«Se dovessi raccontare la storia della famiglia di origine della mia nonna ne verrebbe fuori che la famiglia del mulino bianco che tanti vorrebbero non è mai esistita. Questa storia penso che sia comune a tutte le famiglie. 14 fratelli composta da grandi santi e da grandi peccatori. Grandi litigi e grandi riconciliazioni. Eventi tragici: malattie impietose che hanno portato via da un giorno all'altro fratellini e sorelline, la guerra, l'orrore del nazismo che ha ucciso barbaramente un nipote e un fratello prete. Ma anche l'insperato e assurdo benessere portato dalla spagnola, mio bisnonno era falegname e aveva avuto un picco di lavoro costruendo bare. Strani casi di utero in affitto: mia bisnonna aveva "regalato" una delle sue figlie a sua sorella sterile portandosela con sé in Sudamerica. Separazioni, di cui il fratello che l'ha subita costretto a fuggire e rifarsi una vita in America, la cognata colpevole, una volta che ha perso il compagno ritornata e accolta in famiglia dai cognati come una sorella. Una sorella suora, morta consunta, ma che non ha lasciato fino all'ultimo i bambini di cui si occupava. Cugine ricchissime che negli anni 50 facevano concorrenza a Sophia Loren, per poi morire sole. Insomma di tutto e di più già era all'ordine del giorno nel secolo scorso: e oggi vogliamo la famiglia del mulino bianco che non esiste?».
Raffaella Noli

Il giubileo della misericordia e l’ossessione della piazza
di Massimo Toschi
«Sorprende che all’inizio dell’anno giubilare il primo gesto di molti vescovi e cristiani del nostro Paese non sia la penitenza e la conversione, ma il desiderio della piazza. Quasi che la piazza possa sostituire l’annuncio, che ha la sua sede propria lungo la via della croce, là dove incontriamo tante famiglie di poveri e di sofferenti, tante ragazze di strada e tanti migranti, tanti disabili e tanti abbandonati. Potremmo dire i segni del Messia che viene.
In realtà, quando i cristiani sono andati in piazza (ci ricordiamo il family day di nove anni fa) hanno mostrato una grande apparente forza, ma hanno perso, perché hanno sostituito al vangelo l’attrazione per il potere. Dunque innanzi tutto dobbiamo chiedere perdono, in ginocchio, per una stagione nella quale al vangelo sono stati sostituiti i “principi non negoziabili”, con risultati drammatici non solo per la comunità ecclesiale, ma per l’intera società italiana. La crisi che stiamo attraversando è figlia di quella stagione. Le famiglie e le loro ferite sono state usate da una Chiesa distratta dal vangelo e attratta dalla politica.
Questa è stata la vera sconfitta dei cristiani (vescovi, preti, parrocchie, movimenti e associazioni, cristiani comuni). Abbiamo preferito alla misericordia il razionalismo delle parole astratte. Abbiamo preferito stare nei palazzi della politica, piuttosto che lungo le strade del dolore, fino alla via crucis della nostra storia.
Papa Francesco, con il discorso alla Chiesa italiana, e con l’apertura del giubileo, ha chiesto ai cristiani del nostro Paese, di rendere attuale la forza spirituale del concilio, che ci chiama tutti, (vescovi, preti e cristiani comuni), a vivere la parola della misericordia, che genera la sapienza della prassi, la lettura dei segno dei tempi, una carità condivisa e senza limiti, e infine una coscienza formata dalla verità crocifissa. Così scrive papa Francesco nella Evangelii gaudium: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita, sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti». (...)
I cristiani corrono un rischio in più: il rischio del Circo Massimo, dunque il rischio del censimento, del numero e della conta. Riattualizzare il family day è voltarsi indietro, come la moglie di Lot, guardare a un modello che ha già fallito nel passato, che pietrifica e uccide oggi sapienza e cultura.
Il giubileo della misericordia ci indica un altro orizzonte e un’altra prospettiva: avere un cuore povero e per questo aperto ai miseri. Questo porta, dice il papa, al dialogo, che è ascolto e incontro dell’altro e non negozio, che è «cercare di ricavare la propria fetta della torta comune».
Dunque una chiesa con volto di mamma, che si piega sui suoi figli più sofferenti. Questa non è la retorica della politica, ma la nostra fede, che i cristiani, tutti i cristiani sono chiamati a testimoniare da disarmati, senza esibire forza, ma vivendo e annunciando la debolezza di Dio.
Rimane la tentazione pelagiana di vescovi e di cristiani che cercano piccoli vantaggi personali, che papa Francesco così descrive: «(la tentazione pelagiana) spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette, perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza e di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Davanti ai mali e ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate, che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative».  (...)
Ancora a proposito della copertura delle statue.
Ne hanno scritto tutti e sono state ben viste le diverse sfaccettature:
- il dovuto rispetto alla cultura ospitante;
- il valore comunicativo della bellezza, ponte fra le diversità;
- l'opportunismo politico e il piegarsi al potente e al ricco;
- lo scaricabarile delle responsabilità (giochetto caro a tante autorità);
- la mancanza di una visione diplomatica globale, capace di cogliere il valore di simboli e gesti.
Dichiaro la mia ingenuità: credo che - al di là e oltre quanto è stato fatto e l'intenzione reale con cui è stato fatto - questo gesto possa anche sorgere da un cuore gentile che tenta di mettere in pratica lo spirito con cui Gesù ha detto: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12).
A me farebbe piacere se - spontaneamente e senza secondi fini - una persona che mi ospita non mettesse in mostra oggetti, parole, gesti... che potessero turbarmi.
Altrettanto vorrei saper fare io, come ospitante e come ospitato.
Questo vorrebbe dire che sapremmo dare una giusta gerarchia a ciò che vale: in primis sempre le persone (tutte quelle coinvolte), poi le convinzioni e le usanze.
Intuisco che c'è una differenza tra lo stile personale e i risvolti politico-sociali-diplomatici;
ma rimango convinto che questo stile sarebbe il più profondo e convincente di cultura inclusiva, abbracciante, umanizzante.
don Chisciotte Mc

