Un breve momento di preghiera proposto per il Venerdì Santo a coloro che - impegnati nel ritmo quotidiano - non potranno partecipare alle celebrazioni: fai il download.

"Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi.
Non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità.
Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali.
Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la Fede al centro dell’esperienza. Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la Sinistra e ora con la Destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti.
Allora la gente vedrà quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto".
Joseph Ratzinger, La teologia nella storia di san Bonaventura, 1969

"Tutti prendete e mangiate":
fai qui il download della quinta meditazione.

"Chi semina vento raccoglie tempesta".
Ma chi sta raccogliendo tempesta, si domanda se e come ha seminato vento?!
 
Mi riferisco in modo particolare a quei parroci che stanno tentando in mille modi (alcuni ridicoli, alcuni offensivi, la maggior parte formali) di riempire le liste dei candidati per le prossime elezioni dei Consigli Pastorali parrocchiali e delle Comunità Pastorali.
Invece di dare la colpa al laicato ("Laici non formati... non interessati... non impegnati"...),
si stanno domandando cosa hanno fatto per valorizzare i Consigli, per formarli, per camminare con loro, per far capire a loro e ai fedeli l'importanza di questo lavoro collegiale?

Basterebbe guardare come sono state condotte le sedute (coordinamento, ordini del giorno, verbali, comunicazioni precise e per tempo, progetti); quali informazioni sono state passate ai fedeli; se ci sono state o no le iniziative formative (con lo stanziamento delle necessarie risorse economiche) negli ultimi quattro anni (senza dare la colpa sempre al parroco predecessore), o almeno nell'ultimo anno pastorale, da quando la diocesi ha annunciato la data delle elezioni.
A proposito di diocesi: credo non stia verificando a sufficienza come i parroci presiedono i Consigli e non sono mica convinto che stia mettendo al primissimo posto il rinnovo di questi autorevoli Organi del santo popolo di Dio.
 
don Chisciotte Mc
 
 

"Voi stessi date loro da mangiare":
fai qui il download della quarta meditazione.

"Tu sei il Pane":
fai qui il download della terza meditazione.

"Nutrirsi, non possedere":
fai qui il download della seconda meditazione.

"Tutto bello e buono da mangiare":
fai qui il download della prima meditazione.

Il 24 marzo 1980, mentre celebrava l’Eucaristia, venne ucciso Monsignor Oscar A. Romero, vescovo di San Salvador nel piccolo stato centroamericano di El Salvador. Ogni anno, nella stessa data, si celebra una Giornata di preghiera e digiuno in memoria di tutti i missionari martiri. 
Papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto per la beatificazione di mons. Oscar Arnulfo Romero (23 maggio 2015); ecco due estratti della conferenza stampa del 4.02.2015.
 
«L’unanimità dei pareri sia della commissione cardinalizia che della commissione dei teologi ha confermato il martirio in odium fidei. Il sensus fidelium, in verità, non è mai venuto meno sia in El Salvador sia ovunque nel mondo. Il martirio di Romero ha dato senso e forza a tante famiglie salvadoregne che avevano perso parenti e amici durante la guerra civile. Il suo ricordo diventò immediatamente il ricordo delle altre vittime, magari meno illustri, della violenza.
Dopo un lungo lavoro che ha visto non poche difficoltà sia per le opposizioni rispetto al pensiero e all’azione pastorale dell’arcivescovo sia per la situazione conflittuale che si era creata attorno alla sua figura, l’itinerario processuale è giunto alla conclusione. Romero diviene come il primo della lunga schiera dei Nuovi Martiri contemporanei. (...)
Romero credette alla sua funzione di vescovo e di primate del paese e si sentiva responsabile della popolazione specie più povera: per questo si fece carico del sangue, del dolore, della violenza, denunciandone le cause nella sua carismatica predicazione domenicale seguita alla radio da tutta la nazione. Potremmo dire che fu una "conversione pastorale", con l’assunzione da parte di Romero di una fortaleza indispensabile nella crisi in cui versava il paese. Si fece defensor civitatis secondo la tradizione dei Padri antichi della Chiesa, difese il clero perseguitato, protesse i poveri, affermò i diritti umani. Il clima di persecuzione era palpabile. Ma Romero divenne chiaramente il difensore dei poveri di fronte ad una repressione crudele. (...)
Fu ucciso sull’altare. In lui si voleva colpire la Chiesa che sgorgava dal Concilio Vaticano II. La sua morte – come mostra chiaramente l’accurato esame documentario – fu causata non da motivi semplicemente politici, ma dall’odio per una fede che impastata della carità che non taceva di fronte alle ingiustizie che implacabilmente e crudelmente si abbattevano sui poveri e sui loro difensori. (...)».
mons. Vincenzo Paglia, 4 febbraio 2015
 
