la sensualità di Maria che con il neonato in braccio si mostra a Betlemme, o quando esibisce il seno che allatta, o quando nella luce appare Immacolata, circondata da putti festanti. Soprattutto il Barocco non nasconde l'incanto della natura, sapendola opera di Dio. Anzi ne recupera il senso trascendente, esaltando il corpo come epifania del mistero. Con maggiore o minore penetrazione, tra il XIV e il XVII secolo, la pittura sacra, rifuggendo spesso da estetismi illustrativi, si connota di una teologia della carne, inquieta ed eroica, che testimonia come gli artisti si sentano poeticamente esegeti del Verbo, mentre ne traducono la presenza in immagini umane.

Giovanni Bonanno






Angelo Branduardi - La Donna Della Sera

Album: Domenica E Lunedì (1994)

Una tua ruga bella di stanchezza di più m'intriga della giovinezza.

Il seno che pende di più mi da dei seni ritti di ben altra età.

Io mi addormento sopra il tuo sedere memoria e vanto di battaglie vere.

Meglio la tua pelle, arata a terra di quella liscia di una giovincella.

C'è nell'inverno tuo quel che l'estate non ha; caldo l'autunno tuo più dell'altrui primavera.

Tutto quel gran mare di gioventù non vale ll letto che prepari tu.

Silenzio ed ombra mettimi nel cuore con le tue labbra che ci sanno fare.

Meglio le tue grasse coscie di pane dei giunchi acerbi delle ragazzine.

C'è nell'inverno tuo quel che l'estate non ha; caldo l'autunno tuo più dell'altrui primavera.

Tutto quel gran mare di gioventù non vale il letto che riscaldi tu.

Vince il tuo inverno sulla primavera. Ogni tuo segno è una mia bandiera.

Vince la rosa che mi mostri intera su quella chiusa prima della sera.

Il cristiano che soffre è anzitutto un uomo che soffre! Proprio per questo lo sguardo che la fede cristiana porta sulla malattia non può farsi ispiratore di atteggiamenti inumani: sia nel senso di produrre una colpevolizzazione del malato, sia nel condurlo a proclamare la malattia un "privilegio" perché unisce più strettamente al Cristo sofferente, o a vedere in essa lo strumento con cui Dio corregge il peccatore, o con cui l'uomo vede accresciuto il proprio merito, e così via. Il fatto che la sofferenza, il male e la morte siano stati abitati da Cristo e che pertanto anche le situazioni di malattia e di sofferenza possano nella fede essere vissute con e in Cristo, non toglie certo quel volto "nemico" che è ineliminabile dalla malattia e che impegna il cristiano anzitutto alla lotta e alla resistenza contro di essa.

Ciò che più colpisce nell'evoluzione dell'atteggiamento della chiesa nei confronti della malattia dalle origini ai nostri giorni è quel "ribaltamento" che sembra doversi situare nel XII secolo e di cui è stato scritto: "In tutto il periodo precedente della storia cristiana, la cura dei malati assicura principalmente il merito e la santificazione di coloro che sono in buona salute. A iniziare dal XII secolo, è la prova stessa che viene considerata come una fonte di merito e di santità per colui che la sopporta" (H.-R. Philippeau, La maladie..., 53-54). La malattia, da elemento negativo da cui Gesù libera guarendo i malati, diviene ambito di comunione mistica con Cristo e mezzo di identificazione con lui: dall'immagine del Gesù medico, del Gesù che guarisce, si passa a quella del Crocifisso a cui il malato stesso si assimila tramite la malattia. Questo trapasso avrà conseguenze notevoli sulla spiritualità cristiana del secondo millennio, nel periodo della chiesa divisa, e sull'atteggiamento nei confronti della malattia: dimenticanza dell'elemento pneumatico, cristocentrismo e perfino cristomonismo, influenza della teologia della "soddisfazione", sono elementi che possono aver provocato il nascere di "ideologie spirituali" sulla malattia, distanti dalla freschezza dell'annuncio evangelico e dalla comprensione dei Padri della chiesa. In termini sarcastici così si esprimeva (alla fine degli anni '40, in un testo certamente datato, ma nondimeno significativo) Philippeau: "I giganti dell'ascesi primitiva, da sant'Antonio a san Gerolamo e anche oltre, si sarebbero certamente molto stupiti se avessero potuto intravedere nelle età ancora lontane a venire, le Suore cieche di San Paolo, le Serve di Gesù crocifisso o anche certi settori dell'Azione Cattolica per i quali la malattia o l'infermità permanente diviene l'asse centrale della spiritualità, così che non solo non vi si domanda la guarigione, ma se questa si verificasse, sarebbe sentita come una catastrofe in grado di rimettere in causa la vocazione individuale a tale forma determinata di vita attiva o contemplativa" (p. 57). Noi non possiamo dimenticare che "nessuna immagine si è impressa così profondamente nella tradizione cristiana primitiva come quella di Gesù grande medico", al punto che ne troviamo innumerevoli tracce nei testi dei Padri della chiesa e che da essa è scaturita una tradizione di preghiere rivolte al Cristo medico. Nel suo ministero storico nei confronti dei malati Gesù ha sempre "detto di no" al male, ha lottato contro il male, ha curato e guarito i malati. Quando Matteo afferma che in Gesù si compiono le parole riguardanti il Servo sofferente che "ha preso su di sé le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie" (Is 53,4; Mt 8,17), lo fa in un contesto nel quale appare che Gesù guarisce sia i malati fisici che quelli psichici, gli "indemoniati" (Mt 8,16). Questa istanza di lotta per la guarigione dalla malattia è dunque l'elemento spirituale, sia cristiano che antropologico, fondamentale.

