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Perché il "quotidiano dei vescovi" non riesce a prendere una posizione precisa riguardo certe questioni rilevanti, come quelle in gioco in questi giorni? Titoli e articoletti campioni di equilibrismo. O forse maestri di pilatescherìa? Dove vanno a finire la difesa della vita, l'amore per la giustizia, la parresìa evangelica, la difesa dei deboli, la voce grossa a favore della verità?!
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di Enzo Bianchi
Si farebbe volentieri a meno di ritornare sulle tematiche legate all'accoglienza e agli stranieri se le cronache quotidiane non ci fornissero un continuo stillicidio di tensioni e paure, reazioni abnormi, generalizzazioni di giudizi, proposte di regolamenti escludenti. E a un esame serio e sereno dei problemi e delle opportunità legate all'ospitalità non giova neanche la perdita di memoria storica che un popolo di emigranti come il nostro pare conoscere giorno dopo giorno. In questo senso il contributo dei credenti potrebbe essere più incisivo e stimolante se tornasse a quelle radici ebraico-cristiane che tanto hanno dato e ancora oggi offrono alla cultura e alla società occidentale ed europea in particolare. Ora, chi cercasse di cogliere il messaggio presente nella Bibbia sull'accoglienza dell'altro e sui rapporti da tessere con lui incontrerebbe un dato a prima vista sorprendente: l'altro, lo straniero, per l'Antico Testamento è innanzitutto Israele stesso, il popolo di Dio. Israele è contrassegnato da una stranierità ontologica, che è parte essenziale del suo essere: «Mio padre era un arameo errante», uno straniero, confessa l'ebreo che al tempio si presenta davanti a Dio. Abramo, il grande padre, si è definito lui stesso «straniero e di passaggio»; e quando viene raccontato l'esodo, cioè l'evento da cui nasce Israele, si ha il coraggio di dire che dall'Egitto uscirono i figli di Israele insieme con «una grande massa di gente promiscua» (Es 12,38). Del resto, lo stesso appellativo di 'ibri, «ebreo», che i popoli confinanti davano a Israele e che Israele ha riconosciuto come suo, significa «abitante al di là della frontiera», cioè straniero, barbaro. Ma questa condizione di straniero è sperimentata da Israele soprattutto in Egitto, dove vive una lunga esperienza di schiavitù nei confronti del faraone. Qui Israele si sente non ospitato ma oppresso e angariato; è in tale condizione che si sente chiamato alla libertà, che fa esperienza di essere accolto dal Dio dei Padri, il Dio che sarà confessato come colui che non fa eccezione di persone, che fa giustizia all'orfano e alla vedova, che ama lo straniero, al quale provvede pane e vestito. Dio guarda allo straniero, all'immigrato, all'altro, e per questo guarda a Israele che di fronte a lui non può vantare nessun merito ma solo riconoscere la gratuità dell'amore proveniente da Dio stesso. Così Israele sperimenta di essere accolto, ospitato da Dio, e così diventa il suo popolo, ma non dimenticherà la sua condizione di stranierità, di alterità, di differenza. Anzi, proprio su questa esperienza, su questa condizione vissuta dai padri in Egitto si fonderà l'etica di Israele verso lo straniero, e grazie a essa si giustificherà la sacralità dell'accoglienza dovuta agli stranieri e ai rifugiati. Quante volte infatti risuonano come motivazione dell'accoglienza o perfino dell'amore verso lo straniero le parole: «
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Nel corso della sua visita in Brasile, a San Paolo, Silvio Berlusconi ha incontrato gli imprenditori italiani e brasiliani. E non ha perso l'occasione per fare una delle sue consuete battute. Ha detto di soffrire di mancanza di memoria, e ha raccontato: "Stamani in albergo volevo farmi una ciulatina con una cameriera. Ma la ragazza mi ha detto: 'presidente, ma se lo abbiamo fatto un'ora fa'...'". Risate in sala e postilla del Cavaliere: "diffidate di chi non sa ridere, diffidate..."
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Sarebbe ingiusto se si diffondesse l'idea che dalla bocca dei preti e dei vescovi non esca più la verità, ma è vero che anche le ultime vicende (dopo le penultime e le terz'ultime...) hanno messo in luce imprecisioni, coperture, pressapochismo, alchimìe da parte di preti e vescovi. Non stiamo facendo una bella figura di trasparenza, coerenza, affidabilità. E credo che stiamo perseverando nell'arte stolta di tirarci la zappa sui piedi. Apprezzabile la finezza della Jena, che cita la parola di Gesù: "Non giurate affatto" (Mt 5,34).
don Chisciotte
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Con le vacanze torna d'attualità il tema dell'abbigliamento poco formale e spesso succinto nei luoghi di culto.
Ne abbiamo parlato con Marinella Calzona, esperta di Scienze dell'Educazione e teologa. «Non serve strapparsi le vesti, ma occorre offrire elementi utili ai fedeli per recuperare la sacralità degli spazi»
di Annamaria Braccini
Infradito sì, infradito no. Anche se finalmente è arrivata l'estate, forse, bisognerebbe capire che non tutti i luoghi, specialmente a Milano, sono in riva al mare. E non è necessario stupirsi se a scuola, il professore, e ancora di più, in chiesa, il parroco, impongono qualche regola. Non si tratta di oscurantismo, ma prima di tutto di rispetto e di buon senso. (...) «Il tema dell'abbigliamento poco formale e spesso succinto in luogo sacro tocca tutti. La moda o il modo di vestirsi, in bene e in male, è specchio dei tempi. Non a caso il sociologo Zygmunt Baumann ha definito il nostro tempo “Modernità liquida”, proprio per indicare che non esistono punti di riferimento, sicurezze, mentre prende sempre più piede una vita, appunto, “liquida”, costretta ad adeguarsi alle attitudini del gruppo, specie a quelle relative al consumo, per non sentirsi esclusa. Evidente, in un tale contesto, il rischio che corrono i giovani, sempre più fragili e immersi in un modello culturale senza “paletti” che aiutino a definire ciò che è bene e ciò che è male. D'altra parte, l'abbigliamento, per i ragazzi, è un segno di appartenenza e omologarsi agli standards dei coetanei regala loro quella sicurezza che non hanno per immaturità. Il problema di oggi è la mancanza di coscienza di sé e del proprio corpo. Da un lato, il corpo non ha valore, lo “svendo” mettendolo in mostra; dall'altro, dico tutto di me con il corpo e attraverso il corpo, perché il mio valore sta lì per intero. Lo si cura in modo eccessivo, lo si usa per raccontarsi, questo è il significato, ad esempio, dei tatuaggi. Un altro fattore che si deve tenere presente è l'aspetto commerciale: i giovani sono un mercato molto appetibile per il mondo della moda: su questo settore del consumo si fanno investimenti anche ingenti, si privilegia il desiderio tipico dell'età di cambiare spesso capi ed è, quindi, del tutto chiaro che più si diffonde l'omologazione, più si vende. Ora è trendy questo, domani già tutt'altro. Non dimentichiamo, poi, che sull'abbigliamento giovanile nel quotidiano ha un'influenza determinante la televisione, in mancanza di altri modelli. Gli eroi dei nostri tempi, purtroppo, sono le veline, i protagonisti di certi show, gli sportivi, le celebrity. Naturalmente per queste persone è di somma importanza “apparire” ed apparire comunque, quindi anche accettando di rompere regole».
Insomma, si vorrebbe entrare in chiesa vestiti come si va sull'Isola dei famosi? «Sì. Mancando i princìpi, sfugge l'idea che sia necessario adeguare l'abbigliamento al luogo, alle circostanze e all'identità personale: ossia a “chi sono”, a “come sono fatto”, all'età e al ruolo. Relativamente al vestiario con cui entrare in chiesa, il problema - ma anche la via di soluzione - sta a monte e significa recuperare il senso della sacralità degli spazi. La questione vera ha molto a che vedere con la formazione e la catechesi di giovani ed adulti: occorre tornare a percepire che un luogo è sacro perché è luogo della presenza di Dio in mezzo agli uomini, comprendendo, ancor più in profondità, “chi sia Dio”».
Qualche soluzione da suggerire, a genitori in difficoltà e a sacerdoti preoccupati? «Una volta recuperato questo senso compiuto del sacro sarà più facile che l'abbigliamento sia più adeguato. Nel frattempo è necessario che la catechesi, voglio dire anche la predica domenicale, ci indichi con esattezza ciò che è adatto al luogo di culto e ciò che non lo è. Non serve strapparsi le vesti come se si volesse imporre il burqua, occorre semmai, offrire elementi utili, come i dress code che stanno adottando tante aziende per salvaguardare la loro immagine. È interessante che, ultimamente, anche in tante scuole si stiano dettando alcune regole proprio in vista dell'estate».
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di Giovanni Nicolini, prete della diocesi di Bologna
Su Jesus di settembre mi ha impressionato il titolo di un breve articolo di Iacopo Scaramuzzi: «Riforma sanitaria: i vescovi cattolici critici verso il presidente Obama». Poi, il contenuto dell'articolo è più complesso di quanto non facesse immaginare il titolo. Ma il problema non sta tanto nelle ragioni o non ragioni dei vescovi nei confronti di un progetto legislativo. Il vero problema è ormai quello di un certo sentimento di saturazione nei confronti di questi interventi. E non perché i vescovi non debbano esprimere il loro pensiero su ogni questione, ma perché è difficile affermare che questo sia il loro compito privilegiato, e la missione dell'intera comunità cristiana. Invece, stando in mezzo al Popolo del Signore, l'impressione è che spesso ci sia più preoccupazione di vigilanza nei confronti dei pubblici poteri, che attenzione ai cristiani e alla loro testimonianza evangelica. Certo, è un dolore dover constatare che tante volte le leggi non sostengono la vita dell'uomo, ma la umiliano e la deprimono. Tuttavia mi sembra si debba ricordare che il compito primario di tutti noi, dai vescovi al più piccolo dei discepoli del Signore, è l'annuncio della Buona Notizia di Gesù. È un "tesoro nel campo" oggi molto raro l'annuncio di tutte le cose belle che Gesù fa e insegna in mezzo alla nostra storia. Non è difficile fare esempi di ciò. (...) Noi cristiani perdiamo tempo, e soprattutto sbagliamo, se ci limitiamo al tentativo di fermare leggi sbagliate. A noi è affidato il compito primario di testimoniare e annunciare quanto sia bella la vita rivisitata da Gesù di Nazaret. Quale meraviglia possa e debba essere la nascita di un uomo. Come anche la nascita di una persona "minore", meno "uguale" agli altri, possa essere principio di tanto bene... E così per ogni realtà e per ogni vicenda. Questa è l'ora in cui dire come è bello spezzare un unico Pane perché tutti possano nutrirsi. Come è importante che il Signore abbia scelto i poveri per confondere i ricchi. Come è bello comporre nella pace ogni conflitto. Speriamo dunque in questo "tesoro nel campo": superare la prigionia di tanti "no", e intonare a voce alta e a gioia piena il Vangelo di Gesù.
