2017_12_dicembre
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Mi piacciono sempre la creatività e l'occhio attento sul reale, a scoprire ciò che c'è, ma spesso non si vede!
Alcune pubblicità "natalizie":
https://www.facebook.com/pubblicitacreativebizzarre/photos/a.1166040563511989.1073741841.105699262879463/1166040606845318/?type=3&theater
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«Con il chiacchiericcio allontaniamo la gente dalle parrocchie. Alcuni hanno la lingua lunga come i serpenti. Un parroco diceva una volta che alcuni fedeli potevano fare la comunione dalla porta della chiesa talmente era lunga la loro lingua. (...) Il linguaggio dei cristiani è speciale: non devono parlare in latino. È il linguaggio della dolcezza e del rispetto. E questo può aiutarci a pensare a come è il nostro atteggiamento di cristiani. E’ di dolcezza o di ira? O amaro? È tanto brutto vedere quelle persone che si dicono cristiani ma sono piene di amarezza. Il linguaggio dello Spirito Santo è dolcezza e rispetto. Ci insegna a rispettare gli altri. Il diavolo che sa come indebolirci fa di tutto perché il nostro linguaggio non sia di dolcezza e rispetto anche dentro le comunità cristiane. (...) Quanta gente si avvicina a una parrocchia cercando questa pace, questo rispetto, questa dolcezza e incontra lotta interna tra i fedeli. Invece della dolcezza e del rispetto incontra le chiacchiere, le maldicenze, le competizioni, le concorrenze, uno contro l’altro. Incontra quell’aria non d’incenso, ma di chiacchiericcio e quindi dice: “Se questi sono cristiani preferisco rimanere pagano”. E se ne va deluso perché questi non sanno custodire lo Spirito. Perché con questo linguaggio di farsi vedere, d’invidia, di gelosia allontaniamo la gente. E non lasciamo che il lavoro che fa lo Spirito rimanga. (...) E' il fatto più comune delle nostre comunità cristiane. Quando incensavo la Madonna ho abbassato lo sguardo e ho visto il serpente che la Maria scaccia. Una comunità cristiana che non ha il linguaggio della dolcezza e del rispetto è come quel serpente che ha la lingua lunga. È il chiacchiericcio che distrugge le nostre comunità cristiane. Questo mi fa male al cuore. È come se tra noi si gettassimo pietre uno contro l’altro. È un carnevale questo. Non dovete rattristare lo Spirito Santo con questo atteggiamento. Il vostro sia di dolcezza e rispetto».
papa Francesco, visita a una parrocchia romana, 21 dicembre 2017
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«A Natale, vedo venirmi incontro un neonato che, già è il mio maestro.
Un bambino che sta per darmi da mangiare come si dà da mangiare a un neonato.
Un bambino che sta per insegnarmi verità elementari già tanto essenziali.
Sta per insegnarmi che da un lato ci sono strategie, calcoli, forza, potenza, gelosia, denaro.
E che, all’opposto, ci sono attenzione all’altro, dimenticanza di sé, apertura, bontà, dono.
A Natale giunge un bambino che ci renderà la vita impossibile, ma senza quest'impossibile, non c’è assolutamente niente».
Christian Bobin
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"Sembra che il nostro Dio voglia cantarci la ninna nanna. Il nostro Dio è capace di questo. La sua tenerezza è così: è padre e madre. Tante volte ha detto: Ma se una mamma si dimentica del figlio, Io non ti dimenticherò. Nelle proprie viscere ci porta. È il Dio che con questo dialogo si fa piccolo per farci capire, per fare che noi abbiamo fiducia in Lui e possiamo dirgli con il coraggio di Paolo che cambia la parola e dice: Papà, Abbà. Papà! È la tenerezza di Dio".
papa Francesco, omelia 14 dicembre 2017
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Durante il Tempo di Avvento mi sono sentito spinto a riprendere il verbo della frase che è il motto dell’anno pastorale: “Oggi DEVO fermarmi a casa tua”.
Forse non sono stato il solo a domandarsi: “Ma Gesù voleva davvero fermarsi da Zaccheo o era un peso per Lui? Perché ha usato il verbo «devo»?”.
