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«Spirito santo, Dio, noi ci rimettiamo spiritualmente nella Sala del Cenacolo.
Attendiamo la Tua discesa su di noi.
Sappiamo che Tu sei sempre presente nella Chiesa e quindi pronto a donarti, perché sei dono.
Ti ringraziamo per i doni grandi con cui ci hai sostenuto in tutta la nostra vita e Ti chiediamo di espanderti su tutta l'umanità.
Tu sei il principio di ogni riflessione, di ogni azione, Tu sei l'origine di tutto l'amore.
Fa' che riconosciamo questa origine dell'amore in noi e che la sappiamo esprimere nella nostra quotidianità».
Carlo Maria Martini, Le ali della libertà, 69
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Perdonare conviene
di Pietro Greco
Il perdono fa bene. Soprattutto a chi lo concede. Migliora la sua salute psichica e può essere anche una terapia per cacciare via, quando si presentano, molti fantasmi della mente. È provato: perdonare conviene.
Barbara Barcaccia, psicologa dell'università dell'Aquila, e Francesco Mancini, neuropsichiatra infantile, già presidente della Società italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva, hanno curato un libro, Teoria e clinica del perdono (pagine 230; euro 24,50) appena uscito per Raffaello Cortina Editore. È il primo libro italiano in cui il perdono è affrontato dal punto di vista della psicologia scientifica. E il risultato non giunge del tutto inatteso. Il perdono fa bene. Più a chi lo porta che a chi lo riceve. Può diventare persino una cura. Anche se non mancano i rischi.
Diciamo subito che la psicologia del perdono è scienza recente. Fino agli anni '90 del secolo scorso l'atto del perdonare era preso in considerazione solo dai filosofi e dai religiosi. Soprattutto, ma non solo, cristiani. «Dio, perdona loro perché non sanno quel che fanno», chiede Gesù dalla croce. Non è forse quella cristiana la religione del perdono, che ha nella confessione il suo principale rituale? È forse in virtù di questo pregiudizio che gli psicologi non se ne sono, di fatto, mai occupati. (...)
Gli studi non sono stati e non sono affatto semplici. Perché, in primo luogo, occorre definire cos'è il perdono. Impresa a tutt'oggi non pienamente riuscita. In primo luogo bisogna distinguere tra il perdono interpersonale, su cui si sofferma il libro di Barcaccia e Mancini; il perdono tra collettività; il perdono a livello giuridico. Il perdono tra singole persone, in prima battuta, può essere definito in negativo. Perdonare non è semplicemente scusare o giustificare o dimenticare un torto subito. Perdonare non è neppure riconciliarsi con la persona che ha offeso. Il perdono è un processo. Che prevede, in uno dei modelli più accettati, quattro fasi.
La prima delle quali è riconoscere l'offesa. E riconoscerla per tale, non importa se sia grave o meno. Molte donne, per esempio, hanno difficoltà a riconoscere nella violenza del marito un'offesa. Spesso queste donne scusano, giustificano o preferiscono dimenticare le offese. Ma in mancanza di un esplicito riconoscimento, in primo luogo con se stesse, del torto inaudito subito, non possono perdonare.
La seconda fase è decidere di perdonare. Non è un processo istantaneo. Una volta riconosciuta l'offesa, bisogna superare il desiderio di vendetta, la rabbia e anche la giustificazione o la tentazione di dimenticare. Di metterci una pietra sopra. No, chi decide di perdonare deve tenere sempre ben presente l'offesa. La sua gravità. Solo così può rendersi disponibile a perdonare e poi impegnarsi a farlo.
La terza fase è lavorare per raggiungere il perdono. Sempre tenendo a mente l'offesa, si inizia ad assumere la prospettiva di chi ha offeso. Si cerca di entrare nei suoi panni. Di ripercorre il processo che ha portato a offendere. Si diventa così empatici con l'offensore. Se ne prova sincera ma consapevole compassione. Si accetta la sofferenza. Si comprende che il perdono è un atto unilaterale, che non coinvolge chi ha offeso. Io ti perdono, qualsiasi cosa tu faccia. Anche se non me ne fai richiesta. Anche se non chiedi scusa.
La quarta fase è perdonare e approfondire il senso del perdono e le sue conseguenze. In questa quarta fase, dunque, non ci si limita a perdonare chi ha offeso, ma si ridisegna la propria vita.
