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"Donne e uomini non hanno bisogno di cristiani tiepidi"
Parla frère Alois, priore della Comunità di Taizé
di Maria Chiara Biagioni
Taizé: una storia lunga 75 anni. All’inizio fu una novità dirompente sia per l’Europa che per la Chiesa. Un sogno di riconciliazione possibile in un continente lacerato dalla seconda guerra mondiale e in una Chiesa alla ricerca dell’unità. Oggi Taizé è una realtà. Stimata dai leader della Chiese cristiane e dai responsabili dell’Unione europea. Apprezzata soprattutto dai giovani che ne fanno una delle loro mete preferite di viaggi e pellegrinaggi. Il 2015 è per la Comunità di Taizé un anno di celebrazioni con tre anniversari importanti: il 12 maggio, frère Roger, il fondatore, avrebbe avuto 100 anni e il 16 agosto sarà il 10° anniversario della sua morte. Inoltre quest’anno si celebra anche il 75° anniversario della fondazione della comunità e per l’occasione dal 9 al 16 agosto, migliaia di giovani del mondo intero parteciperanno a un “Raduno per una nuova solidarietà”. Dalla morte di frère Roger, la comunità è guidata da frère Alois. Lo abbiamo intervistato.
Qual è il contributo più prezioso che il carisma di fr. Roger ha dato all’Europa, ai giovani e alla Chiesa?
“In questo anno di anniversario per la nostra comunità, noi rendiamo grazie per la vita di fr. Roger, il nostro fondatore. Non si tratta di volgere lo sguardo verso il passato ma piuttosto di gioire insieme dei frutti che la sua vita continua a portare. All’indomani della seconda guerra mondiale, l’urgenza era di vivere la riconciliazione tra popoli divisi. L’unità della famiglia umana è stata l’idea-forza della vita di fr. Roger che ha contribuito al processo della costruzione europea proprio per l’accento che ha sempre dato alla necessità della riconciliazione. Riguardo invece ai giovani, il contributo di fr. Roger si fonda su una intuizione fondamentale: non c’è contraddizione tra la vita interiore e la solidarietà umana, al contrario vi è un legame profondo tra le due dimensioni. Come affermava il teologo ortodosso Olivier Clément, i giovani possono fare a Taizé una scoperta sorprendente: nulla è più responsabile della preghiera. Preghiera e impegno sono per fr. Roger, le facce di una stessa fede. E infine, per ciò che concerne la Chiesa, il suo contributo più importante resta l’instancabile ricerca dell’unità. Fin dall’inizio, fr. Roger ha posto la ricerca dell’unità al cuore della vita della comunità. Ancora oggi, i frère, cresciuti in differenti Chiese, vivono ‘sotto lo stesso tetto’, anticipando l’unità che verrà”.
L’intuizione carismatica di fr. Roger non fu immediatamente compresa dalla Chiesa. Come irrompono nella Chiesa le “novità” dello Spirito Santo?
“Il Concilio Vaticano II che è stato un momento essenziale per fr. Roger e per tutta la nostra comunità, ha evidenziato la ricerca dei ‘segni dei tempi’. Non si tratta certo di adeguarsi per forza a tutte le evoluzioni delle nostre società che sono spesso preoccupanti, quanto piuttosto di essere attenti al mondo di questo tempo per discernervi le ‘spinte dello spirito’, come le chiamava p. Henri de Lubac. Il primo criterio di discernimento deve essere la fedeltà al cuore del Vangelo. In questo senso
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Ana dei miracoli
di Massimo Gramellini
Ci prendiamo due minuti per una favola? Ana Dos Santos Cruz è la ragazza brasiliana con la fossetta sul mento e i lunghi capelli scuri che sta rovistando nei cassonetti della spazzatura di un quartiere elegante di San Paolo. Ha un compagno balordo in galera e un figlio di tre anni a cui ogni giorno deve trovare qualcosa da mangiare. Da un mucchio di cartacce spunta un libretto degli assegni. Sono già compilati per decine di migliaia di dollari, senza destinatario. Ma nel leggerne le causali Ana scopre che si tratta di donazioni per il Barretos Cancer Hospital. E qui si fa dura. La immaginiamo piantata in mezzo alla strada, con gli assegni in una mano e il bambino di tre anni nell’altra. Quale sarà la scelta giusta?