Enzo Bianchi, Accanto al malato, 21-25




Beato chi ride perché andrà in paradiso

L'umorismo di Moni Ovadia contro il fondamentalismo

di Giuseppe Cantarano

Mentre due maestri rabbini osservano della gente in una piazza di mercato,uno chiede all'altro chi, tra quelle persone, andrà in Paradiso. «I due saltimbanchi», risponde il primo. «E perché?» - chiede il secondo. «Perché fanno ridere la gente», risponde l'altro. È con questo racconto - tratto da un Midrash - che Moni Ovadia chiude «Difendere Dio». Eh già. Perché il riso possiede non solo la potenza trasformatrice che scardina il pigro conformismo. Come il riso di Abramo e Sara. Quando increduli e stupiti ascoltano l'annuncio che avranno un figlio. Abramo, vecchio di cent'anni. E Sara, novantenne da sempre sterile. Chiameranno, poi, Isacco il loro figlio. Che in ebraico vuol dire «colui che riderà». Oltre a demolire il pregiudizio della «sterilità senile» che ha disimparato a pensare l'impossibile - dice Moni Ovadia - l'umorismo possiede anche una funzione anti-idolatrica. Attraverso la quale, se non proprio sconfiggere, possiamo perlomeno demistificare la vocazione del potere. Che è quella di «tenere gli uomini in soggezione». Con il terrore, spesso. Ma anche con le perfide seduzioni. È con il riso che possiamo difendere Dio dalle ricorrenti idolatrie. Che nel corso della storia, assumendo talvolta il volto rassicurante dell'ortodossia, hanno utilizzato il divino per scopi fin troppo mondani. Per puri fini di potere. Anche politico. Gott mit uns, era la blasfema e idolatrica scritta che Hitler fece imprimere sulla bandiera del Terzo Reich. Difendere Dio dalle idolatrie. Senza la tentazione di sostituirsi a lui. Senza il rischio idolatrico di ergersi a «crociati di Dio». Non si tratta - osserva Moni Ovadia - di sostituirsi diabolicamente a Dio. Ma di emularlo nella nostra quotidiana esistenza.

in “l'Unità” del 23 gennaio 2010

«Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra» (Is 2, 4). Sì, forgeremo le nostre spade in vomeri e le lance in falci. Sogni? Sì, sogni, ma che fanno vivere, che ci danno coraggio, che ci tirano fuori dal nostro dubbio esistenziale che è il nostro vero peccato e ci propongono un mondo diverso, un mondo che è dentro di noi e che se dipendesse da noi realizzeremmo subito subito. Chi ci dice che colui che ha «creato i cieli e la terra» (Sal 134, 3) non abbia le stesse idee, gli stessi desideri nostri? E chi ci dice che non sia proprio Lui a incidere il sogno del nostro cuore, a suggerircelo, a dirci di camminare in modo da realizzarlo veramente, a dirci che ce la faremo... che verrà un tempo. Sì, verrà....

Il sogno messianico è un annuncio fra cielo e terra, è un ponte fra due rive, un albero sul tuo sentiero assoluto. L'ispirazione viene da lontano, ma sei tu che lo vivi. Ti è dato da un annuncio, ma tocca a te pensarlo; viene dall'altra sponda, ma lo realizzi sulla tua sponda. Io credo che sia il modo con cui Dio ci chiama, ci educa, ci abitua al suo modo di pensare. Ascoltando, camminando, fermandoti, il sogno si fa più preciso in te.

fr. Carlo Carretto, Ogni giorno, 3 gennaio




Maria passò nove mesi portando in sé Gesù. Gesù era in lei... e lei cosa faceva?

Lavava, spazzava, puliva e amava realmente Gesù che cresceva in lei.

Io devo fare lo stesso!



Madre Teresa di Calcutta








CapaRezza - Limiti

Album: Verità supposte (2003)

Stamattina mischio l'Orzoro con l'Ovomaltina e me la bevo amaro come il Petrus, indeciso se indossare un jeans Pooh o un jeans Jesus, metto un Wrangler, poi leggo i Peanuts di Linus, esco con calma, pago lo Zagor con la moneta romana dell'Ergo Spalma; come Fred vado dalla mia Wilma, la sogno su di un amaca all'ombra di una palma. La mia macchina? 131 Supermirafiori. Nello stereo: "Un corpo e un anima" di Wess e Dori Ghezzi. In giro vedessi che prezzi, mamma santa, un Dalek a lire 150. Ho un Settebello nei miei panta a zampa anni '70 e tanta voglia di metterla a novanta, questa vita molto bassa passa, e guai a chi non se la spassa mai. Mai, mai e poi mai riproverò questi brividi, mai e poi mai riproverò cose simili. Mai e poi mai le elimini, aiuto, sto diventando come Limiti! Sarà il cavallo che solletica il fringuello, saranno certe foto sul Monello che mi fanno Intrepido, mi sento fico quando faccio centro, amore ti ho portato il Rosso Antico, diamoci dentro! Che più si aspetta più i tempi si fanno cupi. Rimpiango Sandokan sul Cinevisor Mupi, i lupi di Fabuland, i Lego, i Trasferelli, le scatole di Silvan e di Tony Binarelli; Bontempi quelli degli organetti che soffiavano motivi validi, Adica pongo che si fanno morbidi tra le mie mani, richiami così vicini da non apparire più lontani, in una spirale verso il disastro, una Girella nella bocca del Golosastro, uno strazio, Topo Ignazio buttami un mattone sulla testa che questa nostalgia non passa mai. Mai, mai e poi mai riproverò questi brividi, mai e poi mai riproverò cose simili. Mai e poi mai le elimini, aiuto, sto diventando come Limiti! Va bene, ora c'è l'Eurostar ma prima c'era il Lima, amavo gustarmelo in vetrina, shokkato, la stessa che una volta ho appannato col fiato quando hanno esposto il calcio-balilla calamitato. Erano gli anni dell'acciaio Inox, ogni bambino sullo spazzolino aveva il Paperino's. Chi non sa cos'è ne resta fuori, chi non sa che Ariel "fredda lo sporco e accarezza i colori" non capisce, che siamo peggiorati tanto che te ne vergogni, che Migliorati sono solo "bambole dei sogni", che muori per trattori ed animali, che il Dolce Forno può fare pure le torte nuziali. Ridi pure ma la situazione è tragica per chi è convinto che la maglieria sia magica, nessuna logica mi salva, sai,sono un fottuto nostalgico, non mi riprenderò mai. Mai, mai e poi mai riproverò questi brividi, mai e poi mai riproverò cose simili. Mai e poi mai le elimini, aiuto, sto diventando come Limiti!