Naturalmente il processo del perdono non si esaurisce in questo schema (in cui neppure tutti gli esperti si riconoscono). Non fosse altro perché ogni percorso che porta al perdono è personale.
In questi dieci o quindici anni di studi scientifici si sono raccolti sufficienti dati empirici per poter sostenere che il perdono non è solo un nobile gesto morale che viene compiuto, in genere, più dalle donne che dagli uomini e indipendentemente dal credo religioso. Quella cristiana sarà pure la religione che più di ogni altra si fonda sul perdono, ma i cristiani perdonano, in media, quanto gli ebrei, i musulmani o gli atei.
Quasi tutti coloro che perdonano ne hanno un beneficio: un maggiore benessere, non solo psicologico, ma anche fisico. Già, perché chi è incline al perdono evita di rimuginare in continuazione sull'offesa, di vivere per la vendetta, di schiumare rabbia. Cosicché non solo vive con un animo più leggero, ma ha una pressione arteriosa in media più bassa, un sistema immunitario più robusto, una minore propensione alla stanchezza, allo stress, alla depressione. Perdonare dunque fa bene, a chi perdona. Non necessariamente a chi è perdonato. Che anzi, vede spesso acuirsi il proprio senso di colpa. Tuttavia perdonare non deve significare abbassare la guardia. Se una donna perdona il suo compagno violento e torna a vivere con lui, per esempio, è più esposta al rischio di una recidiva. Quindi le conseguenze del perdono vanno valutate, caso per caso.
Il perdono, tuttavia, non ha solo effetti fisiologici. Può essere una terapia per alcune tipologie di disturbi. Viviana Balestrini, per esempio, mostra come il processo del perdono possa essere efficace nella cura della depressione. E lo stesso Francesco Mancini insieme ad Angelo Maria Saliani dimostrano che molti disturbi ossessivo-compulsivi causati da un senso di colpa deontologico e, dunque, strettamente morale, possono essere curati con la terapia del perdono. Anche se in questo caso viene evocato il più difficile dei perdoni. Il perdono di sé.
in “l'Unità” del 20 agosto 2013
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«Il laico conosce il linguaggio, il tono da usare, le difficoltà più o meno confessate cui rispondere, i bisogni e le richieste dei lontani coi quali condivide la giornata nei campi, nelle officine, nel laboratorio, nell'ufficio, nella scuola ecc. (...)
Se uno lavora con questo spirito sotto la direzione della gerarchia, non può non portare al proprio parroco le impressioni e le esperienze raccolte nel campo del suo apostolato. Il parroco lo deve accogliere come Gesù accoglieva i discepoli al ritorno da ogni missione. La voce del Prodigo, attraverso l'apostolato laico, arriva fino al parroco e lo aiuta a modificare quanto è giusto modificare per appianarne il ritorno e renderne stabile il rimanere. (...)
Chi è vivo e ardente, e con larghe opportunità d'azione, trova spesso le resistenze maggiori sulla soglia della casa. C'è da superare lo scoglio del confronto tra la presentazione ideale della Chiesa e la sua umana incarnazione. La predica, il rito, la pietà, per uno che viene di fuori ed è tuttora sprovvisto dell'intuito spirituale, hanno un gusto d'acerbo.
Il laico d'azione avverte in modo squisito la delicatezza di questo momento. Se, come fedele sa riallacciare i due mondi e ne è interiormente tranquillo, come apostolo soffre della difficoltà che lo sorprende quando il cammino pareva già sgombro. Interprete dei suoi sacerdoti presso i fratelli lontani, egli è pure l'ambasciatore di questi presso quelli, le cui particolari sensibilità non possono essere accantonate fuori della Chiesa.
Chi ritorna, almeno in un primo momento, vuol portare dentro ciò che non è in opposizione col dogma, la morale, la pietà. C'è un'anima del proprio tempo che ha ben diritto ad un'accoglienza onesta. Se essa non si àncora nel porto divino della Chiesa, la voce della Casa rimane senza eco nel cuore delle nostre generazioni e l'esilio diventa una dolorosa fatalità.
Il parroco, per quanto illuminato e santo, non può trascurare l'esperienza di codesti messaggeri, che gli riportano sulle spalle le pecorelle perdute. Non oso dire che essi si siano guadagnati il diritto di essere ascoltati, che possano far valere tale diritto - operai silenziosi e sottomessi sanno chiudersi nel cuore le più intime pene quale fruttuosa offerta d'apostolato -, dico che è nell'interesse del parroco l'ascoltarli.