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A trent'anni dal disastro, il presidente invia un messaggio di cordoglio ai parenti delle vittime e smentisce il sottosegretario Giovanardi, che ieri aveva detto he ad abbattere l'aereo fu una bomba e non un missile
"Nella ricorrenza del trentesimo anniversario del disastro di Ustica, rivolgo il mio pensiero commosso a lei, presidente, e a tutti i famigliari di coloro che hanno perso la vita in quella tragica notte - scrive il Capo dello Sato - Il dolore ancora vivo per le vittime si unisce all'amara constatazione che le indagini svolte e i processi sin qui celebrati non hanno consentito di fare luce sulla dinamica del drammatico evento e di individuarne i responsabili".
"La tenace dedizione e l'anelito di verità e giustizia con i quali l'Associazione da lei presieduta perpetua il ricordo di quel 27 giugno 1980 trovano la nostra piena comprensione - continua Napolitano -. Occorre il contributo di tutte le Istituzioni a un ulteriore sforzo per pervenire a una ricostruzione esauriente e veritiera di quanto accaduto, che rimuova le ambiguità e dipani le ombre e i dubbi accumulati in questi anni. Nel sempre doloroso ricordo delle 81 vittime, esprimo a lei e ai famigliari dei caduti la partecipe vicinanza mia e della intera Nazione".
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Un libro di Luisito Bianchi
di Linda Di Ianni
“È un'avventura, certo, la gratuità del ministero, un rischio, un navigare a vista in mare aperto, ma sono convinto che, per un prete, non vi sia gioia più completante la sua umanità che il trasmettere gratuitamente quanto gratuitamente si è ricevuto, un passare da bocca a bocca, da mano a mano, da generazione a generazione, la buona notizia del gratuito”. Può essere questa la chiave con cui leggere il romanzo Quando si pensa con i piedi e un cane ti taglia la strada in cui “l'uomo-prete” Luisito Bianchi ripercorre la storia della sua vita e in particolare il senso profondo del suo essere prete. L'esplicito riferimento che sostiene tutto il romanzo è Matteo 10,8: “Avete ricevuto gratuitamente, gratuitamente date”. E “doreàn”, avverbio greco che si può tradurre in “gratuitamente”, è infatti il nome che l'autore sceglie di dare ad un cane abbandonato che, comparso improvvisamente, per un certo periodo l'accompagna nelle sue camminate. Esercitare il ministero gratuitamente non è per Luisito Bianchi una scelta come un'altra, magari scaturita da un particolare carisma, ma è frutto di una posizione profondamente evangelica e che si radica nell'essenza stessa dell'essere prete: potersi guadagnare da vivere per esercitare gratuitamente il servizio sacerdotale. Da qui scaturisce la scelta di vivere del lavoro delle proprie mani e l'ingresso in una fabbrica, avvenuto il 5 febbraio 1968, scelta che richiama quanto fece Paolo di Tarso che “lavorò sempre per non porre ostacoli alla credibilità dell'evangelo con qualche interesse”. Si comprendono così appieno la delusione di Luisito Bianchi quando, il 25 gennaio 1987, venne istituito l'Istituto per il Sostentamento per il Clero, l'ente attraverso il quale la Chiesa cattolica gestisce i fondi dell'8 per mille. Da allora il ministero del prete, scrive, fu equiparato a quello di un funzionario, sebbene “del sacro”, con tanto di busta paga. “Quel giorno persi ogni ragione di vivere perché la mia Chiesa, il punto costante di riferimento nelle mie scelte allo scopo che fossero non mie ma testimonianza di Chiesa, aveva dichiarato, contro ogni evidenza, ch'io ero andato alla ricerca di qualcosa di inesistente, che la tradizione non esisteva su questo punto, che la parola di gratuità, se mai ce ne fosse stata una, aveva un significato di negazione di se stessa, come io da trent'anni la interpretavo”. Da allora Luisito Bianchi non ha perso occasione per parlare e scrivere della gratuità dell'annuncio evangelico e del suo tradimento, ma “di fronte alla mia Chiesa mi sento solo
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di Michele Serra
Piccola riflessione in margine all'eliminazione degli azzurri. La gestione della mediocrità non è tra le cose che agli italiani riescono meglio, ma poiché
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Una domanda sorge spontanea: cosa capita a chi si assume le responsabilità? Il ct, i giocatori, i dirigenti della FIGC... cosa "perdono" (oltre alla partita, alla dignità... e a qualche milioncino da sponsor e indotto)? Viene decurtato lo stipendio? Mollano i benefit? Restituiscono gli introiti della pubblicità non più accattivante? Dedicano almeno 90 minuti ad opere di volontariato? Rimborsano i biglietti aerei di chi è andato fin là? Finalmente lasciano libero il cadreghino e spariscono dagli schermi? Temo proprio che non sarà così... Allora la cosidetta "responsabilità" me la prendo anch'io: tanto non mi cambia nulla!don Chisciotte
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scritta in carcere alla figlia Margaret Roper
Mia cara Margherita, io so che, per la mia cattiveria, meriterei di esser abbandonato da Dio, tuttavia non posso che confidare nella sua misericordiosa bontà, poiché la sua grazia mi ha fortificato sino ad ora e ha dato tanta serenità e gioia al mio cuore da rendermi del tutto disposto a perdere i beni, la patria e persino la vita, piuttosto che giurare contro la mia coscienza. Egli ha reso il re favorevole verso di me, tanto che finora si é limitato a togliermi solo la libertà. Dirò di più. La grazia di Dio mi ha fatto così gran bene e dato tale forza spirituale da farmi considerare la carcerazione come il principale dei benefici elargitimi.
Non posso, perciò, dubitare della grazia di Dio. Se egli vorrà, potrà mantenere benevolo il re nei miei riguardi, al fine che non mi faccia alcun male. (...) La sua grazia mi darà certo la forza di accettare tutto pazientemente, e forse anche gioiosamente. La sua infinita bontà, per i meriti della sua amarissima passione, farà sì che le mie sofferenze servano a liberarmi dalle pene del purgatorio e anzi ad ottenermi la ricompensa desiderata in cielo.
Dubitare di lui, mia piccola Margherita, io non posso e non voglio, sebbene mi senta tanto debole. E quan'anche io dovessi sentire paura al punto da essere sopraffatto, allora mi ricorderei di san Pietro, che per la sua poca fede cominciò ad affondare nel lago al primo colpo di vento, e farei come fece lui, invocherei cioé Cristo e lo pregherei di aiutarmi. Senza dubbio allora egli mi porgerebbe la sua santa mano per impedirmi di annegare nel mare tempestoso. Se poi egli dovesse permettere che imiti ancora in peggio san Pietro, nel cedere, giurare e spergiurare (me ne scampi e liberi nostro Signore nella sua amorosissima passione, e piuttosto mi faccia perdere, che vincere a prezzo di tanta bassezza), anche in questo caso non cesserei di confidare nella sua bontà, sicuro che egli porrebbe su di me il suo pietosissimo occhio, come fece con san Pietro, e mi aiuterebbe a rialzarmi e confessare nuovamente la verità, che sento nella mia conoscenza. Mi farebbe sentire qui in terra la vergogna e il dolore per il mio peccato.
Ad ogni modo, mia Margherita, io so bene che senza mia colpa egli non permetterà mai che io perisca. Per questo io mi rimetto interamente in lui pieno della più forte fiducia. Ma facendo anche l'ipotesi della mia perdizione per i miei peccati, anche allora io servirei a lode della giustizia divina. Ho però ferma fiducia, Margherita, e nutro certa speranza che la tenerissima pietà di Dio salverà la mia povera anima e mi concederà di lodare la sua misericordia. Perciò, mia buona figlia, non turbare mai il tuo cuore per alcunché mi possa accadere in questo mondo. (...) Io sono sicuro che qualunque cosa avvenga, per quanto cattiva appaia, sarà in realtà sempre per il meglio.