«Condivido volentieri questo articolo di Paolo Tassinari, che esprime molto bene sia le ragioni di criticità circa alcuni aspetti del ddl sulle unioni civili, sia i motivi di perplessità relativi alla manifestazione del Family Day. 
Aggiungo un'osservazione "storica": la prima edizione del Family Day nel 2007 contribuì a far cadere il governo Prodi, colpevole di aver presentato una proposta di regolamentazione delle unioni civili nella forma molto moderata del DICO, che non sfiorava neppure da lontano l'aspetto della adozione per le coppie omosessuali.
Da allora molte cose sono cambiate; la manifestazione di sabato - per quanto possa essere imponente - non scalfira' neppure la tenuta dell'attuale governo. 
Tuttavia una lezione dovrebbe essere tratta: la posizione massimalista assunta all'epoca dai vertici della Chiesa cattolica ha ottenuto soltanto di posticipare il problema, creando le condizioni per la stesura di un disegno di legge che è senza dubbio più avanzato sul fronte della omo-genitorialita'. 
Insomma, chi troppo vuole, nulla stringe: chiunque sceglie la strategia di mostrare i muscoli, si espone sempre al rischio di incontrare prima o poi un avversario più corpulento che lo mette al tappeto.
A mio avviso, lo stile della Croce - lo stile della misericordia - dovrebbe suggerire l'opportunità per la comunità ecclesiale di prendere le distanze da qualunque tentazione di cedere alla volontà di potenza, sia pure a fin di bene. Come scrive il 

