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«Drogato» di internet un teenager su venticinque
C'è chi non va a scuola per rimanere connesso, e chi si ammala di depressione
di Antonino Michienzi
Stanno male quando non sono connessi, diventano ansiosi e l'unica medicina in grado di placarli è un computer o uno smartphone che li rimetta in Rete. Quella da internet somiglia sempre più a una vera e propria dipendenza che, inoltre, aumenta per i giovani “drogati” il rischio di andare incontro a depressione e comportamenti aggressivi. È questo il ritratto di una cospicua fetta di ragazzi tra i 14 e i 18 anni - il 4 per cento - che emerge da uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Psychiatry. I numeri sono americani, ma non ci sono ragioni per credere che almeno le conseguenze della dipendenza siano diverse al di qua dell'Atlantico.
STUDENTI SOTTO LA LENTE - La ricerca ha coinvolto 3.500 studenti di dieci high school del Connecticut (grosso modo i nostri licei) a cui è stato sottoposto un lungo questionario sulla loro salute, le abitudini ed eventuali comportamenti a rischio. Tra le domande, anche alcune sul rapporto con internet, attraverso cui i ricercatori intendevano non soltanto misurare il tempo passato in rete - che comincia a essere una misura sempre meno affidabile, ai tempi dell'always on - ma soprattutto identificare comportamenti di consumo problematico. I ragazzi si sono quindi trovati a rispondere a quesiti come «Hai saltato la scuola o altre importanti attività sociali perché eri impegnato su Internet?», oppure «Senti una crescente tensione o ansia che può essere alleviata soltanto connettendoti a Internet?». Il 4 per cento del campione ha mostrato un uso problematico del mezzo. Le ragazze sembrano più consapevoli dei rischi: il 12 per cento teme infatti di avere un problema con internet a fronte del 9 per cento dei ragazzi. Mentre questi ultimi più frequentemente si lasciano prendere la mano: il 17 per cento di essi passa più di 20 ore connesso e il 9 per cento ha saltato la scuola per stare on line. Inoltre, dall'analisi dei dati è emersa una correlazione tra l'uso problematico di internet e depressione, comportamenti a rischio (fumo o uso di sostanze stupefacenti, per esempio) o aggressivi.
SCREENING NELLE SCUOLE - Non è una novità che possa esserci un rapporto tra Internet e depressione. Già la scorsa estate, uno studio analogo, condotto però su un campione di mille ragazzi cinesi, aveva raggiunto le stesse conclusioni. La ricerca, pubblicata sugli Archives of Pediatrics & Adolescent Medicine aveva riscontrato un uso problematico di internet nel 6,2 per cento dei ragazzi e le probabilità che gli studenti appartenenti a questo gruppo soffrissero di depressione erano di 2 volte e mezzo più elevate rispetto alla popolazione generale. Numeri che hanno indotto i ricercatori a lanciare una vera e propria chiamata alle armi: «Gli interventi precoci e la prevenzione sono efficaci per ridurre l'impatto della depressione nei giovani», hanno affermato gli autori dello studio. «Perciò sarebbe opportuno prendere in considerazione l'idea di avviare in tutte le scuole programmi di screening per l'uso problematico di internet che consentano di individuare precocemente e curare gli individui a rischio».
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Il peccato
di don Giovanni Moioli, teologo (1931-1984)
Passiamo ora a una seconda "parola difficile", la parola peccato. E' anche questa una parola abbastanza lontana e difficile da ricuperare nella nostra mentalità e nella sensibilità, ma dobbiamo farlo: diversamente non potremmo fare una meditazione cristiana sul Crocifisso. Sacrificio ci dice già molte cose: peccato ce ne dice altre.
I peccati non stanno sospesi per aria, come se si potesse dire: Do è là, noi siamo qua e in mezzo c'è questa "cosa" - il peccato come fosse una nuvola nera che basta spazzare via con un colpo di vento e tutto ritorna come prima.
No! I peccati non sono cose: si potrebbe dire che gli uomini fanno i peccati ma, in un altro senso, si potrebbe dire che i peccati fanno i peccatori e quindi il discorso si sposta.
Chi sono i peccatori? I peccatori non sono, di fronte alla croce del Signore, soltanto i crocefissori di Gesù. I crocefissori rappresentano come una finestra aperta sul mondo degli uomini, come li vede Dio. Da questo gruppo di persone che mette a morte Gesù, noi siamo invitati a guardare oltre. Allora la croce diventa gesto di comunione per i crocifissosi, certamente, ma anche per tutti, dal primo all'ultimo degli uomini.
I crocefissori esprimono una situazione che è di tutti. Il Signore dice:"Perdona loro perché non sanno quello che fanno" e quel "loro" sono tutti, sono la situazione generale degli uomini.
Che cosa vuol dire questo?
C'è una parola del Vangelo di Luca, quando il Signore invita a pregare e a chiederre lo Spirito Santo, a che dice:"Se voi, che siete cattivi, sapete dare le cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono". Il Signore definisce tutti come cattivi.
Chi siamo? Siamo cattivi. "Perdona loro" vuol dire che gli uomini sono capaci di fare peccati e li fanno e Dio decide ugualmente di essere per loro, per tutti gli uomini fino al dono di sé.
Ma vuol dire una cosa molto più difficile e misteriosa. Vuol dire che prima ancora di ciò che l'uomo fa o non fa, prima ancora degli atti che l'uomo compie non amando Dio ma allontanandosi da lui. Dio non può non incontrare l'uomo, figlio di Adamo, se non misericordiosamente.
Ogni essere umano non può essere incontrato in maniera neutrale da Dio; è sempre incontrato con un gesto di misericordia e misericordia vuol dire superamento dell'"inimicizia" di una situazione che non è quella che Dio ha voluto per noi e che quindi è nemica dell'uomo.
L'uomo è voluto da Dio a immagine del Figlio suo, Gesù Cristo, e invece compare, prima ancora di quello che fa o non fa, in questa situazione di inimicizia. E Dio lo incontra misericordiosamente.
Diciamo a proposito di questa inimicizia: "peccato originale". Quando noi diciamo peccato originale, parliamo di un peccato di cui non siamo responsabili e che non ha nulla a che vedere con il peccato di cui siamo responsabili. Mettendosi dal suo punto di vista, Dio dice: Tu devi essere come il Figlio mio e non lo sei. E tuttavia io non dico che sto da questa parte e tu dall'altra, ma ti incontro misericordiosamente.
E' il mistero della maniera con cui Dio incontra misericordiosamente ogni creatura umana perché, anziché essere come il Figlio suo, è come Adamo, peccatore, pur non essendo responsabile di questo "peccato", come invece è responsabile degli atti che liberamente l'uomo pone contro Dio anziché per amore di Dio.
Parliamo di peccato "originale", dunque, per dire, nonostante usiamo il medesimo termine - "peccato" - che non ne siamo responsabili: eppure, fino a questa radice bisogna che giunga la fedeltà misericordiosa di Dio a creare una nuova solidarietà. Non la solidarietà di quando eravamo peccatori, solidarietà nel fare il male, ma una solidarietà nuova, quella che è incentrata sul nuovo capo dell'umanità che è Gesù Cristo.
Bisogna dunque che noi, di fronte alla croce del Signore, pensiamo che quel gruppo di peccatori che esprimono l'inimicizia con Gesù, sono finestra aperta su tutti i comportamenti di inimicizia con Dio che noi siamo capaci di creare.
Bisogna che andiamo più in là e che riconosciamo che Dio ci raggiunge strappandoci anche fuori da un livello di contrarietà, in rapporto a Dio, che non è messo in atto dai nostri peccati e che però è molto reale, è connesso con la libertà del comportamento dell'uomo di fronte a Dio: quello che noi chiamiamo il peccato di Adamo.
Non abbiamo microscopio per scrutarlo, non abbiamo nessuna esperienza di questa realtà, ma dobbiamo accettare di dover essere accolti dalla misericordia di Dio, in ogni caso molto al di là di quello che noi saremmo capaci di sospettare.
E allora diremo: "Ti domando perdono dei miei peccati, ti domando perdono delle cattive inclinazioni che sono dentro di me, ma ti ringrazio perché la tua fedeltà mi raggiunge con una misericordia che non so nemmeno sospettare e che corrisponde a una situazione molto triste che si chiama quella di peccato e che, con la terminologia cristiana, va qualificata come peccato originale".
Dobbiamo essere cosi davanti a Dio: bisognosi di misericordia. Ma la croce del Signore mi dice che questo bisogno di misericordia non resta inevaso e che Dio mi raggiunge fin dove può, al di là dei miei atti di peccato, dei miei gesti di peccato.
"Sacrificio della Nuova Alleanza per la remissione dei peccati": pensate quanto la meditazione cristiana ha vissuto davanti al Crocifisso questa esperienza, quanto San Carlo ha pianto davanti al Crocifisso! Non ci sarà bisogno che piangiamo anche noi fisicamente ma, al di là dei piangere vero e proprio, pensate che San Carlo ha avvertito il senso dell'essere peccatore davanti al Crocifisso, il senso della nostra fragilità e della nostra miseria e insieme la sicurezza di poter contare su una misericordia che arriva al di là anche di quello che potremmo immaginare.
tratto da "La parola della croce", 32-35
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Alcol, in Italia 8,6 milioni a rischio. Bevono sempre di più le ragazzine
Aumenta del 10% il numero di ricoveri ospedalieri. Cresce la percentuale di ragazze tra 14 e 17 anni consumatrici di alcol: è raddoppiata in 15 anni, toccando il 14,6%
di Valeria Pini
Spesso si sottovalutano i pericoli di quel bicchiere in più. Gli italiani continuano a bere: non più, come una volta, il classico consumo "mediterraneo", fatto di grandi boccali di vino a tavola, ma il ben più rischioso 'binge drinking', fuori pasto, soprattutto di superalcolici. Perché cresce la voglia di sbornia. Ormai sono oltre 8 milioni 600mila gli italiani "a rischio": la percentuale di ricoveri ospedalieri è cresciuta del 10%. L'alcol uccide di più di altre sostanze e nel nostro paese la mortalità alcol correlata rimane superiore alla media europea. Fra le emergenze c'è anche quella del consumo eccessivo da parte dei giovani, in particolare delle teenager. Aumenta la percentuale di ragazze tra 14 e 17 anni che consumano bevande alcoliche: è raddoppiata in 15 anni, toccando il 14,6%. Sono i dati allarmanti contenuti nell'analisi del ministero della Salute per l'Ottava 1relazione al Parlamento su alcol e problemi correlati 2.
Giovani a rischio. Il decennio 2000-2010 ha visto in particolare la crescita fra i giovani di consumare vino e birra, ma anche superalcolici, aperitivi e amari, che implicano spesso 'la bevuta' lontano dai pasti e con frequenza occasionale. Lo fanno fuori dai pasti e questo aumenta i pericoli per la salute: nella fascia di età 18-24 anni i consumatori fuori pasto sono passati dal 33,7% al 41,9% e tra i giovanissimi di 14-17 anni dal 14,5% al 16,9%. "Nove milioni di persone non seguono le linee guida nutrizionali dell'Inran, l'Istituto nazionael di ricerca per gli alimenti e la nutrizione, ispirate alla moderazione - spiega spiega Emanuele Scafato, direttore dell'Osservatorio nazionale alcol dell'Istituto Superiore di Sanità 3, che ha elaborato i dati . - Tra questi preoccupano i 400.000 minori al di sotto di 16 anni che non dovrebbero ricevere bevande alcoliche né in famiglia, né nei luoghi di aggregazione"
Pubblicità sotto accusa. Tra le ragazze tra 14 e 17 anni nell'ultimo quindicennio la quota di consumatrici fuori pasto si è quasi triplicata. "Le ragazzine seguono di più le mode per questo sono più a rischio. Le mode sono stimolate dalle pubblicità che fanno apparire performanti le persone che consumano le bevande alcoliche. Hanno anche scoperto l'azione di disinibizione dell'alcol. Questo aiuta loro a superare la timidezza e così hanno più facilità di relazioni".
Voglia di sbornia. Anche il binge drinking si è ormai diffuso stabilmente a partire dal 2003, registrando un costante aumento in entrambi i sessi, e nel 2010 ha riguardato il 13,4% degli uomini e il 3,5% delle donne. Complessivamente, secondo i dati dell'Istituto Superiore di Sanità, il 25,4% degli uomini ed il 7,3% delle donne di età superiore a 11 anni, circa 8.600.000 persone, consumano alcolici senza rispettare le indicazioni di consumo delle agenzie di sanità pubblica, esponendosi a rischi alcolcorrelati. "Almeno il 13% della popolazione beve almeno una volta all'anno per ubriacarsi, il binge drinking - dice Scafato - . L'alcol fa molto più male quanto più è concentrato il consumo. Il problema è quello dell'intossicazione alcolica. Sono aumentati i ricoveri ospedalieri".
Modelli sbagliati. Resta da chiedersi come mai c'è sempre più voglia di ubriacarsi. "Il modello a livello globale è quello dello sballo. L'alcol è solo un mezzo per trasgredire - spiega Simona Pichini dell'osservatorio Fumo, alcol e droga dell'Istituto superiore di sanità e rappresentante nazionale per le politiche sull'alcol presso l'Oms - . E' più facile reperirlo rispetto alla droga, non è illegale ed è più accettato socialmente. Nell'età adolescenziale si trasgredisce facilmente, ma se il modello familiare è sano in genere si torna alla normalità".
La mortalità. "La mortalità è superiore alla media europea , circa 20.000 morti l'anno - aggiunge Scafato - . L'alcol è una sostanza per la quale c'è la minore percezione di rischio. Si sa che è pericoloso guidare dopo una bevuta, ma va ricordato l'alcol influisce anche sull'insorgenza di 60 malattie come ad esempio 12 tipi di tumore. In Italia è bassa la percezione del rischio, soprattutto al fatto che si beve sempre di più fuori pasto. Bere durante il pasto si dimezza la concentrazione della sostanza nel sangue".
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Sono pessime le preghiere dei fedeli del foglietto della messa festiva ambrosiana...
don Chisciotte
Preghiera dei fedeli? Non in fotocopia
di Diego Andreatta
Per cogliere la temperatura di una comunità, un buon termometro è la preghiera dei fedeli. Dopo il monologo dell'omelia e la recita corale del Credo, è una voce di laico che riassume e rilancia le "intenzioni" che stanno nel cuore di una piccola Chiesa locale. Ringraziamo il Vaticano II che nella sua riforma liturgica ha recuperato dopo secoli questo spazio di "risposta" corale alla Parola del giorno.
Soprattutto quando sono espressione del confronto in un piccolo gruppo, le preghiere riescono a far arrivare all'ambone il vissuto dei laici, confermando intime attese o alimentando attenzioni nuove. E pure nel rispetto dello schema suggerito a cerchi concentrici (per la Chiesa, per i governanti e il mondo, per chi è in difficoltà, per la comunità locale) salgono spesso dai foglietti scritti a mano le attese più genuine, condivise e rese davvero universali.
Non sempre e dappertutto - si sa - la preghiera dei fedeli è così. Talvolta è proposta con troppa fretta, alla velocità di un treno espresso che non rispetta nemmeno le fermate delle risposte, come si trattasse di un elenco scritto da altri e per altri, da terminare prima possibile, e via col canto d'offertorio.
L'"effetto mitraglia" si riscontra soprattutto quando si utilizzano i foglietti prestampati, inevitabilmente generici per la loro "copertura" nazionale, purtroppo spesso recitati a macchinetta.
Un correttivo è il ricorso a qualche modifica nella formula (ad esempio: "Dio nostro Padre, ascolta la nostra preghiera!") che spesso però comporta degli sforzi di memoria soprattutto in caso di risposte complicate come "Conduci il tuo popolo verso la luce" oppure "Tu che sei il nostro Dio, ascoltaci!". Queste formule troppo contorte, alle quali allora preferiamo il popolare "Ascoltaci, o Signore!" sfociano in esiti tragicomici quando, ad esempio, dopo aver pregato per "i tre anziani fedeli della nostra comunità che ci hanno lasciato in questa settimana" ci si trova ancora a rispondere con un equivoco "Rinnova la tua Chiesa, Signore!".
Altri tentativi non proprio esemplari sono le invocazioni del tipo "Preghiamo per la Giornata annuale della solidarietà fra le parrocchie", dove non si capisce bene perché con tutte le persone che ci chiedono il loro ricordo concreto noi ci preoccupiamo di questa signora Giornata.
Ma non è solo problema di formulazioni o tanto meno di formulari, peraltro rintracciabili sempre più facilmente anche in rete. La riflessione mira invece ai contenuti tematici delle preghiere dei fedeli , quelli che possono sprigionarsi "con una sapiente libertà" dal nostro cuore e dal filtro di un ascolto attualizzato della Parola di Dio.
E' come aprire delle finestre in cui far entrare sulla mensa eucaristica l'aria fresca della vita reale, soffiata con la loro fatica dai laici. E quelle finestre sono spalancate sulle tragedie lontane e vicine - senza trasformare la lista in bollettini di guerra - se non vogliamo richiudere le nostre liturgie dentro campane di vetro.
"La preghiera dei fedeli - ha scritto un cristiano che lavora in fabbrica - è il momento pulito della speranza, il momento di fede. Finalmente gli stessi problemi di tutti i giorni li possiamo dire ad alta voce, in una attenzione corale, consapevoli che la preghiera mia diventa anche la preghiera dell'adolescente e del pensionato, del bambino e della casalinga. E' bello sentire che una voce sonora si apra un varco per portare i problemi di ogni giorno, quelli dei miei amici di fabbrica, della cronaca nera dei giornali, della fatica o della tragedia. Detti qui, i nostri momenti di vita diventano grandi, capaci di avere spessore e dignità. Ma è bello che ci siano anche i raccordi con il ringraziamento, la gioia per i cammini che si fanno, per gl'incontri"
Non a tutto si può e si vuole dare voce: attenzione è richiesta anche dal momento di silenzio prima dell'orazione finale, spesso sacrificato al ritardo sull'orologio; è invece uno spazio di raccoglimento da proteggere, in cui sgorga quello che possiamo condividere solo nel silenzio.
Ma è il celebrante stesso - si dirà - a impossessarsi talvolta della preghiera. Il rammarico non nasce perché anch'egli non sia uno ...dei fedeli, ma perché si priva del lasciarsi arricchire dalla sensibilità dei laici e di poter capire che cosa sta in cima alle loro preoccupazioni questa settimana.
"Sai, papi, oggi a Messa abbiamo pregato anche per le persone che sono rimaste senza lavoro...." vengono dai bambini le sottolineature a memoria delle intenzioni più efficaci.
Qualche sforzo di preparazione in più se le merita la benemerita "preghiera dei fedeli": senza mai diventare un teatrino o uno sportello-reclami, costituisce uno spazio di annuncio che raggiunge anche i "Missaroli" più occasionali. Cosa penseranno di certe intenzioni-fotocopia?