«In realtà, Romero era terrorizzato dalla morte che sentiva imminente. Nelle ultime settimane ogni rumore gli dava soprassalto. Un frutto di avocado che cadeva sul tetto della 

"Come si preparano le coppie al matrimonio? Sono sufficienti tre conferenze? La fede lì, come entra? La preparazione al matrimonio non è come un corso di lingue: diventate sposi in otto lezioni!". L'incontro di Papa Francesco con la popolazione di Napoli sul Lungomare Caracciolo, al minuto 20:40.
 

“Davide mandò… mentre lui rimaneva a Gerusalemme”:
il peccato del credente è togliersi da una vivace relazione con il popolo di Dio,
segno di una incrinatura del rapporto con Dio-Trinità.

Qui puoi fare il download del testo biblico di riferimento e dello schema della meditazione.

 
Tutta la bellezza della liturgia che evangelizza nella gioia
di Stefania Falasca
«Che cosa stiamo facendo? Questo è il momento delle riflessioni». Con queste parole il 7 marzo di cinquant’anni fa Paolo VI inaugurava la nuova forma della liturgia in tutte le parrocchie e le chiese del mondo. E per celebrare personalmente la prima Messa in italiano scelse non la basilica di San Pietro ma una parrocchia, quella di Ognissanti sulla via Appia, nell’estrema periferia di Roma, tanto lontana allora da essere denominata «la Patagonia romana». Entrava ufficialmente così la lingua parlata, la lingua familiare nel culto liturgico, per rendere omaggio alla maggiore universalità della Chiesa, per rendere comprensibile la Parola di Dio e la preghiera, per rendere possibile la partecipazione attiva dei fedeli in un risvegliato senso della comunità, per arrivare a tutti. «È il bene del popolo che esige questa premura, è un grande avvenimento» disse Paolo VI rivolgendosi vis-à-vis al popolo di Dio «che si dovrà ricordare come principio di rigogliosa vita spirituale, come un impegno nel corrispondere al grande dialogo tra Dio e l’uomo». Ed è certamente un gesto significativo quello che papa Francesco compie oggi celebrando la Messa proprio sul luogo e nel giorno della prima Messa in lingua vernacola celebrata dal predecessore Paolo VI, che ha segnato una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa. È un suo personale e insieme pubblico atto di riconoscimento dell’importanza del rinnovamento liturgico scaturito dal Vaticano II. Se infatti il Concilio si era concluso con il recupero di quell’oralità che sembrava essere stata esiliata dalla Chiesa, ritornare alla lingua parlata dopo tanti secoli significava risalire alle fonti, significa fedeltà al Vangelo.
«Il Concilio è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea», afferma Francesco. «Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta». «Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità», tuttavia, afferma ancora Francesco «una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata all’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile». Non solo è assolutamente irreversibile, ma anche assolutamente necessaria considerata in tutta la sua ampiezza l’opera che Francesco sta compiendo in questo senso, a cominciare dalle Messe quotidiane a Santa Marta. Un’opera di evangelizzazione che vede al centro la proclamazione e l’annuncio della Parola di Dio e la bellezza della liturgia. Perché «la Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della liturgia… l’evangelizzazione gioiosa si fa bellezza nella liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far progredire il bene» scrive nell’Evangelii gaudium. (...)
L’indomani della riforma liturgica il futuro Giovanni Paolo I scriveva ai suoi preti: «Alcuni non hanno capito che la riforma della liturgia è qualcosa di profondo, destinato a far crescere il popolo di Dio nella fede, nella speranza e nella carità e a rivelare agli uomini il volto di una Chiesa sempre più giovane. Non hanno preparato la gente con catechesi pazienti; non hanno spiegato il significato e la bellezza dei gesti nuovi. Hanno chiesto ai fedeli una partecipazione qualsiasi… è accaduto così che talora c’è stato non il fare vera liturgia, ma quasi un esibirsi col pretesto della liturgia, oppure un cercare nella liturgia soddisfazione estetiche… Poi ci sono alcuni che non accettano il Concilio, quindi rifiutano la liturgia che delle disposizioni conciliari è anima, perché – di sua natura – afferra tutto l’uomo. Altri confondendo la tradizione con il conservatorismo, non capiscono che il Signore, proprio perché è sempre presente alla Sua Chiesa, vuole che le forme secondarie del culto si adattino di continuo ai tempi e ai bisogni nuovi. Essi si appellano al passato, ma conoscono male il passato e la tradizione». (...)
in “Avvenire” del 7 marzo 2015
 