Rifiutando questa salutare esperienza, che gli arriva a ondate portatagli da anime intelligenti, finirà per chiudersi ancor più in quell'immancabile corte di gente corta che ingombra ogni presbiterio.
I «pareri di Perpetua» sono buoni quando il parroco è... don Abbondio.
Occorre salvare il presbiterio dalla cinta che talvolta i piccoli fedeli gli alzano allegramente intorno, e che il parroco, scambiandola forse per un argine, accetta con riconoscenza.
II mio parroco, per difendersi da un mondo diverso e ostile, si è tagliato fuori dalle grandi correnti della vita. Isolandosi, ha pure isolato il pusillus grex, divenuto, a somiglianza del pastore, timido e scontroso.
Nelle intenzioni del pontefice, Azione Cattolica vuol dire ponte sul mondo: cioè la fine di quell'isolamento che ci toglie dall'agire sugli uomini del nostro tempo.
Per uscirne, occorre un laicato che veramente collabori e un parroco pronto ad accoglierne in pieno l'opera, rispettando quella felice, per quanto incompleta, struttura spirituale, che fa il laico capace di agire religiosamente nell'ambiente in cui vive.
Un grave pericolo è la clericalizzazione (che brutta parola devo usare!), cioè la sostituzione della forma mentis del parroco a quella del laico, creando un duplicato di assai scarso rendimento.
Non si deve confondere l'anima col metodo dell'apostolato. Il laico deve agire con la sua testa e con quel metodo che diventa fecondo perché legge e interpreta il bisogno religioso del proprio ambiente. Deformandolo gli si toglie ogni possibilità di agire là dove la Chiesa gli affida la missione.
Il pericolo non è immaginario. In qualche parrocchia sono gli elementi meno vivi e meno intelligenti del laicato che vengono scelti quali collaboratori, perché docili e maneggevoli».
Primo Mazzolari, Lettere al mio parroco, 27-30
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Nove regole di conversazione dopo la chiamata al ragazzo di Padova
Manuale di conversazione
Che cosa fare se telefona il Papa Nove consigli se al telefono c'è Sua Santità
«Pronto, chi parla?». «Sono Papa Francesco, diamoci del tu». È rimasto senza parole Stefano Cabizza, studente diciannovenne di Ingegneria a Padova: e ci credo. Aveva lasciato una lettera a Castel Gandolfo, e mai avrebbe immaginato di essere richiamato. Devo dire che mi piace, quest'idea del Papa che telefona a perfetti sconosciuti. E richiama, quando non li trova in casa. Ma mi metto nei panni di queste persone: cosa si dice a un Pontefice al telefono?
Uno condisce l'insalata e, con l'olio in mano, deve trovare le parole per conversare col vicario di Cristo: mica facile. Ma il vicario in questione è affabile e spiritoso; con qualche accortezza, sono certo, si può uscire bene dalla conversazione. Ecco, quindi, alcune piccole istruzioni telefoniche pontificie.
a) Papa Bergoglio è forse l'ultimo a chiamare sul numero fisso. Se sentite suonare il telefono di casa, quindi, preparatevi.
b) Se anche il Santo Padre proponesse di darsi del tu, ringraziate ma restate al classico «lei» o a uno spagnoleggiante «voi». Evitate di andare oltre, in un senso o nell'altro. Chiamarlo «Franci» o «Cecco» è inopportuno; esclamare «Santità!» è prevedibile; e lasciarsi andare ad appellativi fantozziani e/o accademici
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«La risurrezione di Gesù non è soltanto l'opera escatologica e decisiva di Dio ma anche la sua autorivelazione degli ultimi tempi.
In essa si manifesta, in modo definitivo e insuperabile, chi Dio sia, cioè colui che con la sua potenza domina sulla vita e sulla morte, sulle cose che sono e su quelle che non sono; colui che è amore e fedeltà creatori, potenza della vita nuova; colui del quale ci si può quindi fidare anche quando tutte le umane possibilità s'infrangono.
La risurrezione di Gesù è la rivelazione e realizzazione del regno di Dio annunciato da Gesù. In questo atto Dio ha dimostrato la sua fedeltà».
Walter Kasper, Gesù il Cristo, 197-198
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«È nella risurrezione di Cristo che Dio ha definitivamente rivelato se stesso e definito il suo essere-Dio: Egli è un Dio "amante della vita" (Sap 11,26), che vuole la vita, non la sofferenza, il dolore, la morte. "Dio è per noi un Dio di salvezza; il Signore Dio può liberare dalla morte" (Sal 68,21).