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Prigionieri del silenzio? Parlate con il cuore Il confronto con sé stessi rende più autentici
di p. Carlo Maria Martini
Eminenza, il Parkinson l'ha privata della voce, mezzo grazie al quale noi tutti ci riconosciamo. Il silenzio molte volte spaventa. Ora che è spinto ad ascoltare la sua «voce interiore», ha intrapreso una sorta di «nuovo viaggio» nel quale trova emozioni, sensazioni o certezze che prima non riusciva a cogliere? Attraverso la «cattedra dei non credenti» ha voluto porre attenzione prima di tutto al dialogo interiore, quello tra la nostra componente credente e quella non credente che, interrogandosi a vicenda, stimolano il cammino che porta verso la propria autenticità. Quel lungo cammino che lei ha certamente vissuto con grande passione e sincerità, oggi dove l'ha portata? È possibile raggiungere quella profonda autenticità personale o si tratta di qualcosa che si pone sempre un passo oltre?
Elena Foradori, Stefano Paternoster e gli studenti del «Progetto Presenti» Liceo da Vinci di Trento
Ho sempre pensato che parlare con i giovani è più fruttuoso che parlare dei giovani. Queste lettere me ne danno l'occasione e vi ringrazio per la vostra sensibilità umana e spirituale. In verità voi mi cogliete nel mezzo di un processo che penso sarà ancora un po' lungo. Mi trovo in una condizione che non è ancora di totale afonia. Grazie all'aiuto di terapisti e con l'ausilio di mezzi tecnologici posso ancora comunicare, seppur con molta fatica. Non riesco quindi a descrivere bene ciò che sto vivendo, se un chiudersi della comunicazione verbale o lo sforzo di parlare ancora malgrado tutto. Non ho paura del silenzio. Mi vado chiedendo tuttavia cosa voglia dirmi il Signore con questa crescente difficoltà che da un lato sto combattendo, dall'altro sto accettando. Invoco il patrocinio di Papa Wojtyla, perché il suo gesto più umano fu quello di battere il pugno sul tavolo quel giorno in cui ebbe l'evidenza di non poter più comunicare a voce con la gente. Lui sa quanto sia faticoso non poter esprimere verbalmente ciò che si ha nel cuore. Sono ancora, quindi, in viaggio e come ogni viaggio vedo e sperimento cose nuove. Sento che si tratta di una condizione che apre a orizzonti misteriosi, senza dover confliggere necessariamente con altri orizzonti. Inoltre, con gioia noto che avete colto, nonostante siano passati ormai anni, lo spirito profondo di quella che fu una iniziativa che ebbe anche le sue critiche. È vero, in noi vivono un credente e un non credente, in una armonia tra loro difficile, ma che interrogandosi a vicenda e sforzandosi di trovare le risposte pertinenti aumentano la nostra autenticità. Mi pare dunque che sia possibile giungere a quella che si può intendere come una forma di autenticità personale. Su queste cose ci sarebbe molto da discutere. Io però in questo tempo mi sto soprattutto esaminando sul Vangelo e mi incolpo sulle mie non autenticità alla Parola di Dio. Si tratta in ogni caso di un cammino per luoghi impervi e scivolosi, di cui non saremo mai certi dell'esito. Penso si tratti di un continuo svuotamento di sé per fare spazio a Gesù. A quanto ci dicono i grandi autori spirituali di ieri e di oggi, questo svuotamento non è un impoverimento anzi, siamo riconsegnati a noi stessi più autentici di prima. Ma, certamente, oltre ogni tappa raggiunta c'è e ci sarà sempre qualcosa o qualcuno.
in “Corriere della Sera” del 26 febbraio 2012
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Nel "Deserto della Quaresima". All'inizio del cammino che portera' alla Pasqua di Resurrezione, con padre Claudio Bottini, ex decano dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, proprio in quella zona del deserto di Giuda che una tradizione medievale fa risalire al luogo dove Gesu' ha sostato in preghiera per piu' di un mese.
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Anche quest'anno non ce l'ho fatta a non postare il video della travolgente e commovente canzone di Davide Van De Sfroos, "El Carnevaal de Schignan".
Per capirla meglio, qui trovate una descrizione delle maschere del carnevale che si svolge nel paese di Schignano.
El Carnevaal de Schignan
di Davide Van De Sfroos
Soe questa strada soe questra strada
una cürva al giàzz una cürva al suu
L'è questa strada che la rampéga
quella dei noni e di mè neuu
Sun staa luntan per tropi ann
ho lauuraa e majà foe tücoos
e questa schena de tartarüga
soe questa strada la porti a ca'
La nocc l'è fregia la nocc l'è scüüra
ma una fiamàda la sbranerà
Mìlà büceer cume autoscontri
e anca el Zepp el brüserà
de questa sira gh'èmm pioe una lengua
gh'èmm pioe una facia
gh'èmm pioe un mestée
dumà un vestìi una buteglia
e questa maschera de lègn
Taca la baraunda
curianduli cuntra i pensèe
intaant che'l Brütt el dunda
el Bell fa vede'l butasc
Denaanz gh'è'l Mascheron
sübit dopo la Sigürtà
de dree i düü Sapoer
dumà la Ciocia la parlerà
ai gabul de la tua vita
te ghe penseret duman
podet mea scapàa del Carnevaal de Schignan
Tütt el paees el g'ha veert la porta
e ogni porta l'ha g'ha deent quajvoen
gh'è pioe urelocc gh'è pioe campana
solo bronze e petardi e s'ciopp
e questa maschera che me scuund
la tegni fissa la moli mai
L'ünica facia che g'ho l'è questa
perché quel'oltra so pioe in due l'è
La vedi riid l'eri spusada la paar cuntenta
la trovi bee chissà i fioe se s'iin vestii
se g'hann la maschera anca i neuu
ghe vo visén la branchi sciàa
per tri menütt la fo balàa
nissoena maschera cambia facia
anca se suta gh'è un omm che piaang
Taca la baraunda
curianduli cuntra i pensèe
intaant che'l Brütt dunda
el Bell fa vede'l butasc
Denanz gh'è'l Mascheron
subit dopo la Segürtà
dedree i düü Sapoer
dumà la Ciocia la parlerà
ai gabul de la tua vita
te ghe penseret duman
Soe questa strada soe questra strada
una cürva al giàzz una cürva al suu
L'è questa strada che la rampéga
quella dei noni e di mè neuu
Turni luntan un oltru ann
vo' a laurà e majà foe tücoos
e questa maschera intagliada
anca stasira la porti a ca'
Il Carnevale di Schignano
Tradotta da GR
Su questa strada su questa strada
Una curva al ghiaccio una curva al sole
E' questa strada che si arrampica
Quella dei nonni e dei miei nipoti
Sono stato lontano per troppi anni
Ho lavorato e ho speso tutto
E questa schiena di tartaruga
Su questa strada la porto a casa
La notte è fredda la notte è scura
Una fiammata la sbranerà
Mille bicchieri come autoscontri
E anche il Zep brucerà
E questa sera non abbiamo più una lingua
Non abbiamo più una faccia
Non abbiamo più un mestiere
Solo un vestito, una bottiglia
E questa maschera di legno
Comincia la baraonda
Coriandoli contro i pensieri
Intanto che il Brut ciondola
Il Bel mostra il pancione
Davanti c'è il Mascheron
Subito dopo la Sigurtà
Dietro i due Sapor
Solo la Ciocia parlerà
Ai guai della tua vita
Penserai domani
Non puoi scappare dal Carnevale di Schignano
Tutto il paese ha aperto la porta
E ogni porta ha dentro qualcuno
Non c'è più orologio né campana
Solo braci e petardi e scoppi
E questa maschera che mi nasconde
La tengo forte non la mollo mai
L'unico volto che ho è questo
Perché l'altro non so più dove sia
La vedo ridere, l'avevo sposata, e sembra contenta
La trovi bene chissà se i figli sono in maschera
Se hanno la maschera anche i nipoti
Ci vado vicino la prendo con me
Per tre minuti la faccio ballare
Nessuna maschera cambia la faccia
Anche se sotto c'è un uomo che piange
Comincia la baraonda
Coriandoli contro i pensieri
Intanto che il Brut ciondola
Il Bel mostra il pancione
Davanti c'è il Mascheron
Subito dopo la Sigurtà
Dietro i due Sapor
Solo la Ciocia parlerà
Ai guai della tua vita
Penserai domani
Su questa strada su questa strada
Una curva al ghiaccio una curva al sole
È questa strada che si arrampica
Quella dei nonni e dei miei nipoti
Sono stato lontano per troppi anni
Vado a lavorare e spendo tutto
E questa maschera intagliata
Anche questa sera la riporto a casa
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I nuovi santi: laici e sposati
di Luigi Accattoli
Secolo che vai santo che trovi: l'ideale della «perfezione» innerva tutte le stagioni del cristianesimo, ma passando dall'una all'altra mette foglie e frutti tra loro diversissimi. Ecco come sogna d'essere santa Teresa di Lisieux (1873-1897): «Io mi sento la vocazione di guerriero, di prete, di apostolo, di dottore, di martire. Io sento nell'anima mia il coraggio di un crociato, di uno zuavo pontificio, io vorrei morire su un campo di battaglia per la difesa della Chiesa». Vorrebbe essere tutto, la piccola Teresa, ma non le viene in mente la possibilità di essere santa nella vita di famiglia, di fidanzata, o sposa, o madre. Eppure vi sono state sante canonizzate tra le spose e le madri, ma non nel tempo della piccola Teresa: vi erano state nel Medioevo e vi sono oggi. Nella stagione della Controriforma la vasta tipologia della santità medievale
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C'è la crisi, boom dell'auto condivisa
di Daniele Sparisci
Prezzi record dei carburanti, crisi e tariffe dei treni e delle autostrade sempre più elevate fanno volare il carpooling, il servizio di condivisione dei posti in auto fra privati. In un anno i passaggi sono triplicati: dai 29 mila del febbraio 2011 si è passati agli oltre 100 mila, secondo un'indagine di postoinauto.it, uno dei principali operatori italiani. A Crescere Lombardia, Emilia, Veneto e Toscana. Roma-Milano, con 13 mila richieste, è la tratta più transitata dai nuovi autostoppisti digitali. Basta registrarsi e inserire una domanda o un'offerta di passaggio: lo scambio di informazioni avviene via mail o per telefono e per essere più sicuri alcuni siti, come anche roadsharing, utilizzano un sistema di ranking per dare i voti ai piloti e ai passeggeri.
Tornando al rapporto, nell'ultimo anno l'offerta di passaggi è aumentata del 138%. Così come la richiesta. La maggior parte degli autostoppisti sono giovani con un'età compresa fra i 25 e i 34 anni (26%), mentre al secondo posto troviamo studenti dai 18-24 (24%), spesso fuorisede che per risparmiare qualche soldo si rivolgono al car pooling. Perché, soprattutto nei periodi di alta stagione, non c'è confronto che regga con l'aereo o con il treno. In quattro una trasferta da Milano a Roma costa poco più dio 30 euro, contro i 91 del Frecciarossa in seconda classe e circa 90-100 di un volo. L'unica forma di concorrenza, probabilmente, è data dalle compagnie «low cost», che però di solito durante il fine settimana praticano prezzi più elevati. E per spuntare le tariffe migliori i, spesso bisogna acquistare il biglietto con largo anticipo.
A crescere è anche l'età media di chi mette a disposizione la propria auto: 39 anni, contro i 26 di fa l'autostop. E il 36% degli utilizzatori frequenti è composto da donne. Difficile tracciare un identikit, il fenomeno è trasversale: si va dal dirigente d'azienda, all'impiegato statale, passando militari, tecnici e studenti. Molte attive le aree metropolitane: quasi 3 mila passaggi condivisi a Roma e a Milano; a seguire Bologna, Modena, Verona e Pavia. Tuttavia, in rapporto al numero di abitanti è Belluno la città più virtuosa, seguita da Pistoia. Ma al centro-sud il servizio non decolla: ad eccezione della Puglia e di alcune zone della Campania, il Meridione rimane il fanalino di coda. «Con la benzina ormai a oltre 1,80 euro
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Rispetto al post precedente, quanto mi sembra nebuloso il linguaggio (anche) degli interventi all'ultimo Consiglio Pastorale diocesano.
Tanti termini; abbondante arte oratoria; mancanza di conclusioni.
Non possiamo ridurre tutto e sempre ad un indistinto "fascino" e "contagio" dell'esperienza personale del cristiano, senza mai toccare la "struttura" della compagine ecclesiale, quel corpo che dovrebbe essere la "forma" bella della vita alla maniera dei cristiani. E invece non lo è.
Due piccoli segni del fatto che una certa "struttura" continui a pesare: 1) gli unici file audio del Consiglio Pastorale diocesano sono quelli degli interventi dell'arcivescovo; 2) osservate bene cosa riprendono le foto dell'evento pubblicate sul sito diocesano...
Sappiamo ciò di cui c'è bisogno (e tante belle esperienze ecclesiali ce lo testimoniano), ma guardiamo da un'altra parte.
don Chisciotte
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Che cos'è la corresponsabilità nella Chiesa?
di Nicole Lemaitre
Sono stati pubblicati gli atti di un convegno organizzato nel 2009 sulla corresponsabilità nella Chiesa. Nel 1968, il cardinal Suenens, importante protagonista del Concilio Vaticano II, pubblicava un manifesto su La coresponsabilité nella Chiesa. In diversi luoghi, la nozione è stata messa in pratica da clero e laici, come nella comunità Saint-Luc a Marsiglia. Il libro descrive, nel riflesso della sociologia, della teologia e della psicologia, la realtà della corresponsabilità nella Chiesa, la tensione tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è attualmente: come può essere esercitata la cooperazione tra clero e laici, ma anche tra laici, per il bene della Chiesa? Il sociologo Olivier Bobineau affronta il problema nella “governamentalità” (Foucault) delle parrocchie. In questa istituzione, il parroco non ha sempre avuto il potere assoluto: nel Medio Evo centrale, dipendeva da coloro che lo nominavano. Ha ottenuto un po' di potere nella cura animarum, attraverso il monopolio dei sacramenti e in particolare della confessione dopo il IV Concilio lateranense (1215), ma senza quello della gestione dei beni della Chiesa, lasciata ai laici ricchi. Questa gestione distinta è rimessa in discussione a favore del parroco dal Concilio di Trento (1545-1563). Ma il grande periodo dei parroci è il XIX secolo, quando sono formati in maniera uniforme nel seminario e riconosciuto come sostegno dell'identità locale per la loro azione di beneficenza e di istruzione. Nel XX secolo, l'identità tridentina si indebolisce e il cristianesimo si adatta per rispondere ai bisogni della missione ma senza che l'istituzione si muova. Alla fine del XX secolo, siamo passati dalla “logica dello spazio chiuso governato da un centro” a quella del “raduno volontario di individui autonomi” (Codice di diritto canonico 1983), in altre parole, un funzionamento di tipo associativo per una parrocchia che deve essere insieme “comunione” e “missione” dice Giovanni Paolo II (Christifideles laici,i 1988). L'impegno dei laici è promosso, per compensare la penuria di preti ma ache per partecipare allo sviluppo locale. I rapporti dei credenti con l'istituzione sono cambiati. Da una “religione dei padri”, sono passati ad una “religione dei fratelli” (Hervieu-Léger), il che impone un modo nuovo di governance nel quale l'istituzione non è entrata. Quest'ultimo è fondato teologicamente nell'opera di Alphonse Borras a partire dallo slogan dell'Assemblea generale dell'episcopato francese nel 1973: “Tutti responsabili nella Chiesa”, e dall'esortazione apostolica Christifideles laici: “In virtù di questa dignità battesimale comune, il fedele laico è corresponsabile con tutti i ministri ordinati e con i religiosi e le religiose della missione della Chiesa”. Così il battesimo mette ciascuno a servizio di Dio e della sua Chiesa con le tria munera docendi, sanctificandi et regendi (tre “missioni”: insegnare, santificare, governare), non dimenticando che munus (plurale munera) in latino significa sia incarico che dovere e responsabilità. Ma questo non determina una pratica e quindi la parola “corresponsabilità” è una promessa più che una realtà. La corresponsabilità si realizza a partire dalla nozione di comunione, nel senso di ciò che è la vita trinitaria: tutti i fedeli vi sono presenti, a causa della loro partecipazione alla grazia dei sacramenti. Basta allora aggiungerci la sinodalità (con l'etimologia di camminare insieme ciascuno al proprio ritmo ma da eguali) per parlare di una dinamica di un'apertura all'universale. Le parole rivisitate di comunione e sinodalità propongono un nuovo modo di fare Chiesa nel contesto attuale del passaggio dei cattolici dalla dominazione sociale ad una minoranza dai confini incerti, non senza nostalgia per la parrocchia mitica e superata del XIX secolo. Sono infine esaminate le poste in gioco psico-sociologiche per cogliere questo fallimento del rapporto tra missione e governance. La delega nella comunità parrocchiale può essere sentita come un sacrilegio, una perdita di competenza o il timore della manipolazione, ma in ogni caso destabilizza e provoca dei conflitti. Nella seconda parte del libro, l'esperienza di alcune comunità viene raccontata in una grande varietà di situazioni canoniche, tra Marsiglia, Firenze, Parigi e Lilla. Ciascuno declina qui la sua maniera di percepire la corresponsabilità commentando le tre parole: identità, alterità, libertà. L'identità nasce dalla responsabilità, costruita a partire da attributi culturali diversi. L'alterità impegna la responsabilità dell'altro. La libertà di porre domande su tutto ciò che interpella è un presupposto della comunione. Per i partecipanti al convegno del 2009, la nuova ecclesiologia comincia con il battesimo. Assomigliano alla nostra CCBF (Conférence catholique des Baptisés francophones) come fratelli maggiori. La primavera di un nuovo cristianesimo, più aperto, più dinamico, più utopico... non sembra così lontana.
La corresponsabilité dans l'Église, utopie ou réalisme? dir. Olivier Bobineau e Jean Guyon, prefazione di Mons. Georges Pontier, DDB “Religion & Politique”, 2011, p. 270,
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Ma perchè a carnevale finisce che ci spogliamo tutte?
di Michela Proietti
Su Twitter seguo con divertimento quello che scrive una ragazza con una grande ironia. Qualche giorno fa ha pubblicato una cosa che, nel momento in cui l'ho letta, mi sono accorta di pensare anche io. «Ma perché le ragazze con la scusa del Carnevale si spogliano tutte nude?». Carnevale è finito (tranne a Milano, dove quello ambrosiano «prolunga» i festeggiamenti fino a sabato), e molte cose mi fanno pensare che la mia «amica» virtuale abbia ragione.
C'è una ragione «dotta» prima di tutto: l'ha ben spiegato qualche giorno fa Armando Torno sul Corriere, quando ha raccontato la scomparsa delle maschere tradizionali. Nessuna delle mie amiche, a Carnevale, ha pensato per un solo minuto di vestirsi da Colombina, con quel castigato vestitone da servetta veneziana, reso ancora più severo dal grembiule e dalla cuffietta in testa. Per par condicio devo riconoscere che nessun uomo ha manifestato l'intenzione di agghindarsi da Arlecchino o da Balanzone: quello del 2012 è stato il grottesco Carnevale del comandante Schettino. Ma c'è qualcosa di più.
Nella rincorsa all'abito giusto per la festa di Carnevale, nessuna cerca più l'abito da strega, ma quello da strega sexy. La gonna di Biancaneve si accorcia, il vestito da Morticia Addams diventa fasciantissimo, in un crescendo di sensualità.