"Nelle vite dei santi padri si racconta che quando Macario, il grande asceta, viveva nel deserto, un angelo gli apparve ordinandogli di seguirlo fino a una città lontana. Quando furono arrivati lo fece entrare in una povera dimora dove viveva un'umile famiglia. L'angelo gli mostrò la sposa e madre di quella casa, dicendogli che aveva raggiunto la santità vivendo in pace e in perfetta armonia, dal giorno delle nozze, e in mezzo alle molte occupazioni quotidiane, con tutti i suoi, e aveva conservato un cuore casto, una grande umiltà e un ardente amore per Dio. E Macario implorò da Dio la grazia di vivere nel deserto come quella donna viveva nel mondo".
Pavel Evdokimov, Il matrimonio sacramento dell'amore, 219

I 50 anni della messa in italiano 
di Enzo Bianchi 
«La chiesa ha sacrificato tradizioni di secoli e soprattutto sacrifica l’unità di linguaggio dei vari popoli, in omaggio a questa maggiore universalità, per arrivare a tutti». Così Paolo VI all’Angelus di cinquant’anni fa spiegava il significato della prima messa celebrata in italiano proprio in quel giorno, 7 marzo 1965, prima domenica di Quaresima. Mancavano ancora nove mesi alla conclusione del concilio, eppure veniva offerto al popolo cristiano il frutto già maturo della liturgia nella lingua parlata dalle diverse chiese locali.
«Una sinfonia delle varie liturgie in tutte le lingue del mondo, unite in un’unica liturgia», come dirà vent’anni dopo Giovanni Paolo II nel presentare l’opera immane dei santi Cirillo e Metodio che, per evangelizzare i popoli slavi avevano non solo tradotto la Scrittura e i testi liturgici, ma inventato perfino un nuovo alfabeto, il cirillico.
Sì, perché la questione della comprensione della parola di Dio da parte dei fedeli non è smania di ammodernamento, ma questione centrale nell’annuncio evangelico fin dalla prima comunità di Gerusalemme: è nel giorno di Pentecoste, infatti, a cinquanta giorni dalla risurrezione di Gesù, che «parti, medi, elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, ebrei e proseliti, cretesi e arabi» sentono gli apostoli «annunziare nelle loro lingue le grandi opere di Dio» (Atti 2,9-11). E Origene, già nel III secolo aveva applicato questa pluralità di lingue in cui era risuonata la parola di Dio alle parole che a loro volta i credenti rivolgono a Dio nella liturgia: «I greci si servono di parole greche, i romani di parole latine, e così ciascuno secondo la propria lingua prega Dio e lo celebra come può. E il Signore di tutte le lingue ascolta quelli che pregano in ogni lingua, come se ascoltasse, per così dire, una voce unica per quanto riguarda il significato, benché espresso in lingue diverse». Così, quando Cirillo a metà del IX secolo dovette difendere la propria scelta di tradurre la liturgia in slavone di fronte «ai rappresentanti della cultura ecclesiastica» - strenui difensori del greco e del latino come uniche lingue ammissibili nel culto cristiano - elencherà, quasi sulla falsariga degli Atti degli apostoli, tutti i popoli che già possedevano una liturgia scritta e celebrata nella propria lingua: «armeni, persiani, abasgi, georgiani, sugdi, goti, avari, tirsi, khazari, arabi, copti, siriani...».
Del resto, la svolta conciliare del 1965 era stata preparata anche da sempre più condivise acquisizioni storiche ed esegetiche: Gesù non solo non aveva mai parlato né in greco né in latino, ma nemmeno in ebraico, essendo la sua lingua, e quella dei suoi discepoli, l’aramaico. Era il concetto stesso di «lingua sacra» a trovarsi ridimensionato: non dei suoni o delle parole arcane contengono la voce di Dio, ma il vissuto di un uomo, Gesù di Nazaret, che passava per le strade di Galilea facendo il bene e narrando il volto autentico di suo Padre, Dio.
Ma la preoccupazione e la sollecitudine pastorale dei vescovi al Vaticano II era volta innanzitutto a rendere possibile quella «attiva partecipazione» dei fedeli alla 