Quel Dio che è all'origine della vita non può essere sconfitto dalla morte: Colui che chiama all'essere le cose che non esistono, può far scaturire anche dalla morte la vita (Rm 4,17).
Il Dio di Gesù Cristo non è un Dio dei morti, ma dei vivi (Mc 12,26): è un Dio che libera dalla morte, che risuscita i morti (2 Cor 1,9), e prepara per coloro che si affidano a Lui un futuro di speranza ("A vostro riguardo ho fatto progetti di pace, per concedervi un futuro pieno di speranza": Avvento Ambrosiano, giovedì I Settimana, versetto alleluiatico)».
Mario Serenthà, Gesù Cristo ieri oggi e sempre, 329
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«Mi piace riportare l'opinione di un illustre esegeta, il padre Jacques Dupont, di cui condivido la conclusione: "La mitezza di cui parla la beatitudine non è altro che quell'aspetto dell'umiltà che si manifesta nell'affabilità messa in atto nei rapporti con il prossimo. Tale mitezza trova la sua illustrazione e il suo perfetto modello nella persona di Gesù, mite e umile di cuore. In fondo, tale mitezza ci appare come una forma della carità, paziente e delicatamente attenta nei riguardi altrui".
Comprendiamo allora perché Gesù promette ai miti il possesso della terra. La rinuncia alla vendetta, infatti, la rinuncia alla sopraffazione, alla prepotenza, fa trovare al cristiano, in ogni occasione, la via per aprire spazi alla misericordia della verità, alla costruzione di un nuovo volto della società.
Naturalmente, la mentalità evangelica della mitezza matura soltanto lentamente nel singolo cristiano e ancora più lentamente nell'esperienza dei popoli. Bisogna essere passati per molte prove, delusioni, amarezze, sconfitte, per capire che la violenza di ogni tipo, compresa quella morale e ideologica, è alla fine perdente.
Vi offro tre spunti di riflessione che vi permetteranno di cogliere il messaggio permanente della parola di Gesù:
1. Con la beatitudine dei miti Gesù condanna chiaramente ogni forma di prepotenza. La prepotenza non paga. Quindi i prepotenti, che si ritengono felici in questo mondo, sono in realtà degli sventurati, perché il loro potere è logorato alla radice ed essi cadranno come un vaso di argilla che viene frantumato.
2. Il messaggio di Gesù promuove il coraggio della non violenza. I Padri della Chiesa, che hanno commentato a lungo il brano evangelico delle beatitudini, vedono la mitezza proprio come la rinuncia alla violenza, alla vendetta, allo spirito vendicativo.
3. È importante coltivare lo spirito di dolcezza, di mitezza, di accoglienza, di capacità di amicizia e di relazioni autentiche e vere».
Carlo Maria Martini, Le Beatitudini, 32-34
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"Non amiamo gli altri perché sono buoni. Ma li facciamo diventare buoni perché li amiamo.
La sfida al male non consiste nel condannare, nello scomunicare. E non consiste neppure nel discutere. «Tutte le volte che ho vinto una discussione ho perso un'anima» (Mons. Fulton Sheen).
La vera sfida avviene sul piano dell'amore. In un film famoso, Il Porto delle nebbie, c'è un dialogo che sintetizza efficacemente la portata di questa sfida. Il disertore riconosce dinanzi alla fidanzata di essere una creatura abbietta. La ragazza lo interrompe: 'Tu non puoi essere cattivo perché io ti amo'! Se c'è tanto male nel mondo, ciò è dovuto al fatto che a questo male noi abbiamo opposto la nausea, il disgusto, la condanna. Mentre dovevamo opporre l'amore. L'amore impedisce a Zaccheo di essere cattivo".
Alessandro Pronzato, Vangeli scomodi, 221
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«L'irresistibile attrattiva di Gesù per il tempio fa da contrasto alla non comprensione dei genitori: «Senza che se ne accorgessero», in greco: «uk égnosan», non lo conobbero, non lo seppero. Siamo di fronte a un grande mistero. Non è poco quello che è accaduto a Maria: normalmente le mamme conoscono da che cosa i loro bambini sono attratti e sanno dove possono essere andati allorché, sfuggendo alla sorveglianza, sono scappati. È vero che un dodicenne, soprattutto nel mondo orientale, aveva una qualche autonomia, ma era, come sembra, la prima volta che andava a Gerusalemme e i genitori avrebbero dovuto essere attenti. Si direbbe - e provo una certa fatica nel dirlo - che Giuseppe e Maria abbiano perso il colpo d'occhio, l'insieme della situazione, si siano fatti sfuggire l'essenziale. Possibile - ci chiediamo - che non avessero compreso la forza di attrazione che il tempio esercitava su Gesù? Possibile che non abbiano colto l'irresistibile fascino che avrebbe come inchiodato Gesù nel tempio? (...)
