Penso che fra tutti i documenti della chiesa, sin da quando si è cominciato a designarli con le prime parole latine, non ce ne sia uno che abbia la sua ouverture così perfetta come quella della Gaudium et Spes. Si direbbe che vi abbiano posto mano i poeti più che i teologi, e che a prima stesura sia stata scritta non su quelle carte severe degli esperti di scienze divine, ma sulle agili righe di un pentagramma musicale. Sì, perché sembra l'attacco a piena orchestra di una sinfonia, le cui note scuotono l'aria, ora con irrefrenabili vibrazioni di festa, ora col ritmo simmetrico della fuga, ora con le tenui cadenze dell'elegia.

"Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che offrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore". Con queste parole, il 7 dicembre 1965, la chiesa planava dai cieli della sua disincarnata grandezza e sceglieva di collocare definitivamente il suo domicilio sul cuore della terra.

E' come se avesse annullato di colpo la barriera di secolari distanze, accettando di diventare coinquilina degli stessi condomini abitati dai comuni mortali. Ha rinunciato spontaneamente per sempre a quella zona di rispetto creatale da antichi prestigi: non per timore della sua solitudine, ma preoccupata della solitudine degli uomini.

Con quel preludio solenne, diga squarciata dai pensieri di Dio, la chiesa sembra dire al mondo così: "D'ora in poi le tue gioie saranno le mie; spartirò con te il pane amaro delle identiche tristezze, mi lascerò coinvolgere dalle tue stesse speranze, e le tue angosce stringeranno pure a me la gola con l'identico groppo di paura".

Noi tuoi figli ti diciamo grazie, chiesa, perché ci aiuti a ricollocare le nostre tende nell'accampamento degli uomini. Perché non ci isoli nei recinti dell'aristocrazia spirituale. Perché nel piano urbanistico della città terrena non pretendi per i discepoli di Cristo suoli privilegiati per la loro edilizia.

Grazie, perché riscoprendo la legge dell'incarnazione che condusse il Maestro ad abitare in mezzo a noi ti sei decisa a vivere con gli uomini una condiscendenza a tutto campo. Perché rinunci ai fili spinati della riserva di caccia. Perché alla categoria del sacro, che seleziona spazi e tempi da dedicare ala Signore, preferisci la categoria della santità, che permea di presenza divina anche le fibre più profane dell'Universo.

Ma grazie, soprattutto, per quella notizia inaspettata, stupenda, che ci dai col fremito dei lieti annunci: quando affermi, cioè, che le gioie degli uomini sono anche le gioie del cristiano, e che tra le une e le altre, caduto il sospetto della contrapposizione, corre il filo doppio della simpatia.

E' incredibile. Eravamo abituati a condividere solo i dolori del mondo. Una lunga dottrina ascetica ci aveva allenati a farci carico esclusivamente delle sofferenze dell'umanità. Eravamo esperti nell'arte della compassione. Nelle nostre dinamiche spirituali aveva esercitato sempre un fascino irresistibile il cireneo della croce. Ma i maestri di vita interiore non ci avevano mai fatto balenare l'idea che ci fossero anche i cirenei della gioia.

Ed ecco ora lo sconvolgente messaggio: le gioie genuinamente umane, che fanno battere il cuore dell'uomo, per quanto limitate e forse anche banali, non sono snobbate da Dio, né fanno parte di un repertorio scadente che abbia poco da spartire con la gioia pasquale del Regno.

La felicità per la nascita di un amore, per un incontro che ti cambia la vita, per una serata da trascorrere con gli amici, per una notizia sospirata da tempo. per l'arrivo di una creature che riempie la casa di luce, per il ritorno del padre lontano, per una promozione che non ti aspettavi, per la conclusione a lieto fine di una vicenda che ti ha fatto penare a lungo... questa felicità fa corpo con quella che sperimenteremo nel Regno.

E' contigua col brivido dell'eternità, che proveremo nel cielo, l'estasi che ti coglie davanti alle montagne innevate, alle trasparenze di un lago, alle spume del mare, al mistero delle foreste, ai colori dei prati, ai turgori del grano, ai profumi dei fiori, alle luci del firmamento, ai silenzi notturni, all'incanto dei meriggi, al respiro delle cose, alle modulazioni delle canzoni, al fascino dell'arte.

E' parente stretta con le sovrumane gioie dello spirito l'umanissima gioia che ti rapisce di fronte al sorriso di un bambino, al lampeggiamento degli occhi di una donna, agli stupori di un'anima pulita, alla letizia di un abbraccio sincero, al piacere di un applauso meritato, all'intuizione di cose grandi nascoste dietro i veli dell'effimero, alla fragilità tenerissima di cui si riveste la bellezza, al sì che finalmente ti dice la persona dei tuoi sogni.

"Non vi è nulla di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore".

Ma che cosa è questa rivelazione improvvisa che annuncia coincidenze arcane tra le gioie degli uomini e le gioie dei discepoli di Gesù?

Colpo di scena o colpo di genio? Forse è solo colpo di grazia!

mons. Tonino Bello, Missione. Anche tu!, 70-72

 


"Ho bisogno qualcuno di intelligente per essere intelligente a mia volta".




"Il reale ci dà esattamente ciò che noi diamo a lui, né più né meno. Quando sono mediocre, quello che vedo mi sembra lo stesso. Allora ho l'anima di un bulldog: tutta raggrinzita".




Christian Bobin, La luce del mondo, Gribaudi, 106.108

Martini: la tentazione dell'ateismo

C'è una voce in ognuno di noi che ci spinge a dubitare di Dio.

«Ecco il senso della fede e la difficoltà di seguirlo sino in fondo».

di Carlo Maria Martini

Chi è per me Dio? Fin da ragazzo mi è sempre piaciuta l'invocazione, che mi pare sia di San Francesco d'Assisi, «mio Dio é mio tutto». Mi piaceva perché con Dio intendevo in qualche modo una totalità, una realtà in cui tutto si riassume e tutto trova ragione di essere. Cercavo così di esprimere il mistero ineffabile, a cui nulla si sottrae.

Ma vedevo anche Dio più concretamente come il Padre di Gesù Cristo, quel Dio che si rende vicino a noi in Gesù nell'eucarestia.

Dunque c'era una serie di immagini che in qualche maniera si accavallavano o si sostituivano l'una con l'altra: l'una più misteriosa, attinente a colui che è l'inconoscibile, l'altra più precisa e concreta, che passava per la figura di Gesù.

Mi sono reso conto ben presto che parlare di Dio voleva dire affrontare una duplicità, come una contraddizione quasi insuperabile. Quella cioè di pensare a una Realtà sacra inaccessibile, a un Essere profondamente distante, di cui non si può dire il nome, di cui non si sa quasi nulla: e tutto ciò nella certezza che questo Essere è vicino a noi, ci ama, ci cerca, ci vuole, si rivolge a noi con amore compassionevole e perdonante. Tenere insieme queste due cose sembra un po' impossibile, come del resto tenere insieme la giustizia rigorosa e la misericordia infinita di Dio. Noi non scegliamo tra l'una e l'altra, viviamo in bilico (...).