Ho avuto questi pensieri quando mi è stato detto: “Ma bisogna proprio andare nelle case a visitare altre famiglie?”; “Ma perché dovrei andare a bussare al mio vicino per salutarlo o invitarlo?!”; “Ma non possiamo fare come gli altri anni?!”; “Ma ‘sta espressione di papa Francesco «Chiesa in uscita» non è solo una trovata pubblicitaria per far finta che la Chiesa sia cambiata, quando in realtà non è vero?”.
A me sarebbe venuto spontaneo richiamare alle menti altre espressioni che indicano meglio lo spirito di Gesù quando si rivolgeva a Zaccheo: “Uè, guarda che oggi passo da te!!”; “Bello, oggi il caffè lo paghi tu!”; “Con una giornata storta come questa, oggi non potevo non venire a fare due chiacchiere”; “Mi sa che oggi è il giorno giusto per sdebitarmi… pago io la pizza!”; “C’è qui tutta la cumpa: se non vieni giù subito, oggi vengo su io a prenderti e ti portiamo fuori con la forza, dai!”.
Gli studiosi della Bibbia ci dicono che qui il verbo “dovere” ha un valore teologico: Gesù sente nel profondo del suo essere (Lui che è Dio!) che non può non venire incontro all’uomo, per amore e solo per amore.
E’ l’amore che spinge il fare, quasi a renderlo un “dovere”: “Poiché ti amo, non posso non fare questo, devo farlo”.
Ed è un piacere, non un dovere!
Buon Natale col piacere di andare a fermarsi in casa altrui!
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G: «Zaccheo, oggi devo fermarmi a casa tua».
Z: «Della mia attuale "casa" non ho nemmeno la chiave».
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G: «Zaccheo, oggi devo fermarmi a casa tua».
Z: «Fermarti?! Noi mai fermi».
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G: «Zaccheo, oggi devo fermarmi a casa tua».
Z: «Non ho dove posare la testa».
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G: «Zaccheo, oggi devo fermarmi a casa tua».
Z: «Ecco la mia "casa": vuoi venire ancora?!».
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G: «Zaccheo, oggi devo fermarmi a casa tua».
Z: «Precisa bene: in quale? C'è solo l'imbarazzo della scelta».
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G: «Zaccheo, oggi devo fermarmi a casa tua».
Z: «Questi in casa mia non li voglio».
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G: «Zaccheo, oggi devo fermarmi a casa tua».
Z: «No, dai, oggi non ho voglia...».
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«Si credono le cose che si sperano.
Si sperano le cose che si amano.
Si amano di più le cose che ancora non sono e che la speranza fa così belle.
La fede scopre l'invisibile,
la speranza si afferra all'intoccabile,
la carità si abbandona all'amore.
Pre tre strade si arriva a Lui,
tre sono i volti di Colui che non ha volto».
Primo Mazzolari
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Trovi qui la meditazione di giovedì 14 dicembre 2017,
in preparazione al sacramento della Riconciliazione.
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«Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio».
Simone Weil - Q IV 182-183
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«L’inizio del lavoro risale in realtà al 1988, quando si decise di rivedere la vecchia traduzione del 1971, ripubblicata nel 1974 con alcune correzioni. Fu istituito un gruppo di lavoro di 15 biblisti coordinati successivamente da tre vescovi (prima Costanzo, poi Egger e infine Festorazzi), che sentì il parere di altri 60 biblisti. A sovrintendere questo gruppo di lavoro c’erano naturalmente la Commissione episcopale per la liturgia e il Consiglio permanente, all’interno del quale era stato creato un comitato ristretto composto dai cardinali Biffi e Martini e dagli arcivescovi Saldarini, Magrassi e Papa. Questo Comitato ricevette e vagliò anche la proposta di una nuova traduzione del Padre Nostro e, tra le diverse soluzioni, venne adottata la formula «non abbandonarci alla tentazione», sulla quale in particolare ci fu la convergenza di Martini e Biffi, i quali come è noto non sempre si ritrovavano sulle stesse posizioni. Ora, il fatto che ambedue avessero approvato questa traduzione fu garanzia per il Consiglio permanente, e poi per tutti i vescovi, della bontà della scelta. Eravamo ormai nell’anno 2000....» (continua a leggere: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/ii-padre-nostro-ecco-come-cambia-in-italiano
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«Tu dici le cose in modo che tutti capiscano e tutti intuiscono che solo tu sai dirle in modo così chiaro».