Che cosa dice a noi l'atteggiamento dei due genitori? Capita a tutti noi di perdere il punto della situazione senza nostra colpa, proprio perché non ci viene in mente. Non riusciamo sempre a valutare la totalità degli eventi e viene il momento in cui ci battiamo il petto perché ci è sfuggito qualcosa che, a rigor di logica, non avremmo dovuto tralasciare: avevamo molto da fare in quel giorno e non siamo stati attenti a quella persona mentre sarebbe stato ovvio prestarvi attenzione, ecc. Maria partecipa alla nostra fragilità perché è passata per questo momento di smarrimento nel senso globale della situazione. Forse sarebbe bastata da parte sua un po' di riflessione: "Era così immobile Gesù nel tempio, non riuscivamo a tirarlo via, sarà certamente rimasto là!".
Se Maria ha vissuto un momento così duro di disagio, di umiliazione, di dolore, anche noi dobbiamo perdonarci, anche noi dobbiamo capire che la nostra natura povera non riesce spesso a cogliere, per quanto si sforzi, il vero centro della situazione. Maria ci dà la mano e ci insegna l'umiltà: l'umiltà e l'umiliazione che ci può venire dalla gente che critica il nostro sbaglio, la nostra scarsa capacità di intuizione, la nostra dimenticanza, la nostra non attenzione a quella persona in una circostanza importante. Forse la gente della carovana ha criticato Maria: «Ecco, è capitato anche a lei, non può andarle sempre bene...». Qui Maria è veramente nel suo popolo: vive, partecipa, soffre, è criticata, si sente smarrita, in qualche modo si mette in colpa: "Ma come ho fatto? Come è stato possibile?". (...)
«Ma essi non compresero le sue parole». Di fronte alla manifestazione così cruda del mistero e delle sue conseguenze, Maria e Giuseppe non comprendono, devono fare ancora del cammino. Quasi ci stupisce il candore di questa espressione dell'evangelista. «Essi non compresero» è la parola che Luca usa per l'incomprensione degli apostoli di fronte a Gesù che spiega loro come il Figlio dell'uomo dovrà soffrire: «Ma essi non compresero questo» (9, 45); «Ma non compresero nulla di tutto questo» (18, 34). Indica il nostro annaspare di fronte al mistero della morte e risurrezione di Gesù. Maria e Giuseppe, pur se in maniera sottomessa, umile, accogliente, hanno vissuto prima di noi questo brivido del non capire».
C. M. Martini, Il Vangelo di Maria, 43-62
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O Gesù che hai detto: "Dove due o più sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro", sii fra noi, che vogliamo essere uniti nel tuo Amore, in questa comunità pastorale. Aiutaci ad essere sempre "un cuore solo e un'anima sola", condividendo gioie e dolori, avendo una cura particolare per gli ammalati, gli anziani, i soli, i bisognosi. Fa' che ognuno di noi si impegni ad essere vangelo vissuto, dove i lontani, gli indifferenti, i piccoli possano scoprire l'Amore di Dio e la bellezza della vita cristiana. Donaci il coraggio e l'umiltà di perdonare sempre, di andare incontro a chi si vorrebbe allontanare da noi, di mettere in risalto il molto che ci unisce e non il poco che ci divide. Dacci la vista per scorgere il tuo volto in ogni persona che avviciniamo. Donaci un cuore fedele e aperto, che vibri a ogni tocco della tua parola e della tua grazia. Ispiraci sempre nuova fiducia e slancio per non scoraggiarci di fronte ai fallimenti, alle debolezze e alle ingratitudini degli uomini. Fa' che le nostre parrocchie siano davvero delle famiglie, dove ognuno si sforza di comprendere, perdonare, aiutare, condividere; dove l'unica legge che ci lega e ci fa essere tuoi seguaci, sia l'amore scambievole. Amen.