Quelle identità che restano straniere 
di Zygmunt Bauman 
(...)  Perché la modernizzazione tende a produrre migranti? Perché crea persone «in eccesso», che vogliono lasciare il proprio Paese. Esistono due fattori di esubero oggi assodati: il primo ha a che fare con il desiderio diffuso di ordinare, di ristrutturare la società per renderla migliore. Ogni volta che si cerca di introdurre un nuovo ordine o di riformare il precedente, accade sempre che alcune persone non vi si adattino. Le ragioni possono essere diverse: a volte queste persone dispongono di competenze non più richieste, o sono abituate a uno stile di vita che non ha più spazio nel nuovo ordine, oppure appartengono a un’altra religione, solo per fare qualche esempio. Il secondo fattore ha a che fare invece con la questione del «progresso economico», ossia con la possibilità di produrre le stesse cose, ma a un costo più basso e impiegando meno persone. In entrambi i casi si crea migrazione.
Ma se le migrazioni sono un fenomeno che esiste da secoli, dove sta la novità allora? Sta nella diversa reazione che le popolazioni autoctone mostrano all’arrivo dei migranti. In passato, quando arrivavano stranieri per stabilirsi in Europa, ci si aspettava che avvenisse un’assimilazione, che quelle persone cioè diventassero esattamente come noi, cessando di essere stranieri e accettando in toto il nostro modo di vivere. Ora questo non accade più. Poteva accadere quando il mondo era ancora organizzato secondo una gerarchia culturale e si credeva nell’evoluzione: alcune popolazioni si trovavano sul gradino più basso, noi su quello più alto e ovviamente erano quelle più in basso a doversi adeguare al nostro stile di vita, uno stile «superiore», lo abbiamo perfino chiamato «Illuminismo».
La speranza che queste persone rinunciassero alla loro identità e diventassero come noi nasceva dalla convinzione che paesi come la Svizzera, l’Italia, la Germania, la Francia e la Gran Bretagna rappresentassero il più alto livello di civiltà. Le cose sono cambiate. Un esempio significativo in questo senso è quello dei migranti turchi che sono arrivati in Germania e lì vogliono restare: si comportano in maniera corretta, pagano le tasse e agiscono come un qualsiasi altro cittadino, ma non vedono alcun motivo per smettere di essere turchi. Possono essere buoni cittadini tedeschi e allo stesso tempo rimanere turchi. La stessa cosa vale per gli immigrati magrebini in Francia. Perché mai dovrebbero rinunciare alla loro identità?
Credo che l’introduzione nel linguaggio politico contemporaneo dell’espressione «multikulti» si debba alla cancelliera tedesca Angela Merkel. «Multikulti» è un concetto che nasce dalla sovrapposizione di due diversi fenomeni con status molto differenti tra loro. Il primo è la multiculturalità. Oggi viviamo in società multi-culturali, dove melting pot e coesione non si realizzano più. Ci troviamo di fronte a una situazione per cui, di fatto, in ogni città europea vi è una compresenza di persone che hanno 

Il linguaggio dell'amore 
di Gianfranco Ravasi 
(...) Ogni realtà ha nel lessico adottato la sua identità più specifica: così, è evidente che per l'italiano l'organo "fisico" simbolico di questa virtù è il cuore (miseri-cordia) che conosce i fremiti della compassione e condivisione nei confronti del misero.
Nel linguaggio biblico, invece, assistiamo a un fenomeno curioso perché, sia per l'ebraico sia per il greco, le due lingue capitali delle S. Scritture (...), la sede della misericordia è l'utero materno o la generatività paterna. In ebraico è il sostantivo rehem, al plurale rahamîm, che designa primariamente il grembo materno e che viene trasformato in una metafora emozionale applicata innanzitutto a Dio che si ritrova, così, connotato anche femminilmente. Illuminante per l'immagine e il concetto è un passo del libro del profeta Isaia: «Si dimentica forse una mamma del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro ti dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai!» (49,15). Esplicito è il Salmo 103 che rimanda, invece, alla generatività paterna: «Come un padre prova misericordia (rhm) per i suoi figli, così il Signore prova misericordia per quelli che lo temono» (v.13), cioè per i suoi fedeli.
Non elenchiamo i passi ove questa metafora generazionale è assegnata a Dio. Basti solo citare un paio di frasi: «Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti raccoglierò, con immensa misericordia» (Isaia 54,7), ove è usato appunto il vocabolo rahamîm; «Pietà di me nel tuo amore, nella tua grande misericordia (rahamîm) cancella la mia iniquità», e questa è l'invocazione iniziale del celebre Miserere, il Salmo 51. È interessante notare che tutte le sure del Corano (tranne la IX, frutto forse di un frazionamento) si aprono proprio con due aggettivi arabi modulati sulla stessa radice rhm del termine biblico: «Nel nome di Dio misericorde e misericordioso» (bismi Llah al-rahman al-rahim).
Essere misericordiosi equivale ad essere presi "fin nelle viscere", con un amore totale, spontaneo, assoluto, fino a compiere quel gesto estremo di donazione, delineato da Gesù nei discorsi dell'ultima sera della sua vita terrena: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Giovanni 15,13).
Passiamo, così, al greco neotestamentario ove - come accade anche per le Scritture ebraiche - sono adottati vari termini sinonimici, a partire dal vocabolo éleos e dal verbo eleéô (coi loro derivati appaiono 78 volte), presente nell'invocazione liturgica Kyrie eleison, «Signore, abbi misericordia!».
Ma il più suggestivo è il verbo splanchnízomai, evocato 12 volte: esso rimanda proprio agli splànchna, le "viscere" materne della compassione. Gesù ha il cuore attanagliato da questa tenerezza misericordiosa quando incrocia i sofferenti sulle strade della sua terra. Così gli accade quando s'imbatte nel funerale del ragazzo del villaggio galilaico di Nain, figlio unico di una vedova (Luca7,13), o quando vede davanti a sé la folla affamata che lo ha seguito e ascoltato (Marco 6,34); anzi, in un altro caso, esplicitamente confessa: «Splanchnìzomai per questa folla che mi segue da tre giorni senza mangiare» (Marco 8,3). La stessa esperienza si ripete davanti ai due ciechi di Gerico (Matteo 20,34), oppure con un lebbroso (Marco 1,41) e così via.
Una rappresentazione intensa del valore simbolico del vocabolo è da cercare in due tra le sue parabole più celebri, riferite solo da Luca, (...). Nella cosiddetta "parabola del figlio prodigo" - in realtà il protagonista è il padre prodigo di misericordia, come ha intuito Rembrandt nella stupenda tela dell'Ermitage dedicata a questa pagina evangelica - il termine esprime il commuoversi del padre quando vede profilarsi all'orizzonte il figlio peccatore che era fuggito di casa e che ora ritorna pentito (Luca 15,20). Lo stesso verbo è applicato al buon Samaritano dell'omonima parabola, che si emoziona di fronte al ferito abbandonato dai banditi sul ciglio della strada (Luca 10,33). Il tema della misericordia rimanda, perciò, a un sentimento e a una decisione che è radicale sia in Dio, sia nella creatura umana. (...)
in “Il Sole 24 Ore” del 6 dicembre 2015