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L’umanità come ditta di trasloco
di Franco Arminio
È in atto un gigantesco esodo, il più grande della storia. Non mi riferisco al dramma delle migrazioni dal Sud al Nord del mondo, non mi riferisco al genocidio silenzioso causato dai sessanta milioni di persone che ogni anno si traferiscono verso le metropoli. L’esodo a cui mi riferisco è insieme serissimo e frivolo, e forse più che un esodo dovremmo chiamarlo trasloco. Si cambia casa, si va a vivere in Rete, dal condominio reale al condominio digitale. È una cosa che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Pure io sto traslocando e mentre scrivo questo articolo faccio un pezzo di trasloco, come se impacchettassi un lampadario da accendere nella nuova casa. Il trasloco avviene nei bar, per strada, nei treni, ovunque si vede un essere umano con un cellulare in mano: li chiamiamo ancora telefonini, ma sono dei tir dentro i quali ci sono tutte le nostre masserizie.
Dove andiamo? Abbiamo una terra promessa? C’è un Dio da seguire, ci sono tavole di una nuova legge? Niente di tutto questo. Si migra nella Rete perché qualcuno l’ha creata. Forse l’umanità quando ha capito di non poter colonizzare altri pianeti, ha deciso di creare qui sulla terra un pianeta parallello. Per arrivarci basta muovere le dita su un piccolo apparecchio elettronico ormai alla portata di tutti: tutto si può dire tranne che la Rete sia il regno dei ricchi, dei potenti. L’umanità in trasloco è composta da bidelli e avvocati, da operai e governanti, da casalinghe e intellettuali. Si procede alla spicciolata, le rotte dell’autismo corale sono infinite, ognuno avanza per la sua strada. C’è chi non è ancora partito. Ogni tanto c’è anche qualcuno che (continua: http://www.doppiozero.com/materiali/lumanita-come-ditta-di-trasloco)
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Carezza. Indispensabile tocco di vita
di Nunzio Galantino
La “carezza” è in genere un contatto fisico, intimo. Per estensione, con la parola carezza si può indicare familiarmente ogni atto che implichi il riconoscimento della presenza di un’altra persona.
Dal latino carus (amato) o dal verbo mulcère (carezzare), la carezza non è un semplice gesto lenitivo. Evoca l’accoglienza di una casa, capace di calmare e rasserenare. Non è un caso che uno dei bisogni fondamentali del bambino, fin dalla nascita è il contatto, l’intimità fisica e la carìtia. Al pari della necessità del cibo, questi gesti sono essenziali per uno sviluppo equilibrato.
Numerose ricerche ci dicono che la deprivazione sensoriale, sia nei bambini sia negli adulti, provoca danni anche irreparabili. Lo psicanalista Renè Spitz ha dimostrato che i neonati, se lasciati soli e privati a lungo di stimolazioni fisiche quali le carezze, possono sviluppare disturbi evolutivi o forme psicopatologiche che, in casi estremi, arrivano fino alla morte. «Un bambino che cresce senza una carezza, indurisce la pelle, non sente niente, neanche le mazzate» (E. De Luca).
Il principio fondamentale che anima il comportamento degli
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Ho fiducia nelSignore
di Enzo Bianchi
Sempre di più, lo confesso e non me ne vergogno, mi interrogo sulla fede, sulla mia fede e sulla fede dei cristiani. Che cos’è la fede? Secondo tutta la rivelazione ebraico-cristiana credere è mettere il piede sul sicuro, restare saldi, aderire a… Questa fede può nascere solo dall’ascolto (cf. Rm 10,17) di una parola di Dio che giunge al cuore umano e, nella forza dello Spirito santo, porta a rispondere: “Io aderisco, credo, ho fiducia nel Signore”.
