2019_10_ottobre
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«Sono questi i miracoli più grandi di Gesù. Riconsegnarci, normali, gli esclusi, i condannati. I pubblicani, la Samaritana, le peccatrici, Zaccheo, l’adultera, i ladri.
Avevamo accettato, come un fatto normale, la loro condanna, la loro perdita.
Cristo, invece, ce li restituisce normali. Come noi».
Alessandro Pronzato, I vangeli scomodi, 115
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[...] "Disse poi una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai". Questi "sempre" e "mai", parole infinite e definitive, sembrano una missione impossibile. Eppure qualcuno c'è riuscito: «Alla fine della sua vita frate Francesco non pregava più, era diventato preghiera» (Tommaso da Celano).
Ma come è possibile lavorare, incontrare, studiare, mangiare, dormire e nello stesso tempo pregare? Dobbiamo capire: pregare non significa dire preghiere; pregare sempre non vuol dire ripetere formule senza smettere mai. Gesù stesso ci ha messo in guardia: «Quando pregate non moltiplicate parole, il Padre sa...» (Mt 6,7). Un maestro spirituale dei monaci antichi, Evagrio il Pontico, ci assicura: «Non compiacerti nel numero dei salmi che hai recitato: esso getta un velo sul tuo cuore. Vale di più una sola parola nell'intimità, che mille stando lontano».
Intimità: pregare alle volte è solo sentire una voce misteriosa che ci sussurra all'orecchio: "Io ti amo, io ti amo, io ti amo". E tentare di rispondere.
Pregare è come voler bene, c'è sempre tempo per voler bene: se ami qualcuno, lo ami giorno e notte, senza smettere mai. Basta solo che ne evochi il nome e il volto, e da te qualcosa si mette in viaggio verso quella persona. Così è con Dio: pensi a lui, lo chiami, e da te qualcosa si mette in viaggio all'indirizzo dell'eterno: «Il desiderio prega sempre, anche se la lingua tace. Se tu desideri sempre, tu preghi sempre» (sant'Agostino). Il tuo desiderio di preghiera è già preghiera, non occorre star sempre a pensarci. La donna incinta, anche se non pensa in continuazione alla creatura che vive in lei, diventa sempre più madre a ogni battito del cuore.
Il Vangelo ci porta poi a scuola di preghiera da una vedova, una bella figura di donna, forte e dignitosa, anonima e indimenticabile, indomita davanti al sopruso. «C'era un giudice corrotto. E una vedova si recava ogni giorno da lui e gli chiedeva: fammi giustizia contro il mio avversario!». Una donna che non si arrende ci rivela che la preghiera è un no gridato al «così vanno le cose», è il primo vagito di una storia neonata: la preghiera cambia il mondo cambiandoci il cuore. Qui Dio non è rappresentato dal giudice della parabola, lo incontriamo invece nella povera vedova, che è carne di Dio in cui grida la fame di giustizia.
Perché pregare? È come chiedere: perché respirare? Per vivere! Alla fine pregare è facile come respirare. «Respirate sempre Cristo», ultima perla dell'abate Antonio ai suoi monaci, perché è attorno a noi. «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28).
Allora la preghiera è facile come il respiro, semplice e vitale come respirare l'aria stessa di Dio.
Ermes Ronchi
grazie a Giampaolo Martinelli per la foto del 191019
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/come-e-possibile-pregare-sempre?fbclid=IwAR170FyKHvJYc4t9T6oerEKdhp-QmgIg5hBj9D76PW9fAhVFaszhl4oxpxE
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«Il segno grafico dell’interrogazione è già eloquente col suo ricciolo che sembra artigliare la mente del lettore: segno ben più complesso dell’esclamativo con la sua linea retta che si impone in modo imperativo. Già lo stesso lessico mostra le varie iridescenze dell’atto di domandare: chiedere, ma anche interpellare, cercare, postulare, consultare e persino indagare e scrutare. Sui banchi del liceo di un tempo si imparava la distinzione latina tra il quaerere, un «domandare» per sapere, e il petere, un «chiedere» per ottenere. L’implacabile sequenza dei «perché?» del bambino rivela che il desiderio di sapere, capire, scoprire è strutturale alla natura umana, prima che sia sterilizzato dalla banalità delle risposte stereotipate o dai giochi elettronici».