“Se sapessi raccontare una storia con le parole, non avrei bisogno di trascinarmi dietro una macchina fotografica”. Lewis Wickes Hine (1874 - 1940), sociologo e fotografo statunitense, fu il primo a concepire l’utilizzo della macchina fotografica nei primissimi anni del novecento come strumento per la promozione di riforme sociali, in particolare nell’ambito del lavoro minorile.
Consapevole del valore oggettivo delle sue fotografie, Hine riteneva che esse portassero in sé una carica dirompente, capace di suscitare sdegno e desiderio di cambiamento in una società fondata sullo sfruttamento degli umili e dei diseredati.
Entrò nelle fabbriche, nelle miniere, nelle industrie per la lavorazione del pesce, presentandosi ai padroni delle imprese come assicuratore o venditore di Bibbie o altro, per documentare il lavoro minorile e farne emergere la tragica aberrazione.
In America, agli inizi del secolo scorso, i minori lavoravano fino a 72 ore la settimana. Le manifatture assumevano l’intera famiglia: padre, madre e figli alloggiavano in locali fatiscenti di proprietà della fabbrica e in essa lavoravano con compiti diversi.
Le immagini che Hine scattò furono in effetti talmente forti, talmente autentiche nella loro drammaticità, da favorire davvero un processo di riforma sociale che si concluse con una normativa per la tutela del lavoro minorile.
Egli concepì il suo lavoro come elemento di un pacchetto comunicativo più ampio, esposto in forma di conferenze, proiezioni, articoli di giornale, nelle quali la fotografia assumeva un ruolo di testimonianza e di coinvolgimento emotivo dello spettatore. Anche il dolore può riuscire a creare partecipazione emotiva se condiviso con il grande pubblico nella forma più estetica possibile. E’ proprio questa la chiave di Hine, coniugare denuncia e bellezza in immagini che colpiscono attraverso questo contrasto, come se la bellezza acuisse anziché smorzare il drammatico messaggio trasmesso dalle sue fotografie.
Guarda qui le foto: http://ilcassetto.forumcommunity.net/?t=48631142
 