Corpo e spirito: un decalogo per guarire le ferite

di Jean Vanier

Tutto il percorso della maturazione umana consiste nell'imparare a lasciare che la luce penetri più in profondità nelle tenebre, nel permettere alla fiducia e all'amore di vincere le paure, i pregiudizi e l'odio, nel trovare la forza interiore di vivere e di accettare la nostra storia reale, con tutte le ferite che si porta dietro, senza fuggire in un mondo di illusioni e di sogni. In ciascuno di noi, anche se non vogliamo riconoscerlo, c'è un mondo segreto e nascosto, pronto a manifestarsi con più o meno forza in termini di tristezza e depressione. Questi pensieri negativi, che arrivano a volte fino al desiderio di scomparire, di morire, acquistano una violenza travolgente quando ci si trova in presenza di altre persone che sembrano avanzare gioiosamente sulle vie della vita.

La parola «depressione» fa paura, non si osa pronunciarla. Allora si pensa: «Sono diverso dagli altri, sono brutto, porto il male dentro di me». Come aiutare chi vive questa sofferenza in modo più o meno acuto a scoprire che si tratta in realtà di un fenomeno naturale? Sono in molti quelli che a un certo punto, spesso in seguito a un momento doloroso della vita, a un fallimento o a un lutto, vengono invasi da questa profonda tristezza che emerge alla superficie della coscienza. Dunque non è una malattia di cui vergognarsi, da nascondere a se stessi e agli altri. Abbiamo il diritto di essere così, fa parte del nostro essere e della nostra storia.

Ma ci sono ugualmente alcune cose da fare
. Non è il caso di lasciarsi sprofondare in questa tristezza mortifera, si può reagire, ritrovare la vita. Bisogna imparare a gestire bene questi sentimenti che risalgono alla superficie della coscienza, a non diventarne schiavi e, a poco a poco, a liberarsene. Dunque cosa bisogna fare quando si viene invasi da questa profonda angoscia o dai pensieri negativi?

La prima cosa da fare è parlarne a qualcuno che possa comprenderci. La parola è comunicazione, è comunione. Implica che si abbia fiducia in un altro essere umano, o che questa fiducia stia nascendo. A volte accanto a noi ci sono persone di fiducia che non ci giudicano, che non drammatizzano e non prendono neanche le cose troppo alla leggera, persone che hanno abbastanza tempo e disponibilità interiore per ascoltarci: medici di famiglia, preti, persone più anziane e in pensione, membri della nostra famiglia, che avendo esperienza possono in certi casi aiutarci semplicemente ascoltandoci, prendendoci per mano, dandoci fiducia e offrendoci consigli saggi e pratici.

È importante anche capire se è necessario un supporto medico. Infatti bisogna distinguere la tristezza, la depressione che si può vivere e superare con una leggera azione di sostegno e una certa lotta interiore, dalla tristezza o dalla depressione che non si possono vincere senza l'aiuto di un medico. Esiste una forma di depressione patologica che progressivamente diventa chiusura totale: la persona in quel momento è incapace di comunicare, rinchiusa in una prigione terribile di pensieri cupi. Per discendere in queste tenebre bisogna essere accompagnati da una persona competente. Con la nostra intelligenza e il nostro cuore, e soprattutto con un aiuto, possiamo proiettare un po' di luce nelle tenebre. Ma bisogna affrontarle con pace e fiducia; direi quasi: avviare un dialogo. Se continuiamo a rifuggire i mostri che ci portiamo dentro, questi crescono e assumono proporzioni enormi. Ma se ci fermiamo per guardarli in faccia senza paura, per affrontarli, indietreggiano, si ridimensionano e assumono le loro vere proporzioni. Allora non permettiamo più che a governarci siano loro, e neanche la paura che ci incutono. Solo in questa apertura alla verità e alla luce che a poco a poco scopriremo il mistero nascosto del nostro essere e cosa voglia dire «far parte dell'universo».

Se cerchiamo in tutte le cose la luce e l'amore, la comunione e la comprensione, smetteremo di condannare noi stessi, saremo persone libere. La depressione non avrà più potere su di noi. Potremo occupare il posto che ci spetta in questo universo, e forse solo allora intuiremo qualcosa del cuore di colui che è all'origine di un universo così bello e della bellezza che è in noi. Nel silenzio della pace, egli sussurrerà: «Tu sei unico ai miei occhi e io ti amo». Ci introdurrà nella comunione con lui, cioè nella preghiera, comunione che è perdono e vita.

Evidentemente ciò non risolve tutti i nostri problemi. Restano in noi delle ferite. Ma queste ferite non sono una punizione che manifesta una colpevolezza, i nostri errori, il male che è in noi. No, queste ferite sono il prodotto di altre ferite, che a loro volta sono il prodotto di altre ferite ancora. E le ferite noi le possiamo gestire e utilizzare per vivere nella verità. Non nasconderle, e neanche metterle in mostra, ma scoprire che ci aiutano a vivere nell'umiltà e nella verità, che attraverso di esse Dio si manifesta e si dona. Il periodo della depressione è doloroso, ma, allo stesso tempo, è una crisi che può apportare una grande liberazione, se si scopre come viverla, come camminare verso la guarigione e come uscirne.

La depressione, così come l'abbiamo descritta, è il riaffiorare alla coscienza di sofferenze nascoste; sofferenze che hanno origine nella prima infanzia. Queste sofferenze profonde governano di fatto molti dei nostri atteggiamenti, anche se non ne siamo coscienti. Ci impediscono di essere liberi. Sono come un peso sul cuore, come un'infezione nel sangue. Poi, a un certo punto, divengono visibili e coscienti, terribilmente coscienti. È come se l'infezione si sfogasse in un ascesso. È allora che si può riconoscere il male, scoprirne l'origine, ed è a questo punto che ci si può liberare di quel male occulto. Per questo motivo la depressione, nel momento in cui esce allo scoperto, può divenire dono e condurci verso un'autentica e profonda liberazione del cuore. Ci obbliga a fermarci, a guardare in faccia le cose e gli eventi essenziali della nostra vita e della vita.


in “Avvenire” del 31 gennaio 2010

Nessuno mai vide Dio (1Gv 4,12). Dio è invisibile; non bisogna cercarlo con gli occhi ma col cuore. Se volessimo vedere il sole, toglieremmo gli impedimenti agli occhi del corpo, per poter vedere la luce; così se vogliamo vedere Dio, purghiamo quell'occhio con cui Dio può essere visto.