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Angelo Branduardi - Gulliver
Dall'album "Gulliver, la luna e altri disegni" (1980)
Venite tutti, che strana meraviglia il mare ci portò,
venite tutti, è Gulliver il grande che il mare ci portò.
Addormentato davanti a noi Gulliver il grande
è una nera montagna che
ci toglie il sole.
E' Gulliver il grande che il mare ci portò.
Così curioso davanti a noi
l'uomo montagna ci guarda già,
venite tutti ad ammirare
la meraviglia vista mai.
Gli uomini piccoli pensano già
che la sua forza li aiuterà,
Gulliver il grande si chiede già
in quale altro mare naufragherà.
Venite tutti, che strana meraviglia il mare ci portò,
venite tutti, è Gulliver il nano che il mare ci portò.
Di freddo trema davanti a noi Gulliver il nano
Ma i suoi occhi cercano già
i nostri volti
È Gulliver il nano che il mare ci portò.
Venite tutti ad ammirare
la meraviglia con cui giocare,
così indifeso davanti a noi
come un bambino a cui insegnare.
E mentre invece dentro di sé
del nostro aspetto lui ride già
Gulliver il nano sognando sta
un altro mare per naufragare.
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«Se non c'è più bellezza,
gli uomini non possono far altro che odiarsi».
Olivier Clément, Occhio di fuoco, 26
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«Ogni tanto in chiesa mi sorprendo a fare una ricognizione dei volti di coloro che partecipano alla celebrazione eucaristica, con particolare attenzione al momento dell'omelia. E, normalmente, non ne risulta un inventario incoraggiante.
Alcuni mostrano una dichiarata indifferenza, estraneità.
Altri danno chiaramente a vedere che i loro titolari stanno inseguendo e filando i propri pensieri autonomi. E non sempre sono pensieri che hanno a che fare con la religione.
Ci sono poi quelli - e sono piuttosto numerosi - spalmati di noia. Sguardi allarmati all'orologio. Mascelle che lavorano di nascosto, impegnate nella fatica immane di reprimere colossali sbadigli, almeno evitando che siano rumorosi. Sbadigli che, se esplodessero, inghiottirebbero chiesa e predicatore insieme.
E poi ci sono i delusi, con l'aria rassegnata. Non erano quelle le parole che si aspettavano, non era quello il pane di cui avevano bisogno.
E non mancano neppure coloro che tradiscono una certa insofferenza, una tacita protesta espressa con un brillio inconfondibile degli occhi. Quasi dicessero: «Perché non ci interpella mai? Saremmo lieti se potessimo fargli da suggeritori, per evitare che vada annaspando penosamente con i suoi argomenti astrusi e i temi che non interessano nessuno e passano sopra le nostre teste».
Infine ci sono quelli che, nonostante tutto, riescono ad acchiappare qualche brandello di parola utile, accogliere alcuni semi vaganti per portarseli a casa. E grazie a questi ultimi che la Parola, nonostante l'inadeguatezza del predicatore, non va mai del tutto perduta.
Ma torniamo alla noia. Si potrebbe parlare anche di estraneità, assuefazione, abitudine, non coinvolgimento. Molti di coloro che partecipano alle nostre assemblee eucaristiche domenicali danno l'impressione di farlo perché mossi dal senso di un dovere straccamente ripetitivo.
Certe facce, più che esprimere adesione, consapevolezza, tradiscono in maniera fin troppo scoperta una sbadata, "rituale" rassegnazione. Si subisce la predica, perché non se ne può fare a meno. Dall' espressione di alcuni volti è facile cogliere il disincanto, la distrazione, la passività, l'inerzia o, nel migliore dei casi, la "compostezza".
Parlavo prima dello sbadiglio. Non è questione solo di bocche. Ho, infatti, la sensazione che in chiesa ci siano numerose anime che sbadigliano.
Non c'è da stupire che tanti assorbano, subiscano senza reagire. La reazione, infatti, si verifica solo quando c'è una provocazione evidente, piuttosto marcata, insolita, non quando si srotola un discorso piatto, scontato, largamente prevedibile, di cui si conosce già la conclusione prima ancora che si pongano le premesse, si imposti il discorso e se ne afferri il bandolo.
E qui la responsabilità va ripartita equamente col predicatore, cui è da addebitare almeno in parte quella noia che avvolge come una nebbia umidiccia, appiccicosa, pesante, l'assemblea.