Sulla rete proliferano siti che vendono o noleggiano abiti dove il Carnevale è solo il pretesto per osare quello che nella vita di tutti i giorni appare sconveniente e nessuno potrà scambiarmi per moralista se vi confesso che io stessa ho acquistato un abito che alla fine non ho mai indossato, ma che ho rivenduto a un'amica entusiasta di poterlo riciclare. «Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero», diceva Oscar Wilde
E allora mi chiedo se noi ragazze impegnate, evolute, demoralizzate davanti a una Belén quasi nuda sul palco di Sanremo (una delusione generazionale: se sei bella non puoi che tendere al velinismo e se sei solo carina al proto velinismo?), ecco proprio noi approfittiamo di una situazione fuori dalla norma per vestire un abito che tutto sommato non ci dispiace.
La questione, in fondo, è la stessa di Belén: è vero che non è stata costretta dagli autori a far svolazzare la gonna, è vero che lei gioca consapevole e fa la donna oggetto perché così le piace, ma il rischio è che alla fine non si fa che aderire a un codice precostituito e sinceramente un po'noioso se adottato in tempi di libertà.
Non saremmo forse addirittura più consapevoli del nostro potere di seduzione se riuscissimo ad esercitarlo (ben) vestite, senza ammiccamenti en-travesti ? Il prossimo Carnevale vestiamoci da Colombine, che ne dite? Anche perché alla fine, con il suo vestitone, teneva in pugno sia Pantalone che Arlecchino.
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Una fede indebolita nei palazzi degli intrighi
di Vittorio Messori
Di questi tempi, seguire certe non edificanti cronache vaticane può essere gustoso o rattristante, a seconda degli umori anticlericali o clericali. In realtà, non dovrebbe scomporsi più di tanto il cattolico che non solo conosca la storia della sua Chiesa ma che non sia dimentico degli avvertimenti del Vangelo. Questa Chiesa, cioè, è un campo dove buon grano e velenosa zizzania cresceranno sempre insieme; è una rete gettata a mare e nella quale convivranno sempre pesci buoni e cattivi. Parola di Gesù stesso, che esorta a non scandalizzarsi per questo e a non tentare neppure di dividere il sano dal guasto, riservando a sé questo compito nel giorno del Grande Giudizio. Esempio primo di questa situazione è ovviamente il centro e il motore della «macchina» ecclesiale: la Curia vaticana, cioè, l'amministrazione centrale di quella che la Tradizione chiama «la Chiesa militante». Beh, quanto a questo, non fu un eretico o un mangiapreti, bensì una santa che Paolo VI volle proclamare «dottore della Chiesa», la compatrona d'Italia, Caterina da Siena, a constatare: «La corte del Padre Santo Nostro sembrami talora un nido d'angeli, tal altra un covo di vipere». Bene e male, dunque, uniti nella stessa realtà, com'è di ogni cosa umana: e la Chiesa è anche una istituzione umana, è un involucro storico (con i limiti che ne derivano) per contenere un Mistero metastorico. Ma a una valutazione morale faremo un cenno più sotto. C'è, prima, un aspetto «organizzativo» da considerare. Va ricordato, infatti, che dal Vaticano odierno non giungono solo echi di «scandali» per affari, sesso, potere. E la macchina stessa dell'amministrazione che da anni ormai sembra incepparsi con inquietante frequenza; sono gli equivoci, le distrazioni, le gaffe diplomatiche, persino gli errori - magari in documenti solenni - in quel latino che è ancora la sua lingua ufficiale, ma che è conosciuto sempre meno e sempre peggio. D'accordo, la Curia, al pari della Chiesa stessa, semper reformanda est. Ma qui non sembra possibile una «riorganizzazione aziendale», perché sembrano mancare le forze fresche e di qualità. Gli infiniti uffici vaticani sono retti, sin dai tempi della Controriforma, da personale ecclesiastico che giunge da tutte le diocesi e da tutti gli ordini religiosi del mondo. Ma è un mondo, questo nostro, dove la maggioranza delle diocesi e delle congregazioni ha chiuso seminari e studentati per mancanza di frequentatori e il loro problema non è certo quello di inviare a Roma, al servizio della Chiesa universale, i giovani più promettenti. Questi giovani non ci sono e, se qualcuno c'è, è difeso gelosamente da vescovi e dai superiori generali. Eppure, dopo quel Vaticano II che avrebbe dovuto snellire la struttura ecclesiale, l'Annuario pontificio ha quasi triplicato le sue pagine, l'espansione burocratica non ha avuto sosta. Aumentano funzioni, posti, responsabilità, mentre vengono meno, anno dopo anno, le risorse umane. E i pochi rincalzi non sembrano in grado di portare quella schiacciante responsabilità che è gestire in terra nientemeno che la volontà del Cielo. Dunque, il realismo cattolico sembra imporre un drastico ridimensionamento della struttura di una Catholica che. di massa quale era, sta diventando o è già divenuta comunità di minoranza. Voler mantenere l'imponente apparato barocco quando le forze vengono a mancare (e le poche che ancora ci sono talvolta non sono adeguate) porta inevitabilmente agli sbandamenti e agli errori che si constatano nella gestione ecclesiale. Prendere, dunque, sul serio chi propone di ritornare al primo millennio, coll'affidare all'Unesco, come siti artistici e turistici, i palazzi sul colle Vaticano e tornare alla «vera» cattedrale del vescovo di Roma, quella di san Giovanni in Laterano, con una struttura istituzionale al minimo? Non è il caso di rifugiarsi in simili estremi, ma il problema esiste e dovrà essere affrontato, pur lontani da ideologie «sessantottine», di demagogia pauperista. Ma, dicevamo, sembra esserci anche un cedimento morale che non è solo sessuale (questione pedofili, ma non solo, docet) ma è anche il ritorno, quasi come ai tempi rinascimentali, di palazzi vaticani ridotti a nodi di intrighi e di lotte per carriere, poteri, denaro, interessi ideologici e politici. Ebbene, qui, non c'è riforma che tenga, qui non c'è rimedio solo umano. Qui, ogni tecnica di riorganizzazione aziendale è ridicolmente impotente e deve aprirsi allo «scandalo» della preghiera. Parola di papa Benedetto XVI ma, per decenni, parola anche del cardinal Joseph Ratzinger. Se la Chiesa è in crisi, ha sempre ripetuto, è perché è in crisi la fede degli uomini di Chiesa. Gerarchia non esclusa. Giunse a dirmi, una volta: «Al punto in cui siamo, lo confesso: la fede , quella piena, quella che non esita, mi sembra essersi fatta così rara che, incontrandola, mi stupisce di più che l'incredulità». Per questo è tornato alle radici di tutto, con i suoi tre volumi sul Gesù della storia, per questo ha voluto un organo apposito per la nuova evangelizzazione, per questo ha proclamato questo 2012 «anno della fede». L'intendance suivra, diceva Napoleone: prima la conquista, poi i funzionari dell'amministrazione. La Chiesa, papa Benedetto ne è certo, ha da fare essa pure una conquista, anzi una riconquista quella della fede nella storicità dei Vangeli, nel Dio che si è incarnato in una donna, in un Gesù che risorgendo ha mostrato di essere il Cristo. La Chiesa ha ormai pochi uomini e talvolta poco adeguati, come si dice? Ebbene, lo sfaldamento, per l'istituzione, sarebbe sicuro se chi è ancora «al lavoro nella vigna del Signore» (così ama dire il Papa) perdesse la prospettiva di impegnarsi non per un premio umano bensì divino. Se la fede vacilla o si spegne, se non è più la ragione quotidiana di vita, la pigrizia sorniona del burocrate è in agguato, il vecchio monsignore come il giovane religioso sono pronti a trasformarsi in funzionari da ministero clericale e, come tali, soggetti a ogni tentazione.
in “Corriere della Sera” del 13 febbraio 2012
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Viste queste foto, quasi quasi voglio essere fatto cardinale anch'io!
(Se qualcuno non l'avesse capito, sto scherzando!)
don Chisciotte
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Se lo sfondo non c'è più
di Gian Carlo OlcuireIl primo premio del World Press Photo è stato assegnato a un'immagine che di giornalistico ha poco, perché suscita emozioni senza dare informazioni. S'è parlato di una Pietà moderna e in effetti la postura dei due soggetti la ricorda: una donna con il niqab - il velo integrale che lascia scoperti solo gli occhi - tiene tra le braccia, adagiato sul grembo, un uomo a torso nudo, probabilmente ferito. La donna lascia vedere anche dei guanti di lattice, da infermiere, e l'uomo un tatuaggio. Ma entrambi non mostrano i volti: la donna l'ha velato e l'uomo l'ha coperto. Soprattutto non si vede nulla accanto e nulla dietro: se non si può dire che la foto sia posata, è indubbio che lo sfondo vuoto faccia pensare a quelli degli studi fotografici, sfumabili e colorabili a piacere. Quest'immagine, più che un racconto, è un simbolo: fa vedere pochissimo e tace della realtà dello Yemen, di cui siamo a conoscenza per le interviste rilasciate dal fotografo. Non che non sia una foto drammatica: solo esprime un dolore universale, quello di ogni madre/moglie/sorella che sta male per il proprio congiunto che sta male e si china teneramente su di lui. Ora, se da una parte ci sentiamo uniti a chi soffre, paradossalmente ignoriamo quasi tutto di quella sofferenza specifica. E allora domandiamoci se la nostra sia partecipazione o non sia, in realtà, una fuga. Se l'amore per i simboli non porti, alla lunga, a non vedere le situazioni, a non farci coinvolgere in nessun dolore che non sia anche un po' nostro. Una schizofrenia già rilevata dalla poetessa Wislawa Szymborska, quando scriveva: «Preferisco me che vuol bene alla gente / a me che ama l'umanità». La gente, infatti, è piena di particolari: colori, nomi... e anche difetti. Mentre l'umanità è una categoria monocromatica, che gode di un pregiudizio sempre positivo e che si può cogliere in un attimo: perché non ha molto da far vedere e non ha sfondo. Come una foto scontornata.
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Blowin' in the wind di Bob Dylan
Titolo del disco: The freewheelin' - Bob Dylan - 1963
Testo della canzone (lingua originale)
Blowin' in the wind
How many roads must a man walk down
Before you call him a man?
Yes, 'n' how many seas must a white dove sail
Before she sleeps in the sand?
Yes, 'n' how many times must the cannon balls fly
Before they're forever banned?
The answer, my friend, is blowin' in the wind,
The answer is blowin' in the wind.
How many times must a man look up
Before he can see the sky?
Yes, 'n' how many ears must one man have
Before he can hear people cry?
Yes, 'n' how many deaths will it take till he knows
That too many people have died?
The answer, my friend, is blowin' in the wind,
The answer is blowin' in the wind.
How many years can a mountain exist
Before it's washed to the sea?
Yes, 'n' how many years can some people exist
Before they're allowed to be free?
Yes, 'n' how many times can a man turn his head,
Pretending he just doesn't see?
The answer, my friend, is blowin' in the wind,
The answer is blowin' in the wind.
Testo della canzone (Traduzione in italiano)
Soffiando nel vento
Quante strade deve percorrere un uomo
prima di essere chiamato uomo?
E quanti mari deve superare una colomba bianca
prima che si addormenti sulla spiaggia?
E per quanto tempo dovranno volare le palle di cannone
prima che verranno abolite per sempre?
La risposta, mio amico sta soffiando nel vento,
la risposta sta soffiando nel vento
Per quanto tempo un uomo deve guardare in alto
prima che riesca a vedere il cielo?
E quanti orecchie deve avere un uomo
prima che ascolti la gente piangere?
E quanti morti ci dovranno essere affinché lui sappia
che troppa gente è morta?
La risposta, mio amico sta soffiando nel vento,
la risposta sta soffiando nel vento
Per quanti anni una montagna può esistere
prima che venga spazzata via dal mare?
E per quanti anni può la gente esistere
prima di avere il permesso di essere libere
E per quanto tempo può un uomo girare la sua testa
fingendo di non vedere
La risposta, mio amico sta soffiando nel vento,
la risposta sta soffiando nel vento
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Dal Vangelo della odierna liturgia ambrosiana (Mc 12,13-17): «Gesù disse loro: «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio».
Possiamo trarre qualche semplice considerazione relativa alla complessa questione della tassazione degli immobili (che siano della Chiesa cattolica o no) destinati ad uso commerciale:
- la legislazione esiste, è per tutti e per il bene di tutti, quindi tutti devono rispettarla;
- la legislazione può essere migliorata, per il bene di tutti e affinché sia più chiara;
- coloro che fossero tentati di "dribbarla", devono far di tutto per comprenderla e metterla in pratica;
- chi non osserva una legge giusta (nel caso non fosse giusta, ci sarebbe il caso di obiezione di coscienza), incorre in una sanzione.
don Chisciotte
I conti che non mi tornano sull'Ici
di Roberto Beretta
La mia diocesi - che si vanta di essere «la più grande e la più organizzata del mondo» (uè, mica siamo milanesi per niente...) - sta mandando in giro per le parrocchie certe pattuglie di "finanzieri curiali" affinché controllino, informino e - se necessario - intervengano sui pagamenti dell'Ici. È senza dubbio un effetto (benefico, a mio parere) della campagna mediatica sulle esenzioni fiscali alla Chiesa, scatenata nei mesi scorsi e non ancora placata.
Salta fuori così che non pochi parroci - e siamo, lo ripeto, nell'«onesta e danarosa» Lombardia - l'Ici non la pagano proprio. O meglio: la pagano solo in parte, non per tutti i locali per cui sarebbe dovuta. E la cosa non avviene nemmeno per cattiva volontà: solo non lo sapevano - e nessuno gliel'ha mai contestato. Infatti l'Italia è un Paese tale che non è facile neppure conoscere quali tasse bisogna pagare.
Ad esempio: sono pochi i sacerdoti che versano l'Ici per il campo di calcio dell'oratorio; eppure dovrebbero farlo se (anche solo poche volte in un anno) l'affittano a terzi... E chi la paga per il baretto che vende liquerizia ai bambini due volte la settimana? Tuttavia, a norma di legge, pure questo è soggetto. E il teatro o il cinema parrocchiale? Sono sottoposti a tributo anch'essi, a meno che vengano adibiti ad esclusivo - ripeto: esclusivo - uso di cineforum ovvero alle recite di compagnie amatoriali.
Non mi sono inventato queste regolette: le ho prese pari pari da uno specchietto pubblicato dalla stampa cattolica. Leggendo il quale ho avuto due reazioni: da una parte mi sono rafforzato nell'idea che, al di là delle ripetute dichiarazioni di principio che «la Chiesa l'Ici l'ha sempre pagata», l'evasione almeno parziale del reverendo parroco (anche inconsapevole o «a sua insaputa») è praticamente generale; dall'altra mi sono spaventato perché, se le prescrizioni sono tanto severe, un sacco di piccole ma utili strutture sono davvero a rischio di fallimento.
E allora non mi tornano più i conti. Noi abbiamo assistito - finora - a uno scontro di due opposte fazioni: di qui i «laicisti» che, strillando di evasioni fiscali macroscopiche, con alberghi a quattro stelle esentati solo perché al loro interno avevano una cappella e residence mascherati da case del clero, chiedevano una revisione della legge; di là i «clericali», i quali difendevano invece il regime esistente e nel medesimo tempo smentivano ogni trattamento di favore. Mentre nessuno, né da una parte né dall'altra, ha affrontato la semplice questione dei campetti d'oratorio che dovrebbero pagare l'Ici intera, o dei saloni parrocchiali offerti dietro modesto compenso per le prove del coro cittadino e dunque soggetti a balzello paritario con altre realtà ben più lucrose.
Non mi tornano i conti - dicevo. Se le cose stanno così, infatti, saremmo dovuti essere noi cattolici i primi a insorgere e chiedere di cambiare la legge! È infatti obiettivamente ingiusto paragonare il cinema parrocchiale (una proiezione pomeridiana settimanale) al multisala, oppure ipotizzare che il bar oratoriano - il quale magari apre due ore al giorno o solo la domenica - faccia davvero concorrenza a un pubblico esercizio e dunque sia chiamato a contribuire al fisco per la medesima aliquota... Perché non l'abbiamo fatto? Forse perché ci conveniva lasciare tutto nel vago? Mi viene il dubbio insomma che la nostra difesa ad oltranza dell'esistente - almeno finché il cardinale Bagnasco non ha aperto a un possibilismo legislativo - sia stata in realtà gestita nella prospettiva dei «forti» (cliniche private, scuole cattoliche, alberghi gestiti da religiosi, eccetera), mentre dei «piccoli» - obiettivamente gravati da imposte che forse persino i radicali giudicherebbero eccessive - non si è curato nessuno.
Adesso il governo ha annunciato una revisione delle norme e vogliamo credere che la Cei interverrà a eliminare le ambiguità non solo a nome dei «grandi», bensì in vista di una regolarizzazione della situazione fiscale «normale» della maggior parte delle parrocchie: le quali non vogliono certo evadere il fisco, ma nemmeno chiudere per debiti alcune piccole attività sociali. Invece forse con le regole attuali lo dovrebbero fare.