Come dice il catechismo della Chiesa cattolica, la dichiarazione «io credo in Dio» è la più importante, la fonte di tutte le altre verità sull'uomo, sul mondo e di tutta la vita di ogni credente in lui. D'altra parte il fatto stesso che si parli di «credere » e non di riconoscere semplicemente la sua esistenza, significa che si tratta concretamente di un atto che non è di semplice conoscenza deduttiva, ma che coinvolge tutto l'uomo in una dedizione personale.

Su questo punto, come su tanti altri relativi alla conoscenza di Dio, c'è stata, c'è e ci sarà sempre grande discussione. Per alcuni la realtà di Dio si conosce mediante un semplice ragionamento, per altri sono necessarie anche molte disposizioni del cuore e della persona (...). È dunque possibile conoscere Dio con le sole forze della ragione naturale? Il Concilio Vaticano I lo afferma, e anch'io l'ho sempre ritenuto in obbedienza al Concilio. Ma forse si tratta della ragione naturale concepita in astratto, prima del peccato. Concretamente la nostra natura umana storica, intrisa di deviazioni, ha bisogno di aiuti concreti, che le vengono dati in abbondanza dalla misericordia di Dio.

Dunque non è tanto importante la distinzione tra la possibilità di conoscenza naturale e soprannaturale, perché noi conosciamo Dio con una conoscenza che viene e dalla natura, dalla grazia e dallo Spirito Santo, che è riversata in noi da Dio stesso.

Bisogna dunque accettare di dire a riguardo di Dio alcune cose che possono apparire contraddittorie. Dio è Colui che ci cerca e insieme Colui che si fa cercare. È colui che si rivela e insieme colui che si nasconde. È colui per il quale valgono le parole del salmo «il tuo volto, Signore, io cerco», e tante altre parole della Bibbia, come quelle della sposa del Cantico di Cantici: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l'amato del mio cuore; l'ho cercato, ma non l'ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze voglio cercare l'amato del mio cuore. L'ho cercato ma non l'ho trovato. Da poco avevo oltrepassato le guardie che fanno la ronda quando trovai l'amato del mio cuore...» (3,1-4). Ma per lui vale anche la parola che lo presenta come il pastore che cerca la pecora smarrita nel deserto, come la donna che spazza la casa per trovare la moneta perduta, come il padre che attende il figlio prodigo e che vorrebbe che tornasse presto.

Quindi cerchiamo Dio e siamo cercati da lui. Ma è certamente lui che per primo ci ama, ci cerca, ci rilancia, ci perdona.

A questo punto, sollecitati anche dalle parole del Cantico «ho cercato e non l'ho trovato», ci poniamo il problema dell'ateismo o meglio dell'ignoranza su Dio. Nessuno di noi è lontano da tale esperienza: c'è in noi un ateo potenziale che grida e sussurra ogni giorno le sue difficoltà a credere. Su questo principio si fondava l'iniziativa della «Cattedra dei non credenti» che voleva di per sé «porre i non credenti in cattedra» e «ascoltare quanto essi hanno da dirci della loro non conoscenza di Dio».

Quando si parla di «credere in Dio» come fa il catechismo della Chiesa cattolica, si ammette espressamente che c'è nella conoscenza di Dio un qualche atto di fiducia e di abbandono. Noi sappiamo bene che non si può costringere nessuno ad avere fiducia. Io posso donare la mia fiducia a un altro ma soltanto se questi mi sa infondere fiducia. E senza fiducia non si vive (...).

L'adesione a Dio comporta un'atmosfera generale di fiducia nella giustezza e nella verità della vita, e quindi nella giustezza e nella verità del suo fondamento. Come dice Hans Küng «che Dio esista, può essere ammesso, in definitiva, solo in base a una fiducia che affonda le sue radici nella realtà stessa».

Molti e diversi sono i modi con cui ci si avvicina al mistero di Dio. La nostra tradizione occidentale ha cercato di comprendere Dio possibilmente anche con una definizione. Lo si è chiamato ad esempio Sommo Bene, Essere Sussistente, Essere Perfettissimo... Non troviamo nessuna di queste denominazioni nella tradizione ebraica. La Bibbia non conosce nomi astratti di Dio, ma ne enumera le opere. Si può affermare che ciò che la Bibbia dice su Dio viene detto anzitutto con dei verbi, non con dei sostantivi. Questi verbi riguardano le grandi opere con cui Dio ha visitato il suo popolo. Sono verbi come creare, promettere, scegliere, eleggere, comandare, guidare, nutrire ecc. Si riferiscono a ciò che Dio ha fatto per il suo popolo. C'è quindi un'esperienza concreta, quella di essere stati aiutati in circostanze difficili, dove l'opera umana sarebbe venuta meno. Questa esperienza cerca la sua ragione ultima e la trova in questo essere misterioso che chiamiamo Dio. D'altra parte ha qualche ragione anche la tradizione occidentale. Infatti tutte le creature hanno ricevuto da Dio tutto ciò che sono e che hanno. Dio solo è in se stesso la pienezza dell'essere e di ogni perfezione, e colui che è senza origine e senza fine. Tuttavia nel mistero cristiano la natura di Dio ci appare gradualmente come avvolta da una luce ancora più misteriosa. Non è una natura semplicemente capace di tenere salda se stessa, di essere indipendente, di non aver bisogno di nessuno. È una realtà che si protende verso l'altro, in cui è più forte la relazione e il dono di sé che non il possedere se stesso. Per questo Gesù sulla croce ci rivela in maniera decisiva l'essere di Dio come essere per altri: è l'essere di Colui che si dona e perdona.

Su "Il corriere della sera" - 16 novembre 2007

Né sudditi, né «società perfetta» ma popolo di Dio

di Raniero La Valle

Se ricordare i 50 anni dall'inizio del Vaticano II consistesse nell'innalzare una nuvola d'incenso che nasconde il Concilio e poi lascia tutto come prima, le celebrazioni di questo anniversario sarebbero inutili e anzi dannose. Ricordare il Concilio vuol dire invece interrogarlo, chiedergli che cosa esso è stato e ancora può essere per la Chiesa e per gli uomini. E qui le domande sarebbero così tante, che a racchiudere le risposte non basterebbero tutti i libri del mondo, come con un'iperbole dicono i Vangeli della testimonianza di Gesù. Infatti il Concilio ha ricapitolato e reinterpretato tutta la tradizione di fede della Chiesa, e l'ha riproposta, «aggiornata», come diceva Giovanni XXIII, agli uomini di oggi in forme nuove, in quel «modo che la nostra età esige».

Dunque qui possiamo solo accennare ad alcune primissime domande; le altre ognuno potrà farle per conto suo. 