Allora mi domando: ma i predicatori guardano veramente in faccia gli ascoltatori, scrutano i volti che stanno davanti a loro? E, ammesso lo facciano, come mai non riescono a cogliere i sintomi allarmanti della noia? Ho sentito dire di un predicatore che era talmente noioso, pedante, che qualche volta si addormentava pure lui durante il sermone.
Personalmente, da tempo ho maturato la convinzione che il vero, temibile nemico della verità non sia tanto l'errore quanto la noia.
Cerco, comunque, di immedesimarmi anche nella situazione del predicatore. Il quale, oltre a interpretare i segni della noia, e a prendersi la parte di colpa che gli spetta, correggendo quel che c'è da correggere nel suo stile di comunicazione, può rivendicare le sue buone ragioni. Certo, non è piacevole avere a che fare con individui che non nascondono la loro indifferenza. E lui ha l'impressione che tutto sia inutile. Che la Parola sia destinata a cadere nel vuoto».
Alessandro Pronzato, La Domenica festa dell'incontro, 55-56
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mons. Angelo Comastri, Maria maestra di libertà vera in un'epoca di libertà ingannevole
La Scrittura afferma categoricamente: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il Suo Figlio” (Gal 4, 4). Cos'è, allora, la pienezza del tempo? Non è il tempo favorevole dalla parte degli uomini, ma è il tempo favorevole dalla parte di Dio: cioè è il momento nel quale Dio non ha potuto più resistere ed è esploso in un gesto d'amore che, ancora oggi, ci fa piangere di commozione.
Dichiara l'evangelista Giovanni “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Suo Figlio" (Gv 3, 16). E nel momento in cui Dio matura la Sua paradossale decisione, Egli si incontra con la libertà di una donna. Fermiamo il nostro sguardo su questa donna, già annunciata agli albori della storia della salvezza (Gen 3, 15), e impariamo da lei la vera libertà e la sapienza del cuore.
L'evangelista Luca, introducendo il racconto dell'Annunciazione, ci dà alcune coordinate che ci fanno capire il senso dell'evento e ci fanno cogliere lo stile dell'azione di Dio nella storia umana: stile di collaborazione. (...)
È Dio che prende l'iniziativa, è Dio che bussa alla porta della libertà di Maria, è Dio che cerca la collaborazione di Maria (...).
Il Papa, nella “Tertio Millennio Adveniente” (n. 2), opportunamente sottolineava: “Mai nella storia dell'uomo, tanto dipese, come allora, dal consenso dell'umana creatura” (TMA, 2) (...).
Il sì di Maria: nel Suo sì si fondono l'espressione più alta della libertà umana e l'espressione più paradossale della libertà divina.
Mi sembra non irriguardoso tentare di tradurre con linguaggio moderno l'annuncio dell'angelo. Potremmo renderlo così: “Gioisci, Maria! Dio stravede per te e pensa di affidarti la più grande missione”.
La notizia è gettata nell'anima di Maria come un seme di divina potenza. E le parole dell'Angelo colpiscono profondamente la giovane di Nazareth: ella percepisce chiaramente l'irruzione di Dio nella propria esistenza; avverte la grandezza vertiginosa del momento e si sente investita da una tempesta che la travolge e la fa tremare. (..)
L'atto di libertà [di Maria] apre a Dio un varco dentro la storia umana, affinché Egli possa accendere, nel freddo del peccato, il fuoco dell'Amore. E Maria, nel momento in cui si dichiara serva del Signore, tocca il vertice più alto della libertà umana. La libertà, infatti, ci è stata donata come opportunità per aprirci a Dio, del quale portiamo dentro di noi un innato bisogno e verso il quale avvertiamo una oggettiva gravitazione.
Maria, davanti alla storia, brilla come la creatura più ragionevole e, nello stesso tempo, come la creatura più libera: anzi, la maestra di libertà!
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«[Le donne] sono belle, certo, ma per dote sottomessa a uno scopo solo appena intuito. Hanno il fascino insuperabile di chi porta la propria bellezza con modestia di pedina e non con vanto di reginetta da concorso. Hanno un traguardo, una missione in cuore e la perseguono inflessibili. La scrittura sacra dell'Antico e del Nuovo Testamento, opera maschile, rende omaggio a loro.