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di Giacomo Galeazzi
Nelle dichiarazioni dei redditi 2007 (relative ai redditi del 2006) sono calate per il secondo anno consecutivo le firme dell'8 per 1000 destinate alla Chiesa cattolica, tanto che la Cei registra con ''preoccpazione'' questa tendenza. Da un documento diffuso nel corso dell'Assemblea Generale dei vescovi italiani, che si e' conclusa il 28 maggio scorso a Roma (...) risulta che nel 2007 le firme a favore della Chiesa cattolica sono state l'85,01% del totale, contro l'86,05% del 2006 e l'89,82% del 2005. ''Dobbiamo registrare con preoccupazione, per il secondo anno consecutivo, un calo percentuale delle firme dei contribuenti a favore della Chiesa cattolica'', si legge nella relazione presentata dal Segretario generale Cei, mons. Mariano Crociata, ai vescovi. ''Alla Chiesa cattolica - prosegue il presule - sono andate 14.839.143 adesioni, 95.104 in meno rispeto all'anno precedente: le scelte favorevoli alla Chiesa cattolica sono purtroppo diminuite sia in termini percentuali, sia in valore assoluto''. Malgrado questo calo, la somma che lo Stato ha assegnato alla Chiesa cattolica in base al meccanismo dell'8 per 1000 - somme relative appunto alle dichiarazioni dei redditi del 2007 - e' cresciuta rispetto all'anno precedente, a causa della crescita generale del gettito fiscale in quegli anni: la Chiesa ha percepito nel 2010 1.067 milioni di euro, contro i 967 del 2009, con un aumento netto di quasi cento milioni. Anche questo dato, pero', non e' del tutto rassicurante per la Cei: a causa del ''meccanismo di posticipazione a tre anni del calcolo del gettito - spiega mons. Crociata - solo a partire dal 2013 sperimenteremo le conseguenze dell'attuale crisi economica sul gettito complessivo dell'IRE e quindi anche sulle somme dell'8 per 1000''. E' questo il motivo per cui la Cei ha deciso di destinare 30 milioni di euro dei fondi di quest'anno alla ricostituzione del ''fondo di riserva'', svuotato l'anno scorso per far fronte ad un calo del gettito. Infatti, spiega mons. Crociata, un ''indirizzo fondamentale per la pianificazione e una prudente gestione delle risorse'' dovra' essere ''gia' a partire dal presente esercizio la ricostituzione del fondo di riserva'', che e' ''un obiettivo primario nel triennio 2010-2012''. In controtendenza con i dati preoccupanti che arrivano dall'8 per 1000, mons. Crociata sottolinea come sia ''particolarmente positiva'' la ''gestione finanziaria'' effettuata dalla Cei nell'anno passato, facendo registrare la ''migliore performance dagli ultimi sette anni''. Una gestione, spiega, ''caratterizzata da una coerente e attenta strategia di investimento'' che ''ha saputo monetizzare il forte rimbalzo dei corsi finanziari sopravvenuto alla grande crisi dei mercati del 2008, pur in presenza di un quadro macroeconomico di grande incertezza. Potremo quindi disporre di ulteriori risorse da destinare anche a sostegno della carita' del papa e per i Paesi dell'Est europeo''. Calano anche nettamente (-9,9%) le offerte deducibili - volontarie - per il sostentamento del clero. La somma raccolta nel 2009 e' stata di 14,9 milioni di euro, contro i 16,5 del 2008. ''Come ormai da diversi anni, con l'eccezione del 2007 - nota mons. Crociata - anche questa volta ci troviamo di fronte a una riduzione di tale fonte di finanziamento, che impone un'approfondita riflessione sulle cause del fenomeno e sulle possibili strategie alternative di promozione e raccolta futura''. Il segretario della Cei annuncia che ''una proposta di rilancio'' delle offerte volontarie, verra' presentata in autunno dai vertici dei vescovi italiani. ''Siamo comunque consapevoli - aggiunge mons. Crociata - che la cifra raccolta resta cospicua, se paragonata ad altre analoghe raccolte a livello nazionale. Essa e' tuttavia molto lontana dalle attese e soprattutto dall'incidere in modo significativo sulla copertura del fabbisogno del sostentamento del clero. Tale forma di contribuzione al sostentamento del clero non puo' in ogni caso essere abbandonata, rispecchiando una partecipazione alla vita della Chiesa altamente significativa nelle motivazioni e nelle modalita'''. A testimoniare la preoccupazione della dirigenza Cei per gli effetti che la crisi economica potra' avere sui conti dell'organismo dei vescovi, mons. Crociata osserva nella sua relazione: ''Pur in presenza di un forte incremento delle somme ricevute dallo Stato, dobbiamo prepararci sin da ora ad affrontare gli anni nei quali sperimenteremo gli effetti dell'attuale crisi economica sul gettito complessivo dell'IRE (ex IRPEF) e, di conseguenza, sui flussi dell'8 per 1000''. Di qui, la necessita' di ricreare il fondo di riserva con 30 milioni di euro. Tra le voci della ripartizione dei fondi, crescono di 2,8 milioni di euro, le spese di gestioni della Cei, che ammontano in totale a 17,5 milioni di euro. La relazione ricorda pero' che ''l'assegnazione annuale era rimasta invariata dal 2002 al 2008 e che nel 2009 era stata incrementata di soli euro 700.000''. Nel complesso, ricorda mons. Crociata, ''il totale delle risorse distribuite nel 2010 sara' comunque superiore di 33,5 milioni (+3,2%) alle somme del 2009 e di 19,5 milioni a quella distribuite nel 2008''. ''Anche per questo - aggiunge - dobbiamo mantenere alta l'attenzione affinche' tutte le risorse vengano destinate e utilizzate al meglio ottimizzando i processi organizzativi preposti all'erogazione e garantendo la correttezza delle destinazioni e la massima trasparenza nella gestione delle risorse stesse''.
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Guai a voi, dice il Signore,
guide cieche che all'esterno apparite giusti,
ma dentro siete pieni di iniquità.
Alleluia
versetto alleluiatico,
lunedì della settimana della IV Domenica dopo Pentecoste
rito ambrosiano
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Il Pontefice mette in guardia i preti dal carrierismo ecclesiastico
di Giacomo Galeazzi
Una dura requisitoria contro quegli ecclesiastici che usano il sacerdozio per acquisire potere e prestigio personale, per soddisfare le "proprio ambizioni" e raggiungere un proprio successo è stata fatta oggi da Benedetto XVI durante la messa a San Pietro per l'ordinazione di 14 nuovi preti della diocesi di Roma. Sullo sfondo delle parole del Papa inevitabile non pensare anche alla vicende giudiziarie che stanno investendo la passata gestione della Congregazione vaticana per l'Evangelizzazione dei popoli, ex Propaganda Fide, e i sospetti di un uso politico e improprio di beni della Chiesa.
"Il sacerdozio - ha ammonito Ratzinger con voce grave - non può mai rappresentare un modo per raggiungere la sicurezza nella vita o per conquistarsi una posizione sociale". "Chi aspira al sacerdozio per un accrescimento del proprio prestigio personale e del proprio potere ha frainteso alla radice il senso di questo ministero", ha aggiunto. "Chi vuole soprattutto realizzare una propria ambizione, raggiungere un proprio successo sarà sempre schiavo di sé stesso e dell'opinione pubblica", ha scandito. "Per essere considerato - ha sottolineato - dovrà adulare; dovrà dire quello che piace alla gente; dovrà adattarsi al mutare delle mode e delle opinioni e, così, si priverà del rapporto vitale con la verità, riducendosi a condannare domani quel che avrà lodato oggi. Un uomo che imposti così la sua vita, un sacerdote che veda in questi termini il proprio ministero, non ama veramente Dio e gli altri, ma solo se stesso e, paradossalmente, finisce per perdere se stesso", ha profetizzato il Pontefice.
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di Massimo Gramellini
Fra coloro che ieri davanti alla tv imputavano a Marcello Lippi di aver assemblato la sua mestissima Nazionale privilegiando i sudditi ai condottieri c'erano molti italiani che nella vita di tutti i giorni purtroppo si comportano allo stesso modo.
Dirigenti d'azienda, titolari di negozi e responsabili di «risorse umane» che sul lavoro privilegiano la fedeltà al talento, l'affidabilità all'estro e il passo del pedone alla mossa del cavallo. Intervistati, risponderebbero anche loro come Lippi: «Non abbiamo lasciato a casa nessun fenomeno». Ma è una bugia autoassolutoria che accomuna quasi tutti coloro che in Italia gestiscono uno spicchio di potere e lo usano per segare qualsiasi albero possa fargli ombra: è così rassicurante passeggiare splendidi e solitari in mezzo ai cespugli, lodandone l'ordine perfetto e la silente graziosità.
L'abbattimento di ogni personalità dissonante viene chiamato «spirito di squadra». Ma è zerbinocrazia. Tutti proni al servizio del capo, è così che si vince. Eppure la storia insegna che il capo viene tradito dai mediocri, mai dai talenti. I quali sono più difficili da gestire, ma se motivati nel modo giusto, metteranno a disposizione del leader la propria energia. La Nazionale di Lippi assomiglia alla Nazione non perché è vecchia, ma perché privilegia, appunto, i mediocri. Averli avuti ieri in panchina, certi vecchi! Contro i goffi neozelandesi sarebbe servito più un quarto d'ora di Totti o di Del Piero che una vita intera di Iaquinta, Pepe e Di Natale, tre bravi figli che, con tutto il rispetto, se hanno giocato anni e anni nell'Udinese, una ragione ci dovrà pur essere. I pochi campioni veri, da Buffon a Pirlo, sono zoppi. Oppure vecchie glorie che si rifiutano di andare in pensione, come l'imbarazzante Cannavaro che ha più o meno l'età di Altafini e forse avrebbe fatto meglio a presentarsi in Sudafrica anche lui nelle vesti di commentatore.
C'è, naturalmente, anche la questione dei giovani. La follia antistorica di questa Nazionale e di questa Nazione non consiste tanto nel continuare a lasciar fuori i Cassano, ma i Balotelli. Non i talenti troppo a lungo incompresi o compresi solo a metà, ma quelli ancora acerbi che chiedono solo un'occasione per sfondare e, non ricevendola, spesso emigrano in cerca di fortuna. Balotelli è il loro simbolo e non solo per via del colore della pelle, che ne fa l'italiano di domani. Lo è perché a vent'anni ha già vinto Champions e scudetti, e ha un fisico e un talento che ne fanno un predestinato, imparagonabile agli smunti replicanti dell'attacco azzurro. Eppure per lui non si è trovato un posto neppure nel retrobottega. Mi rifiuto di credere che un capufficio dell'esperienza di Lippi non sappia riconoscere la differenza fra un fuoriclasse potenziale come Balotelli e i bravi mestieranti che si è portato appresso. Ma il successo rende sordi al buonsenso. Ci si illude di poter vincere meglio da soli, muovendo pedine inerti sulla scacchiera. Poi quelle pedine si rivelano di burro e alla fine ci si ritrova soli, con un po' di unto fra le dita.
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Io preferirei aspettare prima di "tirare in ballo" il Calvario e i martiri...