Dove si trova questo occhio? Ascolta il Vangelo: Beati i mondi di cuore, perché essi vedranno Dio (Mt 5,8). Nessuno si faccia un'idea di Dio seguendo il giudizio degli occhi. Costui si farebbe l'idea di una forma immensa oppure prolungherebbe negli spazi una grandezza immensurabile, come questa luce che colpisce i nostri occhi e che egli stende all'infinito quanto può; oppure si farebbe di Dio l'idea di un vecchio dall'aspetto venerando. Non devi avere pensieri di questo genere.

Se vuoi vedere Dio, hai a disposizione l'idea giusta: Dio è amore. Quale volto ha l'amore? Quale forma, quale statura, quali piedi, quali mani? nessuno lo può dire. Esso tuttavia ha i piedi, che conducono alla Chiesa; ha le mani, che donano ai poveri; ha gli occhi, coi quali si viene a conoscere colui che è nel bisogno; dice il salmo: Beato colui che pensa al povero ed all'indigente (Sal 40, 2). La carità ha orecchi e ne parla il Signore: Colui che ha orecchi da intendere, intenda (Lc 8, 8).

Queste varie membra non si trovano separate in luoghi diversi, ma chi ha la carità vede con la mente il tutto e allo stesso tempo. Tu dunque abita nella carità ed essa abiterà in te; resta in essa ed essa resterà in te. E' mai possibile, o fratelli, che uno ami ciò che non vede?

Perché allora, quando si fa la lode della carità, vi sollevate in piedi, acclamate, date lodi? Che cosa vi ho mostrato? Vi ho forse mostrato alcuni colori? Vi ho messo innanzi oro e argento? Vi ho sottoposto delle gemme tolte da un tesoro? Che cosa di grande ho mostrato ai vostri occhi? Forse che il mio volto nel parlarvi si è mutato? Io sono qui in carne ed ossa, sono qui nella stessa forma in cui ho fatto il mio ingresso; anche voi siete qui nella stessa forma in cui siete venuti. Ma si fa la lode della carità e uscite in acclamazioni. Certamente i vostri occhi non vedono nulla. Ma come essa vi piace quando la lodate, così vi piaccia di conservarla nel cuore.

Capite, o fratelli, ciò che voglio dire: io vi esorto, per quanto il Signore lo concede, a procurarvi un grande tesoro. Se si mostrasse a voi un vaso d'oro cesellato, indorato, fatto con arte, ed esso attraesse i vostri occhi e attirasse a sé la brama del vostro cuore, e la mano dell'artista vi piacesse così come il peso della materia e lo splendore del metallo, forse che ciascuno di voi non direbbe: "Oh, se avessi quel vaso"? Ma lo avreste detto inutilmente, poiché non era in vostro potere averlo. Oppure, se uno volesse averlo, penserebbe di rubarlo dalla casa di un altro. A voi vien fatto l'elogio della carità; se essa vi piace, abbiatela, possedetela; non è necessario che facciate un furto a qualcuno, non è necessario che pensiate di comprarla. Essa è gratuita. Tenetela, abbracciatela: niente è più dolce di essa. Se di tal pregio essa è quando viene presentata a voce, quale sarà il suo pregio quando è posseduta?


Agostino, 1a Lett. Giovanni 7, 10

6 febbraio: Giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili

Qui trovi un sito che descrive la situazione.

Qui invece il link alle pagine dell'Organizzazione mondiale della Sanità.

Cerchiamo di scalfire l'ignoranza attorno al valore della donna e della sessualità.






Vasco Rossi - Una canzone per te

Una canzone per te / non te l'aspettavi eh!

invece eccola qua / come mi è venuta e chi lo sa

le mie canzoni nascono da sole / vengono fuori già con le parole

Una canzone per te / e non ci credi eh!

sorridi e abbassi gli occhi / un istante

e dici "non credo di essere / così importante"

ma dici una bugia / e infatti scappi via

Una canzone per te / come non è vero sei te!

ma tu non ti ci riconosci neanche

lei è troppo chiara / e tu sei già troppo grande

e io continuo a parlare di te / ma chissà pure perché

Ma le canzoni / son come i fiori

nascon da sole / e sono come i sogni

e a noi non resta / che scriverle in fretta

perché poi svaniscono / e non si ricordano più

Vediamo adesso alcuni passaggi caratteristici della conoscenza di Dio. Prendiamo l'esempio classico di Mosè nel deserto davanti al roveto ardente. Mosè si trova di fronte all'ultimo mistero della vita. Mosè camminava nel deserto, rifletteva e tornava continuamente davanti al mistero, negli abissi dove l'uomo è attaccato alla vita.

E la reazione di Mosè davanti al roveto che brucia ma non si consuma è quella classica, convenzionale, quella cioè dei raziocinio che si alza sopra le altre dimensioni dell'uomo: incuriosito, Mosè vuole andare a vedere di che cosa si tratta. Ecco l'atteggiamento della ragione analitica protesa al dominio Infatti, tutto ciò che si capisce si può dominare. C'è in noi questa pericolosa attitudine del raziocinio non purificato di smontare, di smembrare, di isolare per spiegare. Mosè di fatto si sta avvicinando al mistero con tale atteggiamento.

Ma a questo punto si fa sentire il Signore. Pensiamo al rischio che avrebbe corso Mosè se Dio non si fosse fatto sentire. Sarebbe andato a vedere, avrebbe visto qualcosa e ne avrebbe dato una spiegazione pensando di aver capito, ma sarebbe rimasto nell'ignoranza e - soprattutto - nella solitudine. Avrebbe avuto, sì, alcune nozioni in più, si sarebbe fatto un'idea di quello che vedeva davanti ai suoi occhi, si sarebbe dato una spiegazione, ma sarebbe rimasto solo. Le spiegazioni, le idee che ci si fanno, non sono il luogo in cui Dio si fa ospite, si rende presente.