Il male è facile da raccontare e anche da leggere: il confronto con la parte peggiore degli altri ci fa subito sentire migliori. Per i motivi opposti, narrare il bene è un esercizio fastidioso. Perché appena uno scopre che Ana la barbona ha consegnato gli assegni all’ospedale senza provare a incassarne neppure uno per sé, pensa a come si sarebbe comportato al posto suo e non sempre trova risposte che lo fanno sentire tranquillo. Stavolta a toglierci dal disagio irrompe il lieto fine. Il direttore dell’ospedale ha raccontato la storia in giro, le tv hanno rintracciato Ana tra i cassonetti innalzandola a caso umano, un centro commerciale l’ha presa come modella per la sua campagna pubblicitaria e con i soldi dell’ingaggio Ana ha ripreso a studiare e soprattutto a sfamare regolarmente il figlio. Una scelta di rinuncia le ha donato un’inattesa abbondanza. Più che la morale della favola, è la favola della morale.
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I genitori della tabaccaia di Asti: “Aiuteremo la figlia malata dell’uomo che ha ucciso la nostra”.
I signori Fassi: «La sua famiglia uccisa anch’essa da un gesto folle non ha colpa per quanto è successo».
di Laura Secci - 26 luglio 2015
«Noi siamo qui. Se la figlia dell’uomo che ucciso la nostra avrà bisogno, noi ci saremo». Chi conosce la famiglia Fassi, forse, non è sorpreso da un gesto che ha poco o nulla del comune sentire. Perché lasciarsi andare al risentimento, all’istinto di allontanare da sè, il più possibile, chi ha ferito irrimediabilmente la propria famiglia, sarebbe normale. Sarebbe naturale. Ma i Fassi sono di un’altra pasta. Silenzioso punto di riferimento, sempre restio ai riflettori, di molti enti di beneficenza della città, Piero e Pina Fassi, così come le figlie Maura e Maria Luisa, negli anni sono riusciti a coniugare quel lato introspettivo della fede, profonda e granitica, con quello più attivo della solidarietà. (...) Anche nella salita più difficile della loro vita, sono riusciti a camminare in avanti senza tradire quell’etica che li ha sempre guidati. «Abbiamo saputo che quest’uomo (Piero Fassi non usa mai il termine “killer” o “assassino”, ndr) ha una figlia malata. Purtroppo. Nel nostro piccolo, se vorrà, faremo ciò che è nelle nostre possibilità per rendere meno dolorosa e solitaria la sua sofferenza. La sua famiglia, uccisa anch’essa da un gesto folle - aggiunge, scuotendo il capo - non ha colpa per quanto è successo». Un invito, quello rivolto alla famiglia di Folletto, che non vuole lasciare strascichi colorati da paillettes pronti per il tappetto rosso. «Di questo argomento non parleremo più - conclude la famiglia Fassi -. D’ora in avanti, quello che accadrà tra la nostra famiglia e la moglie e le figlie del signore arrestato, resterà solo una questione nostra, e della nostra coscienza». Quell’abitudine ad alzare lo sguardo oltre il proprio orizzonte, misto ad un desiderio di aiutare chi è in difficoltà, ha «contagiato» quasi geneticamente anche i due figli di
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A Venegono Inferiore una esperienza positiva di accoglienza di rifugiati:
http://www.avis-legnano.org/blog/da-venegono-inferiore-unesperienza-positiva-di-accoglienza/
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«Cercare funghi
non è meno affascinante
che contemplare i cedri del Libano".
Tullio Citrini, Presbiterio e presbiteri. II, 7
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Pubblicato un nuovo album di immagini: i fiori delle piante grasse del 16 luglio 2015.
http://www.seitreseiuno.net/index.php/immagini/category/15-fiori-piante-grasse-150716
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«La formula d'invocazione più impiegata in questo processo è: "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore", cioè "accoglimi alla tua presenza misericordiosa".