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di Ban Ki-Moon, segretario generale della Nazioni Unite
(...) Il mondo intero è destinato a sprofondare, a causa dei problemi nell'Eurozona, in una recessione che rischia di essere recidiva? Può la ripresa dei mercati emergenti bilanciare cali che si verificano altrove? Stiamo finalmente riemergendo, come i sopravvissuti a un uragano, per valutare l'entità del danno e i bisogni dei nostri vicini? O ci troviamo piuttosto nell'occhio del ciclone? In realtà, le risposte a tutte queste domande dipendono da noi e da come gestiremo l'economia mondiale nel periodo a venire. Un segnale incoraggiante è dato dal fatto che, in modo crescente, i leader mondiali riconoscono la necessità di una maggiore responsabilità. Ora più che mai, dobbiamo essere responsabili di fronte ai più vulnerabili. L'argomento morale a sostegno di ciò è chiaro. Dopo tutto, coloro i quali sono tra tutti i meno responsabili della crisi economica globale ne hanno pagato il prezzo più alto: perdita di posti di lavoro, aumento del costo della vita, crescenti tensioni sociali, famiglie che lottano per far quadrare il bilancio.
Ma la logica economica è altrettanto convincente. Come mai in precedenza, la ripresa economica globale dipende dalla crescita dei Paesi in via di sviluppo. Quelli che sono stati colpiti più duramente rappresentano anche la nostra migliore speranza per una prospettiva futura di prosperità. Nonostante gli stimoli sostanziali lanciati in molti Paesi, l'evidenza mostra che essi non sempre si sono poi propagati per soddisfare i bisogni immediati dei più poveri e vulnerabili. Stiamo assistendo al maggiore dinamismo nelle economie emergenti, ma anche alla più grande sofferenza. Troppi esseri umani sono abbandonati ai margini. Nei Paesi in via di sviluppo, molti lavoratori sono stati spinti verso impieghi vulnerabili. Le file di disoccupati nel mondo sono cresciute di 34 milioni e altri 215 milioni tra donne e uomini sono diventati lavoratori poveri. E, per la prima volta nella storia, più di un bilione di persone nel mondo patirà la fame.
La ripresa non è significativa se le persone ne vengono a conoscenza soltanto tramite i giornali. Le donne e gli uomini che lavorano hanno bisogno di avvertirla nella propria vita quotidiana e nel sostentamento. In poche parole: una vera ripresa deve raggiungere l'economia reale. Guardando davanti a noi, cosa significa per le persone, in pratica, il termine responsabilità? Innanzitutto, dobbiamo essere responsabili nel fornire lavori di qualità. La crisi globale del lavoro sta rallentando sia la ripresa sia il progresso verso la riduzione della povertà nei Paesi in via di sviluppo. È ora di concentrarsi su sviluppo umano e lavoro decente, in particolare investimenti di buon senso in impieghi verdi. Molto semplicemente, la ripresa economica non può essere sostenibile senza una ripresa del lavoro. In secondo luogo, dobbiamo essere responsabili verso le fasce colpite più duramente dalla crisi, specialmente le donne. In tutto il mondo, le donne sono il collante sociale che tiene unite le famiglie e le comunità. Uno degli investimenti più efficaci che possiamo fare riguarda la salute di madri e figli. (...)
Infine, dobbiamo tenere fede alle nostre promesse. Le economie leader a livello globale si sono impegnate a raddoppiare gli aiuti allo sviluppo per l'Africa e ad accelerare il progresso verso il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio entro il 2015. Maggiori risorse possono trasformare vite umane e intere società. (...) L'incertezza economica non può essere una scusa per rallentare questi sforzi. È invece una ragione per rafforzarli. In un periodo di austerità, dobbiamo essere saggi con le risorse limitate che abbiamo. Responsabilità non significa fare la carità. È un concetto fondamentale per un piano di ripresa globale coordinata.
Oggi, concentrarsi sui bisogni dei più vulnerabili può spronare la crescita economica e porre le basi per la costruzione di un domani più sostenibile e prospero. Nella nostra economia globale interconnessa è dimostrato che essere responsabile per ciò che avviene nel mondo significa essere responsabili anche per quello che avviene a casa propria.
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"Quello che facciamo per noi stessi, muore con noi;
quello che facciamo per gli altri e per il mondo rimane, ed e' immortale".
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Un testo, una storia, una musica che sono commovente poesia, dolorosa realtà.
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Da una parte, nel sottobosco di una società in pieno mutamento ma talora già pure in superficie, un ritorno alla fede, o almeno alla ricerca spirituale. Dall'altra, le vecchie e caparbie pretese laiciste di limitare la visibilità del fatto religioso. Da tempo, la Francia vive una sorta di paradosso, rilevato in particolare da quegli studiosi e pensatori che per primi, fra gli anni Ottanta e Novanta, si erano sbarazzati definitivamente delle vecchie zavorre ideologiche novecentesche. Fra questi, Luc Ferry, filosofo con un passato anche da ministro dell'Istruzione, personalmente «alla ricerca di una spiritualità laica» e pronto ad ammettere che nel Paese prende corpo una nuova partita attorno al sacro. Non è un caso che sia stato proprio lui ad accettare, nel quadro del recente giubileo della basilica di Santa Clotilde a Parigi, un dialogo aperto sul cristianesimo in Francia con il cardinale Philippe Barbarin, l'arcivescovo di Lione noto anche per le sue decise prese di posizione nel dibattito pubblico.
Lo scambio è stato in seguito pubblicato da Salvator con il titolo Quel devenir pour le christianisme? ed ha finito per imporsi nelle librerie con una progressione costante, soprattutto negli ultimi mesi. Divenendo esso stesso una spia di quella ricerca spirituale montante al centro del confronto. Per Ferry, il sussulto in corso ha per il momento uno spessore «più qualitativo che quantitativo» ed offre forse un nuovo volto dell'umanesimo: «Nessuno dei giovani che conosco sarebbe disposto a morire per la patria, per la rivoluzione o per Dio. In compenso, accetterebbero forse di offrire la loro vita o almeno di prendere dei rischi per altri esseri, in una logica umanitaria. È ciò che mi pare nuovo». Il cardinale, primate delle Gallie nell'antico e glorioso solco di sant'Ireneo, percepisce anch'egli mutamenti profondi: «In occasione dei miei incontri pastorali, mi accorgo che molte persone, oggi, possiedono uno spirito aperto. Dato che tutti i problemi sono emersi a galla, vi è effettivamente molta decostruzione e spesso manca uno sforzo di coerenza. Ma quando discuto con dei giovani, constato innanzitutto che di fronte alle tante aggressioni della società, portano in essi il senso della dignità umana e quello di Dio. Sono sorpreso dalle loro reazioni e osservo che hanno prodotto, per così dire, degli "anticorpi"».
Le tentazioni del consumismo sfrenato, concordano i dialoganti, trovano oggi nuove e molteplici forme di resistenza. Ma questi tentativi di fuga da un materialismo totalizzante stanno già incontrando Cristo? Qui, le riflessioni seguono inizialmente binari paralleli, dato che per Ferry l'esperienza del sacro non implica necessariamente la fede e la ricerca della trascendenza. Il cardinale Barbarin, anche sul filo personale dei ricordi missionari in Africa, ricorda invece che una visione non incarnata del cristianesimo è inconcepibile: l'umanità è compresa dai cristiani in modo "integrale", ovvero come corpo, psiche e spirito. E quest'originalità, sostiene il presule, continua ad essere percepita da chi è in ricerca. Poi, in modo quasi imprevisto, le due argomentazioni trovano una profonda sintonia su un punto cruciale: esiste nelle giovani generazioni una sete profonda d'amore ed è innegabile che l'amore, così come è stato finora trasmesso ed è ancora inteso almeno in Occidente, resta figlio del cristianesimo. «Sulla trasmissione, condivido in pieno le idee che il cardinale esprime. Aggiungerò semplicemente, a ragion veduta, che un'educazione riuscita è fondamentalmente, per noi europei, cristiana, ebraica e greca», osserva il filosofo, esplicitando così il suo pensiero: «L'elemento cristiano, l'amore, accanto all'elemento ebraico, la legge, e a quello greco, le opere. È qui che si gioca la grande questione della trasmissione, non nello spirito critico». Il quale, per Ferry, sarebbe ormai un dato consolidato in Europa. Barbarin giunge a una conclusione ancor più proiettata verso il futuro: «Confesserò la mia grande speranza; è del resto una delle preghiere che rivolgo più spesso al Signore: non che la Francia dia, come in passato, dei missionari per evangelizzare oggi l'India, la Cina e tutte le contrade del mondo che si aprono al messaggio del Vangelo, ma che nascano congregazioni religiose di educatori ed educatrici che si consacrino interamente a Gesù, il Pedagogo, al servizio della generazione che cresce. Poiché vi è molto da dare per costruire i giovani: è una missione fondamentale ed esigente».
Se dunque il filosofo agnostico giunge ad individuare nell'amore di tradizione cristiana il primo "antidoto autentico" alle derive sociali, seguito dal senso della legge e dall'immersione intima nelle grandi opere dello spirito umano, il cardinale esprime una visione in parte consonante, ma traducendola innanzitutto in termini d'azione non solo pastorale: «Occorre lavorare e il solo modo di lavorare davvero consiste nell'amare, cioè nel darsi completamente». Proprio seguendo la strada di Colui che ha detto: «Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi».
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Riporto questo scritto di Aldo Grasso perchè: è scritto benissimo; non mi piace come sono fatti tanti programmi tv; non conosco il sig. Diaco, ma trovo che la descrizione qui presentata calzi a pennello su decine di personaggi meno che mediocri che si aggirano nella società e nella Chiesa.
Il perfetto para-guru guida Uno Mattina
«La sveglia delle 4.30 del mattino mi ha regalato un privilegio senza pari: il silenzio della preghiera. Anche la statua di Pasquino, che mi guarda dalla piazza omonima quando apro le finestre, mi saluta con la sobrietà che meritano i primi istanti dell'alba. La vita è una meraviglia e Dio è sempre più rock. Grazie a Uno Mattina».
Sono queste le parole più sincere che Pierluigi Diaco abbia mai pronunciato in vita sua, anche se è difficile capacitarsi della sua presenza sul Foglio. Ringraziare Dio per aver finalmente coronato un suo sogno: condurre un programma su Raiuno. La storia di Diaco è la storia esemplare di una resistibile ascesa sociale nel demi-monde della tv romana, cominciata prestissimo con una raccolta devozionale degli interventi di Sandro Curzi (non è il solo danno combinato da quel vanitosone, pace all'anima sua) e proseguita poi con serrati corteggiamenti ai Veltroni e ai Fassino ma anche ai Belpietro, ai Costanzo, alle De Filippi.