Dio dal roveto dice praticamente a Mosè che, si, può avvicinarsi, ma non al modo in cui Mosè pensa. Deve avvicinarsi tenendo conto di colui che è nel roveto. È la necessità della purificazione del raziocinio. Il raziocinio deve rientrare nell'intelletto, nel cuore, per poter riconoscere l'altro e tenerne conto. Infatti, tutto in Mosè acquista  i tratti del rispetto tipico del riconoscimento dell'altro, a tal punto che questo atteggiamento si "fisicizza" in gesti concreti. Si toglie i sandali, perché ormai è conscio che non si tratta solo di un roveto che brucia, ma che è come se si trovasse nella dimora di Dio. Addirittura la terra è santa, è piena della presenza di colui che paria. Non solo: tutte le generazioni precedenti a Mosè - da Isacco, Giacobbe, fino ad Abramo - sono lì presenti. Mosè si trova avvolto in un rispetto immenso per la terra e per la storia. Si percepisce come parte della terra e della discendenza.

Ecco una straordinaria visione dell'insieme, della comunitarietà. Ed ecco anche la percezione di sé come non in grado di conoscere, da cui il bisogno di velarsi il volto. Vediamo come il raziocinio debba purificarsi, rientrando nell'insieme della persona, perché tutto in Mosè partecipi a questa rivelazione. Non è Mosè che conosce Dio, ma è Mosè che, purificandosi e soprattutto calando il raziocinio nel cuore, si dispone a quel rispetto tipico del riconoscimento radicale che gii permetterà di accogliere la rivelazione di Dio. Non si può conoscere Dio senza Dio.

Mosè inizia, sì, quasi come se Dio non ci fosse, o come se fosse un oggetto a disposizione della curiosità umana, ma entra nella conoscenza quando fa dei gesti concreti di riconoscimento del Signore.


M.I. Rupnik, Dire l'uomo I, 124-126

“Media education”, una risorsa da promuovere

di Gianluca Bernardini

“Benedetti e maledetti media”: questo potrebbe essere lo slogan o il grido di allarme per la nostra società sempre più pervasa dalla loro presenza di massa. A secondo della prospettiva da cui si guarda, possono essere una maledizione, ma anche diventare una benedizione. Viviamo e respiriamo in quest'aria mediatica e non possiamo privarcene. Per questo sempre più, come Chiesa e comunità cristiane, c'è la necessità di riflettere e di agire per non rischiare di restare fuori sia nel campo della comunicazione, sia della nuova evangelizzazione, nonché primariamente dell'educazione.

Per questo venerdì 22 gennaio a Milano si sono riuniti gli Uffici diocesani lombardi delle Comunicazioni sociali insieme ai tanti operatori che lavorano in diversi ambiti pastorali (catechesi, famiglia, scuola, oratorio) per una giornata studio sulla Media Education. Diretti e coordinati da Pier Cesare Rivoltella, docente dell'Università cattolica, insieme a un gruppo di esperti del Cremit (Centro di ricerca sull'educazione ai media, all'informazione e alla tecnologia), è emerso che la Media Education non riguarda più il solo mondo della scuola, ma coinvolge pienamente l'extrascolastico.

A fronte di una conclamata “realtà virtuale”, che di fatto non esiste, si deve piuttosto parlare di “realtà aumentata” che si prolunga nella tecnologia; una tecnologia portatile, presente e invisibile, che coinvolge la gran parte dei ragazzi (nativi digitali). I nuovi media (come il cellulare e gli applicativi dei Social Network) stanno spostando il baricentro delle pratiche individuali e sociali verso l'informale. Proprio qui l'intervento pastorale può (o deve) inserirsi in termini educativi ed evangelici. Là dove la scuola sembra accusare “un ritardo” e la famiglia “un disagio”, lì si inserisce l'opera dell'educatore preparato.

Così il compito della Media Education diventa non solo risorsa, ma impegno morale: dal “fare i media” (giornale on line dell'oratorio, il blog, il canale Youtube o la Web-radio) si passa a “fare con i media” (il podcasting per la catechesi, Sms e Twitter per la comunicazione, Facebook per l'aggregazione e il gruppo, lo streaming per la comunicazione liturgica) per poi “riflettere sui media”: quale volto e quale identità in Facebook? Quale verità nella rete? Quali possibilità di promozione dell'uomo? Quale idea del bene e del male? Quale spiritualità?

Proposte ed esperienze, in parte attuate, che già insegnano, ma che chiedono la possibilità di mettersi in rete per creare uno stile operativo sempre più comune. A che punto siamo? Forse alla tanto declamata urgenza manca ancora la pronta volontà per agire soprattutto nella prospettiva di una seria formazione, non solo degli operatori pastorali, ma anche dei singoli presbiteri, a partire dai seminari. Siamo perciò chiamati a diventare da partecipanti a “partecip-attivi”, da spettatori a “spett-autori”.
Nel vangelo della Messa di ieri è ritornata questa espressione: guardando la folla che lo segue e lo ascolta, Gesù «si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore» (Mc 6,34). Ogni volta che questa parola risuona - anche ieri, in più occasioni - essa mi colpisce e mi interpella, perché credo che anche oggi Gesù, guardando coloro che lo seguono e gli stanno vicino, possa avere la stessa percezione e vivere lo stesso moto interiore.


don Chisciotte




Attraverso il germogliare dei corpi avviene il germogliare del Paraclito, all'opera nell'unione degli amanti e nella fioritura seminale. La genitalità genera la carne, il che significa che è lo strumento dello Spirito: portata da lui, lo porta, trasformando in pneumatofori l'uomo e la donna uniti nell'amplesso.

Siamo in piena Genesi: si produce una vasta ondata d'energia, un fantastico ringiovanimento dell'essere. E' come se avvenisse una nuova partenza: l'essere di prima non è soppresso, nasce una seconda volta, riparte con una gloria rinnovata. Sgorgato da non si sa dove, un enorme flusso di sostanza investe i giovani, li riplasma da cima a fondo. Si sentono totalmente ricreati, ma sono anche totalmente ricreatori, dispensatori non meno che beneficiari di questa grazia sovrana. Il potere onnipotente che li assale conferisce loro ogni potere di assalire, e questo in un clima indimenticabile di dolcezza, di tenerezza e di umiltà. La sessualità è un'invenzione divina per incarnare l'amore, per suscitare nel più profondo della creatura le condizioni per il dono creatore.