Il rancore e il perdono dietro le sbarre 
intervista a don Gino Rigoldi, a cura di Roberto I. Zanini 
Il carcere per tanti, spesso giovani, è un luogo di oblio, dove non si viene aiutati a riabilitarsi e a riconoscere il male compiuto. Parla don Gino Rigoldi. «Il mio lavoro con i ragazzi in carcere? Prima di ogni altra cosa c’è un passaggio essenziale: fare in modo che si rendano conto del male che hanno fatto. Prima devono capire». Don Gino Rigoldi è forse il più conosciuto cappellano di carcere minorile in Italia. Lavora al Cesare Beccaria di Milano dove attualmente segue cinquantadue giovani e la sua missione è quella di ottenere la loro fiducia, per poi cercare di iniziare con loro un percorso che li conduca ad avere fiducia anche della vita. 
Insegnare a distinguere il bene dal male: in un carcere non è una cosa semplice.
«È un lavoro lungo e complicato perché a tanti, soprattutto quelli che si sentono più forti e più furbi, è difficile far capire che un essere umano va rispettato in quanto essere umano e quindi non va raggirato, offeso, derubato. È più facile per chi ha fatto un reato grave come la violenza o l’omicidio. Il furto o il raggiro spesso non vengono nemmeno vissuti come peccato. In questo i 
ragazzi del Beccaria sono come tanti adulti che rubano, raggirano e sfruttano le persone, anche legalmente, facendo valere la legge del più scaltro o del più forte; sono come certi commendatori, politici, professionisti, amministratori...». 
E qual è la cosa più difficile per chi ha commesso omicidio e riconosce la colpa? 
«Fanno fatica a ritrovare l’equilibrio. Il mio compito è di renderli capaci di convivere con la loro colpa. In questo senso ricevere il perdono vero e sentito da parte dei familiari delle vittime o dei sopravvissuti è sempre di grande aiuto». 
È così grande il bisogno di essere perdonati?
«Molti di loro vogliono chiedere scusa, ma purtroppo nella maggior parte dei casi le loro scuse non vengono accettate, perché anche quello del perdono è un cammino difficile. E in questi ragazzi respinti la speranza di riparare resta irrisolta».
È quando il perdono arriva? 
«Ricordo un signore anziano la cui moglie era stata uccisa da 

Rapporto OXFAM
Un mondo per pochi
L’1 per cento della popolazione mondiale possiede quanto il restante 99 per cento. Lo dice in un rapporto l’Oxfam, alla vigilia della prossima riunione annuale del World Economic Forum di Davos.
Secondo i dati forniti dall’Oxfam, un gruppo di 62 super-ricchi detengono una percentuale di ricchezza pari a quella di metà della popolazione mondiale,  circa 3,6 miliardi di persone. L’organizzazione non governativa inglese, che si occupa di lotta alla povertà, descrive un mondo dove le crescenti diseguaglianze hanno effetti devastanti sulle persone meno abbienti.
La ricchezza, a partire dal 2010, si è ulteriormente concentrata. Sei anni fa i ricchi con un patrimonio pari alla metà della popolazione erano 388, contro i 62 attuali. Alla concentrazione di ricchezza ha fatto riscontro un’ulteriore accentuazione delle diseguaglianze. Sempre dal 2010, 3,6 miliardi di persone – la metà della popolazione mondiale – ha visto la propria quota di ricchezza ridursi di circa 1.000 miliardi di dollari: una contrazione del 41 per cento, nonostante l’incremento demografico abbia registrato 400 milioni di nuovi nati nello stesso periodo.
I 62 super-ricchi hanno invece registrato un incremento di oltre 500 miliardi di dollari, arrivando così ad un totale di 1.760 miliardi di dollari, in un contesto che continua a lasciare le donne in condizione di svantaggio: tra i 62 grandi ricchi, soltanto 9 sono donne.
Il rapporto rileva anche che 


«Chi ha guardato negli occhi la Bellezza
è consacrato a una funesta sorte:
ogni urgenza del vivere disprezza
e più angosciato sarà dalla morte
chi ha guardato negli occhi la Bellezza.
È una pena che dura per la vita,
quella d'amare,
ed è folle speranza d'esser più forti di quella ferita:
quando Bellezza in noi ha preso stanza
è una pena che dura per la vita.
Come una fonte vorrebbe languire
e suggere il veleno ad ogni brezza
e la morte dai fiori assorbire:
chi ha guardato nel volto la Bellezza
come una fonte vorrebbe languire».
August Von Platen