La prima domanda è come il Concilio ha pensato la Chiesa. Esso poteva pensarla (come del resto appariva in quel tempo) come una piramide clericale col Papa intangibile al vertice, i vescovi come prefetti e i fedeli come gregge o come «sudditi». Invece l'ha pensata come una comunione di Chiese con al vertice il vescovo di Roma, unito però in un collegio con tutti gli altri vescovi, il cui mandato non deriva dal Papa, come se fossero suoi dipendenti o «collaboratori», ma direttamente da Dio. Quanto ai fedeli, non sono dei sudditi, ma un popolo (che per la cultura del nostro tempo non è formato da pecore, ma da sovrani).

La Chiesa non è poi una «società perfetta», al modo degli Stati, ma è una realtà umano-divina; e se come realtà umana si sa dove comincia e si sa dove finisce, come realtà divina rompe ogni frontiera e giunge ad abbracciare non solo tutte le Chiese oggi divise, ma anche uomini e donne di altre religioni e senza religione, perché tutti oggetto dell'amore di Dio. Sicché lo stesso concetto di popolo di Dio si allarga a comprendere potenzialmente, e non certo per un disegno egemonico, l'umanità tutta intera.

Un vescovo francese, monsignor Dubois, in Concilio lo spiegò così: «Il popolo di Dio, nel senso più pieno della parola, è la Chiesa, con tutti i battezzati; ma popolo di Dio è anche il popolo ebreo che nelle sue sinagoghe continua a leggere i testi di Isaia; popolo di Dio sono anche tutti quelli che credono in un Dio personale e che possono essere, sul piano umano, più morali di certi cristiani; ma popolo di Dio sono anche i ‘gentili', i pagani (le genti) che non credono in Dio ma sono creati da Dio e ricevono la vita da lui; dunque tutti gli uomini sono di Dio e suo popolo». Insomma la Chiesa di Cristo, che «sussiste» ma non si esaurisce nella Chiesa cattolica, è l'umanità in cammino, la «carovana umana», come l'ha chiamata monsignor Dubois.

Ma se così stanno le cose, la Chiesa deve stare attenta a non trattare male questo popolo che sta anche fuori dei suoi confini visibili. E lo deve accettare con le sue istituzioni e culture, non solo quelle del Medioevo, ma anche quelle di oggi. Ed è proprio qui che, come ha detto Benedetto XVI in un suo famoso discorso alla Curia, la Chiesa del Concilio ha introdotto una discontinuità rispetto alla sua tradizione più recente, instaurando un nuovo rapporto con l'età moderna che fino al Concilio, da Galileo al Sillabo, era stata oggetto di aspre e radicali condanne da parte del magistero romano; è cambiato infatti l'atteggiamento della Chiesa rispetto a tre dimensioni fondamentali della modernità: il valore della scienza, il valore dello Stato con i suoi ordinamenti moderni, e il valore della libertà, che non è un'invenzione del liberalismo, ma è l'immagine stessa di Dio impressa nell'uomo.

In questo quadro la Chiesa ha ripensato anche la sua concezione dell'essere umano: non che sia arrivata a metterci dentro come si deve anche la donna, ma certamente ha approfondito e addolcito la sua antropologia, anche se ancora indistinta.

E questa è la seconda grande domanda che si può fare al Concilio: quale uomo? Senza dubbio il Concilio ha abbandonato l'antropologia che considerava l'umanità (a parte i cattolici) come una «massa dannata», per usare l'impietosa espressione di Sant'Agostino. Non è vero che, come si diceva, fuori della Chiesa visibile non c'è salvezza, e che perciò bisogna farci entrare tutti a tutti i costi. La libertà religiosa («nessuno sia costretto, nessuno sia impedito») è più importante per il Concilio che il numero dei fedeli. Di conseguenza il Concilio ha fatto cadere la dottrina secondo la quale i bambini morti senza battesimo non vanno in paradiso, e restano privi di Dio. «Questa non è la fede delle nostre Chiese», dissero i vescovi in Concilio. Dio ama e vuole che tutti gli uomini siano salvi, figurarsi i bambini!


Di fatto l'antropologia del Concilio non si appella più alla dottrina del peccato originale per spiegare la condizione umana. Pur nella sua debolezza, l'uomo non è storpiato da quel primo peccato, non è stato punito da Dio con la morte (che altrimenti non ci sarebbe) e scacciato lontano finché il Cristo non venisse a salvarlo. Secondo il Concilio, Dio non ha scacciato nessuno, non si è pentito della creazione dell'uomo, ma anzi «dopo la caduta» non abbandonò l'uomo, ma sempre gli diede gli aiuti necessari alla salvezza, in vista di Cristo, che del resto era già all'opera, con lo Spirito, fin dal principio e prima del principio. Sicché il lavoro, la sessualità, i dolori dei parti, la fatica per procurarsi il cibo e anche la morte non sono la pena del peccato, sono l'umanità dell'uomo.

È una buona notizia. Ma non era appunto compito del Concilio dare una «buona notizia», cioè l'Evangelo?


in “l'Unità” del 7 ottobre 2012



Ci sono in giro delle belle e brave persone.

E io ho la fortuna di incontrarle.

don Chisciotte


Se muore lei, per me tutta questa messa in scena del mondo che gira, posso anche smontare, portare via, schiodare tutto, arrotolare tutto il cielo e caricarlo su un camion col rimorchio, possiamo spengere questa luce bellissima del sole che mi piace tanto... ma tanto... lo sai perché mi piace tanto? Perché mi piace lei illuminata dalla luce del sole, tanto... portar via tutto questo tappeto, queste colonne, questo palazzo... la sabbia, il vento, le rane, i cocomeri maturi, la grandine, le 7 del pomeriggio, maggio, giugno, luglio, il basilico, le api, il mare, le zucchine... le zucchine...

Roberto Benigni, La tigre e la neve

«Non amiamo gli altri perché sono buoni. Ma li facciamo diventare buoni perché li amiamo.

La sfida al male non consiste nel condannare, nello scomunicare.

E non consiste neppure nel discutere. «Tutte le volte che ho vinto una discussione ho perso un'anima» (Mons. Fulton Sheen).

La vera sfida avviene sul piano dell'amore.

In un film famoso, Il Porto delle nebbie, c'è un dialogo che sintetizza efficacemente la portata di questa sfida. Il disertore riconosce dinanzi alla fidanzata di essere una creatura abbietta. La ragazza lo interrompe: 'Tu non puoi essere cattivo perché io ti amo'!

Se c'è tanto male nel mondo, ciò è dovuto al fatto che a questo male noi abbiamo opposto la nausea, il disgusto, la condanna. Mentre dovevamo opporre l'amore.

L'amore impedisce a Zaccheo di essere cattivo».

Alessandro Pronzato, Vangeli scomodi, 221

Clero e laici: cinquant'anni di vita insieme

di Anna Sopa

da www.temoignagechretien.fr   del 14 ottobre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)


Sono quasi nozze d'oro tra preti e laici quelle che si festeggiano in questi giorni. E infatti, sotto le ali della colomba dello Spirito Santo, proprio dietro il baldacchino di San Pietro, clero e laici si sono uniti, per volontà dei Padri conciliari stessi, per costruire insieme la loro Chiesa.