Per amare bisogna essere due e non più di due: ci si presta a molti, ci si dona solo a un altro. Da questi due sorge non un terzo, ma l'autentico uno: quello che non fa numero perché è l'altro assoluto. L'altro relativo, il compagno, estrae ogni essere da lui stesso: provocando l'uscita dall'io, realizza la disappropriazione della persona. Ci si dimentica nell'altro e ci si dimentica insieme, il che evita l'incrociarsi di due egoismi nella scorciatoia di un falso spossessamento. Viene a instaurarsi una nuova condizione in cui si vive nell'altro, e grazie all'altro, senza essergli asservito perché l'altro, a sua volta, rifiuta di vivere in sé e per sé e, quindi, di asservire. Utilizza il dono non per rafforzarsi, bensì per donarsi ancor di più. L'offerta nutre l'offerta in una crescente apertura. Tra i due poli sviluppa una tensione oblativa, una circolazione di abbondanza, una corrente di dedizione. I due giovani si insegnano reciprocamente che non sono nulla e che, confessando questo nulla, accedono all'essere. “La vita autentica è altrove - confessa ciascuno dei due - e tu sei questo altrove in cui trovo la mia origine. Tu sei la mia anima, tu mi fai vivere(nella Newsletter di oggi e tra i nostri Testi trovi altre citazioni del libro).


Jean Bastaire, Eros redento, 50ss.

Pene sociali per svuotare le celle

di don Gino Rigoldi


Caro Direttore, lo stato d'emergenza delle carceri e l'iniziativa del ministro Alfano (nuovi penitenziari e più agenti) seguono la denuncia del cardinale di Milano Tettamanzi sull'intollerabile situazione di affollamento nel carcere di San Vittore. Qui il Comune ha destinato finanziamenti e dato priorità alla costruzione di un nuovo carcere in periferia: è una buona scelta, ma non è certo la soluzione dei problemi del sovraffollamento attuale, anche perché il piano, a essere ottimisti, vedrà attuazione tra non meno di 5-10 anni. Ci sono altre soluzioni possibili e conosciute al problema del sovraffollamento. Mercoledì, nella sezione «comuni» di un carcere di massima sicurezza, ho incontrato un uomo di circa trentacinque anni il quale stava scontando una pena di due anni e alcuni mesi perché in maniera recidiva (non so se due o tre volte) aveva rubato la sua spesa di uova, mozzarelle e busta di prosciutto in un supermercato. Al carcere minorile Beccaria ho visto restare in carcere per più di tre mesi un ragazzo rom per furto di un paio di scarpe e due fratelli italiani essere carcerati per circa sei mesi perché, quattro anni prima, all'età di poco più di 14 anni, avevano tentato il furto di una bicicletta. Va da sé che dopo i sei mesi i due ragazzi avevano perso il lavoro, vissuto la loro povertà in maniera molto depressiva e alla fine avevano imparato mille modi per far soldi. Questi due non sono episodi isolati: potrei citare centinaia di casi simili, come ripete spesso il provveditore lombardo delle carceri Pagano. La soluzione alternativa, attuale, che da subito potrà ridurre il numero di detenuti si chiama «possibilità di comminare pene sociali, di risarcimento e di servizio alla comunità». In sintesi: i reati gravi come gli stupri, le rapine, lo spaccio, gli omicidi continuano con il regime attuale di pena, mentre i furtarelli di primo reato, i piccoli tentati furti e tutti i reati minori potrebbero essere puniti con pena di utilità sociale. Per fare un esempio il ladruncolo del supermercato potrebbe essere «condannato» a pulire per due o tre mesi il piazzale del supermercato; i Comuni potrebbero stilare un elenco di luoghi bisognosi di pulizia o di interventi di ripristino e chi commette piccoli reati «condannato» a lavorare per la comunità in un tempo proporzionato al reato. In Parlamento esiste già una legge che prevede le pene sociali alternative alla carcerazione, misura simile alla «messa alla prova» prevista per i minori ai quali, se rispettano alcune regole che decide il tribunale, alla fine del tempo previsto si cancella il reato. Ci sono molti professionisti del legale e del sociale che potrebbero affiancare i giudici togati in qualità di giudici onorari per definire il tipo di compito risarcitorio da prescrivere. Il Privato sociale e i numerosi volontari carcerari potranno essere una grande forza di appoggio, alcune fondazioni e aziende private sono disponibili a finanziare una sperimentazione di questo genere, a partire per esempio da Milano e da Roma. Mi rendo conto che una scelta del genere, per essere in linea con la Costituzione e le leggi italiane, ha bisogno di approfondimenti in varie direzioni ma non ho dubbio che, se c'è la volontà, è possibile fare anche in Italia quello che già succede con buoni frutti in diverse altre nazioni. Una volta esclusa la possibilità di amnistia o di indulto, verificati i tempi pluriennali prima che un qualunque «piano carceri» possa portare risposta, si può da subito operare perché il carcere infine diventi un luogo di riabilitazione come recita la Costituzione e sia destinato solo ai veri delinquenti e non
Quella settimana in discesa libera

«Basta con la chiusura delle scuole a Carnevale». Lo chiedono sui blog genitori esasperati

Sembrava un diritto acquisito: a Carnevale si va a sciare, e il mondo - o meglio la scuola - si ferma. Invece no. I nemici della settimana bianca avanzano. La protesta monta nei blog, nei passaparola tra genitori. Una madre stremata si confida sul sito genitoriche.org: «Dove metto il bambino a Carnevale? La nonna è in crociera, la tata è incinta, il papà si è defilato». Un'altra, stesso sito, protesta: «Non posso chiedere ferie subito dopo Natale». Arrabbiatissima Cristina Ruscito, una delle fondatrici del sito: «Ma che razza di scuola pubblica è quella che chiude per permettere a pochi di andare in montagna?». Un altro genitore, ancora, rimpiange il tempo andato, «quando il ministero decideva tutto. Almeno ci si capirebbe qualcosa, ora il caos è totale». Alt, ragioniamo. Una volta il calendario scolastico era nazionale e la settimana bianca una scelta personale; qualche volta si rischiava la lavata di capo dei professori. Da dieci anni però c'è l'autonomia, e ognuno fa da sé. «Per legge devono esserci almeno 200 giorni di lezioni all'anno», spiega Orazio Niceforo della rivista Tuttoscuola. «Le regioni stabiliscono il calendario, che ne prevede 205-210. Poi ogni scuola fa “adattamenti”, con aperture e chiusure straordinarie decise dal Consiglio d'istituto». Così, in nome della flessibilità, chi ha più figli in plessi diversi può trovarsi con calendari diversi. Altro che semplificazione.