Gianfranco Ravasi, Il Sole 24ore, 20.10.2019
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«Può accadere, certe mattine, che mentre ascolti le notizie della rassegna stampa ti ritrovi in lacrime, quasi senza accorgertene, nonostante il sole s'affacci alla tua finestra. Ma non c'è luce che tenga, se senti parlare di una chat intitolata "shoah party" frequentata da adolescenti o se ascolti la testimonianza di una guardia costiera di fronte ai corpi annegati dei profughi, tra cui bambini, in fondo al mare di Lampedusa. Puoi anche distogliere lo sguardo, tornare a quel sole che illuminerà moltitudini di cose belle che stanno accadendo proprio ora sul pianeta - ma la sensazione di impotenza e di solitudine non se ne andrà, le lacrime faranno fatica ad asciugarsi».
Mario Domina, 191017
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«Vi auguro di essere eretici.
Eresia viene dal greco e vuol dire scelta.
Eretico è la persona che sceglie e, in questo senso, è colui che più della verità ama la ricerca della verità.
E allora io ve lo auguro di cuore questo coraggio dell’eresia.
Vi auguro l’eresia dei fatti prima che delle parole,
l’eresia della coerenza, del coraggio, della gratuità, della responsabilità e dell’impegno.
Oggi è eretico chi mette la propria libertà al servizio degli altri;
chi impegna la propria libertà per chi ancora libero non è.
Eretico è chi non si accontenta dei saperi di seconda mano,
chi studia, chi approfondisce, chi si mette in gioco in quello che fa.
Eretico è chi si ribella al sonno delle coscienze,
chi non si rassegna alle ingiustizie.
Chi non pensa che la povertà sia una fatalità.
Eretico è chi non cede alla tentazione del cinismo e dell’indifferenza.
Eretico è chi ha il coraggio di avere più coraggio».
don Luigi Ciotti
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«II voto consultivo dei laici non può essere equivocato (...) come semplice "aiuto" prestato ai ministri ordinati. La funzione del sacerdozio comune e del "sensus fidei" non è quella di aiutare il sacerdozio ministeriale, ma di esprimere la propria testimonianza e la propria opinione sulla fede e sulla disciplina ecclesiale».
Eugenio Corecco, canonista, vescovo, 1990
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«Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Gesù sta pensando ai suoi correligionari: credenti in Dio, ma incapaci di accogliere la novità della sua persona.
Non lo accolgono perché non lo ascoltano. Non lo ascoltano perché non lo accolgono.
Qualche gesto di testimonianza verso questi correligionari ci vuole!
don Chisciotte Mc 191023
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Vanamente ho cercato sul sito della diocesi qualche report dell'andamento delle elezioni per il rinnovo dei consigli pastorali: affluenze, percentuali, novità, regressioni...
Non vi è traccia.
Una fonte autorevole mi ha detto che una percentuale significativa delle parrocchie (più del 30%) non ha svolto le elezioni, perché non si sono trovati i candidati. E quindi si procederà esclusivamente per nomina da parte dei parroci.
Non è chi non veda che bisognerebbe interrogarsi come mai a distanza di 50 anni dal Concilio questi strumenti "non funzionino".
Io sono certo che questa riflessione non ci sarà, ma ho qualche idea (già espressa nelle sedi opportune) su alcune responsabilità di questa situazione.
E intanto - proprio in questi giorni - è riunito il Consiglio presbiterale con un titolo altisonante, ma vuoto...
don Chisciotte Mc 191021
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Fonti autorevoli mi dicono che - per la Chiesa - gli snodi più importanti e quelli ancora più ostici da risolvere sono la liturgia e la formazione dei preti (cioè il seminario).
Anni fa avevo detto questa cosa (e certamente non ero e non sono il solo)... e infatti sono stato allontanato (senza dirmi per quale ragione).
Ma il problema resta!
don Chisciotte Mc 191020
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«Non c'è giorno che non mi chieda se val la pena essersi risvegliati (e dunque esser nati): scruto il cielo ansioso, in cerca di segni.