Il ritratto più riuscito di questo blando avventuriero del piccolo schermo lo si deve a Filippo Facci: «Pierluigi Diaco, professione giovane e dj, creativo, nientologo del tutto, tuttologo del niente». Assolutamente privo di ironia, corteggia spudoratamente la banalità e programma con pignoleria la sua carriera: cerca di entrare nelle grazie di chiunque detenga un potere senza mai dispiacere l'interlocutore, inondandolo anzi di melassa e di condiscendenze. Le doti principali di Diaco sembrano essere appunto l'adulazione e l'opportunismo: è di sinistra ma anche di destra (lavora per la radio «giovane» del ministro Giorgia Meloni), dice di amare le donne ma anche gli uomini, parla da orecchiante ma anche da cultore di idées reçues, espresse preferibilmente in un italiano incerto. È giovane ma anche vecchio. Non ha un pensiero, ma finge di averlo, come tutti i cosiddetti opinionisti tv, insomma è un perfetto para-guru. Il conduttore ideale di questa Rai.
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Ogni anno 30% in più di assistiti, crescono gli italiani
di Letizia Tortello
Alla porta della mensa del Cottolengo Nicola D. T. e Giuseppe L. arrivano da soli. Non si conoscono. Eppure si ritrovano ogni giorno, da molti mesi a questa parte, seduti alla stessa tavola, a portare il peso di storie simili. Hanno 40 anni. Entrambe separati e senza lavoro. Ma fino a qualche anno fa il lavoro l'avevano. Nicola era stalliere a San Mauro e alla Mandria, Giuseppe autista per una cooperativa. Contratti a tempo determinato che non potevano essere rinnovati in eterno. E così, di anno in anno, il precariato per loro ha significato l'ossessione quotidiana. Prima non sbarcare il lunario, pagare affitti e bollette, poi non sapere neanche più dove andare a dormire. «È questa l'Italia?», dice Giuseppe, in un vivo accento agrigentino. E Nicola: «Non sono pazzo, non sono malato, cerco solo di ricostruirmi una vita, ma alla mia età chi mi prende più?».
Le loro storie purtroppo non sono uniche. Dal 2008 al 2010 le mense cittadine hanno aumentato gli assistiti in misura costante, con un preoccupante incremento ogni anno del 30%, secondo i dati forniti dal Banco Alimentare del Piemonte. La più grande di tutte, il Cottolengo, ha iniziato da pochi mesi a fornire un servizio che prima non era necessario: il pacco viveri da portare a casa. «Lo chiedono giovani famiglie di stranieri, soprattutto marocchini e rumeni, ma anche gli italiani, con figli a carico. All'inizio provano vergogna a venire, eppure non possono fare altrimenti, non arrivano a fine settimana - spiega fratel Stefano Groppetti, responsabile della Casa Accoglienza di via Andreis 26 -. Gli diamo pane, pasta, olio, scatolame, biscotti, un pacco completo. Fino a cinque mesi fa capitava di rado: magari si presentavano una volta, poi non più per 7 mesi. Ora li vediamo tornare con assiduità».
Una situazione condivisa anche dagli altri centri di beneficenza, a cui il Banco Alimentare destina ogni anno 294 tonnellate di cibo di prima necessità. Mentre nei mesi invernali l'aumento di nuovi poveri pesa per lo più sui dormitori e sulle strutture di accoglienza al chiuso, d'estate sono le mense il termometro dell'indigenza. Solo tra giugno e luglio però, molte chiuderanno infatti poi fino a settembre. Ad agosto sarà aperto solo il Cottolengo, che già adesso, con 400 coperti che vanno esauriti quasi ogni giorno, teme di dover tirar la cinghia. Agli abituali frequentatori infatti, dalla scorsa settimana, si sono aggiunti anche i profughi di via Asti.
Alla Mensa Convento Sant'Antonio da Padova, nell'omonima via al civico 7, che serrerà temporaneamente i battenti a fine giugno (con distribuzione di panini fino al 15 luglio), «la spesa per le famiglie è addirittura raddoppiata», dice il responsabile Alessandro Caramelli. Mentre il maggiore Daniele Paone del''Esercito della Salvezza di via Principe Tommaso 8/c racconta come siano «le donne marocchine ad essere spedite a fare rifornimenti per la famiglia, mentre per gli italiani sono quasi sempre gli uomini».
A Moncalieri, alla mensa Antida, che ha a suo carico anche nomadi e zingari della zona, il problema dell'assistenza non è più solo alimentare. «Ci chiedono di pagargli i ticket sanitari, qualche volta anche le bollette domestiche. Non abbiamo abbastanza soldi per aiutare i cassintegrati», spiega il direttore Italo Gazzola. Tra i carichi economici emergenti delle famiglie si aggiunge, in qualche caso, anche il mutuo da pagare, come dice Nicoletta Lilliu, assistente sociale al Cottolengo. «Passano da me casi di coppie di estrazione un tempo “media”. Magari lavoricchiavano part time in due e oggi, perso il lavoro, rischiano anche di perdere la casa».
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Noi ti adoriamo, o santo Spirito di Dio,
mentre con il meglio delle nostre forze tentiamo di scrutare chi Tu sei per noi.
Ti chiamiamo con nomi umani, con umane parole, per non dover tacere.
Ti apriamo il nostro cuore per accoglierti e per capire come,
profondamente, anche non visto, ovunque sei presente.
Sei l'aria che respiriamo, la lontananza che scrutiamo, lo spazio che ci è toccato in sorte.
Tu sei la dolce luce che ci rende attraenti gli uni agli altri.
Tu sei il dito di Dio con il quale Egli ha ordinato l'universo.
Sei l'amore squisito con il quale Dio tutti ci ha creati.
A tutto ciò che vive Tu dai forza, Tu agisci in modo strano e inafferrabile,
nascosto nel profondo di ciascuno come un fermento, come un seme di fuoco.
Tu sei la nostra volontà di vita, l'amore che ci attacca a questa terra e che ci lega al nostro Dio.
Tu ci sproni ad andare fino in fondo disposti a sopportare qualunque cosa,
sperando sempre come l'amore spera.
Noi ti preghiamo, Spirito di Dio che tutto crei, da' compimento all'opera iniziata;
previeni il male che possiamo fare, muovici al bene, fa' che siamo fedeli e pazienti,
accendi nel nostro cuore l'amicizia per tutto ciò che vive e dacci gioia per ciò che è umano e buono.
Sei l'anima delle nostre preghiere, che cosa non potremmo aspettarci da te?
Saggezza per capirci gli uni gli altri, abilità nel dare aiuto, ovunque e sempre.
Sei il Dono fattoci da Dio Padre: sii dunque il Presente qui in mezzo a noi.
Amen.
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«Dove abito io devi far parte di un branco, se sei fuori vieni mangiato. Non c'è altro modo per sopravvivere. Ma anche nel branco devi imparare a guardarti le spalle, a fare 'a voce grossa, non puoi stare mai tranquillo. Devi essere pronto a difenderti, a volte anche dagli amici». Lo racconta Francuccio, «'nu guaglione» che a quindici anni ha già alle spalle con la sua banda esperienze in quello che viene chiamato «il Sistema» con la maiuscola, ovvero il mondo della criminalità organizzata: «Ho maneggiato molte volte le armi, e anche la droga, il fumo, l'eroina. Ho visto come si prepara, come si pesa e come si vende. Dalle nostre parti di droga ne gira tanta; la consumano pure i ragazzini di dodici anni. Soprattutto il crack. E poi la spacciano». Adolescenti in erba che vendono le dosi «perché vogliono fare la bella vita e avere tante cose che le loro famiglie non possono dar loro. Ad esempio, guadagnare mille euro al giorno, comprarsi motociclette, automobili, andare nei posti lussuosi, spendere soldi senza problemi». Anche se queste scelte hanno un prezzo, molto alto: «Poi arriva il giorno che ti beccano, e tutto finisce. Alcuni dei miei amici sono stati arrestati e ora si trovano a Nisida. E ci resteranno per un bel po' di anni. Si sono infognati la vita, ma si sono pure divertiti».
Francuccio
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Riscontrata una relazione tra aterosclerosi e prossimità a strade ad alta percorrenza
C'è una relazione pericolosa tra l'avanzamento dell'aterosclerosi e quanto si vive vicini a strade ad elevato traffico. Lo indica una ricerca pubblicata sulla rivista PLOS One, realizzata da un gruppo di studiosi guidati da Nino Künzli dell'Università di Basilea, in Svizzera, ma che ha impiegato dati provenienti da ricerche sul campo realizzate a Los Angeles. Il risultati di questo studio segnalano un aumento di spessore della parete delle arterie carotidi in persone che vivono a ridosso delle autostrade, soprattutto se la distanza delle loro case è inferiore ai 100 metri dallo scorrere del traffico. Per realizzare questo studio sono stati presi in considerazione i risultati provenienti da cinque diverse ricerche sperimentali nelle quali era stato rilevato, attraverso gli ultrasuoni, lo spessore delle pareti delle arterie carotidi di circa 1.500 persone, per verificare come questo dato si modificava nel tempo rispetto a quanto accadeva in persone che non erano invece ugualmente esposte al traffico di automobili e camion. Si è così visto che chi viveva più a contatto con il traffico si aveva un costante aumento di spessore delle pareti arteriose, una modificazione biologica che sta alla base dello sviluppo dell'ateroscelerosi. (...)
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di Toni Jop
Ovvero, dell'immobilità. Francesco Guccini, ringiovanito e addolcito da una cedevole astinenza - fumo e alcol - è come un Buddha d'Occidente. Sta fermo dov'è, a Pavana, sella appenninica, ottocento anime devote, e si muove solo per concerti oppure per Bologna, Via Paolo Fabbri 43, solito indirizzo. Quando la gente, che gli vuole bene - e non sappiamo dire altro che questo stato, semplice e caldissimo - lo avvicina alla fine dei concerti, lui chiede il permesso di non alzarsi in piedi per farsi fotografare come gli vien chiesto con ritmo da giostra a pedali.