Per sopravvivere serve una «elasti-mamma», come si definisce Claudia De Lillo, giornalista finanziaria e autrice del libro Nonsolomamma (Tea): «Tutti sono liberi di andare a sciare. Ma alle madri lavoratrici chi ci pensa? Oltre alle scuole, poi, si fermano in contemporanea anche piscine e palestre. Per noi diventa più complicato organizzarsi». La “guerra” della settimana bianca divide l'Italia; molto sentita al nord, per niente al sud. Non solo: chiudono per neve (quella delle località sciistiche) soprattutto gli istituti dei centri cittadini; quelli in periferia meno. A Milano, lo spezzatino è la regola: nello stesso quartiere (benestan te), le due medie limitrofe Mauri e Porta hanno fatto scelte diverse per Carnevale; una chiude da lunedì a venerdì, l'altra due giorni. Giovanna Croci, preside della media Iqbal Masih, più in periferia, è perplessa: «Gli studenti sono appena tornati dalla lunga pausa di Natale; devono riposarsi ancora? Lo so, è un dilemma da ricchi: nella mia zona pochi vanno a sciare». Le scuole che si fermano, va detto, si giustificano con la didattica: concentrare in una settimana le partenze aiuta a non avere lo stillicidio dei banchi vuoti per due mesi. Ma c'è anche un altro motivo: «Quando chiudevamo solo tre giorni per Carnevale, qualche imbecille ne approfittava per scatenarsi con lanci di uova e farina» ricorda Innocente Pessina, preside del classico Berchet. «Così abbiamo scelto di fermarci una settimana. Siamo in centro, molti possono permetterselo». Mentre Milano si divide, le proteste iniziano a farsi sentire anche dove nessuno se l'aspetta: nelle località alpine. E costringono alcune regioni, pronte a istituire per legge la settimana bianca, a un'improvvisa retromarcia. È quanto succede in Friuli, che fino a qualche giorno fa sembrava varasse la vacanza obbligatoria. Ora la situazione è più sfumata.

L'assessore all'Istruzione, Roberto Molinaro, misura le parole quando dice che «ci sono perplessità, la decisione sarà presa a maggio. In ogni caso non costringeremo le scuole a chiudere». Sul portale dell'Istruzione in Trentino, vivoscuola.it, si è appena chiuso un forum che ha dato risultati imprevedibili. Tra i tanti che hanno scritto proponendo di cambiare il calendario scolastico, pochi erano interessati allo stop a metà inverno. Questa pausa non interessa nemmeno gli albergatori, in teoria i più favorevoli: loro vorrebbero invece un break a novembre, in bassa stagione, per andare in vacanza con i figli. In Veneto, l'assessore all'Istruzione Elena Donazzan sognava «piccole sospensioni di un paio di giorni ogni mese e mezzo, con uno stop più lungo per il Carnevale e il Mercoledì delle ceneri». Il tutto per «valorizzare le festività delle nostre tradizioni cristiane con l'obiettivo di adeguarsi al modello tedesco: vacanze estive corte, lunghe pause intermedie». Invece, anche qui la settimana bianca è finita ko: «Sono stata sconfitta dal partito delle mamme, contrarie al cambiamento, come gli insegnanti». A sorpresa, la chiusura delle scuole per settimana bianca non entusiasma nemmeno Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi-Confturismo, ovvero di quel settore che proprio dalla vacanza invernale dovrebbe trarre vantaggio. «Con i “ponti” e i weekend gli italiani restano nel nostro paese, con interruzioni più estese vanno all'estero. Quindi no a lunghi stop, sì a piccoli break». Nella guerra dei calendari, una proposta arriva dalla media Winckelmann, a Roma, che organizza la settimana bianca sull'Appennino. Per chi non parte, l'istituto resta aperto. Magari gli studenti in classe non sono tanti, ma almeno non si sentono soli.


Cristina Lacava




Le provocazioni, la contestazione, le invettive, le polemiche, le prese di posizione "scandalose", gli atteggiamenti critici di padre Turoldo, disturbatore della pubblica quiete, hanno punteggiato per oltre quarantanni la cronaca ecclesiale. E rischiano perfino di diventare un cliché abusato.

Quello che occorre invece accertare è il movente dei delitti di "lesa quiete" commessi da p. David. Alla base dei suoi gesti provocatori, insolenti, si scopre una divorante, fiammeggiante passione. Turoldo è un innamorato. Un innamorato ferito, deluso, e perciò autorizzato a urlare, a denunciare con foga i tradimenti, a smascherare impietosamente le menzogne.

«Parlo perché amo, e taccio perché amo» si giustificava don Mazzolari nel momento più buio della persecuzione che si era abbattuta su di lui. Turoldo, proprio perché ama, non ce la fa a tacere, tantomeno a sussurrare. Riesce solo a parlare, anzi a gridare, perfino a ruggire.

Ma le sue critiche - e non sempre, dobbiamo riconoscere, il bersaglio era quello giusto; oppure i bersagli presi di mira erano un po' troppo insistiti, e quindi sospetti, inevitabilmente parziali
Il libro di Vladimiro Polchi,

Blacks out. 20 marzo, ore 00.01. Un giorno senza immigrati.