I documenti conciliari pongono le basi di questo lavoro con un certo entusiasmo. La Costituzione Lumen Gentium dedica ai laici un intero capitolo, mentre il Decreto sull'apostolato dei laici afferma che “i laici hanno la loro parte attiva nella vita e nell'azione della Chiesa” (§ 10). Senza troppi complimenti, i Padri spazzano via così la distinzione classica: il clero per la Chiesa e i laici per il mondo. Un nuovo “sistema” sarebbe stato messo in atto nella Chiesa.

Poi, nel 1988, nell'esortazione apostolica Christifideles laici, Giovanni Paolo II definisce perfino lo spazio della corresponsabilità dei fedeli laici nella Chiesa-Missione (cap. 2), invitando i fedeli laici ad essere “eccellenti amministratori della grazia multiforme di Dio”, svolgendo un ruolo attivo nella “formazione di comunità ecclesiali” (cap. 2, § 34). E infatti i laici si sono impegnati in gran numero in compiti fino ad allora svolti da preti o religiosi. La sociologa Céline Béraud racconta la forte soddisfazione che ha accompagnato questo investimento (1). Sì, c'è gioia ad annunciare il Vangelo, sì, i prodigiosi tesori del cristianesimo affascinano...

Quanti sono questi laici, in tutta la Francia? Ahimè, le statistiche mancano. E le situazioni sono molto diverse. Ma si mormora pure che l'istituzione si mostri riluttante a mettere in piena luce l'ampiezza del contributo laico. Un solo esempio: come potrebbe sopravvivere la diocesi di Chalons-en-Champagne con i suoi soli 33 preti? Così cambia la Chiesa, anche se non bisogna dirlo, come nota Céline Béraud. In cinquant'anni, la Chiesa francese è veramente passata da un'amministrazione clericale ad un'amministrazione laica. Un'autentica rivoluzione.

È contro questo cambiamento che si leva la corrente restauratrice attuale. Qual è la sua preoccupazione maggiore? Trovare preti, anche a costo di disconoscere l'investimento laico anteriore. Sembra che sia questa focalizzazione disordinata ed irrealistica sull' “atteso ricambio” (di preti) che ha sconvolto e deteriorato i rapporti tra clero e laici. Oggi, il prete non si aspetta più niente dal laico, se non che gli fornisca preti, cioè che moltiplichi la sua immagine. Quanto al laico, continua a vedere nel prete un padre di cui vorrebbe prendere il posto. Crisi d'identità da una parte, crisi di crescita dall'altra. Quale coppia resisterebbe in acque tanto agitate?

Non è molto difficile vedere che centrale, nelle rimostranze reciproche degli uni e degli altri, è la questione del potere. La corrente restauratrice vuole mostrare che il potere appartiene al clero, poiché quasi mille anni lo attestano (2). E il clero lo esercita... Effettivamente, alla Conferenza cattolica dei battezzati francofoni riceviamo quotidianamente le proteste di parrocchiani allontanati in maniera discrezionale, di donne escluse dalla distribuzione della comunione, di persone divorziate o omosessuali a cui la si rifiuta. Senza che siano dichiarati i motivi, se non, a volte, in nome dell' “intima convinzione”! Tutto questo ricorda molto il ripudio senza motivo denunciato da Gesù (Matteo 19,3)...

Come uscire da questa impasse? La risposta della conferenza dei battezzati/battezzate è chiara: per salvare il rapporto tra preti e laici bisogna rifiutare la guerra degli uni contro gli altri e privilegiare ciò che hanno in comune: il battesimo, cioè la fede, manifestata attraverso il Credo. Senza dimenticare di analizzare tutte le componenti del problema di fondo, quello del potere. Il potere non è forse ceduto, prima di essere preso? In altri termini, lo spirito di sottomissione che ancora troppo spesso anima i laici davanti ai preti, è qualcosa di cui i laici devono liberarsi, aiutandosi in questo sforzo reciprocamente.

La seconda liberazione del laicato consiste, secondo me, nel marcare nettamente la propria differenza. Rendersi amabili (cosa indispensabile) per essere di nuovo amati. Coltivando, ad esempio, lo spirito d'invenzione.

Da parte dei preti, la parola da ricordare mi sembra sia quella di Gesù: è perdendosi che ci si trova. La crisi d'identità dei preti non troverà soluzione se non in un'analisi serena dei bisogni spirituali degli uomini e delle donne di oggi e nel desiderio di aiutarli. Servizio che, del resto, era già inscritto nei documenti conciliari. Per gli uni come per gli altri, questo è il prezzo della rinascita.

 

(1)  “Prêtres, diacres, laïcs. Révolution silencieuse dans le catholicisme français”, PUF, 2007

(2)  Si tratta di tre “funzioni”: governo, santificazione e insegnamento.

 

Il caldo e la follia dei caloriferi accesi

di Diego Abatantuono

Caro direttore, mi trovo in soggiorno. Casa mia, Milano. Indosso bermuda e t-shirt, il che non mi impedisce di sudare leggermente. Penserà che questa lettera sia stata scritta nel giugno scorso. Invece la scrivo ora, sabato 20 ottobre 2012. Fuori, un sole che spacca, dentro un caldo che preoccupa perché i termosifoni sono accesi anche se verrebbe voglia di attivare l'aria condizionata. Domanda: dov'è l'errore? È il Gulliver, dice un mio amico che fa collezione di alte pressioni. Sì, ma c'è dell'altro che mi spinge a scrivere: le parole d'ordine sono, da un pezzo, risparmio ed ecologia. Benissimo, in questo momento centinaia di migliaia di caldaie stanno dissipando energia e, in contemporanea, inquinando da matti. Perché, caschi il mondo, il 15 ottobre vanno accesi gli impianti, i caloriferi, il camino, se c'è, guai a sgarrare. Come se non fosse possibile agire in funzione delle temperature e non del calendario. Un termostato? Seee, ciao. Telefono per chiedere di fermare lo scempio e anche il sudore: niente da fare. «Sono le regole» dice l'addetto mentre sta mangiando un gelato in canotta all'Idroscalo. Del resto vedo dalla finestra alcuni anziani in mutande che cercano di abbattere zanzare del peso di otto etti. Devo arrendermi? Non c'è nulla da fare? Mi pare strano visto che ogni cinque minuti sento qualcuno che sussurra o grida «ce la possiamo fare»; «ce la faremo», «cercate di farcela». È che proprio qui, tra qualche settimana matematico, qualcuno ce la farà di sicuro: a dare ennesimo stop alle auto causa aria irrespirabile, con tutte la caldaie a manetta. Ma Lei, mi perdoni, crede che siano le auto a impedirci di respirare?

Corriere della Sera - 21 ottobre 2012 - p. 1

Questo popolo esiste in quanto i cristiani sono nella relazione gli uni con gli altri. "Il popolo di Dio - afferma Congar - è come un tessuto di scambi e di rapporti reciproci". Ogni cristiano, in altri termini, appartiene al popolo di Dio solo perché si sa, si pensa e si vive come "uno fra altri" e "uno in relazione a tutti gli altri".

Ciascuno, qualunque compito e ruolo svolga al suo interno, è chiesa solo in quanto è nella relazione con gli altri.