«Maometto nasce due secoli dopo il tempo di Sant'Ambrogio e non vi è quindi nell'opera del santo nulla che si riferisca direttamente al nostro tema, ma è interessante notare che la comunità di Ambrogio era una comunità religiosamente minoritaria. Due terzi della popolazione che in quel tempo abitava nella zona di Milano non era cristiana. Eppure "sembra che a Milano non esistesse un ministero organizzato per l'evangelizzazione dei pagani… Nel "De officiis ministrorum" Ambrogio non dà alcuna istruzione ai chierici per il lavoro di conversione dei pagani" (cf V. Monachino, S. Ambrogio e la cura pastorale a Milano nel secolo IV, Milano 1973, 48). La via ordinaria per la quale essi venivano a conoscenza del cristianesimo era la frequenza libera alla predicazione, aperta a tutti, i colloqui con il vescovo come nel caso di Agostino e specialmente il contatto con i cristiani e la loro condotta esemplare. Ambrogio poneva la sua cura nel far progredire la comunità cristiana come tale; per mezzo di essa, e non con un ministero organizzato, avveniva l'influsso sui pagani. 
Non dunque un proselitismo invadente, bensì l'immagine di una comunità plasmata dal Vangelo e dall'Eucaristia, zelante nella carità, libera e serena nel suo impegno civile quotidiano, coraggiosa nelle prove, sempre piena di speranza. È questa la nostra forza principale oggi, in un mondo secolarizzato, e questa forza è quella delle origini, quella della Chiesa di Sant'Ambrogio e della Chiesa dei nostri giorni».
Carlo Maria Martini, Noi e l'Islam, 6.12.1990, 4
 

L'economia alternativa del perdono 
di Gianfranco Ravasi 
Se volessimo ricorrere alla simbolica numerica potremmo delineare una specie di «matematica» della giustizia, dell’amore e del perdono. È ovvio che l’equazione è l’1 a 1: «occhio per occhio...», così come quella della violenza cieca e distruttiva è il 7 a 77, sulla scia del grido di Lamek: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lameck settantasette» (Gen 4, 24).
In antitesi a essa si pone l’equazione del perdono così come è formulata da Gesù che – per contrasto – la illustrerà poi con la parabola del servo spietato (Mt 18, 23-35). Essa presuppone un 7 a 70 x 7: «Pietro domandò: 'Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?'. Gesù gli rispose: «Non dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette » (18, 21-22). Già per l’illimitata ampiezza del perdono divino rispetto al confine circoscritto della giustizia si era visto che l’equazione era 7 a 1.000 (Es 34, 7).
Il perdonare fa parte di quella particolare «economia» dell’amore che non calcola ma dona, e proprio così moltiplica i suoi effetti. Essa è descritta nella mini-parabola che Luca incastona nell’episodio della peccatrice che incontra Gesù nella casa di Simone il fariseo: «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva 500 denari, l’altro 50. Non avendo essi di che restituire, condonò a entrambi il debito. Chi dunque lo amerà di più? E Simone rispose: 'Suppongo colui al quale ha condonato di più!'. E Gesù: 'Hai giudicato bene'» (Lc 7, 41-43).
Il perdono spezza la catena rigida del dare-avere e introduce la logica della donazione libera e generosa. Si crea un nuovo regime nei rapporti umani, meno vincolato al calcolo che alla fine rende tese e fredde le relazioni: nella parabola ciò che hai in cambio al condono-perdono è l’amore, che è molto di più dei 500 o 50 denari.
È questa una logica che applichiamo spontaneamente (ed egoisticamente) a noi stessi, come ammoniva in una delle morali delle sue favole Jean de La Fontaine: «Perdoniamo tutto a noi stessi e nulla agli altri». Ammiccando alla celebre immagine evangelica della trave e della pagliuzza (Mt 7, 3-5), san Francesco di Sales concludeva: «Di solito coloro che perdonano troppo a se stessi