La bellezza femminile è un mistero che strugge il pensiero e i sensi. E' scritto che Adàm conobbe Eva/Hawà. Attraverso l'esperienza fisica del contatto e dell'abbraccio raggiunge la conoscenza di lei, della sua perfezione. Non è scritto il reciproco, lei non ha bisogno di conoscere Adàm. Lui è estratto dalla polvere, lei dal suo fianco. La natura maschile qui è fatta di materia inerte riscattata dal soffio della divinità. Eva/Hawà proviene da una lavorazione successiva, un secondo intervento della divinità. Esce dal fianco dell'uomo addormentato, ma non bell'e fatta come la dea Atena dal capoccione di Zeus. Le cose stanno invece: «E costruì Iod Elohìm il fianco che ha preso dall'Adàm per (farne) donna» (Bereshìt/Genesi 2,22). C'è il verbo costruire, opera che interviene a perfezionare la parte tolta all'uomo, per produrre Eva/Hawà. E' la costruzione della bellezza. L'uomo è qui un semilavorato rispetto alla donna, il prodotto finito dell'alta chirurgia della divinità.
Il verbo «vaìven», e costruì, è un verbo di fabbrica e di figli. Ha lo stesso valore numerico di «hàim», vita. La vita nella scrittura sacra è opera di costruzione. Distruggerla è demolizione.
Donne sterili come Sara e Rachele danno la loro serva in prestito ai mariti dicendo: «Sarò costruita da lei». Il verbo «banà», costruire, dà voce alla parola figlio, «ben».
Con la fabbrica di Eva/Hawà la divinità aggiunge la bellezza al mondo. Nelle lingue che ho frequentato, meno di dieci dunque un campione insufficiente, la parola bellezza è sempre femminile.
La sua superiorità di fronte all'uomo è tale che la divinità impone alla donna di provare attrazione per l'uomo: «E verso il tuo uomo la tua piena» (Bereshìt/Genesi 2,16): deve esserci in lei una piena, una tracimazione di acque che scavalcano argini, questo è il significato della parola ebraica «teshukà», piena. Senza questa condanna a farsi piacere l'uomo, non sussisterebbe il genere umano. Eva/Hawà esce grandiosa dall'assaggio della conoscenza del bene e del male, ma zavorrata dal peso di provare attrazione per l'uomo. E la sua imperfezione».
Erri De Luca, Le sante dello scandalo, 16-17
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Sun't el fiöö del Guglielmo Tell, che l'era un gran òmm
però de me, i geent, i se regòrden gnanca el nòmm
e pensà che sèri me, quel fiöö cun la poma in söe la cràpa
e pudèvi mea tremà e pregàvi..."Sperèmm che la ciàpa!"
E i geent i me vardàven tücc, i me vardàven giò de la finestra
i öcc i me puntàven tücc, ma me vardàvi la balestra...
"Dài papà, dài papà...Proviamo almeno con l'anguria..."
"Non dubitar di me figlio mio, lo sai che divento una furia!"
"Dài papà, dài papà...Proviamo almeno col melone..."
"Non si può figlio mio, tu lo sai...e poi non è neanche la stagione..."
"Dài papà, dài papà...Proviamo almeno col pompelmo..."
"Non temere figliolo, tuo papà si chiama Guglielmo!"
Però l'è mea pö taant bèll...vèss fiöö del Guglielmo Tell
perché me de quèla volta sun in giir cun là el patèll
e sun cunteent per el mè pà, che l'han fatto eroe
nazionale ma da allora se vedo una mela comincio a stare male...ma male...
El papà l'era giò in fuund, l'era giò ch'el ciapàva la mira
e me südavi frècc perché tra l'altro segütava e segütava a beev giò bìra...
"Desmètela de beev, papà, se no te ghe vedet dùppi"
"Niente paura figliolo, maal che vada...te cùpi!..."
Ecco lo sento, lo sento...adesso scocca!
"Chi è quel pirla che ha parlato? Come
sarebbe a dire:
Proviamo con l'albicocca?-"
Perché l'è mea pö taant bèll...vèss fiöö del Guglielmo Tell
perché me de quèla volta sun in giir cun là el patèll
e sun cunteent per el mè pà, che l'han fatto eroe nazionale
ma da allora se vedo una mela comincio a stare male...ma male...
Sun't el fiöö del Guglielmo Tell
sun't el fiöö del Guglielmo Tell che s'è mea sbassàa a salüdà un capèll...
IL FIGLIO DI GUGLIELMO TELL
TRADUZIONE DI ANONIMO
Sono figlio di Guglielmo Tell, che era un grande uomo
però di me, le persone, non si ricordono neanche il nome