Sesso e gender senza pregiudizi 
di Gianfranco Ravasi 
Chi non ricorda le due caselle con M e F dei vecchi documenti pubblici del passato? Il governo australiano ora di caselle ne propone ben 23 e Facebook Usa invita a scegliere il proprio “genere” tra 56 opzioni differenti! Altro che il codificato Lgbt già allargato al Lgbtq, con l’apparizione anche del queer dal genere variabile e indefinibile. La questione del gender, come si usa ormai classificarlo, è divenuta una sorta di vessillo impugnato da fronti opposti, un vessillo piuttosto sbrindellato, dai colori “arcobaleno” (con tutte le semantiche metaforiche che si assegnano a questo delizioso fenomeno di rifrazione solare).
Il termine-nebulosa gender sboccia dalla tensione tra due concezioni antropologiche antitetiche. Da un lato, è insediato l’“essenzialismo” naturale, convinto della struttura duale di base dell’essere umano a livello biologico e psicologico: in sede teologica si basa sull’antropologia biblica secondo la quale l’“immagine” di Dio nell’umanità è nel suo essere «maschio e femmina» e, quindi, nella capacità generativa che continua l’opera del Creatore (Genesi 1,27). D’altro lato, si è presentato il “costruzionismo” socio-culturale, convinto che le differenze di genere siano frutto di un’elaborazione della comunità sociale e culturale, secondo il celebre motto femminista primordiale del Secondo sesso (1949) di Simone de Beauvoir: «Donna non si nasce, ma si diventa». In realtà su questa bipolarità essenzialista-costruttivista è passata una bufera che ha rimescolato le carte.
Infatti il “genere” essenziale maschile e femminile, superato dal gender costruzionista che si congedava dal sesso biologico per aprirsi a una configurazione molteplice, ha visto l’entrata in scena della “decostruzione” formulata da Derrida e trasferita anche nella sede specifica del “genere” e del gender, con lo scompiglio di cui è emblema appunto il queer con la sua “plasticità” incontrollabile (si legga, al riguardo, la programmatica Disfatta del genere, proposta dalla statunitense Judith Butler nel suo saggio tradotto da Meltemi nel 2006). Come è evidente, da un tema di base abbastanza netto ci si è allargati a una visione molto ramificata e dispersa.
In tal modo, invece di un “genere” univocamente fissato si è passati a un gender variabile in base alle scelte mutevoli della libertà individuale. Si è, così, assistito al passaggio dalla famiglia “bicolore” a quella “arcobaleno” con le relative denominazioni “genitore 1 o 2”; si è creata una dissociazione tra la genitorialità affettiva e l’effettiva generazione del bambino, introducendo poi quella che Connel, prima Robert maschio, divenuto poi Raewyn donna transessuale, ha definito come l’“arena riproduttiva” nelle sue Questioni di genere, tradotte dal Mulino nel 2011. La massa intricata delle questioni si è affacciata anche nell’areopago della politica, soprattutto con le quattro Conferenze mondiali delle donne, promosse dall’Onu tra il 1975 e il 1995, in particolare con la quarta tenutasi a Pechino, dagli effetti piuttosto dirompenti. Progressivamente si è fatta strada, oltre l’indiscutibile necessità del

Palestre di vita
di Massimo Gramellini
Come si deve comportare il dipendente di un ufficio pubblico che vede i propri colleghi timbrare ogni giorno il cartellino e poi sparire in palestra per irrobustire i muscoli renitenti alla scrivania? Il manuale dell’impiegato modello suggerisce di segnalare i ginnasti ai superiori. I quali provvederanno a punirli, mentre l’eroe godrà della riconoscenza imperitura degli altri impiegati, quelli costretti a sbrigare anche le pratiche dei pelandroni. Ma nella realtà questa ricostruzione si scontra con il noto emendamento Razzi: «Fatti li czz tua». Più che un emendamento, un comandamento. Chi non lo rispetta è perduto. Quando il signor Ciro Rinaldi, impiegato e sindacalista presso l’ispettorato emiliano del ministero dello Sviluppo Economico, ha denunciato i palestrati al suo capo, costui non solo non ha mosso un dito contro i reprobi, ma ha allungato la mano intera contro di lui, esibendosi in blocchi delle gratifiche e controdenunce intimidatorie. Oltretutto un sindacalista che non protegge i nullafacenti è un evidente attentato al luogo comune.  
Se si guarda il lato chiaro della Forza, questa storia ha un lieto fine perché Rinaldi ha denunciato gli assenteisti alla magistratura e la sentenza di primo grado li ha condannati a un anno e due mesi per truffa allo Stato. Il lato oscuro è che in ufficio Rinaldi viene scansato da tutti come un appestato, mentre i condannati per ora rimangono al loro posto. E quando vanno al cinema per riposarsi dalle fatiche della palestra, ridendo con Checco Zalone penseranno: «Che Paese marcio, l’Italia. Per fortuna noi siamo diversi».