Anche chi, in ragione del ministero ordinato, appartiene all'istituzione della chiesa, con il suo valore "vincolante" e "rappresentativo", non si può pensare se non nella relazione con tutti coloro per cui è necessario tale vincolo e che, attraverso di lui, trovano rappresentanza. Nessuno, nella chiesa, si può ritenere come soggetto "in sé e da sé", in un'identità che non si realizzi e non si costituisca, in qualche modo, nella relazione con tutti gli altri cristiani.

Roberto Repole, L'umiltà della Chiesa, 78-79

 

 Gesù dice: «Voi sie­te coloro che avete perseverato» (Lc 22,28). In greco, più sem­plicemente, «siete rimasti», cioè siete coloro che non se ne sono andati. E' una parola di lode: "Avete sofferto così tanto che avreste potuto andarvene, e non l'avete fatto".


     Viene alla mente l'episodio di Gv 6,67-68: «Volete andarvene anche voi?», e Pietro che risponde: «Signo­re, da chi andremo?». Gesù verifica che fino all'ultimo istante gli apostoli sono rimasti, hanno perseverato, non l'hanno abbandonato.


     Il concetto di perseveranza lo si trova spesso nella Scrittura, con espressioni diverse. Ad esempio, «custodire la parola» indica la pazienza perdurante e resisten­te: «Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore buono e perfet­to, la custodiscono e producono frutto con la loro per­severanza» (Lc 8,15). L'uomo fa fronte alla situazione di prova con la perseveranza, la perduranza, la resistenza, la custodia della Parola.


     Mentre la prova tende a far tor­nare indietro, induce a perdersi d'animo, l'atteggiamento direttamente contrastante non è necessariamente quel­lo della vittoria immediata ma del resistere, del rima­nere fermo, saldo. L'evangelista Giovanni usa un ver­bo molto semplice: méneìn, che indica qualcosa di simi­le. «Se rimanete in me - dice Gesù - e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà da­to» (Gv 15,7). Il "rimanere in Gesù" è il modo per op­porsi alla prova.


(

 


Quando nel 2004 avvenne il più disastroso tsunami della storia,

Livio Fanzaga da Radio Maria

lo considerò un'azione diretta di Dio,

accennando ai peccati delle vittime.

Cosa starà dicendo in questi giorni,

quando un micro-allagamento

ha colpito la grotta di Lourdes e alcuni pellegrini?!
 

don Chisciotte 

 

 

 

Evangelizzatori e pastori

di Carlo Maria Martini


Come si forma l'evangelizzatore secondo le pagine del Vangelo di Luca? Innanzitutto occorre chiarire che cosa si intende per evangelizzatore e poi spiegare perché Luca è adatto a rispondere a questa domanda.


1 - Che cosa si intende per evangelizzatore?


     Con il termine « evangelizzatore » intendo riferirmi a quel dono particolare, edificativo del Corpo di Cri­sto cui si riferisce la lettera agli Efesi (4, 11) dove si parla dei doni di Gesù asceso al cielo. Questi doni fanno alcuni apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri pastori, altri dottori.


     Sono cinque doni che S. Paolo enumera come costruttivi della comunità cristiana per l'edificazione del Corpo di Cristo. Sap­piamo che non sono gli unici doni perché, in altre let­tere di Paolo, troviamo indicati altri carismi; in que­sto versetto della lettera agli Efesi, l'Apostolo pen­sa però specificamente alla costruzione della Chiesa.


     L'apostolo è colui che pone il fondamento iniziale di una comunità e la sorregge, il profeta interpreta i di­segni di Dio per il momento attuale della comunità, l'evangelista proclama il kérygma, la buona notizia, e quindi aggrega alla comunità nuovi fedeli che sono attratti dalla parola di salvezza, il pastore custodisce e porta avanti il gregge che si è creato, il dottore ap­profondisce, attraverso la catechesi, la dottrina e la teologia, tutto ciò che forma il corpo della comunità.


     Sono cinque grandi carismi formativi della comunità. Una comunità sana, ben fondata, è quella che svilup­pa tutti questi carismi che, nella storia della Chiesa, si sono espressi in modi diversi: i fondatori di comu­nità, cioè gli apostoli e i profeti che interpretano per il proprio tempo la parola di salvezza, sono passati in seguito ad altri uffici, ad altri servizi ecclesiali e, oggi, è proprio dei Vescovi il portare avanti l'ufficio di sostegno per l'unità della comunità e l'impegno di interpretare per la comunità i disegni di Dio sul presente. È l'azione magisteriale e unificatrice del Vescovo.


     I due carismi seguenti, evangelisti e pastori, pur es­sendo propri anche del Vescovo, si riferiscono in particolare a coloro che hanno la cura specifica di vari membri e situazioni della comunità. Concreta­mente e per buona parte la Chiesa, oggi, affida ai suoi presbìteri il doppio compito di evangelisti e di pastori; anzi, soprattutto il compito di evangelisti non è - come ci mostra il Nuovo Testamento - le­gato esclusivamente ai membri della gerarchia e può essere esteso, sotto la loro guida, ai laici, come oggi avviene.


     Tuttavia la funzione principale, la responsabilità fon­damentale di evangelizzare e pascere è quella che i Vescovi condividono con i presbiteri e che i presbi­teri esercitano nei singoli luoghi e nelle singole co­munità.


     La Chiesa vive se mantiene in sé questi due doni di evangelizzare e di pascere in un equilibrio che, evidentemente, potrà variare a seconda delle cir­costanze e delle situazioni. Quando l'equilibrio si rompe e una chiesa, per esempio, diventa unicamen­te evangelizzatrice senza pensare di portare avanti e di sostenere le comunità, allora abbiamo quel tipo di chiese entusiaste, nelle quali dominano unicamente le forze d'attacco, ma non si costruisce. Quando in­vece tutto il peso si porta sull'azione pastorale, allo­ra la Chiesa pasce se stessa indefinitamente e perde quel punto di espansione che la fa essere Chiesa. Ecco l'importanza di questi due carismi congiunti, evangelizzatori e pastori.


     Negli evangelizzatori prevale, in un certo senso, l'ini­ziativa, il mordente, l'attacco, la capacità di affronta­re situazioni diverse, di cogliere il mondo che la pen­sa diversamente, di interpretare i bisogni di coloro che sembrano lontani, di entrare nel desiderio pro­fondo di verità, di giustizia, di Dio, che c'è in cia­scuno e renderlo esplicito. È un'attività che va, inve­ce di aspettare, che si muove, invece di fare la torre in cui bisogna entrare. (

Il fuoco del Concilio arde ancora

di Enzo Bianchi

Oggi, come 50 anni fa, c'è bisogno di una Chiesa capace di ascoltare tutti.

Gli eventi strettamente legati al Concilio Vaticano II

Amo il latino, però...


di Carlo Maria Martini

Avendo raggiunto il traguardo degli ottant'anni, posso dire di avere vissuto per almeno trentacinque anni l'antica liturgia, quella in uso prima del Concilio Vaticano II, tutta rigorosamente in latino, con i suoi cinquantadue brani di Vangelo domenicali che si ripetevano ogni anno, dando occasione a una predica per lo più non molto diversa da quella dell'anno precedente.