E non c'è notte, per quanto buia, che non venga trapuntata da una cazzo di stella: luce debolissima e tremolante, a smentire la nera insensatezza di quel cielo».
Mario Domina - 191019
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«Dal Vaticano II abbiamo ricevuto in dono la collegialità»
di Paola Panzani
«Il Concilio Vaticano II è un enorme tesoro che ci è stato donato: uno scrigno colmo di doni tra cui il valore della collegialità. Lo hanno scoperto da subito i Padri conciliari perché non era affatto scontato che sapessero stare insieme, che imparassero un metodo di lavoro e che riuscissero a dare forma concreta alla loro collegialità. Non è un caso che uno dei frutti del Concilio siano stati proprio gli organismi di partecipazione: Consigli pastorali parrocchiali, diocesani, per gli affari economici.
Al numero 12 della Lumen gentium si dice: «Tutti i battezzati sono profeti, hanno uno spirito di profezia e tutti hanno il sensus fidei, cioè una capacità di penetrare il senso spirituale della Parola e di interpretare l’azione dello Spirito, i disegni di Dio all’interno della storia». In altre parole tutta la comunità è chiamata a costruire una fraternità evangelica e a farsi carico della fede degli altri, della fede dei fratelli anche attraverso questi strumenti di partecipazione.
L’esperienza dei Consigli pastorali rimanda, tuttavia, spesso a un’immagine in cui è evidente il divario tra ideale (tutti i battezzati sono corresponsabili e devono farsi carico della missione evangelizzatrice della Chiesa) e realtà spesso insoddisfacente e ben lontana dalle aspettative. Possiamo trovarne la causa
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« 2.2.2 La Chiesa dalle genti è una Chiesa dove non basta “fare per” ma dove diviene essenziale apprendere a “fare con”; non basta “fare” tante opere a favore dei migranti, quanto piuttosto imparare ad “essere” con loro, costruendo una nuova soggettività, frutto del riconoscimento reciproco e della stima vicendevole. La Chiesa si è sperimentata nella sua verità di fondo, popolo in cammino, desideroso di rinnovarsi per dire in forma credibile i significati elementari che danno senso e sapore al vivere: la bellezza di uscire da sé, l’importanza dell’incontro, la libertà di vivere il Vangelo, la gioia di aprirsi al dono, la responsabilità di portare i pesi delle fragilità proprie e altrui» (dal Documento finale del Sinodo "Chiesa dalle genti").
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L’intolleranza in sala d’attesa
di Concita De Gregorio e Maria Batticore
«Eseguo annualmente controlli medici per una brutta, bruttissima, malattia avuta da ragazza. In principio erano controlli settimanali, poi per fortuna, con il tempo, si sono diradati sempre di più. L’ospedale è rimasto comunque la mia seconda casa, un luogo in cui mi sento a mio agio, in cui mi sento protetta. Nutro un profondo rispetto per i pazienti e gli accompagnatori nelle sale d’attesa degli ospedali; corridoi e stanze silenziose, sguardi schivi.
Queste attese sono diverse dalle altre; rievocano velocemente demoni sopiti e dolori del passato che fanno a pugni con pensieri razionali, la fiducia nella ricerca o semplicemente la speranza. L’altro giorno ad aspettare eravamo in 5, tutte donne, il silenzio è rotto da una discussione dal tono un po’ alterato tra una signora con accento dell’est e l’operatrice all’accettazione. Sembra che la signora si fosse presentata ad una visita che però in precedenza aveva cancellato; questo secondo quanto diceva l’operatrice. Secondo la paziente, invece, la visita non era mai stata cancellata. La signora fa presente che non si sarebbe mai sognata di annullare l’appuntamento che le era stato dato, anche perché per essere presente aveva dovuto prendere una giornata di ferie dal lavoro. Mi colpisce da subito il tono un po’ aggressivo e accusatorio dell’operatrice all’accettazione, per intenderci: se si fosse rivolta a me in quel modo, avrei chiesto prima di tutto di moderare i toni. Ma la cosa che mi lascia davvero esterrefatta è che quando la signora viene invitata in un ufficetto per chiarire la questione, dal niente esplode in sala d’attesa un chiacchiericcio non solo ingiustificato, ma terrificante: "Vengono a casa nostra e pretendono di avere anche ragione!", dice una ad alta voce e un’altra ribatte : "E ci sono anche quelli che ce li vogliono!". E aggiunge la terza: "Che poi se ti rubano in casa non puoi neanche sparargli!". Sono rimasta in silenzio, scombussolata dalla valanga di considerazioni inopportune e terribili vomitate in pochi secondi, non ho voluto rispondere temendo di aizzare ancora più insofferenza, ma dopo me ne sono terribilmente vergognata. Eppure credevo che almeno nelle sale d’attesa degli ospedali vigesse una tacita solidarietà e che la cosa più importante, a prescindere da chi può aver commesso l’errore (può capitare davvero a chiunque), sia magari, trovare una rapida soluzione».