Pur con tutti i distinguo del caso
(soprattutto quelli relativi al "cambiare tanto per cambiare"... magari anche gli elementi fondativi della vita!),
il linguaggio usato nell'articolo qui sotto è la traduzione attuale di grandi significati che tante tradizioni spirituali hanno esaltato da millenni.
don Chisciotte Mc


"Less is more: l'arte di eliminare il superfluo"
di Claudia Galeazzi - 27.02.2015
In USA è esplosa con il termine "Decluttering": l'arte di ridurre l'eccesso, risparmiare e ridimensionare. Non si tratta solo di economia e consumo: eliminare significa fare spazio. Non solo fisico, anche mentale ed emotivo. Siate sinceri, come vi sentite nell'attimo in cui eliminate ciò che non vi serve più? E non si parla solo di oggetti. Basta poco.
Fare pulizia e ordine - senza per forza diventare dei fanatici - sono attività che possono aiutare a vivere una vita più leggera e creativa. Soprattutto nei momenti in cui sentite la necessità di girare pagina. Provare per credere. Nel momento stesso in cui si fa spazio, si crea automaticamente la possibilità di creare qualcosa di nuovo. Soprattutto se si tratta di relazioni, spazio, emozioni e pensieri. Quando qualcosa è di troppo, e sappiamo riconoscerlo, il gioco è fatto. Game over. Eliminare la polvere in eccesso.
Quando si inizia a fare ordine, che sia il nostro armadio, il garage, la cantina, la relazione che ci soffoca, la vostra scatola magica o qualunque altra cosa, si attiva nel cervello un meccanismo di novità che vi spingerà a voler cercare qualcosa di nuovo e inaspettato. Poi chissà, magari ritrovate qualcosa di molto prezioso che non sapevate neanche di avere.
Il meno è il più, spesso ci attacchiamo alle cose e alle persone. Abbiamo paura del cambiamento e della solitudine, ma cambiare potrebbe essere la soluzione per riorganizzare la nostra vita e renderci conto delle piccole cose, che spesso diamo per scontate.
Non è necessario diventare dei fissati ossessivi, ma rendersi conto dell'ambiente che ci circonda, osservare. Prendersi lo spazio necessario. Non solo per la vista, ma anche per la mente. Armonia.
Certo, la perfezione non esiste, ma a volte recuperare se stessi significa mettere un po' di ordine. Less is more. Se si fa spazio, le piccole cose diventeranno molto grandi.


«Immaginate che il mondo sia un cerchio, che al centro sia Dio, e che i raggi siano le differenti maniere di vivere degli uomini.
Quando coloro che, desiderando avvicinarsi a Dio, camminano verso il centro del cerchio, essi si avvicinano anche gli uni agli altri oltre che verso Dio.
Più si avvicinano a Dio, più si avvicinano gli uni agli altri.
E più si avvicinano gli uni agli altri, più si avvicinano a Dio».
Doroteo di Gaza (VI secolo)
 