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Il valore dell'uguaglianza
di Joaquín Navarro-Valls
In questi giorni le riflessioni sull´andamento dell´economia mondiale si sono raccolte prevalentemente attorno ad alcuni dati allarmanti che segnalano il disagio generale delle nostre società. In particolare, il Divided we stand pubblicato dall´Ocse, come è stato ricordato mercoledì su Repubblica, fornisce "una spietata analisi sulla crescita delle ineguaglianze sociali nel mondo". D´altronde, sapevamo fin dal sorgere nel 2008 della grande crisi finanziaria del sistema bancario statunitense che il flop dei subprime avrebbe fatto nascere a cascata, nel giro di qualche anno, una recessione dell´economia mondiale. Intendo cioè quella produttiva e legata al lavoro. Alcuni osservatori avevano paventato già allora i rischi per l´Europa di una curva verso il basso che ineluttabilmente sarebbe divenuta permanente, rompendo la dinamica normale dei cicli economici che la dottrina classica e marginalista aveva teorizzato. Sono molti oggi i fattori che concorrono a determinare l´instabilità e la stagnazione dei consumi. Tralasciando le spiegazioni macroeconomiche che sfuggono alla competenza dei comuni mortali, ci si può limitare a fare alcune considerazioni pratiche. Il sistema capitalista è nato nei limiti precisi del mondo occidentale come organizzazione della produzione e diffusione collettiva della ricchezza; un modello di sviluppo che ha seguito l´ascesa graduale del liberalismo. Tutto è funzionato fino a trent´anni fa grazie alla logica di antagonismo mondiale che i sistemi capitalisti avevano con l´area sovietica. La fine di quel equilibrio ha fomentato non solo le grandi speculazioni finanziarie, ma ha avallato un incontrollato estendersi del mercato in zone della terra prima escluse dalla ricchezza. Questa situazione di apertura globale ha offerto ad interi popoli materie prime non disponibili e ha fatto saltare inevitabilmente tutti i controlli legali e doganali che la politica internazionale concorreva a garantire in precedenza. L´effetto che ora si constata è la crescita abnorme delle disparità tra le condizioni economiche di vita individuale. Il dimorfismo nazionale è diminuito con un livellamento medio verso il basso degli Stati, mentre, per contro, le disuguaglianze reali tra le persone sono divenute pesantissime in Cile, Messico, Turchia e Stati Uniti. Guardando all´Europa, l´Italia è tra i Paesi che più soffrono questa divaricazione interna, assieme ad Inghilterra e Portogallo. Che cosa indica tutto questo, e quali rimedi si possono immaginare? Intanto è doveroso valutare che la crescita delle ineguaglianze è un effetto negativo dell´aumento positivo del livello di libertà nel mondo. L´unico modo di escludere totalmente i dimorfismi nella distribuzione delle ricchezze sarebbe cancellare il presupposto etico fondamentale che li produce, vale a dire la libertà individuale d´impresa e d´iniziativa. Scelta, evidentemente, nefasta. Senza libertà non può esservi democrazia, e soprattutto che senza libertà viene a mancare l´autodeterminazione democratica dei popoli, con una conseguente cancellazione della dignità umana dei cittadini. Il dato vero, scaturito dai nuovi report, è tuttavia che il tasso di ineguaglianza sta superando la percentuale fisiologica compatibile con i sistemi liberali. Quando, infatti, la quota di povertà oltrepassa il confine dell´indigenza e si conquista fette intere di classe media, i ricchi guadagnano 15 volte in più dei poveri e si attua un fenomeno involutivo che rende impossibile
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Quei conflitti di potere (italiani) che umiliano l'immagine della Chiesa
di Alberto Melloni
Al cuore del Vaticano II stava la convinzione che il dinamismo profondo della Chiesa - la communio - non potesse che discendere dal dono di Dio. E che dunque il fissarsi in inutili condanne andasse arrestato, non per coniglismo, ma per evitare che una ideologia del bastone isterilisse la communio che il vescovo tramite l'Eucarestia continuamente alimenta nella carità. In questo disegno riformatore, di rango non inferiore a quello del secolo XI, aveva un ruolo centrale la collegialità episcopale (cioè la potestà sulla chiesa universale che compete, con e sotto il vescovo di Roma, anche a tutti i vescovi) così che l'obbedienza al Vangelo nel tempo e la visibilità della communio stessa non fosse regolata solo da una struttura di potere, ma continuamente riformata dal mistero celebrato e ricevuto. La collegialità episcopale per realizzarsi aveva bisogno di riforme istituzionali puntualmente mancate. La riforma della Curia di Paolo VI del 1967 si connotò per alcuni atti simbolici (l'abolizione del Sant'Ufficio). Quella di Giovanni Paolo II del 1988 per pochi ritocchi cosmetici. Nessun Papa s'è chiesto come guarire il sinodo dei vescovi dalla impotentia deliberandi. Così il centro del governo della Chiesa romana, con una collegialità rata et non consummata, è rimasto il terreno di lotta di una Curia il cui stato è quello che vediamo. Uno stato desolante. Il perché di questo spettacolo va colto spersonalizzando le questioni. Alla testa della Curia non c'è «Bertone». C'è un segretario di Stato immerso nella contraddizione fra tre ruoli: quelli di primo ministro collocato fra «ministri» che ne invidiano o insidiano o blandiscono il potere, quello di capo d'una diplomazia tanto vasta quanto inascoltata, quello di parafulmine delle insoddisfazioni afone che covano sotto ognuna delle infinite adulazioni del Papa. Di sotto non pochi ecclesiastici di valore: alcuni dei quali credono però di dover dimostrare la loro fedeltà tramite progressi di carriera protratti fino ad età superadulte, in aperta competizione con le non meno lunghe carriere dei vescovi e l'ormai cospicuo «medagliere» episcopale dei movimenti. In mezzo, una macchina istituzionale che non da oggi è tentata dalla politica italiana sulla cui scacchiera cerca di giocare coi soli pezzi del lato destro. Che in questa situazione divampino conflitti di potere segnati dalla «mondanità» e dal «carrierismo» che il Papa deplora regolarmente è ovvio. E desolante. Gli eclatanti episodi delle ultime settimane vanno dunque inseriti in questo contesto. Che qualcuno rubi una lettera di un vescovo al Papa per eccitare il disordine, non richiede una querela, ma l'applicazione severa del canone 1373. E le denunce di un vescovo possono certo non aver corso anche se diffuse (purché non diventino capo d'accusa contro il denunziante). Che qualcuno infine trasformi confidenze false e sciocche sulla prossima morte di Benedetto XVI (una voce che normalmente occupa per intero gli ultimi dieci-dodici anni di ogni papato...) in un appunto per lui, scritto in tedesco come fosse un ignorante, fa sorridere tutte le persone serie quanto il destinatario. Se questi episodi miserabili diventano «fattoidi» è perché sono la spia di una prolungata indulgenza verso la menzogna. Una spia desolante. La verità infatti è diventata quasi un retroscena. Ragioni anche anagrafiche fanno presagire l'avvicendamento del segretario di Stato: due anni fa le sue dimissioni furono però respinte dal Papa, restio a privarsi di un amico di cui apprezza gli exploit (l'uscita dal ruinismo, ad esempio), di cui conosce l'obbedienza (per fermare l'acquisto del San Raffaele è bastato un fiat) e di cui conosce i limiti (nel Sacro Collegio il clero di Genova ha gli stessi cardinali dell'Argentina e i salesiani superano di slancio i domenicani). Ma il Papa conosce anche gli antagonisti di Tarcisio Bertone. E gli antagonisti degli antagonisti. E ora sa anche che per il cappello rosso più importante della Curia si sono alzati polveroni che danno della Chiesa cattolica e degli italiani
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... può essere utile considerare anche quanto scritto in questo articolo, dal tono provocatorio.
Lo Spirito Santo e gli organigrammi
di Roberto Beretta
Per essere cardinali non è necessario essere santi. La folgorante verità mi ha percorso la mente mentre qualche settimana fa leggevo, su un grande giornale nazionale, l'ennesima ricostruzione degli intrighi, dei calcoli e dei maneggi di Curia che stanno (o starebbero) dietro alle porpore del prossimo Concistoro.
Ed è proprio così. A dimostrare che lo Spirito Santo c'entra ben poco (o al massimo c'entra come in tutte le altre faccende del mondo) nelle nomine ecclesiastiche, basterebbe una semplice constatazione di buon senso statistico: perché mai la terza persona della Trinità dovrebbe privilegiare l'Italia nelle sue scelte, come invece di fatto avviene? Forse che abbiamo più «santi» di altre nazioni? Credo proprio il contrario. Allora forse perché siamo la nazione in cui ha sede il Papa, quella di più antica tradizione cattolica? Ma per favore... La scelta dei cardinali ha poco a che fare con la santità personale, come dimostra anche il fatto che alcuni lo diventano solo perché occupano una sede storicamente cardinalizia e altri come premio «alla carriera».
Notazioni consimili si potrebbero fare anche scendendo giù giù per la scala gerarchica: vescovi, monsignori, parroci, responsabili laici di importanti settori ecclesiali... O risalendo in su. Non me ne scandalizzo affatto (lo Spirito Santo possiede ben altri mezzi per governare davvero la barca); semplicemente lo rimarco: come scrivendolo in un «post it» da tenere in evidenza alla memoria.
Perché poi succede invece che - nella particolarissima società che è la Chiesa - si realizzi una indebita sovrapposizione di piani: quello del governo (del comando, del potere) e quello della fede (della grazia, della santità). Automaticamente cioè si pensa che, se una persona è arrivata «fin lì», ci sia riuscita anche per la sua qualità spirituale, per i suoi meriti ascetici o la sua coerenza morale. Se uno è diventato prete, vuol dire che è «meglio» dei laici suoi parrocchiani... Si tratta di un'equivalenza inconscia ma presentissima, rafforzata e resa poi esplicita dalla deferenza abitualmente espressa nei termini con cui ci si rivolge a tali persone: reverendissimo, eccellenza, eminenza, santità...
Invece di per sé l'equivalenza non è vera o - meglio - non è affatto così automatica, e nemmeno maggioritaria. La coincidenza tra potere e servizio è un auspicio evangelico cui certamente la «catena di comando» ecclesiale tende ed educa, ma che raramente si realizza. Anzi possiamo sostenere al contrario che, come del resto in tutte le cose del mondo, anche nella Chiesa in genere il potere e gli onori corrompono gli uomini che li detengono, allontanandoli - anziché avvicinarli - dall'ideale sovrapposizione tra grandezza spirituale e altezza gerarchica.
Col che non voglio affatto auspicare un azzeramento di tutte le piramidi del comando, aspettandomi magari una fraternità egualitaria e un appiattimento delle funzioni che forse creerebbero problemi ancora maggiori. Mi accontenterei che nella Chiesa ci fosse consapevolezza più esplicita di tale realtà evangelica, e che essa potesse esprimersi in qualche forma concreta; magari limando in modo significativo le enfasi onorifiche, o istituendo una sorta di rotazione nel «servizio del potere», o rigettando risolutamente quel «promoveatur ut amoveatur» che proprio l'ambiente ecclesiastico ha inventato, introducendolo poi anche nelle gerarchie laiche.
Soprattutto vorrei che i cristiani fossero consapevoli che quello che viene loro proposto non è di per sé il «governo dei migliori» e che quanti guidano le loro parrocchie o diocesi non sono «maestri», se non per quanto è concesso dalla loro sapienza umana e cristiana, oltreché dalla grazia (di cui però tutti godiamo, ognuno nel suo stato); con ciò che ne consegue. Credo che sarebbe un bel passo in avanti: per chi deve obbedire, ma anche per chi comanda.
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Riusciranno i responsabili della nostra Chiesa - sulle questioni che a loro competono - ad offrire l'esempio di seguire una via diversa rispetto a quella più conveniente, più comoda, più facile?
don Chisciotte
La coerenza di un "no" responsabile
di Luigi La Spina
Dopo la riforma delle pensioni e in vista di quella sul mercato del lavoro, la decisione di Mario Monti di non firmare la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020 conferma e rafforza soprattutto l'impressione di una notevole discontinuità rispetto agli abituali metodi di governo.
Di fronte a ben quattro mozioni, favorevoli a una scelta opposta, da parte dei partiti che lo sostengono in Parlamento, dopo una pioggia di appelli per il «sì» di sportivi, intellettuali e imprenditori, davanti a una potente lobby che ha esercitato fortissime pressioni, Monti ha evitato di seguire la strada più conveniente e, certamente, la più comoda. Quella di sostenere la candidatura di Roma, ben sapendo che, al «Comitato internazionale olimpico», i delegati avrebbero quasi certamente preferito Istanbul o Tokyo per la sede di quei Giochi. Sarebbe stato un modo per non scontrarsi con la sua maggioranza, non deludere il Coni e i promotori, non suscitare le proteste del sindaco della capitale e non subire le critiche di chi vedeva nell'Olimpiade romana un'occasione di sviluppo economico nazionale e, magari, di buoni affari per sé.
Con la consapevolezza di raggiungere lo stesso risultato di risparmio per le finanze statali, nascondendosi dietro il paravento del Cio e delle opinioni internazionali sfavorevoli all'Italia.
Il presidente del Consiglio, invece, ha deciso di assumersi la responsabilità, diretta e chiara, di un «no», motivato con la necessità della coerenza nel significato del suo governo, nella missione che la crisi economica del Paese gli ha imposto e nel rispetto del mandato che Napolitano gli ha affidato. Una scelta certamente difficile che, però, è stata agevolata da una sensibilità, rispetto agli umori degli italiani, che sembra sicuramente maggiore, in questi giorni, di quella che la tradizionale classe politica pare dimostrare. Le parole con le quali Monti ha spiegato i motivi del suo «no» alla candidatura di Roma fanno capire molto bene come il premier temesse il segnale contraddittorio, nei confronti dell'opinione pubblica, che una decisione diversa avrebbe assunto. L'incomprensione, cioè, verso un governo che, da una parte, chiede pesanti sacrifici a tutti e, dall'altra, si avventura in una iniziativa per la quale il rapporto tra i costi e i benefici non assicura un saldo positivo, con il rischio di vanificare parte di quello sforzo che i cittadini stanno compiendo per risanare i conti pubblici.
Sono ormai molti i segnali, e quest'ultimo non è il meno importante, di come questo governo riesca, meglio dei partiti e anche delle forze sociali organizzate, a inserire il suo comportamento nelle attese dei cittadini. Lo testimonia, in senso contrario, la ritualità e la ripetitività delle reazioni che, anche ieri sera, sono arrivate dopo il «no» alla candidatura olimpica di Roma e il loro clamoroso contrasto con le risposte che, in quasi tutti i sondaggi d'opinione organizzati da tv e siti Internet, hanno confermato il sostanziale accordo della grande maggioranza degli italiani con la scelta di Monti.
Al di là del metodo e della coerenza programmatica ispiratrice del governo, occorre valutare, infatti, le condizioni nelle quali l'Italia avrebbe avanzato quella candidatura. Per avallare, ma anche per rendere efficace, credibile e, alla fine, vincente una proposta simile al Comitato olimpico internazionale, occorre avere alle spalle una forte spinta unitaria di tutto un Paese. A questo proposito, è bene subito chiarire che non si tratta di giustificare le solite, meschine polemiche, a sfondo campanilistico, che si sono puntualmente levate contro una presunta insensibilità, milanese e nordista, di Monti e di alcuni suoi influenti ministri per una scelta che avrebbe favorito Roma. Commenti e sospetti che resuscitano uno sciocchezzaio, mentale e verbale, che davvero hanno ammorbato il recente passato e non vorremmo ammorbassero anche il nostro presente e futuro.
E' vero, invece, che la promozione olimpica di una città, a maggior ragione se si tratta di una capitale, procura vantaggi economici e d'immagine a tutta una nazione. Così è stato per la Spagna, nel caso di Barcellona e, se guardiamo al caso più vicino, nel tempo e nello spazio, per le Olimpiadi invernali di Torino. Ma nei due esempi citati, sia pure con l'importanza indubbiamente diversa dei due eventi, tutte le opinioni pubbliche nazionali, i «sistemi» dei due Paesi, come si suole dire adesso, avevano manifestato un convinto appoggio e una pronta disponibilità all'impegno organizzativo e finanziario. Per le Olimpiadi romane del 2020, è una constatazione non un'opinione, questo clima di fervore collettivo non è emerso. Si sono avvertiti, invece, un distacco e una certa indifferenza nazionale a una candidatura apparsa, forse, troppo sponsorizzata da lobby locali e subordinata a logiche politiche.
Comprensibile può essere l'amarezza per la perdita di un'occasione di investimento infrastrutturale e, magari, di rilancio d'immagine. Ma gli italiani e anche i mercati internazionali si aspettano, da Monti, molto altro e molto di più che una candidatura olimpica.
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Sant'Ignazio di Antiochia, scrivendo alla chiesa di Roma, adopera un'espressione splendida che normalmente si approfondisce durante gli studi di teologia. Scrive così: «Alla chiesa che presiede alla carità». Ecco il destinatario della sua missiva. Cosa vuol dire sant'Ignazio?
Vuol ricordarci che Pietro, capo della chiesa di Roma, per ottenere la patente di guida della chiesa intera, ha dovuto effettuare, rivolto a Gesù, una duplice professione di fede: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente!». E prima ancora ha dovuto sostenere un duplice esame sulla carità. Da Gesù gli è stato chiesto: «Pietro, mi ami tu?», «Mi ami più di tutti?». «Signore, tu lo sai che ti amo», è stata la risposta!
E se Pietro è colui che presiede alla carità, cioè colui che ama più di tutti il Signore, anche la sua chiesa, la chiesa di Roma, deve risplendere lucidissima sullo stesso terreno, e manifestare un'audacia nuova, incredibile, una parresìa fortissima.
E tutti quanti noi che apparteniamo alla chiesa, io a quella del Sud d'Italia, il mio confratello vescovo a quella del Sud del mondo, e siamo preposti alle chiese sorelle, ci aspettiamo da Roma questo incoraggiamento, questa presidenza alla carità.
Come siamo felici, in periferia, quando sappiamo che a Roma si manifesta accoglienza verso i terzomondiali, o ci si batte perché anche i malati di Aids vengano accolti, o perché anche ai poveri si riconoscono i diritti umani; come siamo lieti quando constatiamo che a Roma si prende posizione in favore dei popoli più lontani! Che gioia nell'ascoltare queste cose!
Allora, se un povero vescovo di periferia può permetterselo, l'incoraggiamento è questo: «Coraggio, chiesa di Roma: manifestaci la tua esemplarità!», perché il mondo attende proprio la testimonianza della chiesa chiamata a presiedere alla carità.
mons. Tonino Bello, Missione. Anche tu!, 36-37
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Un computer non basta: si usa il multischermo
di Enrico Franceschini
Se da qualche tempo vi lamentate perché i vostri figli non si accontentano più di stare tutto il giorno davanti a un computer, ma hanno cominciato a passarlo davanti a due computer, smettete di lamentarvi: è un trend mondiale e forse fa perfino bene alla produttività del pianeta. Le statistiche non lasciano dubbi: sempre più gente sta collegata a internet attraverso due monitor contemporaneamente. Uno solo non basta più, alla generazione degli internauti sembra di andare troppo piano, di perdere tempo prezioso, di restare indietro. E c'è chi di monitor accesi ne tiene addirittura tre, lasciando casomai spento, sullo sfondo, quello che appare ormai obsoleto e inutile, lo schermo del televisore.
Nel 2011 sono stati venduti 130 milioni di nuovi "desktop computer", computer da scrivania, in tutto il mondo. Ma nello stesso anno sono stati venduti 180 milioni di monitor per computer: magari non tutti quei 50 milioni di differenza vanno a raddoppiare le connessioni al web in una stessa stanza, su una stessa scrivania, ma una buona parte probabilmente sì. Lo conferma un altro dato, fornito dalla Nec Display, una delle maggiori aziende produttrici di monitor al mondo: nel 2007 l'1 per cento dei suoi clienti teneva accesi due computer allo stesso tempo; l'anno scorso la percentuale è salita al 40 per cento; quest'anno potrebbe arrivare al 60. E lavorare su due computer anziché su uno solo, in un giorno di un futuro affatto lontano, diventerà la norma, lo faranno tutti, o almeno tutti quelli che possono, afferma l'Herald Tribune, edizione internazionale del New York Times.
Ci sono varie ragioni per spiegare il fenomeno. Una è che i monitor sono meno costosi di un tempo. Un'altra è che sono più sottili, quindi occupano meno spazio sulla scrivania. Una terza è che sono necessari perché offrono più strumenti di comunicazione di una volta. Fino a qualche anno fa, sul computer si poteva inviare email o collegarsi a un sito, ma ora si può fare assai di più, usare Facebook e Twitter, scambiare messaggi in tempo reale con l'instant messaging, fare videotelefonate (gratis) con Skype e così via. E tutto questo è più facile, se si dispone di due computer accesi, anziché uno.
Qualcuno sostiene che c'è anche un altro motivo: usare due computer aiuta a essere più produttivi, nel lavoro o nello studio. Un rapporto dell'università dello Utah ha riscontrato che avere due monitor accesi e online fa risparmiare 10 secondi ogni 5 minuti. Come? Riducendo il tempo necessario a passare da una "finestra" aperta su internet a un'altra. Su un computer solo occorre cliccare sull'icona che riduce una finestrella e aprirne un'altra. Su due computer questa operazione non serve, sono già entrambe spalancate. Altri ribattono che non solo 10 secondi ogni 5 minuti fanno sì e no dieci minuti risparmiati in un'intera giornata di lavoro, ma affermano anche che il multitasking, come si chiama in gergo, è dannoso alla produttività, perché costringe il cervello a saltare in continuazione da un pensiero all'altro, stancandolo. "L'impero Romano crollò perché era cresciuto troppo", dice il professor David Meyer, psicologo dell'università del Michigan e fautore di questa teoria.