Racconta: «Ho un amico a Pavana che legge e compra il Giornale; gentilmente acquista per me, in edicola ogni mattina, L'Unità, mi piace questa nuova, e La Repubblica», così non si muove nemmeno per questa modesta operazione quotidiana alla quale stanno appese le ritualità più confortevoli del popolo dei pensionati. Guccini non è pensionato, lavora ma da fermo, forse lo amano anche per via di questa immobilità così poco trendy e magari neppure zen; la sua non è una scelta serafica, è pura riluttanza infantile, lui che si considera vecchio da quarant'anni a questa parte. (...)
Francesco, come ti sembra questa Italia, vista dalla tua stazione pavanese?
«Mah...si vede poco, sarà colpa delle montagne, però si legge».
Se ne ricaverà qualcosa...
«Sì, soprattutto dalle visioni, televisive. Nei giorni scorsi ho attraversato un incubo: ho visto Gelli, Licio Gelli qualcuno se ne ricorderà, in tv, che più o meno dice tranquillo “io sono un fascista”. Sì, di Pistoia, tra l'altro, qui dietro. Se lo ricordano anche a Pavana, ci passava. Dice che gli piace questo governo, che purtroppo Fini sta deragliando, che si fida solo di Berlusconi. È successo davvero? Se mi confermi che è vero, allora ecco questa è l'Italia che vedo da Pavana».
La smetteranno di sostenere che il paese è spaccato in due per motivi formali, e cioè per il fatto che, banalmente ma disgraziatamente per i cultori dei poteri assoluti, c'è una maggioranza e anche una opposizione...
«Mi pare che oggi sia ben chiaro a tutti, anche a quanti hanno ficcato la testa sottoterra pur di non vedere. Altro che Appennini, l'Italia è spaccata sulla Costituzione, è divisa tra fascismo e antifascismo, e la Costituzione dice da che parte stare se si ama la democrazia, o almeno se si ritiene che al momento non ci siano modi migliori per stare alla larga dagli autoritarismi, dai fascismi. Invece...».
Forse si spiega lo “struzzismo” di chi non vuol vedere: se le cose stanno in questi termini, non abbiamo un “problema”, stiamo tutti dentro una tragedia perché non c'è sutura possibile per una ferita tanto incancrenita...
«Sì, è una tragedia nazionale. Se l'estrema destra può permettersi il lusso di minacciare fisicamente giornalisti e famiglie dei giornalisti, com'è accaduto a Roma, in modo plateale, vuol dire che il contesto glielo permette, li autorizza, fa sì che in fondo sia passabilmente normale rispondere con questa violenza. Berlusconi non ha respinto l'encomio di Gelli, se n'è stato zitto, ha incassato. Del resto, non aveva voluto rispondere a quella semplice richiesta di adesione all'antifascismo che la Costituzione ci esorta ad adottare giusto per trattenere la parte calda e buona della nostra umanità. Una tragedia e non so come andrà a finire...».
Bonjour tristesse. E la crisi, tanto per restare in climi angosciati?
«Sempre da Pavana si vede, ma forse meno che da altre postazioni. Qui siamo in montagna. La gente ha l'orticello, non deve correre tutte le mattine a fare la spesa al negozio. Ma vedo ragazzi, che fino a ieri lavoravano, bighellonare di qui e di là, sono in cassa integrazione. Situazione molto brutta, dura, tempi di sfiducia in troppi campi...».
Bella parola, centrale. “Sfiducia” : governa dalla Borsa in giù o in su, a seconda di come la si guarda...
«Sì. Non è solo una parola, è anche un paio di occhiali deformanti. Ti racconto questa. L'altra sera ero a cena da amici, si parlava proprio di crisi economica e io racconto una vecchia gag: sai quali sono state le cause della Seconda guerra mondiale? Le biciclette e gli ebrei, butto lì. Un amico ci pensa e sbotta: e che c'entrano le biciclette? Hai capito? Le morgane della storia hanno un futuro, questo vuol dire. Così la crisi economica. Se io dico che tutta la colpa è di Prodi, vien fuori che l'ipotesi è plausibile benché sia a tutti gli effetti una baggianata...».
Sfiducia, dicono in tantissimi, nella politica...
«Altro aneddoto conviviale. Un amico mi ha detto: non ne usciamo finché non cambia tutto il quadro politico. Vero o falso? Chissenefrega, e si calcola quanto tempo ci vuole perché questo lavoro di ricambio sia portato a termine. Una ventina d'anni, e a noi che fra vent'anni saremo chissà dove, cosa importa? Lasciamo da parte la politica e i suoi problemi, tranne uno: che il problema della politica siamo noi, noi che abbiamo perso la fiducia in noi stessi. (...)». (25.11.2008)
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di Massimo Gramellini
Ogni volta che qualche leghista maltratta l'inno mi torna alla memoria un episodio della primissima infanzia. Ero sugli spalti dello Stadio per un meeting di atletica, quando la banda attaccò una marcetta spiritosa. Gli spettatori si alzarono in piedi: anche mio padre, che subito imitai. Ma un ragazzino più grande di me rimase tranquillamente seduto. «E tu perché non ti alzi?», gli chiese mio padre. «C'ho un cicles attaccato al sedere». Non disse proprio «sedere». Ma di sicuro disse «cicles», la gomma da masticare. Mio padre, ex partigiano, serrò gli occhi a fessura: «E' un bel problema, ma te lo risolvo io». Prese il bulletto per le ascelle e lo sollevò. «C'è gente che è morta perché tu potessi ascoltare in pace questo inno. Porta un po' di rispetto, cretino!». Intorno a lui si levò un applauso caldo e solidale, che sferzò l'amor proprio del ragazzo più ancora del fervorino.
Non so se sarei capace di comportarmi come mio padre. Invece degli applausi, avrei paura di beccarmi una coltellata o un'accusa di molestie ai minori. Ma quel giorno compresi che facevo parte di una comunità e che chiunque l'avesse sfregiata con un comportamento irriguardoso avrebbe finito per provocare in me una reazione eguale e contraria. Così, pur essendo uno di quei tipici italiani che non vibrano per la parola Patria e baratterebbe l'elmo di Scipio con un inno solenne come la Marsigliese, grazie agli sforzi iconoclasti della Lega mi ritrovo da qualche tempo a indossare con orgoglio cravatte tricolori. E ieri sera, mentre De Rossi cantava in romanesco «che schiava de Romaaaaa
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di Enzo Bianchi
(...) Ma mi pare passato abbastanza inosservato un evento che invece costituisce una novità a lungo attesa da molte parti e che potrebbe avere significative conseguenze anche sulla qualità formativa globale della scuola: la firma di un protocollo d'intesa tra il ministero dell'Istruzione e l'associazione laica e aconfessionale Biblia per una maggior presenza della Bibbia nella scuola, con la conseguente creazione di un comitato paritetico che ne curi l'attuazione e diffonda proposte, strumenti e materiali adeguati. Nelle intenzioni dei promotori e nel dettato dell'intesa non è minimamente questione di inserire una nuova materia di studio, tanto meno di interferire con l'insegnamento religioso confessionale, bensì di creare uno spazio per la conoscenza della Bibbia all'interno delle diverse materie o nei vari percorsi interdisciplinari. In altre parole, si tratta un progetto (...) per ,rendere «presente» la grande assente nella formazione culturale degli studenti italiani (...). Tentativo davvero lodevole perché non possiamo dimenticare che il «grande codice dell'arte», come l'aveva definito William Blake, divenuto «grande codice» della cultura occidentale nel famoso saggio omonimo di Northrop Frye, è stato finora trascurato nella scuola italiana. E questa lacuna continuava a privare gli studenti del nostro Paese - giunti ormai a essere «la prima generazione incredula» - di una chiave di lettura e comprensione di tante espressioni artistiche e culturali presenti non solo in Italia ma nel mondo occidentale e mediterraneo. In una stagione in cui si fa tanto parlare di identità e di radici, in cui la preoccupazione prevalente sembra quella di distinguersi dagli «altri» per alimentare diffidenza se non ostilità per il «diverso», la possibilità di rendere «leggibile» questo codice nel luogo in cui si formano i cittadini di domani appare impresa difficile sì, ma improcrastinabile. Quale identità si potrà mai custodire se si ignorano i principi che l'hanno determinata? E da quali radici si può essere alimentati se la humus in cui dovrebbero affondare è divenuta sterile per un prolungato oblio dei valori vitali? Con ragione si afferma da più parti che senza conoscenza letteraria della Bibbia resta preclusa la comprensione di numerose «presenze» nella vita quotidiana del nostro come di altri Paesi di antica cristianità: come interpretare edifici, sculture, pitture e immagini che popolano città e campagne, come capire espressioni e proverbi del linguaggio popolare o colto, come muoversi tra calendari, celebrazioni e festività se si rimane privi dell'alfabeto che li ha generati? E come immaginare l'integrazione e la convivenza di quanti provengono da mondi religiosi e culturali diversi se chi dovrebbe accoglierli non è in grado di spiegare loro i testi e i meccanismi che nel corso dei secoli hanno originato usi e costumi? Queste sono domande tutt'altro che inutili nell'attuale contesto sociale e culturale italiano: quali episodi, quali volti, quali immagini bibliche hanno plasmato l'orizzonte simbolico e culturale di generazioni di uomini e di donne nate e cresciute in una società che non poteva non dirsi cristiana? E quali di questi racconti, di queste vicende, di questi personaggi storici o leggendari parlano ancora oggi un linguaggio universale, come lo parlano, per esempio, le figure immortali del teatro classico o la raffinata sapienza orientale? Del resto, l'intero racconto biblico può essere letto come una grande narrazione di famiglia, in cui nessuno si sente estraneo: momenti di gioia e di dolore, guerre e violenze, speranze e affetti, terre abbandonate e terre promesse, esilii e ritorni vengono raccontati con tutti i timbri del linguaggio umano. Allora la cronaca cede il passo alla poesia, la preghiera si interseca con l'insegnamento, la favola si alterna con la profezia: così è la Bibbia perché così è la vita dell'uomo e il bambino o l'adolescente che vi si accosta per la prima volta può imparare a conoscere il senso della realtà che lo circonda, mentre l'adulto potrà riscoprire il filo rosso che ha tenuto insieme tante esistenze. In questo senso l'intesa recentemente siglata mira a «offrire chiavi di lettura e interpretazione interdisciplinare della Bibbia» in riferimento ai numerosi ambiti che costituiscono la cultura di un popolo e una civiltà: da quello più propriamente storico a quelli «artistico, filosofico, etico, giuridico e letterario». Ambizione eccessiva? Ma accostarsi in modo laico e pluridisciplinare alla Bibbia può davvero costituire l'indispensabile approfondimento delle radici culturali e storiche che alimentano il sistema di valori in cui ciascuno crede e fornire, d'altro lato, una maggiore consapevolezza della comune lotta anti-idolatrica che ogni persona di «buona volontà» è chiamata a sostenere in nome della propria e dell'altrui libertà. Ogni giorno infatti, tutti noi, credenti e non credenti, siamo chiamati a un combattimento non per sopraffare i nostri simili ma per affrancarci da vecchie e nuove schiavitù e ribadire la grandezza, la libertà e la dignità di ogni essere umano. Perché se esiste una frontiera tra fede e non fede, tra libera adesione a una realtà altra e più grande di sé e asservimento al proprio egoismo e alla mentalità dominante, questa non segue confini di Stati o di epoche, non separa confessioni religiose o correnti di pensiero, ma passa nel cuore di ogni persona, a prescindere dalla fede che professa o no: è lì, non altrove, che il seme di senso contenuto nel «grande codice» può germogliare e produrre i frutti più diversi, a beneficio dell'intera collettività.