Questa formula può essere recitata come consiglia Nicodemo Agiorita nel suo Enchiridion: viene pronunciata tutta intera durante l'inspirazione, quindi il respiro viene trattenuto per un attimo, segue l'espirazione che deve essere rapida per non distrarre l'attenzione, perché è nel momento in cui si inspira e si trattiene il fiato che l'intelletto compie il movimento di ritorno nel profondo.
Si può anche recitare la preghiera così come la spiega il Pellegrino russo, sincronizzando con l'inspirazione le parole: "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio", e quindi con l'espirazione la supplica: "abbi pietà di me peccatore". Sincronizzazione posta a servizio di un'altra più profonda, che concerne il ritmo del cuore: ogni parola della preghiera deve essere pronunciata su un battito del cuore.
Queste due sincronizzazioni possono essere armonizzate soltanto se si rallenta la respirazione, in modo che la durata complessiva dell'inspirazione e dell'espirazione corrisponda almeno a tre battiti del cuore per la formula di preghiera breve ("Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me") e a quattro o cinque per la formula più lunga ricordata sopra.
A poco a poco la preghiera diventa spontanea, ininterrotta, e il cuore-intelletto che in principio trasale furtivamente come dolcemente sfiorato dal fuoco, poi si infiamma, diventa luce e occhio capace di vedere la luce. L'invocazione si identifica con i battiti del cuore senza neppur più essere pronunciata, "preghiera al di fuori della preghiera". All'atto della preghiera subentra uno stato-di preghiera. E questo stato rivela la vera natura dell'uomo, la vera natura degli esseri e delle cose.
"Quando lo Spirito stabilisce la propria dimora in un uomo, questi non può più smettere di pregare, lo Spirito non smette di pregare in lui. Dorma o vegli, la preghiera non si separa dal suo cuore. Mentre beve, mangia, dorme o lavora, il profumo della preghiera esala dalla sua anima. Ormai non prega più a momenti determinati, ma in ogni tempo... I moti dell'intelligenza purificata sono voci mute che cantano, in segreto, una salmodia all'Invisibile" (Isacco il Siro, Trattato ascetico, 35)».
Olivier Clément, Occhio di fuoco. Eros e kosmos, 88-89.
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Operazione ebrei
di Arturo Paoli
Arturo Paoli, classe 1912, tra le avventure della sua lunga vita (già dirigente di Ac in dissidio con Luigi Gedda, poi Piccolo Fratello nel deserto e nelle miniere, quindi oppositore dei dittatori in Argentina) annovera anche l’aiuto prestato agli ebrei durante la guerra, per il quale è stato nominato «Giusto tra le nazioni» e ha ricevuto coi confratelli la medaglia d’oro al valor civile. Qui ne parla in terza persona in una testimonianza pubblicata nell’ottobre 1945 su «Ecclesia», mensile dell’Ufficio informazioni del Vaticano diretto da monsignor Giovanni Battista Montini, tra le pagine dedicate a «Preti coraggiosi». Dal 1942 Paoli – con don Sirio Niccolai, don Guido Staderini e don Renzo Tambellini – faceva parte degli oblati del Volto Santo di Lucca, cui l’arcivescovo Antonio Torrini affidò i locali dell’ex seminario; in esso vennero ospitate le attività regionali della Delasem, la rete di protezione degli ebrei trasferitasi lì dopo l’arresto a Firenze dei suoi dirigenti tranne il pisano Giorgio Nissim, il quale si avvalse appunto della collaborazione dei sacerdoti lucchesi per accogliere e smistare o nascondere un numero crescente di ebrei, che giungevano a Lucca anche da altri Paesi europei. Arturo Paoli – per espressa ammissione di Nissim – «fu il perno di tutta l’organizzazione di soccorso nella Lucchesia e nella Garfagnana».