Esistono tuttavia teorie opposte, secondo cui il multitasking fa bene: in Israele, ha scoperto l'Economist, lo usano nell'addestramento ai piloti dei cacciabombardieri, perché imparino a prendere decisioni multiple nello spazio di pochi secondi. Ma non importa andare così lontano: guardate i vostri figli, che chattano su Facebook su uno schermo, guardano un video su YouTube su un altro e fingono di studiare su un terzo. Non è chiaro se siano più o meno produttivi, ma hanno l'aria di cavarsela benissimo.
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Nelle ultime settimane, sembra che il "cuore" italiano si sia trovato concorde ("cum-corde") attorno almeno a tre valutazioni:
- non ci ritroviamo nei comportamenti "alla Schettino";
- condividiamo il NO alle spese che avrebbe comportato l'eventuale vittoria della gara per l'assegnazione delle Olimpiadi 2020;
- ci rendiamo conto che il festival di Sanremo "sbarella" ogni anno di più.
Non è molto per fare un'identità nazionale, ma è meglio che niente!
don Chisciotte
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Pudore? «Mai sentito dire» e i ragazzi non ce l'hanno
di suor Roberta Vinerba
Verba volant: ogni giorno assistiamo alla volatilità del linguaggio, parole che nascono, vocaboli che scompaiono. Questa vivacità della lingua non è indifferente rispetto alla sostanza delle cose. Voglio dire che se una parola tende a scomparire è anche perché ciò che nomina non ha più significato per la società. Una mattina, mentre ero impegnata in una classe di terza media a ragionare con i ragazzi di affettività, di corporeità e di amore, butto là a caso una battuta sul pudore. Di fronte a me visi sgomenti e occhi interrogati. Comincia il "dramma". In una frazione di secondo mi rendo conto di avere aperto il vaso di Pandora e di aver trovato l'ennesimo buco nero nell'educazione dei nostri figli. Domando: «Ragazzi, quanti di voi sanno cosa significhi pudore?». Non è certo la prima volta che accade che a questo interrogativo ricevo risposte le più differenti, sono dunque preparata a tutto, anzi, più le risposte sono varie, migliore è il confronto e la "soluzione" della questione. Eppure quella mattina c'è una novità: i ragazzi quasi imbarazzati mi dicono che il problema non è sapere cosa significhi quella parola, il problema consiste nel fatto che non l'hanno mai udita. Cerco allora di capire meglio e ripetono di non aver mai sentito parlare di pudore, un po' come i poveracci che interrogati da san Paolo se avessero ricevuto lo Spirito Santo rispondono, loro malgrado, che non hanno mai sentito parlare di uno Spirito Santo! Mi si perdoni il paragone, ma è questo quello che quella mattina mi è balenato in testa. Da allora ho inserito, nei passi necessari dell'educazione all'affettività, la domanda: «Avete mai sentito la parola pudore?». Da allora ho incontrato tante altre classi di adolescenti delle medie e delle scuole superiori ai quali parlo di affettività in maniera, diciamo, laica. Ho incontrato anche tanti gruppi parrocchiali composti quindi da ragazzi che dovrebbero, in teoria, avere un background più mirato a certe sensibilità. Dovrebbero. Di solito non trovo, in realtà, nessuna differenza tra i due ambienti. Che siano ragazzi "di parrocchia" o che siano allievi di una scuola statale, nella quasi totalità dei casi non conoscono l'esistenza di questa parola. Provare per credere. I pochi che l'hanno sentita nominare, hanno un'idea molto vaga e spesso distorta di cosa significhi. Condotti, attraverso esempi, attraverso la decodificazione dei propri sogni, desideri e speranze, a scoprirne il significato, vedi che gli occhi dei ragazzi si illuminano in un guizzo. Intuiscono, in un lampo, quello che hanno dentro da sempre e che aspettava solo di essere nominato, riconosciuto. Quando questo accade c'è come il venire alla luce di una nuova consapevolezza di sé e del proprio valore, perché è proprio vero che tutto ciò che non ha un nome non esiste, o almeno, resta nell'indistinto improduttivo. Così tiro fuori il mio sogno nel cassetto: un padre, una madre, che discuta di pudore con il figlio, con la figlia, dizionario alla mano per ragionare insieme, coinvolti insieme, interrogati e affascinati insieme dal mistero di ciò che si è. Perché non mi accada più di una madre più svestita che vestita che, trascinandosi dietro la figlia di 14 anni, me la consegni, all'inizio di un incontro con queste parole. «Suor Roberta, insegni lei a mia figlia, la castità». Censuro ciò che ho pensato.
apparso su "Noi genitori e figli", con Avvenire del 18.12.2011, p. 42
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Il Vaticano II, infatti, ha esortato «con ardore e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere "la sublime scienza di Gesù Cristo" (Fil 3, 8) con la frequente lettura delle divine Scritture. "L'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo". Si accostino essi volentieri al Sacro Testo, sia per mezzo della sacra Liturgia ricca di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi, che con l'approvazione e a cura dei Pastori della Chiesa lodevolmente oggi si diffondono ovunque. Si ricordino però che la lettura della Sacra Scrittura dev'essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l'uomo; poiché "quando preghiamo parliamo con lui; lui ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini"» (Dei Verbum 6). I Concili precedenti non avevano mai fatto una simile esortazione, ma alla metà del nostro secolo la Chiesa, consapevole che tutti hanno raggiunto uno stadio di cultura sufficiente, ha sollecitato i cristiani a leggere e a meditare la Scrittura per acquisire una fede che sia frutto di convinzione, di scelta personale, di interiorità. Il solo cristianesimo che sopravviverà alla modernità, sarà quello fondato su convinzioni interiori profonde; perché non basteranno più le tradizioni esterne o i fenomeni di massa. Ed è proprio l'esercizio della lectio divina che può mediare questa convinzione di fede interiore e profonda.
Carlo Maria Martini, Il Dio vivente, 137
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Oggi il card. Martini, padre di umanità e spiritualità, compie 85 anni.
Attraverso la sua rubrica su "Il Corriere della Sera" potremmo inviargli i nostri auguri.
Per noi, uno dei suoi innumerevoli sapienti e consolanti testi.
don Chisciotte
Più volte noi ci appelliamo alla legge evangelica per sostenere gli imperativi morali, magari nel campo familiare o della sessualità. Diciamo: "La legge del vangelo è così e dobbiamo osservarla pur se è dura, non si può trasgredire, non si può andare contro i comandamenti del Signore". E un insegnamento in sé corretto, ma non è né paolino né matteano.
Se fosse paolino dovrebbe partire dalla gioia dello Spirito: da essa, infatti, sgorga quella spontaneità dell'amore che trova questo modo di vivere più degno di un uomo redento, che partecipa con Cristo alla pienezza dell'umanità nuova. Allora il discorso sarebbe completo.
Se fosse davvero matteano, proclamerebbe le esigenze morali quali vittoria di Cristo. Nel quadro del Discorso della montagna, il divieto del divorzio, per esempio, va visto nell'ambito della grazia che rende puri di cuore, misericordiosi, operatori di pace.
In realtà quello che noi diciamo rimane un insegnamento di limiti da non valicare (dura lex sed lex) e perciò non convince la gente. Occorre invece mostrare che l'ideale umano proposto da Gesù
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In vista dell'Incontro mondiale delle Famiglie, "Milano 7", il "dorso" settimanale milanese del quotidiano "Avvenire", ha dedicato il 29 gennaio tre pagine all'organizzazione dell'evento.
A pagina 5 vi sono quattro box; è vero che in essi si parla di un laico Responsabile Organizzativo Locale, ma tutti i box partono con la parola "parroco".
Se il "comunicare" ha un significato, questo "piccolo segno" veicola un messaggio (volenti o nolenti): siamo una Chiesa che - anche a livello organizzativo - parte e si fonda su un basamento clericale.
don Chisciotte
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“Teologi, confrontiamoci sulla crisi”
di Fabrizio Mastrofini
Uscite dal silenzio, apritevi alla realtà, confrontatevi con gli scottanti problemi della crisi economica e della crisi ambientale. È la sintesi di una “lettera aperta” che alcuni sacerdoti e religiosi hanno rivolto ai teologi e teologhe italiane. (...) La “lettera aperta” ha toni netti e precisi.
«Dove stai tu
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Trappole postmortali
di mons. Gianfranco Ravasi
«La morte è il riposo, ma il pensiero della morte è il disturbatore di ogni riposo». La verità di questo assioma, annotato nel suo diario Il mestiere di vivere, Pavese l'ha dimostrata tragicamente col suo suicidio. Ai nostri giorni, però, si è adottato un altro sistema per neutralizzare questa inquietudine che è strutturale all'essere umano (chi non ricorda la differenza tra uomo e animale individuata da Pascal proprio in questa autocoscienza del "dover morire"?): o si narcotizza l'interrogazione bagnandola nel solvente della superficialità e dell'immediatezza gaudente (la "vita banale" kierkegaardiana), oppure ci si affida al vento illusorio del vivere senza mai invecchiare, tipico dell'immortalità" tecnologica, laddove però la parola "immortalità" è spogliata di ogni accezione metafisica platonica. Desimbolizzata e "decostruita", ridotta solo a questione biomedica, esorcizzata da nuovi "Eldorado biotech" alimentati dalla pur importante medicina rigenerativa, la morte si è, così, ritirata in un'oasi protetta, al massimo coltivata (e non molto appassionatamente) dalle grandi religioni. L'umanità più che "immortale" - concetto, come si diceva, mentalmente troppo hard - si considera "amortale", per usare una formula coniata da Ivan Illich e Edgar Morin. È nata, così, la "società postmortale", analizzata in modo esemplare dalla sociologa canadese Céline Lafontaine nel suo saggio Il sogno dell'eternità. La società postmortale (Medusa, Milano 2009). Il risultato di questa svolta non sembra concretamente molto esaltante, e non tanto per l'esito prospettato dal film giapponese Departures (2008) con la sua ironica agenzia di viaggi estremi "Necro Kosmetics", già anticipata dal celebre film di Tony Richardson, Il caro estinto (1965), quanto piuttosto per l'amara rilevazione di Norbert Elias nella sua La solitudine del morente (Mulino, Bologna 1985): «Mai come oggi gli uomini sono morti così silenziosamente e igienicamente e mai sono stati così soli». E anche qui l'anticipazione è già tutta in quel capolavoro che è La morte di Ivan Il'ic di Tolstoj. Su questo orizzonte socio-culturale si affaccia in modo panoramico un monaco della comunità di Bose, Luciano Manicardi: vorrei, però, che qualche lettore "laico" evitasse di alzare il sopracciglio del sospetto. Questo non è un libro né accanitamente apologetico né vagamente parenetico né tanto meno consolatorio o predicatorio. In una sequenza di tappe scarne, risalendo da "frammenti di attualità" (l'avvio è da un articolo di Aldo Schiavone su Repubblica), si ascende ai grandi canoni del passato per ripiombare in questo presente postmortale in cui si vive etsi mors non daretur e si scrivono senza imbarazzo frasi di questo genere: «Dobbiamo prepararci a gestire la morte, finché avremo, a che fare con essa». Tutto l'immenso caleidoscopio di interrogazioni a cui si è costretti appena si penetra nell'orizzonte reale della morte, uscendo dalle illusioni di una vita pseudo-immortale che si attesta tra i non vivi e i non morti (Manicardi, ricorrendo a Dylan Dog -sì, il protagonista del famoso fumetto di Sclavi -, parla di "zona del crepuscolo"), continua a rutilare nelle poche pagine di questo studio prezioso e raffinato. Si va dalla caduta del senso del limite creaturale, una categoria capitale anestetizzata da una (non dichiarata ma implicita) coscienza di onnipotenza, almeno futura, della tecnica, per giungere anche ad aspetti apparentemente minimali ma non certo minimi, come il ricorso all'eufemismo onde evitare l'osceno vocabolo "morte", che diventa invece una semplice "scomparsa o dipartita o perdita". Si giunge anche a quella frontiera estrema che si vuole, prima, rimuovere cronologicamente, allungando la vita e, poi, rimuovere ideologicamente cancellandola dal programma esistenziale. Come scrive Lafontaine, «la postmortalità comincia proprio dove le frontiere tra la vita e la morte s'ingarbugliano a un punto tale che alcuni prendono in considerazione la possibilità di un loro superamento». Manicardi s'inoltra anche nella nuova concezione del corpo che ha nel cyborg, ossia un corpo umano integrato sempre più da organi meccanici e artificiali, il suo simbolo, ponendosi la domanda-corollario: questo corpo "protesizzato", senza tempo, storia e alterità, è ancora un corpo umano, tenendo conto della complessa interattività psiche-soma? Ma l'autore non si accontenta di registrare le coordinate della mappa postmortale. In essa semina il dubbio (che in realtà per lui e per molti è una verità) di una concezione umanistica alternativa. Bellissimo è il capitolo "Tra l'oggi e il domani" ove si rimettono sul tappeto - vanamente disinfettati dai laboratori biomedici postmortali contemporanei - tutti i germi benefici delle domande radicali, grandi e minori: paura, corporeità e spiritualità, iniziazione del morire e al morire, la morte come dubbio dell'esistenza su di sé, la temporalità, la libertà e la responsabilità, il lutto e i riti funebri, l'anzianità, il declino della natalità legata al declino della mortalità e, alla fine, la domanda ultima su "quale vita" la postmortalità propone (una questione che aveva affrontato anche Turoldo in uno dei suoi rari romanzi ... e poi la morte dell'ultimo teologo del 1969). In questo aggrovigliarsi di quesiti e di risposte non poteva mancare la voce della Bibbia. E anche in questo caso non perché è un monaco che scrive, ma perché per secoli sul morire e sulla "postmortalità" (ma in tutt'altro senso rispetto a quello odierno...) le Scritture Sacre ebraico-cristiane sono state il "grande codice" ermeneutico. Qui entra in scena il paradosso cristiano, anzi, l'ossimoro della morte-vita, della fine-inizio, del tempo-eternità, dell'«amore forte come la morte», della «morte come l'altra faccia della vita rispetto a quella rivolta ora a noi», per usare le parole di Rilke. Un discorso che Manicardi solo evoca, lasciandolo sospeso perché ci si inoltri in un ulteriore cammino su un sentiero ancor più arduo. Fermo restando che, a valle, permane il monito del grande teologo, filosofo e beato John Henry Newman: «Non aver paura che la vita possa finire. Abbi invece paura che possa non cominciare mai davvero».
Luciano Manicardi, Memoria del limite. La condizione umana nella società postmortale, Vita e Pensiero, Milano, pagg.141,
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Erri De Luca: vi racconto il mio Ieshu
di Alessandro Bottelli
Sarà per l'aria che lassù si respira, per quel limpido impasto di luce e di cielo che affonda radici in radiose, non misurate lontananze, e in cui la vista, smarrita, a tratti acuisce nel pallido sforzo di intravederne i confini. Sarà per quella fraterna alleanza alle cime, alle vette, ai pinnacoli, sillabati unghia a unghia per grazia di chiodi e piccozza, che ancora una volta la prosa di Erri De Luca, scrittore-scalatore educato da strade in salita a risparmiare sui fiati, fa solchi e allunga ponti là dove più pensavamo aver accumulato il nostro piccolo fardello di sapienza quotidiana. Penultime notizie circa Ieshu/Gesù (Edizioni Messaggero Padova, pagine 96, euro 5) offre a chi lo attraversa il versante opposto d'orizzonte, dilagando con lo sguardo innamorato sopra estesi panorami di parole, rese eterne però dal fitto intrico d'echi e quiete risonanze, o, forse più semplicemente, dal dono azzurro delle nuvole.
Nel libro, dai alcune tornite definizioni dell'amore. Scrivi: «Chi dà tutto in amore non si ritrova sul lastrico, ma più fornito di prima». E all'inizio: «L'amore è questa incomprensibile energia per la quale più se ne spende, più se ne riproduce nelle fibre. Al contrario, chi lo risparmia lo spreca, se lo ritrova inutile e marcito». Tu hai fiducia nell'amore? E che idea ti sei fatto, attraverso lo studio della Bibbia, dell'amore divino?
«Personalmente ho fatto un uso improprio del verbo "amare". Ma quando ho trovato queste notizie nella scrittura sacra, ho capito che cos'era quel verbo, e come mai con la forza di quel verbo il monoteismo era riuscito a soppiantare le altre religioni precedenti. E a farlo dentro il Mediterraneo, cioè nel mare più politeista e più abbondante di divinità di tutta la storia dell'umanità. Quel mare veniva rigirato da questa notizia monoteista che si fondava sull'amore. Era una forza di impianto, perché si impiantava su un terreno di idoli che mai avevano chiesto niente di simile ai propri praticanti di culto, ma nello stesso tempo possedeva anche una forza di espianto, capace di sbaragliare, di estirpare dal suolo e dal cuore degli uomini gli idoli precedenti. Tutto ciò è avvenuto grazie a quella energia superiore fornita dal verbo "amare". Ecco, io le notizie sul verbo "amare" le ho imparate nella scrittura sacra».
Un verbo indispensabile, che nutre e sostenta la pratica della fede: «Voi credete con la sovrabbondanza dell'amore, non con la carestia della sapienza», viene detto a Ioséf/Giuseppe, dopo che gli è stata annunciata la nascita di un figlio non suo. Credere dovrebbe essere, come per Abramo, «scatto di totale» e fiducioso «affidamento», in cui le inquietudini del dubbio non possono né devono avere alcun diritto di cittadinanza?
«La lingua italiana ha un unico verbo per indicare il credere. Sia se crediamo nella divinità o nella buona sorte o nella estrazione dei numeri del lotto, il verbo che usiamo è sempre uguale. In questo, è più preciso l'inglese, che adopera il verbo think per esprimere un'opinione, per dire "io credo che", e il verbo trust quando vuole indicare "io ho fede". Sulle banconote americane c'è pure scritto "In God we trust", "Noi crediamo in un Dio". Ma messa lì, quella frase occupa davvero un posto improprio. Insomma, noi abbiamo una debolezza di vocabolario: usiamo un solo verbo per le opinioni e per la temperatura della fede. E il credere della scrittura sacra, il credere della fede comporta una elevata temperatura corporea».
In quest'ottica, quindi, l'intelligenza potrebbe essere un ostacolo per vivere con pienezza sia il dono dell'amore sia quello della fede?
«No, non è un ostacolo. Semplicemente non è richiesta. Nella scrittura sacra la divinità chiede di essere amata in tutto il cuore, in tutto il fiato e in tutte le forze. Se voleva metterci anche in tutta l'intelligenza lo poteva fare benissimo, non le mancava l'iniziativa né lo spazio. E invece sono quelle le caratteristiche dell'amore richiesto: il cuore, il fiato, le forze. Per credere non c'è bisogno di essere non dico intelligenti, ma nemmeno istruiti».