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Lavarsi le mani: un modo per pulirsi anche la coscienza e scacciare i dubbi
Come Ponzio Pilato: in questo modo non ci si sente più in dovere di dover giustificare le proprie scelte
Lavare le mani per lavar via il senso di colpa. Ma anche per rafforzare una decisione presa e che, magari, non convince del tutto. Un po' come fece Ponzio Pilato, quando mandò a morte Gesù, lavandosene poi le mani. Una teoria che trova oggi conferma scientifica nello studio di un team di psicologi dell'Università del Michigan, che ha monitorato il comportamento di un gruppo di 40 studenti, a cui era stato chiesto di scegliere fra un cd o un vasetto di marmellata e di lavarsi le mani subito dopo la decisione presa. Ovviamente, i partecipanti al test non erano a conoscenza dello scopo dell'esperimento né obbligati al rito dell'abluzione, ma si è visto che coloro che avevano provveduto al lavaggio delle mani sembravano molto più felici della soluzione adottata rispetto a quanti non lo avevano fatto.
«Il gesto di lavarsi le mani ha il significato di cancellare i dubbi
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Che la vita può essere anche dolore Francesco Guccini lo capì una mattina del '44, quando i suoi compagni di giochi con la divisa e le stellette abbandonarono Pàvana, sull'Appennino tosco-emiliano, lasciandolo senza bubble-gum e senza cioccolate Hershey. Era un bimbo di quattro anni. Per lui, nato il 14 giugno del 1940 appena quattro giorni dopo la fatidica «ora delle decisioni irrevocabili», quegli uomini coi nomi da divi della Fox erano stati i primi compagni di un cammino che libri e fantasia avrebbero spinto spesso verso Ovest, confondendo i sogni polverosi della Via Emilia con quelli in Technicolor di Hollywood. E sulla soglia di quei settant'anni (...) nell'uomo di Radici è ancora la nostalgia per la prateria immaginata da ragazzino a legare una vita fortunata, sfociata artisticamente in una quindicina di album di successo, tre romanzi «familiari» e un pugno di altre opere letterarie fra cui i gialli del Maresciallo Santovito scritti a quattro mani con Loriano Machiavelli. Tutto raccontato con dovizia di particolari dall'autobiografia Non so che viso avesse. La storia della mia vita, pubblicata per Mondadori e dal saggio Fiero del mio sognare appena dato alle stampe per Arcana. «Vengo da una famiglia che amava poco le ricorrenze e ancor meno i festeggiamenti» premette lui. «E poi se avessi compiuto 63 anni nessuno se ne sarebbe accorto».
Già, ma i settanta sono un traguardo da festeggiare.
Da giovani ti senti immortale, mentre più vai avanti e più acquisisci consapevolezza che prima o poi tutto finirà. Così ti ritrovi a prendere precauzioni e a cercare di migliorare la tua vita. Di amici in questi anni ne ho persi tanti, da Bonvi a Magnus, da Amilcare Rambaldi del Tenco a Victor Sogliani dell'Equipe 84, solo per restare ai più conosciuti.
L'ultimo è stato il suo manager Renzo Fantini. Una persona fuori dal comune.
È successo tutto così velocemente da rendere ancora più forte il dolore. Quando incontrai Fantini, nel '75, non avevo mai avuto un manager degno di questo nome. Fu Sogliani a metterci in contatto. Mi colpì perché era una persona carismatica e perbene, insomma una figura anomala nell'ambiente musicale che non sempre brilla di specchiata onestà.
A Paolo Conte, che divideva con lei Fantini come manager, questo vuoto improvviso ha risvegliato la voglia di fare e il prossimo settembre pubblica un nuovo album.
Ricordo ancora quando in ospedale, una delle ultime volte che lo sono andato a trovare, Renzo mi disse: «Guarda cosa mi tocca fare per farti scrivere una canzone». E forse una canzone arriverà per davvero, ma un album intero no. Non penso di farcela.
Dopo quarant'anni di palcoscenico passati a parlare alle «coscienze della gente», non è frustrante per uno come lei scoprire di non essere riuscito a cambiare nulla? De André ne soffriva.
No, perché i pezzi che scrivo non sono un manifesto, ma solo un racconto di quel che mi passa per la testa. D'altronde non sono proprio io a cantare che a canzoni non si fan rivoluzioni? Questo non vuol dire che non contino nulla; se qualcuno ci si riconosce, il risultato è raggiunto.
«Dio è morto» è stato il primo brano depositato a suo nome, senza pseudonimi, incontrando una storia singolare.
Già, i censori Rai si rivelarono più papisti del Papa. Perché mentre RadioRai decise di ignorare la canzone, quella Vaticana, che ne aveva capito il senso, non si fece problemi a trasmetterla. L'idea me la dette una copertina della rivista americana Time, che titolava nietzschianamente God is dead e una mia poesia intitolata Le tecniche da difendere. Avevo appena scoperto T.S. Eliot e provavo ad imitarlo. A quei tempi si parlava del Concilio Vaticano II e a molti, compresi i miei amici dell'Equipe 84, si tennero a distanza da una canzone così «sensibile». Non fecero altrettanto alcuni cattolici di Assisi che nell'inverno del '68 mi chiesero addirittura di suonarla dal vivo. In quell'occasione oltre a Dio è morto cantai pure L'atomica cinese, Noi non ci saremo e Auschwitz. Quella sera avevo una fifa blu perché era la prima volta che mi esibivo fuori dalle osterie in qualcosa di assimilabile a un concerto.
In «My way» Sinatra cantava «rimpianti ne ho avuti pochi». E lei?
Di clamorosi non ne ho. Anche se a volte mi chiedo come sarebbero andate a finire le cose se certe sliding-doors, certe «porte girevoli» che la vita ci mette davanti avessero ruotato in un senso piuttosto che in un altro.
Come vede la sua vita tra dieci anni?
Una tragedia. Un tempo, ad esempio, ero un grandissimo camminatore, mentre oggi sono molto più sedentario, molto più pigro. Ho pochi stimoli e passerei tutto il mio tempo a leggere e basta.
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Una ventenne denuncia il mercato delle ragazze in viale Aspromonte: «Bisogna fermare questo scempio»
Caro direttore, sono una ragazza di 22 anni, ma prima di diventare la giovane donna che sono, sono stata anche una felice e spensierata adolescente. Premetto questo perché ogni sera, quando torno a casa verso mezzanotte o poco più tardi, dopo aver bevuto, chiacchierato e riso con alcuni amici, passo da piazzale Aspromonte e la mia felicità incontra l'amarezza, la rabbia e la tenerezza davanti ad un gruppo di giovani ragazzine.
Sono più piccole della sottoscritta, non si preparano per andare a dormire e non hanno nemmeno passato la serata con i loro coetanei. Restano lì, a ondeggiare sul ciglio della strada aspettando che qualcuno si fermi e le accompagni in una stanza senza peluches, senza libri, senza musica e nemmeno amore. Mi sono chiesta in questi giorni come sia possibile che nessun altro occhio oltre al mio si sia fermato sui loro visi da bambine, sui loro jeans stretti, come sia possibile che nessuno abbia udito le loro risate silenziose e nessuno abbia denunciato questo scempio. Quando le guardo per quel breve attimo, mi vengono in mente i miei quattordici anni, e mi ricordo di quanto era bello la sera, prima di andare a dormire, sapere che la mamma sarebbe venuta a salutarti e a darti il bacio della buona notte, e che se ne avevi voglia, prima di addormentarti potevi leggere un libro o ascoltare la musica oppure chiamare un'amica e farti qualche risata con lei. E poi, giunta la stanchezza, potevi accovacciarti nel tuo letto con il tuo profumo, e sognare quel ragazzo, il tuo amore, un amore dolce, senza lividi, senza barba, senza moglie né figli. Ora mi appello a voi, voi che avete avuto la possibilità come me di vivere la vostra adolescenza cullati da ingenui pensieri e dalle coccole dei vostri genitori, mi appello a voi che avete la fortuna di avere delle figlie e che vi preoccupate che non facciano tardi la sera e siano riaccompagnate a casa da persone fidate; a voi che chiedete amore per strada a ragazze dell'età di vostra figlia o di vostra nipote, a voi che avete messo una legge apposta per eliminare questo orrore e che dormite sonni tranquilli quando queste giovani sono in giro a «lavorare». Mi appello a tutti voi e vi chiedo di proteggerle e di ridare loro una vita degna, almeno dei 20 anni degni, perché i quindici non tornano indietro più.