Affinché sia possibile accogliere questo dono di Dio, occorre solo avere un cuore aperto, esercitato alla fiducia negli altri, nella vita, nel futuro, un cuore non indurito dal callo della sfiducia.
Sì, la fede può innestarsi sulla fiducia umana! Proprio per questo nei vangeli troviamo delle affermazioni di Gesù che ci stupiscono e suonano paradossali. Si pensi a quando Gesù afferma apertamente di aver trovato più fede in un centurione pagano che in Israele (cf. Mt 8,10;Lc 7,9), il popolo dei credenti nel Dio diAbramo, di Isacco e di Giacobbe; o alle sue parole rivolte alla donna cananea, siro-fenicia: “Donna, grande è la tua fede!”(Mt 15,28).
Per questo mi domando: qual è la mia fede? Sono disposto a fare un esame della mia fede, come chiede l’Apostolo Paolo ai cristiani di Corinto: “Esaminate voi stessi, se siete nella fede; mettetevi alla prova. Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi?”? La mia fede è “poca fede” (oligopistía:Mt 17,20)?, o e addirittura “mancanza di fede” (apistía:Mc 6,6;Mt 13,58), rendendomi così appartenente alla “generazione incredula” (Mc 9,19;Mt 17,17)? Se anche gli Undici restano increduli dopo aver incontrato Gesù risorto da morte, non sarò anch’io incredulo perché duro di cuore (cf. Mc 16,14)?
Quale discepolo di Gesù devo interrogarmi e non restare tranquillo, come se la fede fosse un dato acquisito una volta per sempre. Il cammino della fede si rivela in realtà faticoso, difficile, pieno di tentazioni, ed è per questo che la fede va custodita, esercitata e soprattutto costantemente rinnovata perché non venga meno. Affinché la nostra
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«Promessa sposa», cioè fidanzata! Noi sappiamo che la parola fidanzata viene vissuta da ogni donna come un preludio di tenerezze misteriose, di attese. Fidanzata è colei che attende. Anche Maria ha atteso; era in attesa, in ascolto: ma di chi? Di lui, di Giuseppe! Era in ascolto del frusciare dei suoi sandali sulla polvere, la sera, quando lui, profumato di vernice e di resina dei legni che trattava con le mani, andava da lei e le parlava dei suoi sogni. Maria viene presentata come la donna che attende. Fidanzata, cioè. Solo dopo ci viene detto il suo nome.
L'attesa è la prima pennellata con cui san Luca dipinge Maria, ma è anche l'ultima. E infatti sempre san Luca il pittore che, negli Atti degli apostoli, dipinge l'ultimo tratto con cui Maria si congeda dalla Scrittura. Anche qui Maria è in attesa, al piano superiore, insieme con gli apostoli; in attesa dello Spirito (At 1, 13-14); anche qui è in ascolto di lui, in attesa del suo frusciare: prima dei sandali di Giuseppe, adesso dell'ala dello Spirito Santo, profumato di santità e di sogni. Attendeva che sarebbe sceso sugli apostoli, sulla chiesa nascente per indicarle il tracciato della sua missione.
Vedete allora che Maria, nel Vangelo, si presenta come la Vergine dell'attesa e si congeda dalla Scrittura come la Madre dell'attesa: si presenta in attesa di Giuseppe, si congeda in attesa dello Spirito. Vergine in attesa, all'inizio. Madre in attesa, alla fine.
E nell'arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l'altra così divina, cento altre attese struggenti. L'attesa di lui, per nove lunghissimi mesi. L'attesa di adempimenti leali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele. L'attesa del giorno, l'unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più. L'attesa dell'«ora»: l'unica per la quale non avrebbe saputo frenare l'impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini. L'attesa dell'ultimo rantolo dell'Unigenito inchiodato sul legno. L'attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia.
Attendere: infinito del verbo amare. Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all'infinito.
mons. Tonino Bello, Avvento-Natale. Oltre il futuro, 46-48.