Quello di Gesù, pur essendo in sé qualcosa di estremamente nuovo e rivoluzionario, «era un annuncio che riscaldava il cuore senza armarlo d'ira e di rivolta». Tu che vieni anche dai giorni della rabbia e dello scontro, come giudichi il messaggio assolutamente non violento portato in mezzo agli uomini dal Redentore?
«Intanto bisogna immaginarsi il suo tempo, raffigurarselo. Gesù abitava in un paese occupato dalla più forte potenza militare straniera, quella romana. Prima e dopo di lui migliaia di giovani ebrei finivano impalati sulla croce, sullo strumento di tortura e di supplizio inventato ed esportato lì proprio dai Romani. Lui stesso era nato in un momento in cui gli invasori chiedevano un censimento e facevano spostare la popolazione ebraica per poterla meglio contare. E, di conseguenza, meglio spremere. Egli si trova dunque in una situazione di oppressione e di rivolte continue contro l'occupante romano, che, d'altronde, non ha trovato mai così tanta resistenza ostinata come da quelle parti. Questo si spiega col fatto, appunto, che gli abitanti della zona erano titolari del monoteismo, del Dio unico, e si trovavano invece il faccione di Giove Iuppiter piazzato sopra il tempio di Gerusalemme, sopra la casa di quella loro divinità che non voleva nemmeno essere raffigurata. Quindi non solo l'occupazione militare era un'ulcera per l'anima ebraica, ma altrettanto lo era quel politeismo imposto. In questa situazione, nella Pasqua finale della vita di Gesù a Gerusalemme, quando tutto il popolo va lì e converge e manca quasi niente perché scoppi un'insurrezione contro l'occupante romano, lui non dice parole di pace, ma che smontano in un attimo la tensione e l'ostilità. Già prima però, con la frase: "Date a Cesare quel che è di Cesare", aveva chiarito che il potere politico, il potere degli uomini sugli uomini è qualcosa di effimero, che sta bene sopra una moneta e che non decide né della libertà né della vita di un uomo. Lì Gesù disinnesca una miccia che contava anche su di lui per innescare la rivolta. A Gerusalemme, infatti, viene accolto in maniera trionfale. Entra come un re, in groppa a quella cavalcatura speciale che era l'asina. Senza dubbio c'è grande attesa nei suoi confronti. E lui disarma quell'attesa, la riporta al suo messaggio di salvezza indipendente dalla scelta delle armi».
Ieshu/Gesù «dimostrava senz'armi il sovvertimento delle gerarchie e delle potenze», attraverso la forza dirompente della sua predicazione. La parola, dunque, è capace, da sola, di modificare la realtà?
«La parola pronunciata da quella voce, e cioè dalla voce giusta e nel momento opportuno, certamente è molto più capace delle armi di fare breccia. Non tutte le parole hanno però un simile potere. Noi siamo adesso in un tempo ciarlatano, in cui le parole vengono pronunciate e smentite il giorno dopo. Queste parole qui contano esattamente lo sputo, il fiato che ci vuole a pronunciarle e scadono subito dopo».
Pensi che il messaggio di Gesù Cristo possa ancora farsi largo e attecchire nel cuore degli uomini del ventunesimo secolo?
«Evidentemente sì. Le sue parole non solo muovono, ma addirittura commuovono ancora le generazioni che le ascoltano e che le leggono. Specialmente il messaggio lanciato dalla montagna delle letizie, quello che io dico dei sovvertimenti dei valori e delle gerarchie, in cui lui fa sapere che gli ultimi sono i primi, beh, quel messaggio è fresco di stampa e di speranza in ogni generazione».
Ma il tempo che noi stiamo vivendo, affermi, è un prolungamento di ciò che in realtà si è compiuto con la morte e la risurrezione di Cristo. Che significato assume questa coda temporale, questo strascico di giorni lungo ormai duemila anni?
«Sì, questi tempi supplementari infiniti tra l'annuncio e la sua manifestazione finale durano da duemila anni. È un po' quello che, in scala più grande, viene comandato a Noè, quando gli viene commissionata un'arca gigantesca, superiore per dimensioni a un campo di calcio, alta tre piani e piantata in mezzo alle montagne e ai boschi. Insomma, un lavoro enorme, portato poi a termine da solo. Un'opera visionaria, molto più della torre di Babele, che voleva costringere l'umanità sua contemporanea a interrogare Noè su quel manufatto. Serviva a far sapere agli uomini del tempo che c'era una possibilità di ravvedersi e di rendere inutile quell'arca. Tutto il lavoro di costruzione dell'arca è dunque un tempo supplementare concesso all'umanità contemporanea di Noè per ravvedersi. Cosa che però non avviene e allora il diluvio ha inizio
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Angelo Branduardi
Tenera nemica
Album: Domenica E Lunedì (1994)
Figlia, mia cara
come sabbia al sole
sei d'oro...
Tu, figlia
piccola mia luna
misteriosa per me...
Sorrisi
ed improvvise lacrime
Silenzi
e sguardi ostinati e allegria
Mia cara,
prendi le mie ali e vola
lontano da me.
Figlia, mia cara
prepotente e fragile
sei mia...
Tu, figlia
tenera nemica
sconosciuta per me...
Mi parli...
Fiumi di parole e poi
segreti
e sogni speranze e timori
Mia cara,
prendi le mie ali e vola
lontano da me.
Ti guardo...
Come mi assomigli,
la rabbia
la mia stessa malinconia
Mia cara,
prendi le mie ali e vola
lontano da me.
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Adolescenti in Rete: per 8 genitori su 10 non corrono pericoli
di Alessandra Mangiarotti
Antonio Brighenti ha 49 anni e due figli adolescenti: «La raccomandazione che faccio loro più di frequente quando escono di casa? Casco in testa e se fate tardi telefonate». Scusi, e quanto a Internet? «Beh, cosa devo raccomandare? Di non starci troppo, forse».
La strada virtuale fa meno paura di quella reale. Almeno ai genitori italiani. Illusi, analfabeti digitali o solo meno apprensivi rispetto agli altri europei? Otto su dieci (e qualcosa di più, l'82% rispetto a una media comunitaria di circa il 70%) lo hanno dichiarato ai ricercatori del progetto Eu Kids Online (leggete qui la sintesi della ricerca):
«È altamente improbabile che mio figlio possa imbattersi in una situazione spiacevole su Internet».
L'indagine, finanziata dall'Unione europea e coordinata dalla London School of Economics and Political Science, ha fotografato il rapporto con Internet di oltre 25 mila ragazzi (e loro genitori) di 25 Paesi Ue. Abitudini e rischi presentati ieri per il Safer Internet Day: dalla pornografia al bullismo, dal sexting (l'invio di messaggi a sfondo sessuale) agli incontri con persone conosciute online. Sei ragazzi italiani su dieci, tra i 9 e i 16 anni, navigano tutti i giorni in Internet o quasi. Per fare i compiti (85%), giocare (83), guardare video (76) o «parlare» con gli amici (62): il 57% ha un profilo su un social network. E navigare è spesso un'esperienza privata: il 62% (media Ue del 49) lo fa nella propria camera.
Giovanna Mascheroni, referente italiana del progetto Eu Kids Online e ricercatrice dell'Università Cattolica, spiega: «Il 63% dei genitori si autopromuove sostenendo di suggerire ai ragazzi come comportarsi su Internet, parlando di quello che può turbarli (56%) o li ha turbati (26%)». Il 70% ha fiducia nelle capacità di autodifesa dei propri ragazzi anche se il 39% di loro ignora però ogni consiglio. «Ma quello che più ci allontana dal resto d'Europa è proprio la convinzione che su Internet non possa capitare nulla di male. Non solo: molti genitori sovrastimano i rischi legati alla pornografia e ne ignorano altri come il bullismo online (sconosciuto all'81%), giudicato esperienza molto dolorosa dai due terzi dei ragazzi».
Il direttore generale di Save the Children Italia, Valerio Neri, pone l'accento sulla scarsa alfabetizzazione dei genitori e sui numeri degli adescamenti online: «Se solo sapessero
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Dossetti, Lercaro e il caso Viganò
di Aldo Maria Valli
A volte fra la cronaca quotidiana e un libro di storia si creano connessioni altamente significative. Mi è successo di recente. Proprio mentre dal Vaticano filtravano le notizie circa la Viganò story, con tutti gli annessi e connessi, ho letto Dossetti e Lercaro. La Chiesa povera e dei poveri nella prospettiva del Concilio Vaticano II, nel quale il teologo Corrado Lorefice rievoca la storia del rapporto fra il futuro monaco e l'allora arcivescovo di Bologna, in particolare riguardo all'influenza che Dossetti ebbe sul discorso pronunciato da Lercaro nel dicembre del 1962, durante la trentacinquesima congregazione conciliare, sulla povertà della e nella Chiesa. Così, mi sono trovato a confronto fra un'alta lezione di vita cristiana ed ecclesiale alla luce del Vangelo e la realtà sconcertante di un'istituzione ecclesiastica alle prese con le seduzioni di Mammona. Ai padri conciliari il cardinale Lercaro, ispirato da Dossetti, disse che la povertà, per il popolo di Dio, non può essere una semplice opzione fra le altre, dettata dalla sensibilità o dalla buona volontà. Tanto per i singoli quanto per l'istituzione Chiesa, alla luce del Vangelo, semplicemente non c'è che la strada della povertà. Dio si è fatto uomo, e uomo povero, per la nostra salvezza. Povertà e messaggio evangelico non possono mai separarsi. Poi leggi, appunto, che nella Città del Vaticano avvengono faide per interessi economici incredibili, che lo stesso monsignor Viganò ha in corso un contenzioso giudiziario con un fratello sacerdote per una somma di trenta milioni di euro, che un frate domenicano ha improvvidamente affidato alla società del truffatore Gianfranco Lande, meglio noto come il Madoff dei Parioli, un milione e settecentomila euro versati come anticipi per sostenere le cause di beatificazione, e ti chiedi se per caso non ha ragione il teologo Giuseppe Ruggieri quando, nella prefazione al bel libro del collega Lorefice, scrive che "la povertà della Chiesa come via del suo cammino nella storia è semplicemente rigettata, non nei suoi principi, ma nella vita concreta". Ruggieri è duro: "Dire che la Chiesa deve rinunciare ai privilegi storicamente acquisiti quando essi si mostrassero di ostacolo all'annuncio del Vangelo è un discorso che, nel migliore dei casi, suscita un sorriso ironico in viso all'ascoltatore di buone creanze. Troppo palese è infatti l'inconsistenza di queste parole nella prassi dominante". La lezione di Dossetti e Lercaro non è mai passata? Quell'insegnamernto non è mai stato accolto? Queste domande meriterebbero risposte adeguate. Sì, nel senso della povertà ci sono state scelte importanti, e anche gesti simbolici. Ma, in profondità, la scelta della povertà è mai diventata, da virtù etica, insopprimibile elemento distintivo della vita evangelica? E che cosa significa oggi accogliere l'insegnamento della Lumen Gentium là dove, ispirata proprio dall'intervento di Lercaro, afferma che "come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza"? Nei documenti postconciliari, nota Lorefice, sia da parte del magistero papale sia negli interventi dei vescovi italiani il tema della povertà della Chiesa e dello stile povero nell'esercizio della sua missione è quasi del tutto assente. Si parla molto di poveri e di povertà, ma poco o nulla circa la povertà della Chiesa e dei mezzi necessari per svolgere la missione evangelizzatrice. Si parla spesso di "Chiesa dei poveri", mai o quasi mai di "Chiesa povera". Le cose, lo sappiamo, sono andate diversamente in Sudamerica, dove sia alla conferenza dei vescovi di Medellin (1968) sia a quella di Puebla (1979) la povertà è diventata l'asse della dottrina sociale e alla scelta preferenziale per i poveri è stato accostato il tema della necessaria povertà della Chiesa, ma i teologi della liberazione che si sono fatti interpreti di questa linea (i Gutiérrez, i Boff, i Sobrino) sono finiti tutti nel mirino della Congregazione per la dottrina della fede. Il congresso teologico continentale in programma a cura della Fundacion Amerindia (7 - 11 ottobre 2012, Unisinos, San Leopoldo, Brasile) per celebrare i cinquant'anni della convocazione del Concilio Vaticano II e i quaranta dalla pubblicazione del libro di Gustavo Gutiérrez Una teologia della liberazione sarà una preziosa occasione di confronto e di verifica. Sempre che al di qua dell'oceano si voglia ascoltare.
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Autore: Elisabetta Dodi
Data: 26-10-11 18:18
Questa mattina sono passata dai giardini di piazza Bacone e alla panchina dove di solito è seduta la Signora che vive in piazza ho visto un grande telo di plastica.
Ho subito pensato che la Signora, per il freddo, avesse trovato un altro posto dove dormire e che lì ci fossero solo i suoi “bagagli” protetti dalla pioggia.
Dopo mezz'ora sono ripassata e ho visto due vigili, un uomo e una donna, parlare con la Signora.
Ho proseguito nel mio cammino verso casa, ma sono poi tornata indietro.
Ho pensato che forse valeva la pena, grazie anche alla presenza dei vigili, non perdere l'occasione e cercare di capire qualcosa di più della Signora che stazione in piazza da ormai moltissimi mesi.
Il resto è stato tutto una grande sorpresa.
Mi sono avvicinata discretamente e mi sono presentata, dicendo che sono una mamma e una cittadina della zona e che ero lì per capire meglio la storia di quella Signora per la quale sono molto preoccupata, anche in vista dell'arrivo del freddo.
Immediatamente capisco che sotto il telo di plastica fino a qualche minuto prima non c'erano i bagagli, ma c'era la Signora che dormiva e che i vigili avevano appena svegliata per verificare che stesse bene e per iniziare un lungo dialogo con lei
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E scomparve la ferula conciliare
di Alberto Melloni
Pochi al mondo sanno chi è Lello Scorzelli. Ma un numero immenso di esseri umani ha visto almeno una sua opera, piccola, del peso di pochi chili, ma di immenso significato. A questo scultore napoletano nato all'inizio degli anni Venti, con studio in Vaticano, Paolo VI commissionò per la chiusura del Concilio una nuova «ferula»: cioè quel bastone sormontato dalla croce, sul quale Scorzelli pose anche un Gesù crocifisso, esile ed eppure capace di piegare col peso della sua concentrata sofferenza la trave del più celebre e delicato simbolo cristiano. Le foto conclusive del Vaticano II vedono Paolo VI portare questo segno che apparteneva dal Medioevo al corredo pontificio, ma che dal Cinquecento veniva usato solo in circostanze molto rare. Lo aveva con sé, quasi come una estensione statuaria, anche quando celebrò la messa in morte di Moro. E lo lasciò ai successori. Giovanni Paolo I e poi Giovanni Paolo II, che iniziò a brandirlo, ad alzarlo, a farlo volare con sé in ogni angolo del mondo: con una ritrovata audacia prima, poi come un perno attorno a cui raccogliersi nell'intensità della preghiera e infine come un sostegno al quale aggrapparsi, debole e sfinito. Un segno talmente universale da apparire ineludibile perfino per Maurizio Cattelan: nella sua provocazione su La nona ora
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Quattro anni fa compravo questa BBestia:
Ancora oggi mi ritrovo in alcune espressioni (un po' enfatiche)
tratte dal sito www.gsattitude.it:
Se anche tu hai quel fuoco che non ti permette di stare fermo,
che ti spinge ad arrivare oltre e ti permette di provare sempre nuove emozioni.
Se anche tu, qualsiasi sia la tua GS, nuova di zecca o carica di gloriosi km, hai quella passione
che ti porta sempre verso l'avventura.
Allora hai quella che noi chiamiamo GS Attitude.
C'è chi agli hotel 5 stelle preferisce solo le stelle.
C'è chi sfida il gelo più intenso perchè è la strada che riscalda il cuore.
C'è chi non importa dove si dorme ma quando si parte.
C'è chi in un viaggio non sceglie la meta ma il tragitto.
C'è chi si lascia ancora trasportare dal fascino del silenzio e dalla storia.
C'è chi le piste se le costruisce insieme a spinta.
C'è chi crede ancora nella cultura dell'avventura e la insegue costantemente.
C'è chi ha qualcosa che lo rende diverso: la strada nel sangue.
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Mi sorge un dubbio: ma so ancora dubitare?
di Franco Garelli
In tutta la sua vita di grande studioso dei fenomeni religiosi, Peter Berger - oggi professore emerito della Boston University, autore di libri famosi come Il brusio degli angeli, L'imperativo eretico, Questioni di fede - ha fatto un costante esercizio di equilibrio, di conciliazione tra opposti, di una ricerca di senso che rifugge sia dalle semplificazioni sia dalle visioni ideologiche della realtà. Non tanto, ovviamente, per il gusto della moderazione o del compromesso, ma perché convinto che dietro le posizioni estreme in campo religioso si nasconda la non accettazione della condizione moderna.
Tra i punti qualificanti del suo lavoro vi è certamente lo smascheramento dei fanatismi di ogni genere, che nella modernità avanzata assumono volti diversi e contrastanti: dalle chiese e dai fedeli che predicano un'ortodossia acritica (più attenta ai dogmi che alla vita) a quanti in nome della ragione e della scienza negano valore alla ricerca di fede; dai musulmani che perseguitano i cristiani agli occidentali che impugnano la croce contro gli immigrati islamici; per non parlare delle scomuniche reciproche che gruppi di fedeli di orientamento diverso si lanciano sui temi della famiglia, dell'aborto, della bioetica. Orientamenti radicali o assoluti, dunque, il cui fondamentalismo è alla base dei conflitti che agitano oggi il mondo su molte questioni etiche e religiose.
Proprio a questi temi, Peter Berger ha dedicato il suo ultimo libro, scritto insieme a Anton Zijderveld, dal titolo emblematico Elogio del dubbio, ora tradotto in Italia da Il Mulino. Si tratta di una sintetica e accattivante «summa» del suo pensiero, rivisitata alla luce dei fenomeni emergenti in questo campo.
Il punto di partenza rispecchia un'antica convinzione di Berger. La modernità non sradica necessariamente il bisogno di Dio dal cuore dell'uomo, pur modificando il suo modo di stare e di orientarsi nell'universo. Oggi non si vive più in un mondo di destino, ma di scelte, che si affermano anche nel campo religioso. Così, il credere non è più dato per scontato o un tratto ereditato, ma diventa sempre più un oggetto di preferenza; parallelamente, nella società aperta anche la verità religiosa tende a perdere il suo carattere esclusivo e assume validità in rapporto all'ambiente. La modernità dunque pluralizza e relativizza, ci rende consapevoli che il mondo è abitato da molte concezioni di verità e di salvezza, che ogni società e cultura ha i suoi percorsi di significato.
Molti tuttavia non accettano una pluralità che destabilizza l'esistenza e cercano più forti ancoraggi. Rientrano in questo quadro gli opposti estremismi: sia i credenti che si radicano in antiche certezze, che si chiudono nella fortezza per evitare la contaminazione cognitiva; sia quanti optano per un relativismo ad oltranza, il cui dubbio sistematico mette in discussione ogni forma di credenza religiosa. Da un lato, dunque, vi sono i credenti fanatici convinti di avere il monopolio assoluto della verità, per cui sopprimono ogni ombra di dubbio e ridicolizzano quanti credono in modo moderato o dubbioso; dall'altro i relativisti puri, i forzati del dubbio, al punto tale da diventare cinici e da etichettare come fanatismo ogni forma di credo. Il dubbio, in altri termini, ha bisogno di una solida razionalità che lo tenga sotto controllo.