Nel settembre 1943 gli oblati di Lucca vennero a conoscere il signor Giorgio Nissim di Pisa, delegato della Delasem (Delegazione per l’assistenza degli emigranti ebrei), il quale li pregò di aiutarlo nella sua attività a favore dei correligionari perseguitati dalle leggi razziali. Con la benedizione e l’incoraggiamento di monsignor arcivescovo, che mise a disposizione anche dei mezzi pecuniari, subito gli Oblati iniziarono la loro opera di assistenza. Un primo gruppo di 18 persone furono portate da Livorno, delle quali 5 furono ricoverate presso l’Istituto dei Poveri Vecchi (Monte San Quirico) e 13 furono avviate a Formentale, in una casa che l’animo caritatevole dei padri Certosini aveva messo a disposizione, dopo che tutte furono ristorate presso le suore di santa Dorotea e le suore Barbantini. Un secondo gruppo di 30 persone, composto in più parte di donne anziane e ammalate o deboli, furono ricoverate presso le suore di Santa Zita, presso le quali furono poi collocate anche altre donne.
Molte altre famiglie furono sistemate in case private, sia in città come in campagna, approfittando in molti casi dell’ospitalità dei parroci, che occultavano nelle proprie canoniche questi perseguitati fino a che non fosse stato trovato un rifugio maggiormente sicuro. Il contatto e il collegamento dei parroci con gli Oblati, per questa opera di ospitalità e di assistenza, passò sopra ogni pericolo e ogni difficoltà, mostrando praticamente la grandezza della carità cristiana. La casa degli Oblati restò sempre per tutti gli israeliti di passaggio a Lucca come punto di ritrovo, di conforto e di smistamento. Da un calcolo sommario degli israeliti che sono passati per Lucca, il loro numero non deve essere inferiore agli 800.
Permanentemente trovarono asilo nella casa degli Oblati tre giovani israeliti, che altrove non potevano trovare posto perché più compromettenti. Rimase anche nella casa il signor
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«Il termine greco leitourgia significava un'azione mediante la quale un gruppo di persone diviene, comunitariamente, qualcosa che esse non erano in quanto semplice aggregato di individui: un tutto più grande della somma delle sue parti. Significava inoltre una funzione o "ministero" di un uomo o di un gruppo a favore e nell'interesse della comunità intera. Cosi, la leitourgia dell'antico Israele era l'opera comunitaria di una minoranza scelta per preparare il mondo alla venuta del Messia. E, proprio in questo atto di preparazione, essi diventavano ciò che erano chiamati ad essere: l'Israele di Dio, lo strumento eletto del suo disegno.
Cosi, la Chiesa è essa stessa una leitourgia, un ministero, una chiamata ad agire nel mondo alla maniera di Cristo, a rendere testimonianza a Lui e al suo regno. La liturgia eucaristica, quindi, non deve essere avvicinata e compresa in termini solo "liturgici" o "cultuali". Proprie come si può - e si deve - considerare il cristianesimo come la fine della religione, cosi la liturgia cristiana in generale, e l'Eucaristia in particolare, sono veramente la fine del culto, dell'atto religioso "sacro", isolato dalla vita "profana" della comunità e opposto ad essa. La prima condizione per comprendere la liturgia è dimenticarsi una specifica "pietà liturgica"».
Alexander Schmemann, Per la vita del mondo. Il mondo come sacramento, 35
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Difendere Cristo dal cristianesimo
di Arturo Paoli
«Anni fa, proprio in questo luogo, padre Ernesto Balducci disse che le tre caravelle di Colombo erano tornate indietro. Era un modo di dire che Cristo è essenzialmente liberatore, e liberatore dei poveri. La teologia della liberazione è un messaggio non solo per i poveri, ma anche per tutti coloro, credenti e non credenti, che fanno parte di questa cultura "cristiana" occidentale che oggi è direttamente responsabile dei mali del mondo. E’ da qui che vengono le guerre, le distruzioni, la fame: dal mondo occidentale cristiano. E’ qui che si fabbricano le armi, è da qui che partono gli aerei che vanno a bombardare. Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. Dobbiamo sapere che non possiamo affrontare temi come la giustizia, l’uguaglianza, i diritti dei popoli se non cambiamo radicalmente la nostra cultura.