L'antico rito è stato quindi quello della mia Prima Comunione, delle incipienti esperienze di chierichetto, dei contatti con la Parola di Dio offerta dalla liturgia. È stato il rito della mia ordinazione sacerdotale, delle mie Messe, dei sacramenti ricevuti. È nel quadro di questo rito che è iniziato e si è sviluppato quel contatto col divino che porta a riconoscere in Colui che chiamiamo Dio il mistero ineffabile e indisponibile, quello che ci sovrasta da ogni parte, ci avvolge, ci penetra, ci vivifica e ci fa presentire una santa vicinanza.

Anche il latino non mi ha mai fatto problema. Da bambini, soprattutto nelle risposte della Messa e in quei canti che tutta la gente conosceva, lo storpiavamo con naturalezza e con disinvoltura (come ricordava in uno scritto dell'epoca monsignor Francesco Olgiati, uno dei fondatori della Università Cattolica del Sacro Cuore, citando la storpiatura di un conosciutissimo canto che diceva Procedenti ab utroque compar sit laudatio così: «Accidenti come trotta il caval del sor Laudazio»). Ma ben presto cominciai a imparare questa lingua e a scoprire con gioia i significati reconditi di quanto cantavamo con fervore: perché ce la mettevamo tutta e l'entusiasmo e la gioia non mancavano! L'insieme di tali celebrazioni aveva una qualità che non derivava tanto dai testi, che la gente non capiva, ma dalla dedizione personale e gratuita di chi vi partecipava. Il latino divenne poi, nei giorni dell'adolescenza e della giovinezza, la mia lingua di studio e anche di uso quotidiano. Ancora oggi non avrei difficoltà a predicare in questa lingua. A Milano, nella Cattedrale, ero solito celebrare in latino nelle grandi festività. Perciò ho visto con rammarico il decadere del latino, anche nel mondo ecclesiastico, e i vani sforzi per farlo rivivere, tra cui quello ardente e un po' ingenuo di Papa Giovanni, che considerava la sua enciclica Veterum Sapientia per la promozione della lingua latina nella Chiesa uno dei tre atti fondamentali del suo ministero di Papa, insieme con il Concilio Vaticano II e il Sinodo Romano.

Avrei quindi le credenziali per approfittare del recente Motu proprio e ritornare a celebrare la Messa con l'antico rito. Ma non lo farò, e questo per tre motivi.

Primo, perché ritengo che con il Concilio Vaticano II si sia fatto un bel passo avanti per la comprensione della liturgia e della sua capacità di nutrirci con la Parola di Dio, offerta in misura molto più abbondante rispetto a prima. Vi saranno certamente stati alcuni abusi nell'esercizio pratico della liturgia rinnovata, ma non mi pare tanti presso di noi. Del resto, lo dirò per quelli che capiscono il latino, abusus non tollit usum. Di fatto bisogna riconoscere che per molta gente la liturgia rinnovata ha costituito una fonte di ringiovanimento interiore e di nutrimento spirituale.

In secondo luogo non posso non risentire quel senso di chiuso, che emanava dal l'insieme di quel tipo di vita cristiana così come allora lo si viveva, dove il fedele con fatica trovava quel respiro di libertà e di responsabilità da vivere in prima persona di cui parla san Paolo ad esempio in Galati 5, 1-17. Sono assai grato al Concilio Vaticano II perché ha aperto porte e finestre per una vita cristiana più lieta e umanamente più vivibile. Certo, c'erano anche allora dei santi, e ne ho conosciuti. Ma l'insieme dell'esistenza cristiana mancava di quel piccolo granello di senapa che dà un sapore in più alla quotidianità, di cui si potrebbe fare anche a meno ma che dà più colore e vita alle cose.

In terzo luogo, pur ammirando l'immensa benevolenza del Papa che vuole permettere a ciascuno di lodare Dio con forme antiche e nuove, ho visto come vescovo l'importanza di una comunione anche nelle forme di preghiera liturgica che esprima in un solo linguaggio l'adesione di tutti al mistero altissimo. E qui confido nel tradizionale buon senso della nostra gente, che comprenderà come il vescovo fa già fatica a provvedere a tutti l'Eucaristia e non può facilmente moltiplicare le celebrazioni né suscitare dal nulla ministri ordinati capaci di venire incontro a tutte le esigenze dei singoli.

Ricavo come valido contributo del Motu proprio la disponibilità ecumenica a venire incontro a tutti, che fa ben sperare per un avvenire di dialogo tra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero.

Il Sole 24ore, 29 luglio 2007

 

 Siamo stati guidati da uomini

che - in diversi modi - hanno ucciso il nostro popolo.

Con buona pace dei "valori non-negoziabili".

don Chisciotte

 


L'essere comunità un po' umiliata,

un po' emarginata,

poco rispettata,

poco stimata,

che non ha peso politico.

Questa è la vera grazia di Dio.


Carlo Maria Martini, Il coraggio della passione, 130

La campagna ABBONAMENTI di Radio Popolare, passo passo, giorno per giorno, minuto per minuto.

Sul blog dell'ABBONAGGIO!



Tratto dal film "La tigre e la neve"





Su su.. svelti, veloci, piano, con calma...


Poi non v'affrettate, non scrivete subito poesie d'amore, che sono le più difficili, aspettate almeno almeno un'ottantina d'anni.


Scrivetele su un altro argomento... che ne so... sul mare, il vento, un termosifone, un tram in ritardo... che non esiste una cosa più poetica di un'altra!


Avete capito?


La poesia non è fuori, è dentro... Cos'è la poesia, non chiedermelo più, guardati nello specchio, la poesia sei tu...


..e vestitele bene le poesie, cercate bene le parole... dovete sceglierle!


A volte ci vogliono otto mesi per trovare una parola!


Sceglietele...che la bellezza è cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere.


Da Adamo ed Eva... lo sapete Eva quanto c'ha messo prima di scegliere la foglia di fico giusta!!!


"Come mi sta questa, come mi sta questa, come mi sta questa.." ha spogliato tutti i fichi del paradiso terrestre!


Innamoratevi, se non vi innamorate è tutto morto... morto!


Vi dovete innamorare e tutto diventa vivo, si muove tutto... dilapidate la gioia, sperperate l'allegria e siate tristi e taciturni con esuberanza!


Fate soffiare in faccia alla gente la FELICITÀ! E come si fa? ...fammi vedere gli appunti che mi sono scordato... questo è quello che dovete fare...


non sono riuscito a leggerli!


Per trasmettere la felicità, bisogna essere FELICI e per trasmettere il dolore, bisogna essere FELICI.


Siate FELICI!!!


Dovete patire, stare male, soffrire.. non abbiate paura di soffrire, tutto il mondo soffre!


E se non avete i mezzi non vi preoccupate... tanto per fare poesie una sola cosa è necessaria... tutto.