Ecco quindi gli interrogativi fondanti su cui Berger e Zijderveld hanno costruito il loro lavoro: come essere oggi riflessivi e critici nei confronti della realtà senza cadere nel relativismo e nel cinismo? e al contempo, come maturare giuste convinzioni senza diventare dei fanatici? In altri termini, come accettare la modernità evitando scorciatoie di segno opposto intraprese al solo scopo di sfuggire al tormento della scelta? E ancora, come fanno i relativisti estremi a non relativizzare anche se stessi? Va da sé che l'elogio di cui si parla nel libro è quello di un dubbio sincero, coerente, costruttivo. Il vero dubbio non può dar vita ai molti «ismi» che circolano nelle nostre società (individuabili nel fanatismo, nel relativismo, nel cinismo), le cui «certezze» contrastano con i «pro e i contro», gli stati d'animo altalenanti, la continua ricerca di senso di cui è intrisa l'esperienza della modernità avanzata. Un dubbio ad un tempo tollerante e costruttivo, che a livello personale offre sempre nuovi stimoli per meglio definire le proprie posizioni, arricchendole anche del pensiero altrui; e a livello collettivo crea le condizioni della democrazia, in quanto dà spazio al dissenso, combatte gli assolutismi, ma nello stesso tempo spinge a trovare nuove sintesi.
Molti altri spunti emergono da questo fine lavoro, che nell'argomentazione attinge al pensiero di molti classici delle scienze umane e sociali e che ci regala definizioni che ci costringono ad andar oltre l'ovvietà e le posizioni convenzionali: l'osservazione che «in ogni fondamentalista c'è un relativista che attende di essere liberato, mentre in ogni relativista un fondamentalista che aspetta di rinascere»; o ancora l'idea che «per una società stabile sono pericolose sia l'estrema sicurezza sia l'estrema insicurezza».
Un esercizio tollerante e costruttivo che a livello collettivo crea le condizioni della democrazia. Il punto di partenza è un'antica convinzione: non si sradica il bisogno di Dio dal cuore dell'uomo.
in “la Stampa” del 4 febbraio 2012
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Tre interpretazioni rabbiniche della vita
di Piero Stefani
Attraverso giochi di assonanze consentiti dall'ebraico, antichi rabbi giunsero a proporre un sorprendente commento a uno dei versetti iniziali del Cantico dei cantici. Da esso traggono infatti motivo di ringraziamento a Dio a causa di un particolare tipo di ignoranza che contraddistingue il genere umano: «Per questo le giovani ti amano” (Ct 1,3), poiché hai nascosto loro il giorno della morte». A proposito di questo detto, il grande maestro ebreo contemporaneo Y. Leibowitz afferma che, se l'uomo conoscesse il giorno della propria morte, dal punto di vista psichico non potrebbe sopravvivere e la sua non sarebbe una vera vita; è infatti impossibile reggere il sentimento generato dalla conoscenza del giorno della propria morte. Rispetto all'esistenza nulla è più benefico di quell'ignoranza. Perciò noi esprimiamo il nostro amore per il Signore per la grande bontà che ci ha mostrato nascondendoci il giorno della nostra morte. L'atto di morire non crea uguaglianza tra gli esseri umani; la fine della vita si presenta, nella varie persone, in modi tanto differenti da essere piuttosto fonte di disparità. L'unico fattore che ci rende tutti uguali è, forse, proprio quello a cui ci si è fin qui riferiti. Da quando si ha l'uso della ragione ogni essere umano sa di dover morire, ma a tutti è, in sostanza, precluso di conoscere il giorno preciso della propria morte. Se fin dal principio ci fosse nota quella data, tra le creature umane sussisterebbero differenze radicali dotate di ampie e inaccettabili ricadute anche sul piano comportamentale. Questa particolare ignoranza è dunque per noi fonte di benedizione. Lo sbocciare di una vita è paragonabile all'atto di iniziare a scrivere un libro di cui non si sa preventivare la lunghezza. All'altro estremo dell'esistenza nessuno è così anziano dall'escludere di poter aggiungere ancora un anno alla propria vita, anche se sa che è del tutto improbabile che ne viva altri dieci ed è certo che non gliene saranno dati in sorte altri venti. All'ora del tramonto l'orizzonte dell'ignoranza si è fatto più angusto e tuttavia esso in qualche modo persiste e la sua presenza ci fa continuare a vivere. La controprova di ciò sta nel fatto che chi sa di avere su di sé una sentenza di morte certa
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Il tweet del gesuita Padre Spadaro: “Così la fede ci aiuta a capire internet”
intervista da Antonio Spadaro, a cura di Marco Ansaldo
"La comunicazione aiuta la Chiesa a capire sé stessa. E la Chiesa aiuta ad avere uno sguardo spirituale sulla Rete". Sarebbe sbagliato pensare all'universo della fede cattolica con l'immagine stereotipata di un mondo granitico che sa d'incenso e di parole arcane pronunciate in una lingua morta. La Chiesa, in realtà, si sta riformando da dentro. Uno degli esponenti di questo cambiamento è un gesuita di 45 anni, da poco nominato direttore della prestigiosa rivista La Civiltà Cattolica, patito di CyberTeologia (a cui ha dedicato un blog) e duttile sperimentatore di sistemi informatici diversi. Ma Antonio Spadaro, messinese, è anche uomo capace di unire la tecnica all'intelletto. Al punto che, di recente, il Papa lo ha nominato consultore di due Pontifici Consigli: Cultura e Comunicazioni sociali. Aveva già fondato "BombaCarta", uno dei primi laboratori di scrittura creativa in Rete, e insegna al Centro interdisciplinare di Comunicazione sociale alla Gregoriana. Il suo ultimo libro si intitola Web 2.0 (Paoline). (...)
«Una delle domande che mi pongo - dice subito - è non solo come Internet può aiutare la Chiesa. Ma come la fede può aiutare a comprendere meglio il significato profondo della Rete, il suo ruolo nella storia dell'umanità».
Padre Spadaro, quello che gli osservatori notano, quasi con sorpresa, è quanto la Chiesa stia investendo nel web. Come è avvenuta questa svolta?
«Non c'è stata una svolta, ma un cammino ininterrotto. Il fatto è che la Rete sembra una cosa recente e moderna. No, Internet è una realtà antica per le domande che in forma tecnologica esprime, che sono poi quelle che ognuno di noi fa a sé stesso: chi sono io, cos'è il mondo, chi sono gli altri, la domanda su Dio... La Chiesa ha sempre guardato ai bisogni dell'uomo, e dietro alla tecnologia c'è pur sempre l'uomo. E ha sempre percepito questa linea, anticipando le idee dei social network».
Come?
«Prendo a esempio quanto ha detto di recente Benedetto XVI: "La comunicazione non è propaganda, ma luogo di relazione". E la Chiesa stessa si fonda su due messaggi: sulla comunicazione del messaggio e sulle relazioni di comunione. La Rete e la Chiesa sono due realtà da sempre destinate a incontrarsi. Sempre di più la Rete sta diventando un luogo di vita ordinaria, e la Chiesa c'è dentro: con intelligenza, e al tempo stesso, senza alienarsi quell'ambiente, mettendone in luce anche i rischi». (...) «La mia domanda è che cosa significhi fare cultura e comunicazione oggi, al tempo della Rete. (...)
Nel suo libro Web 2.0, si chiede se "c'è Dio nella blogosfera?". C'è oppure no?
«Sono gesuita e la spiritualità del mio Ordine mi fa dire che Dio è attivo nel mondo. Anzi "lavora", come dice il nostro fondatore, sant'Ignazio di Loyola. Noi gesuiti cerchiamo Dio in tutte le cose, sviluppando il fiuto della sua presenza persino laddove sembra non essere presente. Si tratta di vedere le tracce che lascia».
In questo la Chiesa è al passo con i tempi?
«Trovo nella Chiesa un crogiolo di elaborazione culturale e un livello di maturità sempre in crescita. C'è però bisogno di stare desti. Ha ragione il cardinale Ravasi: "Si può parlare di tutto"». (...) «Sono dunque naturalmente molto interessato a quel che si muove nel contemporaneo e a contaminare gli interessi. In fondo, l'uomo è uno, e non può vivere in recinti separati e chiusi. E questa è appunto una chiave per capire l'uomo, il mondo e la realtà».
in “la Repubblica” del 6 febbraio 2012
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Strumenti di apartheid (con approvazione ecclesiastica)
“Dal 27 gennaio, milioni di italiani, tenuti all'oscuro di questa oppressione continua, diventeranno senza saperlo diretti promotori e finanziatori dei crimini di cui continua a macchiarsi Israele. Sì, perché se è enorme la responsabilità di una dirigenza senza scrupoli dell'Unitalsi, peggior sorte non potevano avere i nostri più deboli concittadini, i malati, i portatori di handicap e gli anziani delle nostre parrocchie”. E' il giudizio moto duro della Campagna Ponti e non muro sull'accordo di UNITALSI con istituzioni israeliane e compagnie aeree.
Un'altra, pesantissima, irresponsabile e deprecabile firma di sostegno diretto all'apartheid più lungo della storia, è stata apposta, e produrrà nei prossimi anni danni incalcolabili.
Dietro le firme tra Unitalsi, El Al e Keren Kayameth El-Israel vi è un accordo apparentemente solo economico-turistico; ma la potenza occupante che da decenni distrugge nell'impunità il popolo palestinese, è riuscita a comprare l'appoggio incondizionato della più grande organizzazione cattolica di pellegrinaggi alle sue politiche di oppressione.
Paradossalmente, proprio mentre dalla Chiesa di Terra santa mai come in questi ultimi anni si è alzata forte e chiara la condanna della colonizzazione israeliana, l'accordo prevede che circa 40.000 (quarantamila) malati e anziani delle nostre parrocchie diventino inconsapevolmente sostenitori di “quell'occupazione di Israele nei Territori palestinesi che priva i cristiani della loro dignità e libertà e attende dai cristiani del mondo una più decisa condanna” (Kairos Palestina, un momento di verità, ed.Terrasanta).
Lo stato di Israele, attraverso la sua compagnia di bandiera El Al, non solo garantirà voli più economici e aerei adeguati alle esigenze di portatori di handicap, ma soprattutto potrà godere dell'incondizionato appoggio di una massa di pellegrini adeguatamente indottrinati che, dalla mappa del kit agli hotel, dalle guide ebraiche alle visite in programma, scopriranno “la meravigliosa terra di Israele” senza poter conoscere la sofferenza e la tragedia che in quelle stesse terre sopportano milioni di palestinesi. Nessuno li accompagnerà a incontrare ad esempio le migliaia di beduini palestinesi che proprio in Israele, in questi mesi, stanno subendo l'espulsione forzata dalle loro povere case.
Per questa rinnovata “operazione scopa” (così veniva chiamata all'inizio la pulizia etnica, nel 1948) per questa “ripulitura” fisica e ideologica della Palestina dai suoi abitanti nativi, non bastano tank e bulldozer per arrestare e demolire, né caccia e bombe al fosforo per annichilire un popolo di terroristi. Servono ad Israele milioni di inconsapevoli “soldati” da tutto il mondo che, pensando di aderire ad un percorso spirituale e culturale encomiabile, prestino il loro volto innocente e magari sofferente, alla demolizione di interi villaggi del Negev (questo è l'obiettivo 2012 dell'Ente KKL che ha firmato l'accordo con Unitalsi) e aiutino nascondere il vero volto di uno stato occupante e violento.
In realtà non si tratta di una novità per lo stato responsabile dei più efferati crimini e di reiterate violazioni di diritti umani. Il più grande investimento di Israele, dopo le spese per il mantenimento del sistema di occupazione militare, è infatti il restyling della sua immagine nel mondo, macchiata di sangue e di illegalità. Da decenni ormai il primo obiettivo è nascondere le conseguenze disastrose delle quotidiane aggressioni dell'apparato militare che controlla e regola ogni aspetto della vita di milioni di palestinesi.
Non ci stupisce allora che nelle pubblicazioni che accompagnano questa iniziativa, una improbabile cartina geografica presenti tutti i Territori Palestinesi Occupati come “Judean Desert”, riportando i nomi degli insediamenti, ma non quelli delle città e dei villaggi arabi dove sopravvivono in migliaia nei disagi e nell'umiliazione.
“Aiutateci a fare di Gerusalemme la città senza barriere” -ha affermato a Roma il sindaco della Città Santa, impegnata a nascondere agli italiani i più di 700 chilometri di “barriera”, le centinaia di check point, le colonie, le quotidiane distruzioni di piantagioni, di case, di futuro.
“La nostra supplica alle chiese del mondo” -scrivono invece in Kairos Palestina i cristiani di Terra santa- “è quella di venire e vedere come viviamo resistendo al male dell'occupazione”. Ma con ancora maggior coraggio il loro documento propone ai cristiani un'azione più forte nei confronti di Israele: “boicottare tutto ciò che viene prodotto dall'occupazione. (
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L'ascolto è il primo passo di una buona guida
di mons. Bruno Forte
Il card. Carlo Maria Martini, Arcivescovo emerito di Milano, ha scritto un breve testo, appena pubblicato, intitolato Il Vescovo (Rosenberg & Sellier, Torino 2011, 94 pagine). Penso possa servire a tutti - credenti e non credenti - fermarsi a riflettere su di esso: vi traspare un'intelligenza vivissima e umile e una fede profonda, amica di Dio e degli uomini. A cinquant'anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II, le riflessioni di Martini - autobiografiche e non solo
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dal Vangelo secondo Matteo (15, 21-28)
Partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. Ed ecco, una donna cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d'Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore
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La parola ai poveri
don Primo Mazzolari
Ci sono davvero i poveri? La stessa impressione di quando mi chiedono se Dio c'è. Subito vogliono sapere: chi è? dov'è? cosa fa? I poveri sono "i figli di Dio". Tra i poveri e Dio c'è una stretta somiglianza e un continuo incontro. Essi vivono così particolarmente legati a lui che nella mente e nel cuore dell'uomo Dio e il povero seguono uguali alternative di luce e di oscurità, di riconoscimento e di negazione, di avversione e d'amore. E per questo che gli atti del povero quasi istintivamente si riferiscono a Dio. Non ha detto Gesù che saremo giudicati secondo che avremo o no sfamato, dissetato, consolato lui stesso sotto le vesti del povero?
Per conoscere i poveri non basta la statistica. Anche la politica, che sembra aver dato coscienza ai poveri della loro forza, dei loro diritti, della possibilità di riacquistare la libertà perduta, il più delle volte, in realtà, li tradisce. I poveri, o sono il "sottoproletariato" di cui la strategia rivoluzionaria si serve come forza d'urto e di rottura, o l'"oggetto" di adescamento dei conservatori per rompere l'unità popolare.
Non basta neppure l'amore per conoscere i poveri: neppure l'amore di chi si mette generosamente e concretamente a loro disposizione, pagando di persona, e non con le parole e con i sacrifici degli altri, come troppo spesso fanno i politici. Io credo che anche questa forma di conoscenza sia incompleta e molte volte illusoria. Perché è impossibile superare un diaframma che realmente esiste, di capire cioè che cosa sia dover essere povero senza possibilità di elezione e di uscita. I poveri sono scomodi, ingombranti, suscitano ripulsione, intimidiscono. È facile dire una parola gentile a un uomo della nostra condizione. Si sa o si può prevedere fino a che punto essa viene compresa. Ma non si sa mai che cosa il povero capisce e che cosa non capisce. È difficile misurare la profondità del suo dolore e la superficialità del suo piacere.
Per conoscere veramente i poveri, per parlarne con competenza, bisognerebbe conoscere il mistero di Dio, che li ha chiamati "beati" riservando loro il suo regno. Erode ha paura di Gesù che ha per palazzo una stalla e per culla una greppia. Bisogna che il povero non sia! E invece il povero vien fuori dalla nostra stessa miseria: come Gesù. Il povero è Gesù. Se non ci sono più poveri, non c'è neanche Gesù. Se vedo me stesso non posso non vedere il povero: se vedo Gesù non posso non vedere il povero.
Le vertigini del benestare prendono dapprima gli occhi: si ha bisogno di non vedere. Chi ha poca carità vede pochi poveri: chi ha molta carità vede molti poveri. Che strana virtù la carità! Moltiplica i poveri per la gioia di amare i fratelli, per la gioia di perdere la propria vita nei fratelli. E non sbaglia la carità, non fantastica: vede giusto, sempre. L'occhio della carità è l'unico che vede giusto. "Signore, quando mai ti vedemmo affamato, assetato, senza tetto, ignudo o in prigione?" (Matteo, XXV, 44).
Dio, chi è? Prima importa sapere se Dio c'è. I poveri, chi sono? Prima importa sapere se ci sono. Non mette conto ch'io spieghi chi sono i poveri, se non ci siamo ancora accorti che i poveri ci sono, e non lontano da noi. Pare assai comodo non vedere i poveri. Quella dei poveri, come quella di Dio, è una presenza scomoda. Sarebbe meglio che Dio non fosse; sarebbe meglio che i poveri non fossero: poiché se Dio c'è, la mia vita non può essere la vita che conduco; se i poveri ci sono, la mia vita non può essere la vita che conduco. Sono parecchie le cose che non vorremmo che fossero. Ne nomino alcune, le più scomode, ma le più certe, purtroppo: la morte, il dolore, i poveri, Dio. Non vogliamo vedere Dio: non vogliamo vedere la morte: non vogliamo vedere il dolore: non vogliamo vedere i poveri. E sono invece le realtà più presenti; direi le presenze che non possiamo non vedere e non ricordare. Fino a quando riusciremo a tenere chiusi gli occhi davanti a queste certezze, che l'uomo può anche non voler vedere? Chiudo gli occhi un giorno; chiudo il cuore un giorno; chiudo la ragione un giorno, un anno, molti anni; poi, non ne posso più, e vedo Dio, la morte, il dolore, i poveri; proprio chi non vorrei vedere. Su ogni strada c'è una svolta: all'improvviso, ecco che dal mio intimo stesso risale la certezza che Dio c'è, e il dolore m'attanaglia, e la morte mi viene vicina, e il povero m'appare [
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Diamo più voce ai fedeli durante l'assemblea liturgica
di Enzo Bianchi
Nella vita ecclesiale, nonostante i mutamenti avvenuti con il Concilio Vaticano II
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Guai a me se non evangelizzo
di Luisito Bianchi
Hai un bel dire: è impossibile l'evangelizzazione, stando così le cose, ecc.; la tua affermazione ti ricade addosso col grido di Paolo: «Guai a me se non evangelizzo!». Si può uscire dal cerchio? È possibile continuare a cercare la strada della credibilità come Chiesa, per poter proporre onestamente il messaggio, pur sapendo che la tua credibilità, se la tenti, non vale nulla in quanto è necessaria una credibilità di Chiesa? La logica del Varvello ti dice di no; la logica della Parola di Dio, per cui mille anni sono come un giorno, ti dice di sì. Certo, ogni ragionamento costruito con mezzi umani ti si sgretola fra le mani, e allora ti devi abbandonare all"'assurdo" di Dio. Mi sembra che se non si tiene conto di questa "signoria-di Dio" che oggi può anche manifestarsi nel nostro senso d'impotenza, si rischia di fare dell'evangelizzazione e, di conseguenza, della Chiesa un fatto puramente di uomini, che può essere analizzato con tutti gli strumenti che hai a disposizione, ma, difficilmente compreso nella sua dimensione di gratuità. L'evangelizzazione non è forse legata, quasi da diventarne un tutt'uno, alla gratuità?