Noi abbiamo sempre pensato che il centro del mondo è l’Io, l’essere, il soggetto, e abbiamo proiettato questo concetto in tutte le strutture che abbiamo creato e imposto. Compresa la globalizzazione, apoteosi di un soggetto dominatore e unificante: il mercato. La volontà di sopprimere l’altro, l’incapacità di riconoscere la sua cultura, la sua storia, la sua religione, il suo diritto alla vita, è la conseguenza diretta del culto dell’Io. Per lo stesso motivo la Chiesa è chiesocentrica, lo stato è statocentrico.
Il rispetto dell’altro non è un atto di volontà, dev’essere il frutto di una cultura nuova che deve ancora nascere. Fino a che non cambieremo questo paradigma tutti i nostri progetti saranno superficiali. La richiesta di perdono fatta di recente dal Papa è commovente, ma è come dare l’aspirina a una persona che muore di cancro. Finché non cominciamo a vivere in un altro modo, finché non capiremo che la solidarietà con i poveri non è buon cuore, ma un modo di uscire dalla colpa, di rendere giustizia, tutti i nostri discorsi politici non serviranno a niente. Ci manca un’etica, abbiamo perso il sentiero della giustizia, non sappiamo più cosa è giusto e cosa non lo è. L’etica deve essere costruita sui diritti degli oppressi: solo partendo da questa base possiamo pensare a un mondo nuovo. Cristo ha predicato la fraternità a partire dai più deboli. Oggi noi predichiamo le stesse cose da Wall Street, dal nostro comodo benessere; predichiamo principi, idee, senza mai mettere i piedi per terra. Sono secoli che pensando di amare opprimiamo. Oggi dobbiamo difendere Cristo dal Cristianesimo».
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«Il padre Ghislain Lafont, monaco benedettino e docente di teologia, ha scritto recentemente un libro sul desiderio come sentimento tipico della creatura umana, tesa sempre a un più. E afferma che il primo inizio del desiderio nasce dall'esperienza di essere saziati, come il bambino è sazio ed è contento dopo aver succhiato il latte dal seno materno. Senza tale esperienza non si può desiderare di vedere ciò che ancora non si vede. Quando ci sentiamo colmati dai doni del Signore, ci sentiamo suoi figli nella Chiesa, diventa semplice scorgere la mèta verso cui camminare.
(...) Proviamo a domandarci: come vorrei la mia comunità? La sogno secondo le linee del disegno di Dio? E ancora: amo la mia comunità? E' bello interrogarci e rispondere nella preghiera, lasciando il cuore libero di esprimersi nella verità».
Carlo Maria Martini, L'utopia alla prova di una comunità, 50-51
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Un continuo susseguirsi di emozioni... ma cosa resta nel profondo?! La Rete si muove come un'onda: un picco d'attenzione e poi via. Dopo dieci giorni le ricerche sul tema si azzerano. Ma la vita deve restare più solida delle emozioni!
Terremoti, attentati, epidemie: l'attenzione? Sul web dura poco più di una settimana.
La strage di Charlie Hebdo a Parigi. Le scosse in Nepal. Gli omicidi del Bardo a Tunisi, o i più recenti di Sousse. Episodi gravissimi.
Ma leggi qui le statistiche di attenzione dei media e dei naviganti sulla Rete:
Ma leggi qui le statistiche di attenzione dei media e dei naviganti sulla Rete:
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di Enzo Bianchi
“Anaffettività” come incapacità di entrare nella sensibilità dell’altro e degli altri: questa secondo me è la più estesa e profonda patologia che oggi ammorba il corpo ecclesiale. È vero che questa anaffettività è un male presente in tutta la società, perché in essa da qualche decennio si è insinuata l’indifferenza che domina e pervade tutti gli spazi della vita sociale. Ma nella chiesa l’anaffettività è patita maggiormente, forse perché i cristiani nella loro dimenticanza non avvertono che il loro vissuto contraddice fortemente il comandamento nuovo, ultimo e definitivo, prima del quale e dopo il quale non ve ne sono altri: il comandamento dell’amore reciproco (cf. Gv 13,34; 15,12), amore che nelle prime comunità cristiane si esprimeva addirittura con un bacio sulla bocca al termine delle assemblee eucaristiche (cf. Rm 16,16; 1Cor 16,20, ecc.).