Avete capito?


E non cercate la novità... la novità è la cosa più vecchia che ci sia...


E se il verso non vi viene, da questa posizione, né da questa, ne da così, buttatevi in terra! Mettetevi così!


Ecco... ohooo... è da distesi che si vede il cielo...


guarda che bellezza...perché non mi ci sono messo prima...


I poeti non guardano, vedono.


Fatevi obbedire dalle parole... Se la parola 'muro' non vi da retta, non usatela più...per otto anni, così impara! Che è questo, bhooo non lo so!


Questa è la bellezza, come quei versi là che voglio che rimangano scritti li per sempre...


forza, cancellate tutto che dobbiamo cominciare!


La lezione è finita.


Ciao ragazzi ci vediamo mercoledì o giovedì...


Ciao arrivederci!


Mi domando se davvero coloro che partecipano a forum online o commentano su FB pensano di "convincere" alla loro posizione coloro che hanno un'opinione diversa.

A me sembra un'opera già difficile a quattr'occhi... diventa incredibile online!

Si acuizzano le differenze e sappiamo tutti che il "muro contro muro" non convince nessuno.

Non converte nessuno.

E - checché ne dica l'apologetica - non propone e non difende il Dio cristiano.

La vis polemica (quel ribattere "io-tu-io-tu" insistente, ripetitivo, stucchevole) presente in tanti forum e commenti mi pare figlia di qualche frustrazione (generata altrove e scaricata qui) oppure del narcisismo (quelli che amano sentirsi parlare o vedersi scritti).



So che - scrivendo così - non mi faccio molti amici...

don Chisciotte

 

«I migliori anni della mia vita»

Intervista al cardinale Carlo Maria Martini sul Concilio Vaticano II (2008)



Eminenza, qual è il Suo ricordo degli anni del Concilio?

Conservo soprattutto il ricordo dell'atmosfera di quegli anni, una sensazione di entusiasmo, di gioia e di apertura che ci pervadeva. Ho trascorso durante il Concilio gli anni migliori della mia vita, non solo e non tanto perché avevo meno di quarant'anni, ma perché si usciva finalmente da un'atmosfera che sapeva un po' di muffa, di stantio, e si aprivano porte e finestre, circolava l'aria pura, si guardava al dialogo con tante altre realtà, e la Chiesa appariva veramente capace di affrontare il mondo moderno. Tutto questo, lo ripeto, ci dava una grande gioia e una forte carica di entusiasmo.


Secondo Lei, che cosa rimane oggi di quegli anni?

Sono rimaste senz'altro molte cose. Prima di tutto c'è da dire che quelli che l'hanno vissuto hanno fatto un passo importantissimo per la loro vita, perché hanno ricevuto dal Concilio una fiducia rinnovata nelle possibilità della Chiesa di parlare a tutti. Poi restano molti elementi contenuti nei vari documenti conciliari: penso alla liturgia, all'ecumenismo, al dialogo con le altre fedi, alla riflessione sulla Scrittura. Per la nostra Chiesa una grande ricchezza che mantiene intatta tutta la sua attualità e tutto il suo valore.




E invece a Suo giudizio che cosa si è perso?

Non è facile rispondere. Ci sono state certamente un po' di deviazioni, ma soprattutto all'estero, non qui da noi in Italia. Direi che ciò che si è perso è proprio quell'entusiasmo, quella fiducia di cui parlavo prima, quella capacità di sognare che il Concilio aveva comunicato alla nostra Chiesa e che ci procurò tanta gioia. Si è tornati un po' alle acque basse, a una certa mediocrità.

(continua - fai il download dell'intera intervista tra i nostri Testi)


 Promemoria sulla brutta faccenda del sostegno a Formigoni:

"La Chiesa... non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall'autorità civile.

Anzi, essa rinunzierà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti,

ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza

o nuove circostanze esigessero altre disposizioni".

 Quella mattina dell'11 ottobre quindi ero presente anch'io. La cerimonia di apertura fu quella di un'assurda liturgia barocca. Il padre Yves Congar, uno dei teologi più influenti nella redazione dei documenti conciliari, nel suo diario ne fa una descrizione impietosa, dalla quale copio qualche frase, con le peculiarità grafiche dell'originale:


      Alle 8.35 si sente dagli altoparlanti il rumore lontano di una mezza marcia militare. Poi si canta il Credo. Io son venuto qui PER PREGARE, pregare CON, pregare IN. In effetti ho pregato molto. Tuttavia, per ammazzare il tempo, una corale intona in successione tutto, non importa cosa, i canti più conosciuti: Credo, Magnificat, Adoro te, Salve Regina, Veni Sancte Spiritus, Inviolata, Benedictus [...] Dapprima si canta un po' assieme, ma ci si stanca [...] Si sentono gli applausi in piazza San Pietro. Il papa dovrebbe avvicinarsi. Senza dubbio fa il suo ingresso. Io non vedo niente, messo come sono dietro sei o sette file di talari salite sulle sedie. A tratti, nella basilica, applausi, ma né grida, né parole. Canto del Veni Creator, a cori alterni con la Sistina, che non è che un corpo d'opera. DA SOPPRIMERE. Il papa con voce ferma canta i versetti e le preghiere. La messa comincia, cantata esclusivamente dalla Sistina: alcuni pezzi di gregoriano (?) e di polifonia. Il movimento liturgico non è penetrato fino alla Curia romana. Quest'immensa assemblea non dice niente, non canta niente. Si dice che il popolo ebraico è il popolo dell'udito, i greci quello dell'occhio. Qui non c'è nulla che non sia per l'occhio e per l'orecchio musicale: nessuna liturgia della Parola. Nessuna parola spirituale. Io so che tra poco verrà installata su un trono, per presiedere al concilio, una Bibbia. MA PARLERÀ? Verrà ascoltata? Ci sarà qualche momento per la Parola di Dio? Dopo l'epistola lascio la tribuna. D'altra parte, non ne posso più. Per il resto sono schiacciato da tutto questo apparato signorile e rinascimentale.


      Il padre Congar uscì senza aver ascoltato l'allocuzione di papa Giovanni XXIII, quella che conteneva in embrione tutto quanto i vescovi impararono a fare in quel concilio e che secondo molti cambiò il volto della chiesa cattolica.


     Al di là di ogni diatriba su questo punto, una cosa infatti è certa: i cattolici cambiarono almeno in una cosa, nel modo di pregare. E se vi pare poco... Al mio paese in Sicilia avevo appreso da bambino un indovinello che si riferiva alla messa come si celebrava allora: «centu muti e 'npazzu»: cento muti e un pazzo, il popolo che ascoltava e guardava muto un pazzo gesticolare e parlare sottovoce sull'altare, mentre dava le spalle ai presenti. Questo non è più possibile, nonostante alcuni vogliano ripristinare il pazzo e i muti incapaci di ascoltare e di comprendere.