E allora la nostra credibilità di Chiesa, nel momento dell'annuncio, non passa attraverso la gratuità? È qui, mi sembra, che l'impulso di cui ti parlavo prende una più definita collocazione. Continuo a lavorare manualmente per avere di che vivere come la maggioranza degli uomini, separando nettamente l'evangelizzazione dal fatto che ne potrei trarre il mio sostentamento come prete; ed è pure qui che vedo concretamente realizzarsi la dimensione della gratuità. Certo, una dimensione raso terra, che fa brutta figura di fronte a tutte le belle ragioni ascetiche che hanno configurato la nostra spiritualità sacerdotale e che, tutto sommato, hanno legittimato offerte, tariffe, congrue, benefici, stipendi di professori di religione, accettati o stimolati proprio per avere la possibilità di evangelizzare! Ma noto che anche tu non sei troppo tenero con la nostra «spiritualità sacerdotale», per cui non farai certamente fatica a perdonare la mia riduzione della gratuità, da parte dell'uomo, a un fatto puramente di sostentamento. In questa prospettiva non faccio differenza, almeno teoricamente, fra i diversi tipi di lavoro che mi possono permettere la gratuità dell'evangelizzazione. Se ho scelto ancora quello salariale è per motivi contingenti, in relazione a una situazione che mi pare richieda una particolare attenzione per il salariato, proprio in rapporto all'evangelizzazione. L'importante, però, mi sembra sia la netta separazione fra evangelizzazione e fonti di sostentamento. Naturalmente questo è un mio convincimento che non voglio assolutizzare. Posso sbagliarmi, ma non sarei onesto se non lo volessi concretizzare.
(...) Oggi la CEI parla di evangelizzazione. È lecito auspicare che tutto non si riduca a inventare nuovi mezzi di evangelizzazione (magari con l'aiuto della RAI-TV) come se ne cercarono per la «conquista dei lontani» e la «sacramentalizzazione», coi risultati che sappiamo, e che si affronti con coraggio il tema della gratuità (evidentemente con tutte le conseguenze ch'essa comporta)? Se è lecito, lasciamo perdere la pastorale operaia e le commissioni di studio (hai notato che queste commissioni girano sempre attorno alla necessità di studiare la situazione?): siamo già nella pastorale della Chiesa, di questa Chiesa di sempre, che cerca di togliere gli ostacoli perché l'annuncio da parte di chi lo propone come dono ricevuto gratuitamente diventi credibile. In ultima analisi, la credibilità che debbo ricercare nel momento dell'evangelizzazione è questo mettermi sotto il giudizio dell'Evangelo: è la stessa evangelizzazione nella sua dimensione di gratuità che mi evangelizza, la credibilità ricercata nella gratuità che mi fa scoprire la credibilità dell'Evangelo come espressione dell'amore gratuito di Dio. Sono ben lungi dal pensare che tutto questo sia la soluzione del dovere dell'evangelizzazione come la parola fatidica che apra la porta dei tesori nascosti. L'evangelizzazione è pur sempre un fatto di Dio, un tesoro ricevuto che portiamo in vasi di creta. E con questa immagine paolina che mi ridimensiona (se mai ti avessi dato l'impressione di impancarmi a dottore) a livello dì un don Abbondio, vaso di coccio costretto a viaggiare in compagnia di vasi di ferro, ti abbraccio con animo amico.
*Lettera postilla riportata nel libro di Luisito Bianchi "Come un atomo sulla bilancia" (pp.272-75), in risposta ad una presentazione di Maurilio Guasco dal titolo "L'evangelizzazione impossibile" (ivi pp. 255.270).
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Perché proteggiamo (troppo) i nostri figli
Invece che fare i genitori, ci siamo trasformati a poco a poco nei sindacalisti della nostra prole, sempre pronti a batterci perché venga loro spianata la strada verso il nulla
di Antonio Polito
Dunque, ricapitoliamo. I nostri figli hanno diritto ad essere fuori corso anche dopo i 28 anni senza che austeri ministri li definiscano «bamboccioni» o frivoli viceministri diano loro degli «sfigati». Però, a 28 anni, hanno diritto a un posto di lavoro non solo stabile e comparabile alle loro aspirazioni, il che è ragionevole, ma anche inamovibile e sorvegliato da un giudice ex articolo 18. Hanno inoltre diritto a una facoltà nel raggio di 20 chilometri da casa, così che non debbano vivere lontano dalla famiglia, e dunque hanno diritto a non fare quei «Mcjob» (commessi, camerieri, pony express), che i loro più sfortunati coetanei americani sono costretti ad accettare temporaneamente per mantenersi agli studi. Infatti i nostri figli non devono mantenersi agli studi, perché lo Stato chiede a ciascuno di loro tra i mille e i duemila euro l'anno mentre ne spende in media settemila (e molto di più per formare, per esempio, un medico); dunque a mantenerli agli studi ci pensa la fiscalità generale, cioè le tasse pagate anche da chi i figli all'università non li manda. Frequentando l'ateneo con comodo e senza fretta, i nostri figli hanno anche diritto a che il valore legale della loro laurea sia identico a quello di chi la laurea se l'è sudata un po' di più, magari emigrando, magari in cinque anni, magari in un'università in cui i 110 non fioccano dal cielo, perché in una società veramente egualitaria tutte le lauree devono essere uguali come tutti i gatti di notte devono essere bigi. Se poi i nostri figli per caso volessero continuare la loro carriera universitaria dopo la laurea, hanno diritto a non farlo all'estero, lì dove fuggono i cervelli, ma in patria, lì dove ammuffiscono i cervelli. Naturalmente, hanno infine il diritto di protestare contro questo stato di cose e contro chi ruba loro il futuro, «Occupyando» qua e là tra gli applausi dei contestati medesimi.
Questo elenco di «diritti» può apparire paradossale, ma è quello che si evince dal dibattito pubblico che in queste settimane si è finalmente acceso sulla questione giovanile (fino a qualche mese fa verteva di più su temi come il mestiere di velina o l'età dell'emancipazione sessuale). Diciamoci la verità: il senso comune degli italiani, in quanto genitori, è questo. Al punto che perfino un governo di professori e di liberali si è ritratto inorridito di fronte all'ipotesi di cancellare il valore legale del titolo di studio, cavallo di battaglia dei professori liberali dai tempi di Einaudi. A questo universo morale in cui non compare mai la parola «dovere», o «responsabilità», si deve aggiungere una crescente condanna popolare e mediatica per il «successo», sempre più considerato solo un'altra manifestazione della tanto deprecata ineguaglianza, quasi come se non si potesse avere successo senza una raccomandazione, un'illegalità, un'evasione fiscale. Ne esce così rafforzato all'inverosimile un malinteso senso di protezione verso i nostri figli; malinteso perché in realtà tradisce una sfiducia collettiva nei loro mezzi, una paura di lasciarli nuotare con le loro forze e il prima possibile, che a sua volta contribuisce a deprimere la loro autostima, assuefacendoli all'insuccesso col metadone di una potente giustificazione morale e sociale. Senza capire che l'unico vero antidoto all'ineguaglianza è la lotta del merito e del talento per emergere negli anni dell'educazione, affrancandosi così dalla condizione sociale, familiare o geografica.
Protagonisti di questo paternalismo (o maternalismo) non potevamo che essere noi, la generazione dei baby boomer , la prima generazione ad aver disobbedito ai padri e la prima ad aver obbedito ai figli. Invece che fare i genitori, ci siamo trasformati a poco a poco nei sindacalisti della nostra prole, sempre pronti a batterci perché venga loro spianata la strada verso il nulla, perché non c'è meta ambiziosa la cui strada non sia impervia. È un grande fenomeno culturale, e sempre più un carattere nazionale, forse in qualche relazione contorta e perversa con il calo delle nascite, come se ne volessimo pochi per poterli coccolare meglio e più a lungo. Ed è un grande fattore di freno alla crescita, non solo economica ma anche psicologica della nazione. Mentre negli Usa infuria il dibattito sulle mamme-tigri, asiatiche che spingono i figli fin oltre il limite della competizione con se stessi e con gli altri, da noi comandano i papà-orsetti, pronti a lenire con il calore del loro abbraccio il freddo del mondo reale, così spietato e competitivo.
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«La Chiesa del Concilio, sì, si è assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che a Dio la unisce, dell'uomo quale oggi in realtà si presenta: l'uomo vivo, l'uomo tutto occupato di sé, l'uomo che si fa non soltanto centro d'ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d'ogni realtà. Tutto l'uomo fenomenico, cioè rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze, si è quasi drizzato davanti al consesso dei Padri conciliari, essi pure uomini, tutti Pastori e fratelli, attenti perciò e amorosi: l'uomo tragico dei suoi propri drammi, l'uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce; poi l'uomo infelice di sé, che ride e che piange; l'uomo versatile pronto a recitare qualsiasi parte, e l'uomo rigido cultore della sola realtà scientifica, e l'uomo com'è, che pensa, che ama, che lavora, che sempre attende qualcosa, il «filius accrescens » (Gen 49,22); e l'uomo sacro per l'innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del suo dolore; l'uomo individualista e l'uomo sociale; l'uomo «laudator temporis acti» e l'uomo sognatore dell'avvenire; l'uomo peccatore e l'uomo santo; e così via. L'umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto uomo s'è incontrata con la religione (perché tale è) dell'uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere; ma non è avvenuto. L'antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l'attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito in questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell'uomo.
papa Paolo VI, Omelia per la Nona Sessione del Concilio Vaticano II (7 dicembre 1965)
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Il Concilio, la Tradizione e le tradizioni
del card. Walter Kasper
E' stato presentato il libro "Chiesa cattolica. Essenza - Realtà - Missione". Autore il card. Walter Kasper, presidente emerito del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani e teologo che ha vissuto in prima persona la stagione del Concilio Vaticano II. Pubblichiamo alcuni stralci dalle pagine iniziali del volume.
L'esperienza del concilio Vaticano II divenne per me un'esperienza quanto mai incisiva della Chiesa e un permanente saldo punto di riferimento. Quando il 25 gennaio 1959 Giovanni XXIII annunciò il concilio, la sorpresa fu enorme. Seguì un tempo mozzafiato, avvincente e interessante quale i giovani teologi odierni non riescono più a immaginare. Noi sperimentammo come la veneranda vecchia Chiesa mostrava una nuova vitalità, come spalancava porte e finestre ed entrava in un dialogo al suo interno nonché in dialogo con altre Chiese, altre religioni e con la cultura moderna. Era una Chiesa che si rimetteva in cammino, una Chiesa che non ripudiava e non rinnegava la sua antica tradizione, ma le rimaneva fedele, e che tuttavia raschiava via incrostazioni e cercava così di rendere la tradizione nuova, viva e feconda per il cammino verso il futuro. Sono sempre convinto che i sedici principali documenti del Concilio sono, nel loro complesso, la bussola per il cammino della Chiesa nel XXI secolo.
Il concilio Vaticano II è già stato spesso definito come il concilio della Chiesa sopra la Chiesa. La Chiesa, che era in cammino sulle strade della storia da duemila anni, prese nel corso di tale concilio più profondamente coscienza della propria essenza, in virtù della quale era già fino ad allora vissuta e aveva agito. Già nel discorso di apertura, tenuto l'11 ottobre 1962, Giovanni XXIII disse che compito di tale concilio sarebbe stato quello di conservare integralmente e senza falsificazioni il sacro patrimonio della dottrina cristiana e di insegnarlo in modo efficace. Paolo VI disse la stessa cosa il 21 novembre 1964, in occasione della solenne promulgazione della costituzione sulla chiesa Lumen gentium, unitamente al decreto sull'ecumenismo Unitatis redintegratio. Egli affermò: «Questa promulgazione nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che Cristo volle, vogliamo anche noi. Ciò che era, resta. Ciò che per secoli la Chiesa ha insegnato, noi insegniamo parimenti. Soltanto ciò che era semplicemente vissuto ora è espresso, ciò che era incerto è chiarito; ciò ch'era mediato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione».
Il fascino e l'entusiasmo del concilio sono nel frattempo svaniti. È cominciato un tempo fatto di sobria considerazione dei fatti, in parte anche di valutazione critica degli eventi conciliari e soprattutto postconciliari. È succeduta una nuova generazione, per la quale il concilio è un evento molto lontano e appartenente a un altro tempo, a un tempo nel quale essa non era ancor nemmeno nata e nei confronti del quale non ha alcun rapporto personale, come invece lo aveva la mia generazione. A questa nuova generazione occorre spiegare faticosamente quanto allora avvenne ed entusiasmarla nei suoi confronti. Per questo ci vuole una solida ermeneutica del concilio.
Non bisogna indubbiamente fare del concilio un mito, nel quale ognuno proietta e trova i propri pii desideri. Occorre piuttosto interpretare con accuratezza i testi conciliari secondo le regole universalmente valide dell'ermeneutica teologica. Nel farlo non bisogna separare il cosiddetto reale o presunto spirito del concilio dalla lettera del concilio, ma occorre piuttosto desumere lo spirito del concilio dalla sua storia e dai suoi testi.
I testi del concilio vanno compresi alla luce della sua storia e alla luce delle spesso controverse discussioni svoltesi nel suo corso. Poi bisogna interpretare ogni singola formulazione in seno al complesso di tutti i testi conciliari e tener conto, nel farlo, della gerarchia intrinseca dei diversi documenti conciliari. Non da ultimo occorre interpretare i testi conciliari alla luce delle fonti, a cui lo stesso concilio era vincolato e da cui attinse copiosamente. Infine per un'adeguata ermeneutica conciliare è importante tener conto della ricezione che le affermazioni conciliari hanno trovato nella dottrina e nella vita della Chiesa dopo il concilio. Rettamente intesa la ricezione non è un'adozione meccanica, ma un processo ecclesiale vivo guidato dallo Spirito Santo, che si svolge nella dottrina così come in tutta la vita della Chiesa.
Nel periodo postconciliare l'esperienza di tutta la storia del concilio ha trovato il suo seguito. Alla controversia attorno alla definizione segue sempre la controversia attorno alla sua ricezione. Già durante il concilio Vaticano II si erano formate due fazioni, che furono presto dette «conservatrice» e, rispettivamente, «progressista». Questi termini ebbero inizialmente un significato diverso da quello che avrebbero assunto dopo il concilio. Quelli che allora furono detti progressisti erano infatti in realtà dei conservatori, che volevano riaffermare la tradizione grande e più antica della sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa, mentre quelli che allora furono detti conservatori erano unilateralmente fissati sulla tradizione posttridentina degli ultimi secoli. Per tener conto delle giustificate istanze di ambedue le parti e per raggiungere, in corrispondenza a una buona tradizione conciliare, il consenso più ampio possibile, furono necessarie in molti casi delle formule di compromesso, pure questo un fenomeno niente affatto nuovo per chiunque conosca la storia dei concili. Spesso le discussioni, che si svolsero durante il concilio, vengono portate avanti con altri mezzi nella controversia sull'interpretazione del concilio. E così troviamo delle interpretazioni «progressiste», che si richiamano al concilio per sostenere delle posizioni «neomoderniste», che il concilio non ha scientemente fatto proprie a motivo del suo radicamento nella tradizione, e troviamo delle posizioni tradizionaliste, che mettono a volte completamente o parzialmente in discussione il concilio o lo interpretano nel senso di posizioni preconciliari del XVIII e XIX secolo, che il concilio volle precisamente superare.
Nel frattempo Benedetto XVI ha impresso un impulso importante all'ermeneutica conciliare. A un'ermeneutica della rottura egli contrappone un'ermeneutica della continuità e della riforma, ed esorta a interpretare il concilio nel contesto di tutta la tradizione e come un anello della lunga catena di quest'ultima. In effetti non è possibile considerare il Vaticano II come una rottura e come l'inizio di una nuova Chiesa. Ciò contraddirebbe la sua autointelligenza e il suo radicamento consapevole e voluto nella tradizione. Che non sia possibile intendere la continuità nel senso del concilio come semplice ripetizione o spiegazione puramente logica o organica di affermazioni precedenti e l'ermeneutica della riforma come applicazione semplice e pratica, lo si desume dal modo in cui lo stesso concilio concepì la tradizione, in seno alla quale esso stava.
Se vogliamo comprendere la continuità accompagnata da un rinnovamento, allora l'ermeneutica del concilio Vaticano II deve partire dall'idea dello sviluppo dei grandi maestri della scuola di Tubinga e dalla dottrina dello sviluppo di John Henry Newman. Tale idea parte dal fatto che la Chiesa è la stessa in tutti i secoli e in tutti i concili. Però si tratta di una tradizione viva, il che non significa una tradizione arbitraria. Newman poté mostrare nel suo celebre Essay on the Development of Christian Doctrine (1845), sulla scorta di molti esempi concreti desunti dalla tradizione ecclesiale più antica, che anche in passato c'erano stati, pur con tutta la continuità dei principi, sviluppi complicati e complessi e che la continuità include sia nuove definizioni, sia anche la loro ricezione creativa e una loro diversa inculturazione. Occorre perciò distinguere la Traditio (con la lettera maiuscola) permanentemente vincolante e tuttavia sempre giovane dalle molte traditiones (con la lettera minuscola), che esprimono l'unica tradizione in un modo storicamente condizionato, ma che la possono anche offuscare e deformare (si pensi, per esempio, alle tradizioni antiebraiche e a quelle ostili nei confronti del corpo o misogine). In questo senso il concilio ha più volte interrotto traditiones storicamente condizionate per far di nuovo brillare l'unica Traditio permanente e vincolante. Riforma non significa perciò solo ritorno all'origine o a una forma precedente della tradizione considerata come autentica, ma significa anche rinnovamento, affinché l'antico, l'originario e il permanentemente valido non sembri vecchio, ma si affermi di nuovo nella sua novità e torni nuovamente a brillare. Giovanni XXIII espresse questa istanza con il noto termine «aggiornamento», termine difficile da tradurre e spesso abusato. Esso non significa adattamento all'oggi, ma significa rendere presente ciò che è stato tramandato nella novità dell'oggi.
Tale «rinnovamento» è qualcosa di diverso da una innovazione. Nel termine rinnovamento viene piuttosto espressa la concezione biblica del «nuovo», cioè di una novità escatologica gratuita, non deducibile, inconsunta e continuamente sorprendente. Il vangelo non è mai semplicemente ciò che si conosce da antica data, ma il nuovo eterno. Bisognerebbe perciò concepire l'ermeneutica della riforma come un'ermeneutica del rinnovamento e parlare di un'ermeneutica del rinnovamento. Il rinnovamento non è opera nostra, ma è l'opera dello Spirito Santo, che ci ricorda tutto (Giovanni, 14, 26) e ci introduce nello stesso tempo in tutta la verità (Giovanni, 16, 13). Il suo rinnovamento non significa semplicemente ripetizione, ma significa attualizzazione del vangelo rivelato una volta per tutte.