Anaffettività a tutti i livelli: non si riesce più a manifestare affetto ilare verso qualcuno, non si riesce più a partecipare ai sentimenti dei pastori della chiesa, e questi a loro volta non riescono a conoscere, a condividere le fatiche e le sofferenze dei fedeli comuni e anche degli uomini e delle donne non cristiani che incontrano. Mi diceva un anziano prete, uno dei pochi rimasti con la postura di Primo Mazzolari o di don Michele Do: “È più facile trovare un prete che ha una storia d’amore che un prete amico”. L’amicizia come vittoria sull’anaffettività è diventata ormai sconosciuta. Quando si accende un rapporto di collaborazione con gli uomini ecclesiastici, si può essere certi che sarà di breve durata; e anche se si sono impegnati fatica e lavoro, questi non vengono mai riconosciuti, il che sarebbe almeno occasione evangelica per dire: “Siamo servi inutili” (Lc 17,10). Questo rapporto è invece vissuto con frustrazione da parte di chi vi aveva investito affetto, sentimento umano che è sapore e sale di ciò che facciamo.
Così nella chiesa le relazioni appaiono occasionali, non diventano mai storia, si interrompono e si dimenticano presto, e la gratitudine, la sorpresa, il cuore che batte per la presenza dell’altro sono quasi impossibili da rinvenire. Perché? Me lo chiedo più volte. È una mancanza di qualità umana, di “stoffa” umana? È dovuto al fatto che per tanti anni si sono fatti vescovi obbedienti all’autorità ma diafani, a volte “senza carne” e comunque mediocri per intelligenza e conoscenza? È dovuto al fatto che la vita ecclesiale si è talmente burocratizzata che non c’è più tempo per l’amicizia trasparente e pura, per gli incontri gratuiti ma carichi di gioia?
Molti sui giornali si domandano quale sia il rapporto dei vescovi italiani nei confronti della “novità” di papa Francesco. È accettato, oppure
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"Me ne vado per aiutare Tsipras nella trattativa". "Subito dopo l'annuncio dei risultati del referendum, sono stato informato di una certa preferenza di alcuni membri dell'Eurogruppo e di 'partner' assortiti per una mia... 'assenza' dai loro vertici, un'idea che il primo ministro ha giudicato potenzialmente utile per consentirgli di raggiungere un'intesa". "Per questa ragione oggi lascio ministero delle Finanze". "Considero mio dovere aiutare Alexis Tsipras a sfruttare come ritiene opportuno il capitale che il popolo greco ci ha garantito con il referendum di ieri e porterò con orgoglio il disgusto dei creditori".
Yannis Varoufakis, ministro greco delle Finanze (6 luglio 2015)
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che ti sei rivelato a noi in Gesù Cristo tuo figlio,
donaci un'abbondante effusione dello Spirito di santità.
Noi ti lodiamo e ti benediciamo,
perché nei diversi doni uno solo è lo Spirito,
nei vari modi di servirti uno solo è il Signore,
nei molti tipi di attività uno solo sei tu, o Dio,
che operi tutto in tutti.
Fa' che le nostre comunità
possano crescere e camminare nel timore di te,
Padre della vita e dell'amore;
fa’ che le nostre comunità sperimentino la pienezza di consolazione,
pur in mezzo alle inevitabili sofferenze.
Donaci il tuo Spirito di pace e di gioia,
affinché possiamo percorrere le strade del mondo
diffondendo ovunque lo spirito del Vangelo
e tutti gli uomini sappiano riconoscere te, unico vero Dio,
e Colui che tu hai mandato, Cristo Gesù.
Infondi in noi, Signore la pienezza della carità,
quella carità per cui se un membro soffre tutte le membra soffrono insieme
e se un membro è onorato tutte le membra gioiscono con lui.