Giuseppe Ruggeri, Ritrovare il concilio, Einaudi 2012, pp. 4-7

Un confratello sagace mi ha chiesto di osservare con attenzione la modalità di celebrare oggi la messa solenne dell'anniversario dell'apertura del concilio: a distanza di cinquant'anni si vede la differenza rispetto al modo di celebrare nel  1962?! Come il popolo cristiano si rivolge oggi al Dio-Trinità? Se vive oggi in modo diverso, può forse non usare linguaggi, stili, segni diversi per rivolgersi a Dio-Trinità? Lo Spirito del Figlio di Dio, Verbo incarnato, non innerverà anche l'oggi, come ha fatto per tutta la storia della salvezza?

don Chisciotte

 

 

 

 

 «Come non ci curiamo se ci ingiuriano e ci percuotono e se piangono e nemmeno facciamo gran conto quando ridono e si rallegrano, cosi non è da gonfiarsi per le lodi né avvilirsi per i biasimi dei fedeli quando avvengono gratuitamente. Ciò è difficile, o caro, e forse anche, credo, impossibile. Il non rallegrarsi se lodato non so se ad uno degli uomini sia mai riuscito. Chi se ne compiace è naturale che desideri accumulare lodi. E chi desidera accumulare lodi è naturale che sia rattristato, si crucci, si agiti e si affligga profondamente per gli insuccessi. Come quelli che godono nell'essere ricchi, se cadono in miseria si avviliscono e abituati a vivere nelle delizie non sopportano di vivere frugalmente, cosi quelli che amano gli encomi, non solo quando vengono ingiustamente criticati, ma anche quando non sono continuamente lodati, si sentono languire l'anima come per fame, soprattutto se allevati nelle lodi o sentono che altri sono applauditi».

san Giovanni Crisostomo, Il sacerdozio, (V,4)

"Ci sarà sempre qualcosa che mi mancherà, perché so leggere;

non vedrò mai più il mondo come lo vedrebbe un illetterato".

Christian Bobin, La luce del mondo, 139

Amico: perché sei il legame che unisce, ma non imprigiona.

Amico: perché sei la stella che guida, ma non abbaglia.

Amico: perché sei l'albero che abbraccia, ma non stringe.

Amico: perché sei la brezza che placa, ma non addormenta.

Amico: perché sei sguardo che scruta, ma non giudica.

Amico: perché sei parola che previene, ma non tormenta.

Amico: perché sei fratello che corregge, ma non umilia.

Amico: perché sei un mantello che copre, ma non soffoca.

Amico: perché sei lima che affina, ma non scortica.

Amico: perché sei la mano che accompagna, ma non sforza.

Amico: perché sei il cuore che ama, ma non esige.

Amico: perché sei la tenerezza che protegge, ma non assoggetta.

Amico: perché sei immagine di Dio, appunto per questo.

E. Oshiro

 

«"Il maresciallo vi attende nel suo ufficio, signor Gaspare". I mobili dell'ufficio non davano affatto l'impressione d'essere stati un giorno nuovi. Il governo doveva avere il segreto di quei mobili che nascevano già vecchi, se in tutti i suoi uffici, da quello delle tasse al catasto e al registro, erano dello stesso legno tisico, dello stesso colore indefinibile, con le stesse macchie d'inchiostro nei posti più impensati. E anche lì, sulla parete dietro la sedia a braccioli del maresciallo, imbottita di cuscini, lo stesso Cristo piccolo piccolo fra le due fotografie, questa volta senza cavallo».

Luisito Bianchi, La messa dell'uomo disarmato, 186





Il link dell'iniziativa: www.141012.fr




Piazza pulita

di Massimo Gramellini

Quando ho saputo che Antonio Piazza, presidente in quota Pdl dell'Azienda lombarda per l'edilizia residenziale, da tre anni parcheggia la sua Jaguar nello spazio riservato ai disabili, ho borbottato: ohibò. Quando ho saputo che il presidente Antonio Piazza, dopo aver parcheggiato per tre anni la sua Jaguar nello spazio riservato ai disabili, è stato finalmente multato dai vigili su segnalazione di un disabile che non trovava mai posto per parcheggiare, ho gridato: urrà. Quando ho saputo che il presidente multato Antonio Piazza, pervaso dalla rabbia, ha tagliato le gomme dell'auto del disabile che lo aveva segnalato ai vigili, mi sono chiesto: ma dove siamo? Quando ho saputo che il presidente multato e taglia-gomme Antonio Piazza ha tentato di rimediare chiamando precipitosamente un gommista, mi sono risposto da solo: siamo in Italia

Quando ho letto le dichiarazioni del presidente multato taglia-gomme e chiama-gommista Antonio Piazza - «Perché dovrei dimettermi dal mio incarico politico per un errore tecnico?» - mi sono detto: con un corso accelerato di educazione civica, alternato a pesanti corvée nei servizi sociali, forse lo recuperiamo ancora. Ma quando ho ascoltato in tv le successive dichiarazioni del presidente multato taglia-gomme chiama-gommista ed errante tecnico Antonio Piazza - «Solo un pezzo della mia Jaguar sporgeva nel posto riservato ai disabili, in realtà da tre anni io parcheggio nel posto accanto, in divieto di sosta: qual è il problema?» - ho capito di essere sostanzialmente un illuso. Questa è gente che non si recupera più.

«[...] Proprio l'11 Ottobre 1962 Giovanni XXIII inaugurò solennemente il "Concilio Vaticano II". La sera parlò della luna e della carezza ai bambini, ve ne ricordate?

Se ve ne rievoco la memoria, è perché vorrei tanto che imploraste il Signore affinché, in quest'epoca di ripiegamento e priva di slanci, faccia tornare sulla terra e nella chiesa la stessa speranza, gli stessi brividi, e le stesse attese di quel giorno.

Ma ci dia, soprattutto, la forza di tradurre presto in atto tutti quegli stimoli del Concilio, che ancora non hanno prodotto cambiamenti significativi nella nostra esperienza cristiana».

don Tonino Bello

da Antologia degli scritti, vol. 5, pag. 332

E' uscito il nuovo fascicolo di schede bibliche per coppie o gruppi familiari:

"Passi di fede con l'evangelista Giovanni"

di Marco Paleari

e i Gruppi Familiari del decanato di Appiano Gentile





Quando il potere vuole estrometterti,

senza clamori e senza rivelare le sue intenzioni,

senza scoprirsi e senza spargimento di sangue,

senza prendersi le sue responsabilità

e senza prendere posizione,

basta che ti tolga l'ossigeno:

ti toglie la speranza, le relazioni, il senso del bello e dell'utile,

le prospettive e una qualificata spiritualità.

Così tu ti spegni,

lentamente, quotidianamente,

senza dar fastidio,

senza far rumore,

quasi senza emettere neppure un filo di fumo.

Ti spegni, diventi inattivo,

togli il disturbo, diventi invisibile.

E il potere ha raggiunto il suo scopo:

ha scaricato su di te la colpa di andartene,

di non essere attivo.

Il potere resta convinto e soddisfatto

di quel che fa e di come lo fa,

e si conferma nella sua insipienza.

don Chisciotte

tratto da un mio appunto scritto il 16.07.2012 sul retro de “Parole per vivere”.