Quello che Bertone non capisce
di Roberto Beretta
Dalle sue spiegazioni non si può evitare di concludere che gli manca un po' di chiarezza su ciò che si aspettano generalmente i fedeli quando offrono del denaro a un uomo di Chiesa
Povero cardinal Bertone! Fa persino un po' di pietà, a vederlo così incapace di comprendere la portata di tutto ciò che in questi mesi appare a suo riguardo sui giornali: l'appartamento gigantesco, la ristrutturazione pagata «a sua insaputa» dall'ospedale del Bambin Gesù, le offerte sollecitate (e ricevute) da manager che hanno fatto fallire Banca Etruria, e così via...
Eppure era Segretario di Stato, mica uno qualunque: dovrebbe saper riconoscere gli intrallazzi intorno alle persone di potere. Invece no: per difendersi dalle accuse sèguita ad accampare piccole giustificazioni, probabilmente veritiere e che - prese una per una - potrebbero persino spiegare parzialmente le circostanze che l'hanno indotto in clamorosi errori di valutazione, ma che di sicuro come cardinale gli lasciano incollata addosso la taccia di vivere ancora immerso in una concezione di Chiesa assurdamente signorile e ben poco edificante.
È incredibile, ad esempio, che un uomo con oltre 50 anni di cristianesimo professato ai massimi livelli pubblici non si renda conto di come la promessa di restituire i 150.000 euro (quelli versati dagli amici del Bambin Gesù per il «famoso» appartamento), anziché meritoria, suoni come ennesimo autogol; e non perché potrebbe essere ritenuta un'ammissione di colpa - così sostengono i due giornalisti che hanno scoperchiato il caso ­-, e nemmeno volendo raccogliere la sottile ironia di chi sottolinea lo «sconto» di 50.000 euro auto-praticato dal presule sul prezzo realmente pagato in sua vece. No: facendo la sua «donazione» ­ - come la chiama ­- Bertone non si rende neanche conto che nel mondo reale sono ben pochi coloro che possono permettersi di spendere per un appartamento prima 300.000 e ora 150.000 euro (sia pure «a rate») di «risparmi di una vita»!
Il cardinale crede dunque di mettere una pezza all'errore (o al mediatico clamore) e invece «xe pèzo el tacòn del buso», come dicono i veneti. Allorché Bertone afferma che il suo alloggio non è lussuoso perché «altri emeriti vivono in appartamenti più grandi», si deve per forza credere alla sua ingenuità: non è infatti possibile che non abbia pensato - e anche con una certa vergogna - che qualcun altro, e persino più in alto di lui, ha comunque compiuto una scelta ben diversa... E quando ricorda che la devoluzione è fatta «con i miei soldi» nonché grazie «ai vari contributi di beneficenza ricevuti negli anni per finalità caritative» (così dai giornali), non si può evitare di concludere che gli manca un po' di chiarezza su ciò che si aspettano generalmente i fedeli quando offrono del denaro a un uomo di Chiesa.
Povero Bertone! In un'intervista di giorni fa, il cardinale riportava la lettera in cui il Bambin Gesù gli attesta che della sua donazione «saranno informati i mezzi di stampa»; e lui la cita così, senza nemmeno pensare che il tutto potrebbe dunque sembrare un'operazione di riabilitazione mediatica imbastita "a pagamento", anziché autentica beneficenza... Lo ribadisco: uno che fu Segretario di Stato e si comporta in tal modo, o ha fatto il doppio gioco tutta la vita, o ha perso la testa per la bufera mediatica in cui si trova, oppure è un ingenuo assoluto. Io tifo sinceramente per l'ultima ipotesi.
I riti delle feste: la molla invisibile che trascina le nostre vite 
di Carlo Rovelli 
Le feste sono passate. Anche quest’anno è passata l’ondata di emozioni, pranzi, dolci, parenti, piccoli viaggi, regali e quant’altro che accompagna il periodo natalizio. Mi stupisce sempre quante cose riesca a smuovere questo periodo. Anche chi cerca di resistere, finisce per esserne trascinato. Non si può non andare a trovare un parente caro. Non si può, alla fine, non fare un regalo. Non si può non imbandire almeno un poco la tavola, preparare almeno un alberello, un piccolo presepe, una lucetta colorata, o almeno una candela. Non segnare questo tempo dell’anno con un gesto. Da dove viene questa immensa forza delle feste su tutti noi?
Per i cristiani il Natale è la celebrazione della nascita del Salvatore. La celebrazione dell’arrivo di Chi ci ha salvato. È una celebrazione che non può non smuovere nel profondo: l’arrivo dell’invisibile nel mondo. Il presepe ricrea questo momento magico assoluto, immerso in una luce di pura emozione. Ma la festa di fine dicembre è assai più antica e profonda del Cristianesimo: il Cristianesimo l’ha fatta propria, vi ha innestato la propria mitologia e la propria teologia, ma è salito su qualcosa di profondamente umano, che lo precedeva. Nella Roma antica già si accendevano le candele e ci si scambiava regali all’avvicinarsi della fine di dicembre, ben prima della nascita di Gesù. Tribù del Nord celebravano il solstizio d’inverno ben prima che arrivasse loro il messaggio cristiano. La forza che ci spinge a questi gesti è più antica del Cristianesimo.
Che forza è? Un grande libro, pubblicato alcuni anni or sono e scritto da uno dei maggiori antropologi del secolo scorso, Roy Rappaport, è interamente dedicato all’origine antica dei riti. Rappaport ha passato la vita a studiare i riti, a cercare di rintracciarne la storia e il senso. I riti, se ci pensate, sono qualcosa che sembra strano e poco comprensibile agli occhi di una modernità ingenua. Un rito è un gesto, un’azione, una parola, che vengono ripetuti eguali, più o meno regolarmente, e che hanno un’intensa portata emotiva per chi li compie, anche se spesso non sembrano avere utilità diretta, o almeno non un’utilità capace di giustificare la straordinaria forza con cui permangono. Perché da millenni ci scambiamo un regalo alla fine di dicembre? Sono crollati imperi, sono stati trucidati interi popoli, abbiamo cambiato religione più volte, siamo stati ricchi e poveri, dominati e dominatori, abbiamo creduto nelle streghe e siamo arrivati sulla luna, e con assoluta regolarità ad ogni fine dicembre ci siamo scambiati un piccolo regalo, abbiamo acceso una candela o una piccola luce. Non è straordinario?
Secondo Rappaport, la nascita dei riti risale alla formazione stessa dell’umanità: al periodo dell’apparizione del linguaggio articolato che caratterizza oggi così marcatamente la nostra specie. I riti secondo Rappaport giocano addirittura una funzione chiave nella costruzione stessa del nostro essere umani, e in particolare del nostro essere sociali. Comportamenti rituali, cioè elaborati gesti complessi ripetuti e senza apparente fine diretto sono 