Quella carità che ci fa sentire corpo di Cristo e sue membra.
Manda in noi lo Spirito di amore, di accoglienza, di gratitudine,
lo spirito di pazienza e di pace.
Unisci i nostri cuori nella confessione e nel grido: Gesù è il Signore!,
quel grido che nessuno può dire se non è guidato dallo Spirito Santo.
Te lo chiediamo, Padre,
per lo stesso Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore».
Carlo Maria Martini, All’alba ti cercherò, 252
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“Come va laggiù?”. “Tutto come al solito”. Questo è più o meno quello che rispondo a chi da casa mi chiede notizie del posto.
Manco da Lashkar-gah, Afghanistan, da tre anni, ed effettivamente va tutto come al solito. Solo che “il solito”, a LashkarGah, è quello che è successo stamattina.
Ore 9.30 (anche qui il ”solito” orario) durante il giro dei pazienti, un botto. Trema la terra, tremano i muri. Tremano i visceri.
Due secondi due per guardarci gli uni con gli altri, immobili. Poi ognuno si muove, come un robot, come non avesse fatto altro in tutta la sua vita. Dimi, la Medical Coordinator, corre al cancello dell’ospedale e poco dopo comunica via radio l’attivazione del “mass casualty plan”. Altri minuti, in attesa che i pazienti arrivino, le tende fuori dal Pronto Soccorso pronte, ogni membro dello staff pronto al proprio posto, la “play room” riadattata a reparto per spostare i pazienti meno gravi e far posto a chi arriverà.
“Quanti?”: è la domanda che rimbalza in quei lunghi minuti di attesa. Nessuno risponde. Nessuno sa. Un camion-bomba s’è fatto saltare a pochi chilometri da qui, vicino a una caserma di polizia. Lì di fianco c’è una scuola. Momenti interminabili nei pensieri, pochi minuti sulle lancette in realtà.
Poi tutto si confonde, in un caos ordinato in cui ognuno sa cosa fare. La prima ad arrivare è una bambina di 9 anni con una scheggia in testa, “brain out” dicono, “il cervello fuori”. Immediatamente dopo una donna, scheggia nell’addome.
Poi non li distinguo più. In quel momento sono solo corpi, corpi feriti. Corpi da esaminare, da mettere in lista per la sala operatoria, da trasferire in reparto, da suturare, da curare. Riesco appena a realizzare che la maggior parte di loro sono bambini: solo adesso, dopo qualche ora, mi ricordo della scuola. Ci siete incappati bambini miei, siete uno dei tanti “effetti collaterali”.
Alla fine ne sono arrivati 35. Per 11 di loro è necessario un intervento chirurgico, gli altri se la cavano con un po’ di medicazioni, tornano a casa, là, fuori dal cancello bianco e rosso dell’ospedale, tornano da dove sono venuti. Non so se è proprio un “cavarsela”.
Ore 12.30, fine della “mass casualty”, dal distretto di Sangin arriva un paziente con un proiettile nell’addome. Lo portano i ragazzi di uno dei nostri Posti di primo soccorso. Poco dopo un ragazzino di 12 anni, scheggia nell’inguine… ricomincia la silente processione.
“Come va a Lashkar-gah?”. “Al solito… va tutto come al solito”.
Roberto, infermiere di Emergency in Afghanistan
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«L'approccio sistematicamente antinomico del mistero per i Padri greci ha creato un tipo di pensiero per tensioni che è rimasto oggi la molla dello spirito di ricerca,
in contrasto con il monismo delle sapienze orientali, con lo sfondo monofisita delle loro tecniche di interiorità.
Se Cristo è allo stesso tempo vero Dio e vero uomo in una sola Persona;
se questa Persona, a sua volta, è allo stesso tempo distinta e consustanziale nel seno della Trinità,
ne deriva l'obbligo di "pensare insieme" dei termini opposti. (...)
La passione della sintesi è passione dell'impossibile,
l'investigazione nasce e rinasce senza fine da una tensione mai risolta».
Olivier Clément, Il senso della terra, 76