Maria Batticore , 36 anni, napoletana trapiantata a Siena, due lauree, da tempo in cura
in “la Repubblica” del 6 ottobre 2019
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Incompiutezza
di José Tolentino Mendonça
Credo che nella nostra vita si registra un momento di svolta quando guardiamo all’incompiutezza in un’altra maniera, non soltanto come a un indicatore o sintomo di mancanza, ma come a una condizione inderogabile del nostro essere. E così ci rendiamo capaci di vivervi assieme in pace.
L’avventura di essere non è altro che abitare, in tensione creativa, la propria incompiutezza e quella del mondo. È vero che a tal fine dobbiamo imparare ad abbracciare il vocabolario della vulnerabilità. Ciò comporta un esercizio di distacco e di povertà interiore. Accettare di non conseguire tutti gli obiettivi che ci eravamo prefissati. Accettare che il punto cui siamo arrivati è ancora una versione provvisoria, una versione da rivedere, piena di imperfezioni. Accettare che ci mancano le forze, che c’è una freschezza di pensiero che non otteniamo meccanicamente con il solo insistere.
Accettare, probabilmente, che domani dovremo ripartire da zero, e per l’ennesima volta. Ma questa riconciliazione con l’incompiutezza ci apre anche all’esperienza della reciprocità, forse come non l’avevamo ancora vissuta. La vita di ciascuno di noi non basta a se stessa: avremo sempre bisogno dello sguardo altrui, che è uno sguardo altro, che ci osserva da un’altra angolazione, con un’altra prospettiva e un’altra disposizione d’animo. Il senso della vita non si risolve individualmente. Il suo vero significato lo si raggiunge nell’incontro, nella condivisione e nel dono.
in “Avvenire” dell'8 giugno 2019
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«Il Sinodo per l’Amazzonia, possiamo dire che ha quattro dimensioni: la dimensione pastorale, la dimensione culturale, la dimensione sociale e la dimensione ecologica. La prima, la dimensione pastorale, è quella essenziale, quella che comprende tutto. Noi la affrontiamo con cuore cristiano e guardiamo alla realtà dell’Amazzonia con occhi di discepolo per comprenderla e interpretarla con occhi di discepolo, perché non esistono ermeneutiche neutre, ermeneutiche asettiche, sono sempre condizionate da un’opzione previa, la nostra opzione previa è quella di discepoli. E anche con occhi di missionari, perché l’amore che lo Spirito Santo ha posto in noi ci spinge all’annuncio di Gesù Cristo; un annuncio — lo sappiamo tutti — che non va confuso con il proselitismo. Noi cerchiamo di affrontare la realtà dell’Amazzonia con questo cuore pastorale, con occhi di discepoli e di missionari, perché quello che ci preme è l’annuncio del Signore. E inoltre ci avviciniamo ai popoli amazzonici in punta di piedi, rispettando la loro storia, le loro culture, il loro stile del buon vivere nel senso etimologico della parola, non nel senso sociale che spesso attribuiamo loro, perché i popoli hanno una propria identità, tutti i popoli hanno una loro saggezza, una consapevolezza di sé, i popoli hanno un modo di sentire, un modo di vedere la realtà, una storia, un’ermeneutica e tendono a essere protagonisti della loro storia con queste cose, con queste qualità. E noi ci avviciniamo estranei a colonizzazioni ideologiche che distruggono o riducono le specificità dei popoli. Le colonizzazioni ideologiche oggi sono molto diffuse. E ci avviciniamo senza ansia imprenditoriale di proporre loro programmi preconfezionati, di “disciplinare” i popoli amazzonici, di disciplinare la loro storia, la loro cultura; ossia quest’ansia di “addomesticare” i popoli originari. Quando la Chiesa si è dimenticata di questo, cioè di come deve avvicinarsi a un popolo, non si è inculturata; è arrivata addirittura a disprezzare certi popoli. E quanti fallimenti di cui oggi ci rammarichiamo».