Un giardino irrigato che si chiama accoglienza 
di Erri De Luca
«"Vai, vattene dalla tua terra”. Questa frase fa parte del racconto sacro in un libro che ha presso di noi il titolo di “Genesi”. Un uomo abita tra i grandi fiumi dell’odierno Irak. La voce che si scaraventa nel suo udito con quella frase, lui la riceve per la prima volta. Non si volta per vedere da dove proviene. Non sobbalza. Quando arriva all’improvviso l’urgenza di una chiamata, è come se aspettata. L’uomo si chiama Abramo e risponde : “Eccomi”. Non è possibile altra risposta e s’incammina.
Inizia così un vagabondaggio senza fine, portandosi dietro il piccolo seguito di affetti e di beni. Va verso occidente senza una mèta ferma, accampandosi presso luoghi altrui. Ovunque si sistemi, ecco che aumentano i suoi beni e prospera il luogo che lo accoglie. Sara, sua moglie, la prediletta fin dalla gioventù, è zingara anche lei, pronta a fondare casa intorno al fuoco acceso della sera e spento all’alba prima di partire. Il suo rammarico non sta nel disfare e rifare bagagli, ma nel grembo chiuso, privo di gravidanza.
Un giorno all’ombra di un bosco di querce suo marito scorge dei viandanti e va loro incontro per invitarli alla sua ombra. Vengono dal viaggio sotto il sole a picco e accolgono il ristoro. L’ospite offre acqua e mensa, parla con loro e ascolta. C’è sempre da imparare dai viaggi degli altri, da scambiarsi il coriandolo di usi e di costumi. Al termine della visita i tre viandanti si sdebitano generosamente, annunciando alla donna una prossima gravidanza. Sara è già in là negli anni del ciclo prosciugato. Perciò ride, a scroscio, a garganella, da non potersi trattenere. Nemmeno ricorda da quanto tempo manca alla sua bocca la risata. È quella che le schiude il grembo, il sussulto festoso del diaframma che serve da scintilla e da zampillo.
La storia prosegue con la sua gravidanza, la nascita del figlio che si chiamerà col verbo di quel giorno : “Riderà”. Isacco, nella sua lingua Itzhàk, vuol dire : “Riderà”. Come suo padre Abramo sarà esperto di idraulica, scavatore di pozzi, capace di scoprire e inaugurare sorgenti nuove in terre di siccità. L’acqua è la risata della terra, la sua fecondità.
Abramo e lui, stranieri ovunque, moltiplicano il verde nelle patrie altrui. Chi accoglie il forestiero, in quella storia scritta a fondamento della civiltà, è benedetto da fertilità. A una pagina che mi chiede di nominare il paradiso, scrivo di uno terrestre e con la p minuscola. Consiste nel permesso di viaggio che fanno sulla faccia della terra i migratori: insetti, pesci, uccelli e in ultimo i mammiferi. Consiste nello spazio sgombero di frontiere, dove neanche le montagne fanno sbarramento. Il Sinai è al contrario il più solenne degli appuntamenti.
Per tradizione da noi si considera sacra una storia di persone che attraversano deserti con la casa in spalla, spinti da carestie, da esili, da diluvi. Si considera sacra una storia fondata su accoglienze ricambiate da benefici di prosperità e fertilità. Ma quella storia se ne sta ben chiusa nel recinto del culto, della cerimonia, senza permesso di traboccare, spargersi a catinelle come una pioggia, come una risata. 
Nostro tempo presente sono le barriere, i muri dentro i quali accatastare vite di viandanti, viaggiatori perfetti perché senza biglietto di ritorno. Nostro tempo è attesa di lasciapassare, a puro spreco di energie compresse, trattenute al macero. Nostro tempo presente è il mare della civiltà mediterranea gonfiato di annegati più di qualunque guerra marinara, più di ogni tempesta. Tempo presente è la paura soffiata intorno al bastoncino dello zucchero filato, la paura vuota verso il forestiero di passaggio, che poggia a terra il suo bagaglio per tirare il fiato. 
Così vado a cercarlo in una storia scritta nell’altroieri di tremila anni, il paradiso possibile e terreste. E uso per lui il modo indicativo e il tempo presente, perché lì dentro quella storia dura e si rinnova agli occhi di ogni generazione. Scorgo quel paradiso, quel giardino irrigato in mezzo a siccità, in qualunque mossa di benvenuto, di saggio invito all’ombra, misteriosamente ripagato con sovrabbondanza. Il paradiso sta in ogni accoglienza e sta accanto all’inferno, a portata di mano tutti e due».
in “il Fatto Quotidiano” del 2 marzo 2015