20 marzo 2010. Ore 00.01. È il caos, anzi la paralisi. I cantieri edili si fermano di colpo. Chiudono le fabbriche. L'industria manifatturiera spegne le macchine. Vuoti i mercati ortofrutticoli. Restano abbandonati i grandi campi di pomodori in Puglia. Nelle grandi città, la metà dei muratori parla romeno. In Abruzzo, il 90 per cento dei pastori è macedone. In Val d'Aosta, a fare la fontina sono i migranti: nei trecento alpeggi della regione, gli italiani sono meno del 10 per cento. In Emilia Romagna, tra gli addetti al Parmigiano Reggiano, uno su tre è indiano. I lavoratori stranieri sono decisivi nella produzione del prosciutto di Parma, della mozzarella di bufala a Caserta, del Brunello di Montalcino e dei vini doc nella provincia di Cuneo. E ancora: chiudono ristoranti, alberghi e pizzerie. Tra le famiglie si scatena il panico: scompaiono badanti, colf e babysitter. È boom di ricoveri d'anziani e disabili negli ospedali. La sanità è in tilt: quella privata, dove lavorano quasi centomila infermieri stranieri, e quella pubblica, che si avvale del loro lavoro tramite cooperative e piccole società di servizi. Si fermano i campionati di calcio, basket e pallavolo. Molte parrocchie restano senza prete. Tremano le casse dell'lnps. Quale catastrofe si è abbattuta sull'Italia? Nessuno se la aspettava. Eppure, quei manifesti erano apparsi ovunque. "Blacks Out. 20 marzo, ore 00.01". Di colpo erano scomparsi. Tutti.

Questo libro è una via di mezzo tra un romanzo, frutto della fantasia dell'autore, e un saggio. In gergo televisivo sarebbe una docu-fiction, un continuo alternarsi di finzione e realtà. Vladimiro Polchi, giornalista, autore televisivo e teatrale, specializzato sui temi dell'immigrazione e della sicurezza, ha immaginato la cronaca di una giornata particolare, raccontando lo sciopero degli immigrati, di tutti quei lavoratori stranieri che tengono in piedi l'Italia. La finzione è lo scheletro di questo libro, la realtà sono i muscoli e i nervi, che danno corpo al testo: le storie degli immigrati, le interviste, le inchieste , i dati statistici.

L'avvincente narrazione di questo 20 marzo 2010 comincia con il risveglio di un cronista, Valentino, che si ritrova con la casa nel caos perché Mary, la collaboratrice domestica filippina che lo sveglia sempre alle otto con i cornetti caldi, quel giorno non arriva. Il protagonista si reca subito al bar sotto casa, e scopre che brioche e latte fresco quel giorno non sono stati consegnati. Dall'edicolante i giornali non sono arrivati, il quartiere pare assonnato, alcune pizzerie a taglio sono chiuse, la saracinesca del fruttivendolo gestito dai fratelli pakistani è abbassata. Così anche la pompa di benzina della Erg, sotto la redazione, è chiusa: nessuna tracccia del ragazzo indiano che da qualche mese ci lavorava. Il giornalista si reca subito al giornale per cui scrive per capire cosa stia accadendo. Due notizie d'agenzia cominciano a far capire qualcosa: “Confindustria Veneto: 60% delle fabbriche ferme”, batte l'Ansa alle 9.40 e l'Agi aggiunge “Veneto, allarme degli industriali: ferme sei imprese su dieci”. Pare che tutti i lavoratori non italiani non si siano presentati al lavoro.

Il racconto su questo ipotetico sciopero nazionale di tutti gli immigrati con lo slogan Blacks out si snoda analizzando la giornata del protagonista e di altri personaggi, suoi colleghi, familiari e conoscenti del quartiere. I dati e le cifre che vengono esposti sono tutti veri. Scopriamo così che il primo settore ad arrestarsi sarebbe quello delle costruzioni, soprattutto nelle grandi città, dove la manodopera straniera è il 50%. Poi, scrive Polchi, toccherebbe all'industria manifatturiera, tessile, metalmeccanica, alimentare, dove hanno un ruolo chiave spesso insostituibile (come gli addetti ai forni a ciclo continuo delle ceramiche). Quindi toccherebbe all'agricoltura, per la raccolta della frutta e dei pomodori, e alla macellazione degli animali, tanto che comincerebbero a mancare le merci nei mercati. Per non parlare di ristoranti, pizzerie, alberghi e di tutte le famiglie che resterebbero senza badanti o baby-sitter, e delle cliniche, che andrebbero in crisi senza gli oltre centomila infermieri stranieri.




E' possibile imbatterci sul piano fenomenologico

in una lunga litania di bipolarità riferite al silenzio:

c'è un silenzio esteriore ed un silenzio interiore;

un silenzio pieno ed uno vuoto;

un silenzio disperato e uno gioioso;

un silenzio leale ed uno bugiardo;

un silenzio affettuoso ed uno odioso;

un silenzio innocente ed uno scaltro;

un silenzio rispettoso ed uno presuntuoso;

un silenzio di accordo ed uno di disaccordo;

un silenzio di condivisione ed uno calcolato,

un silenzio sincero ed uno adulatore;

un silenzio d'invito ed uno di opposizione;

un silenzio altruista ed uno egoista;

un silenzio spirituale ed uno dissipato e così via...;

in definitiva ci si può trovare di fronte ad un silenzio autentico.

tramite di significati comunicativi, ed uno inautentico,

che non dà comunicazione all'essere.


C. Bucciarelli, Silenzio come comunicazione, 28






Davide Van De Sfroos - Ave Maria

dall'Album "manicomi" (1995)

Ave Maria, che te borlet fö del quadru,

prega per el martul, e prega per el ladru.

Ave Maria, inciudada là in söl mür

nella ca' del magütt e nella ca' del dutùr

Varda, varda, varda, varda giò, Madona del Rusari

sèmm tücc lampeden del stess lampadari.

Varda, varda, varda, varda giò, Madona del Rusari

sèmm tücc padreterni, sèmm tücc ciulandari.

Ave Maria, che te mènum in prucesiòn,

strepa fü i pecàa cunt el cavabüsciòn

Ave Maria, e forsi ghemm pagüra

che vegna giò'n quai angel cun la facia pussè scüra.

Ave Maria, vestida de celest

se regordumm de te dumàa suta i fèst

Ave Maria cunt el cör pièe de spaad

varda quel che sucéed giò in mezz ai stràad.