papa Francesco, 7.10.2019
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(...) "“Un'altra sera a Rogoredo. Quanto malessere in giro anche oggi... Qualcuno cercava riposo arrotolato in una coperta sulla banchina, tanti hanno chiesto ristoro al nostro punto di distribuzione viveri. Ma stasera c'era qualcosa di più. Al boschetto la roba non c’era. Un via vai infinito di persone in continua ricerca di qualsiasi indizio, voce, indicazione che potesse far trovare qualche pusher. Abbiamo dovuto chiamare l’ambulanza per Alessio che in piena crisi di astinenza, mi ha chiesto disperatamente di farlo. E dopo di lui ne ha avuto bisogno anche un altro ragazzo... freddo, crampi allo stomaco e voglia di morire... Dobbiamo davvero preoccuparci se queste persone non vengono sostenute, accompagnate... prese in carico... È assurdo solo pensarlo ma... senza sostanze che succederà?”
Che succede senza le sostanze? "Pensate al gioco del biliardo. Con il primo tiro si spacca il triangolo di palle. Con le due retate della scorsa settimana abbiamo tirati una fucilata su Rogoredo creando un fenomeno di dispersione incontrollata ovunque. Un nuovo presidio delle droga, per esempio, l’abbiamo registrato nei pressi della stazione della metropolitana Porto di Mare.
I prezzi delle droga sono schizzati. Per l’eroina parliamo di 25 euro al grammo. Molto di più rispetto a prima, dove con due euro recuperavi una microdose. Il consumatore, il tossico, è solo l’ultimo anello della catena: non riesce a drogarsi, sta male, va in astinenza e sono necessari gli interventi ospedalieri. Le persone con questo tipo di vissuto, con questo dolore dentro, sentono di non farcela".
In che senso? "Sono rassegnati davanti all’assenza di sostanze e tanto è il dolore che chiedono di chiudere gli occhi per sempre. Sono persone che hanno perso tutto e se tu non gli riconosci neanche un briciolo di dignità, per loro il pensiero della morte, quello di “lasciarsi andare”, torna sempre più" prepotente. (continua) http://www.vita.it/it/interview/2019/10/08/boschetto-di-rogoredo-che-succede-se-resta-senza-droga/280/
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«Quanto più si rafforzano le posizioni contrarie all’accoglienza, alla solidarietà, al dono, tanto più una parte degli indifferenti si è svegliata e ha sentito la necessità di un gesto di solidarietà».
La polarizzazione dei sentimenti ha favorito nell’ultimo anno il consolidarsi e il rafforzarsi della cultura del dono, una cultura che va portata nelle scuole per radicarla nelle nuove generazioni. «Dobbiamo promuovere la cultura del dono per incrementare il tasso di fiducia sul futuro nel nostro Paese».
Ma come può essere successo che, dopo un declino ultradecennale e che sembrava irreversibile, quest’anno il Rapporto ha registrato una seppur lieve inversione di tendenza nel numero delle persone che effettuano donazioni? Una risposta l’ha tentata Paolo Anselmi, vice presidente del centro di ricerca Gfk. «Nel 2005 arrivammo ad avere il 33% della popolazione italiana formata da donatori, con il picco registrato dopo lo tsunami del 2004. Si è scesi poi fino al 18% nel 2017, perdendo 6-7 milioni di donatori. Il fenomeno fu messo in relazione generalmente alla crisi economica. Ma cosa è accaduto nell’ultimo anno da riuscire a fermare il declino? Io propendo per l’ipotesi della polarizzazione culturale. Quanto più si rafforzano le posizioni contrarie all’accoglienza, alla solidarietà, al dono, tanto più una parte degli indifferenti si è svegliata e ha sentito la necessità di un gesto di solidarietà», ha detto Anselmi.