Con gioia pubblicizzo questi quattro incontri con un teologo di qualità, don Aristide Fumagalli!
Se potete, non perdeteli e passateparola!

... è subito arrivato il "bravo" prete cattolico
che difende la "sana" dottrina!


Che meraviglia questo video: chiaro, diretto e teologicamente impeccabile.
Nessun papa si era mai spinto a dichiarare così chiaramente le cose!
Adesso si attira le ire degli integralisti di tutte le fedi.
Ma io qui continuo a trovare il vero gusto del vangelo!
don Chisciotte Mc


«Ogni giorno c'era una nuova parte di lei che mi si mostrava. Era come se non l'avessi mai conosciuta del tutto. Come le pareti di roccia di una montagna che lentamente si mostrano al virare del sole durante il giorno, ma se cominci a scalarla, scoprirai che nulla era come appariva dal basso, che fosse giorno o notte piena.
Non c'era mattino che non aprissi gli occhi e, vedendola al mio fianco, non la trovassi un po' più bella di come l'avevo lasciata la sera. Ed ero consapevole che sarebbe stata un po' meno bella del mattino successivo. Man mano che la conoscevo mi appariva più luminosa, più armoniosa, più maestosa e calda di come l'avevo lasciata qualche attimo prima. Ogni sera, quando tornava a casa, la guardavo come la vedessi per la prima volta e mi stupivo. Sempre. 
Ad ogni bacio la mia anima prendeva il volo come se fosse il secondo dei nostri primi baci e ad ogni sguardo mi rammaricavo di non averle detto abbastanza volte quanto fosse bella. 
Non c'era istante che non mi scivolasse tra i pensieri come il migliore di tutti i pensieri e non mi scaldasse il cuore come brace sempre viva. Di un calore ogni volta più dolce e più corposo. E me ne stupivo.
Vi era in lei una scrittura strana, come di chi non volesse farsi leggere, ma al contempo desiderasse profondamente essere letta fino nel più profondo degli angoli. E ad ogni nuova pagina, restavo a bocca aperta, perché chiunque l'avesse scritta, non solo aveva tra le dita l'arte di tutte le arti, ma anche nel cuore ogni sentimento e sulle labbra tutte le parole che io non avrei mai sperato di sapere».
(dalla rete)

Mentre ringrazio tutti i pellegrini
(in particolare coloro che hanno fornito le foto da pubblicare),
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Una esperienza di condivisione di vita
fra popoli e religioni diverse:
http://wasns.org/-oasi-di-pace-