«I donatori hanno una posizione positiva sul futuro. Inoltre un atteggiamento non ideologico è più orientato al fare e all’idea che anche il piccolo gesto è positivo. Le persone che donano sono più felici, dichiarano una maggiore soddisfazione nella propria vita». Quest’ultima considerazione è suffragata da alcuni dati statistici: «Nell’ultimo anno si è registrato un calo di 6 punti di coloro (che comunque restano maggioranza) che si dicono preoccupati del futuro, si è arrestato poi il declino della felicità, e ci sono alcuni segnali che vendono valori come l’amicizia e la cultura che tendono a risalire», ha aggiunto Anselmi.
L’economista Leonardo Becchetti ha detto che «le persone che ricevono devono essere a loro volta soggetto di un dono: il dono è positivo se alimenta a sua volta la capacità di dare».
Valeria Reda, della Doxa, ha raccontato che dal 2015 aumentano le persone «che donano informalmente (come durante la Messa) e con donazioni disintermediate: 4 italiani su 6 hanno fatto nell’ultimo anno almeno una donazione informale».
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"Un’altra questione è la carenza di presbiteri al servizio delle comunità locali sul territorio, con la conseguente mancanza della Eucaristia, almeno domenicale, e di altri sacramenti. Mancano anche preti incaricati, questo significa una pastorale fatta di visite sporadiche anziché di un’adeguata pastorale con presenza quotidiana. Ebbene, la Chiesa vive dell’Eucaristia e l’Eucaristia edifica la Chiesa (S. Giovanni Paolo II). La partecipazione nella celebrazione dell’Eucaristia, almeno la domenica, è fondamentale per lo sviluppo progressivo e pieno delle comunità cristiane e per la vera esperienza della Parola di Dio nella vita delle persone. Sarà necessario definire nuovi cammini per il futuro. Nella fase di ascolto, le comunità indigene hanno chiesto che, pur confermando il grande valore del carisma del celibato nella Chiesa, di fronte all’impellente necessità della maggior parte delle comunità cattoliche in Amazzonia, si apra la strada all'ordinazione sacerdotale degli uomini sposati residenti nelle comunità. Al tempo stesso, di fronte al gran numero di donne che oggi dirigono le comunità in Amazzonia, si riconosca questo servizio e si cerchi di consolidarlo con un ministero adatto alle donne dirigenti di comunità".
Eucaristia in Amazzonia, nelle parole del card. Hummes
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«Ha un significato programmatico e dalle conseguenze importanti. Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una “semplice amministrazione”. Costituiamoci in tutte le regioni della terra in un “stato permanente di missione”». Non temiamo di intraprendere, con fiducia in Dio e tanto coraggio, «una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di uscita e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, “ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale”» (papa Francesco, 22.10.2017).
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"Era il 3 ottobre di 6 anni fa quando 368 persone, in maggioranza provenienti dall’Eritrea, morirono a mezzo miglio dalla spiaggia dei Conigli. Il dolore e la memoria dell'isola di Lampedusa nel cuore dell’Europa sono ancora vivi. (...) Oggi 3 ottobre in 30 tra capitali e città europee si organizzano una serie di iniziative per sostenere la petizione che mira a chiedere alle istituzioni dell’Unione europea che ogni 3 Ottobre - giorno di una delle tragedie più penose avvenute nel Mediterraneo centrale nel 2013 - diventi la Giornata europea della Memoria e dell’Accoglienza. (...)
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/3-ottobre-lampedusa-giornata-europea?fbclid=IwAR1EOHooucoQSmL8gso0NpQxqa3nkdOfuDoREoG7s-0i10KAqdTHTHeNzEA
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Chiaramente, ogni volta che vai controcorrente impieghi più tempo, energie rispetto ad andare secondo l'onda.
E rischi di più: di non avere una strada bella chiara e larga; di non essere capito; di non fare tutto al top al primo colpo.
don Chisciotte Mc, 190915
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«L’ottimismo è un magnete della felicità. Se rimani positivo, le cose buone e le buone persone saranno attratte da te».
Mary Lou Retton