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di Giacomo Galeazzi
Gli unici a non dimenticarsi del vescovo-martire sono stati i confratelli Cappuccini che hanno inviato all'aeroporto il loro vice-provinciale. Per il resto né la Santa Sede (che non ha neppure inviato, come da consuetudine, un delegato papale ai funerali) né il governo si sono ricordati del capo della Chiesa turca. Così il corpo del presule milanese Luigi Padovese è arrivato a Malpensa mercoledì mattina nel totale silenzio, su un cargo di Ankara. «Suscita stupore e amarezza il fatto che il vicario apostolico di Anatolia sia tornato in Italia su un cargo, fra le merci, come un sacco di patate - protesta il vicepresidente del consiglio comunale di Milano, Stefano Di Martino - lo onoreremo lunedì in Duomo ma era logico aspettarsi che fosse rimpatriato con più decoro e rispetto, con l'interessamento del governo italiano che avrebbe dovuto mettere a disposizione un aereo di Stato o militare». La cassa col leader dell'episcopato, ucciso a Iskenderun il 3 giugno, è arrivata con un volo della «Turkish airlines» e «non è stata nemmeno segnalata». Se ne sono accorti gli operatori dello scalo. Non è stato neppure avvisato il cappellano di Malpensa al quale non è arrivata comunicazione né da Roma né dal nunzio Lucibello. (...)
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«Non c'è umorista così vivace, imprevedibile e sorprendente come il Signore. Egli si diverte a scompigliare i nostri piani, a sconvolgere i nostri schemi, a capovolgere i nostri progetti, a far crollare le nostre impalcature.
«E il Dio sempre in agguato. Quando credi di averlo davanti, è dietro di te che ti afferra alle spalle; quando pensi di averlo in mano ti è già sfuggito, e ti precede di un buon miglio; quando giureresti di averlo perduto e sei nell'angoscia più cupa, eccotelo vicino ad avvolgerti col manto della sua misericordia; quando il male ti ha reso nero, è lì davanti col pennello inzuppato di grazia che chiede soltanto di poterti ridipingere a nuovo; quando il bene ti ha dato alla testa, ti fa cadere in capo una tegola perché tu scenda di qualche gradino.
«È l'Eterno Disturbatore. Il Sommo Rompiscatole. Quando il tuo cuore si appisola, vi penetra come il verme nella mela, e rode, rode sino a che tu non riprovi quella sete di Lui che sola ti fa vivere, mentre ti fa morire; quando il tuo occhio si posa su qualcosa che ti pare il traguardo della felicità, egli subito te lo appanna, e quel che ti pareva importantissimo diventa banale, povero, di fronte alla forza della sua seduzione; quando hai accumulato denaro e vorresti dormire fra guanciali di banconote, te le riduce in cenere; ti accorgi allora che dormire per terra fa bene non solo al tuo spirito, ma anche al tuo corpo.
«Egli ha disseminato il mondo di stelle, di luci e colori, ed è contento se le cogli; ma guai se te ne riempi la bisaccia: te la scuote e ti ritrovi il sacco vuoto. Solo se ci metterai Lui - che ha un peso "soave e leggero" - potrai riprenderti sulle spalle la bisaccia.
«Ama i rebus e l'enigmistica. In ogni istante ti mette di fronte a un bivio. Vuole che fra mille tu impari a decifare la sua via. Se la tua fede è solo intellettuale, te la ingarbuglia col nodo del suo mistero. E se ti ostini a cercare di dipanarlo col ragionamento, sarà fatica inutile. Ma se ci metterai un po' d'olio di cuore, ti si scioglierà in mano come per miracolo. Vuol essere adorato. Solo così può essere capito.
«Ama mettere in imbarazzo tutti: non ha forse dato le chiavi della sua Chiesa proprio a chi lo aveva tradito per ben tre volte? Non ha forse resi perplessi eternamente coloro che sono in autorità chinandosi a lavare i piedi di umilissimi pescatori? Non continua forse a irritare tutti i pastori di questo mondo con la sua "unica" pecorella, quella nera, più importante delle 99? Non ha forse messo nei pasticci i padri con la faccenda del figliol prodigo, i risparmiatori con quella dei talenti, gli evasori fiscali con il "date a Cesare", i preoccupati con la moltiplicazione dei pani, coloro che pregano con il "Non chi dice: Signore Signore", i giudici con l'adultera, i medici con il paralitico, i morti con Lazzaro?...».
libro tratto e liberamente rielaborato da un testo di frère Hilaire, Humour en Eglise, e pubblicato da Gribaudi, Torino 1972; qui pp. 59-63)
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di Aldo Maria Valli
Si chiude in queste ore l'anno sacerdotale indetto dal papa e giustamente analisi e riflessioni sono dedicate alla figura del sacerdote. Ma lo scandalo pedofilia che paradossalmente (ma un credente può anche dire provvidenzialmente) è scoppiato proprio durante questo anno dovrebbe indurre a ragionare anche e forse soprattutto sui vescovi. È lì, nella classe vescovile, che sotto molti aspetti la Chiesa ha denunciato ritardi, impreparazione, approssimazione, paura: una miscela devastante per la credibilità dell'istituzione. Lo scandalo pedofilia fa da cartina di tornasole di alcuni punti deboli dei vescovi cattolici. Il primo è la tendenza a considerare più importanti gli interessi istituzionali rispetto ai bisogni delle persone (le vittime, i sacerdoti stessi, i fedeli). È un atteggiamento spesso assunto in buona fede, allo scopo di proteggere la Chiesa, ma non si capisce che in questo modo, specie nell'era della comunicazione istantanea, il modello non vale più e ottiene risultati contrari a quelli desiderati. Il secondo punto debole è la difficoltà nel capire la portata degli scandali. Abituati spesso a vivere in un mondo tutto loro, distante dalla gente comune, alcuni pastori letteralmente non percepiscono quanto sia grave per la Chiesa non affrontare, o affrontare in modo inadeguato, comportamenti che per tutti, credenti e non credenti, equivalgono a micidiali controtestimonianze rispetto al messaggio evangelico. Il terzo punto riguarda lo scarso contatto fra vescovi e sacerdoti. Se le due realtà non si parlano, se vivono separate o comunicano solo in modo gerarchico e burocratico, è chiaro che la portata di certi fenomeni sfugge a colui che invece dovrebbe avere il polso della situazione. Un quarto punto riguarda la difficoltà a occuparsi di questioni che toccano la sfera sessuale. I vescovi, che sono spesso uomini anziani, sono cresciuti in un contesto culturale e secondo schemi mentali in base ai quali lo sviluppo sessuale della persona (e conseguentemente le patologie connesse) è questione che non riguarda il pastore e che anzi lo mette a disagio. Di qui la tendenza rimuovere i problemi. Un quinto punto è l'immobilismo che nasce da una certa scuola secondo la quale, di fronte a questioni complicate, la soluzione migliore è non fare niente e aspettare che la bufera passi. Anche questo comportamento nasce da un modo burocratico e formale di concepire il ruolo di pastore: tutto il contrario di quella passione e di quel coinvolgimento che dovrebbe caratterizzare un vero padre. Un sesto punto riguarda la sindrome da accerchiamento e l'incapacità di confrontarsi con i mass media. Non appena uno scandalo viene alla luce, ecco che scatta, come riflesso condizionato, la tendenza ad accusare il mondo di essere contro la Chiesa e i mass media di essere strumenti del male. Il che impedisce un'analisi lucida e provoca quegli atteggiamenti di fastidio e superiorità che allontanano ulteriormente le persone e le comunità dalla Chiesa istituzione. Molti altri sarebbero i punti da prendere in considerazione. Ma una cosa è certa: in questi mesi Benedetto XVI si è dimostrato molto più aperto, coraggioso e lungimirante di numerosi suoi vescovi. Evitando di scagliarsi contro gli strumenti della comunicazione e di lanciare anatemi contro il mondo cattivo, e soprattutto chiedendo a tutti gli uomini di Chiesa di fare une esame di coscienza perché la persecuzione (ha detto proprio così) viene molto più dall'interno che dall'esterno, ha indicato una linea precisa e, se si può dire, molto laica, nel senso che non pecca minimamente di quel clericalismo che è invece la somma dei difetti ai quali abbiamo accennato sopra. Il clericalismo è la vera malattia dei pastori, perché li spinge a comportarsi da funzionari anziché da padri, li fa vivere in un mondo a parte, li allontana dal comune sentire, li abitua a considerarsi superiori e intoccabili, li spinge a mettersi al servizio dell'istituzione più che della verità. È in questo senso che andrebbe affrontato il problema del celibato. Esiste un nesso fra celibato obbligatorio e clericalismo. Il fatto di essere uomini consacrati, che fanno della purezza sessuale uno dei tratti distintivi più importanti se non il più importante in assoluto, può spingere alcuni vescovi e sacerdoti a concepire loro stessi come membri di una casta. Di qui l'idea di essere sostanzialmente intoccabili e di non dover rispondere alle domande e alle obiezioni del mondo, con tutte le degenerazioni che ne derivano. Si è parlato a questo proposito di “narcisismo clericale”, un atteggiamento, più o meno conscio, che può spingere alcuni pastori a idealizzare se stessi e a sganciarsi da un rapporto sano con gli altri. Se poi a questo si aggiunge il clericalismo di alcuni laici, i quali per propria insicurezza spirituale alimentano il mito del sacerdote superuomo, ecco che la miscela si fa esplosiva. Se l'anno sacerdotale consentirà una riflessione anche su questi temi si potrà dire che non è stato soltanto una celebrazione.
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Mancano pochi giorni al calcio d'inizio ma il Mondiale degli sponsor è già iniziato da un pezzo. Addirittura quattro anni fa, pochi mesi dopo il fischio finale del torneo in Germania.
La Nike, grande esclusa della finale (Italia contro Francia, Puma che batte Adidas), si vendicò allungando una proposta “indecente” alla nazionale tedesca, marchiata Adidas dal 1954. Per allontanare la tentazione americana, l'Adidas raddoppiò l'assegno annuale arrivando a 20 milioni. La Nike ripiegò allora sull'Inghilterra, comprando direttamente il suo sponsor, la Umbro. La nazionale allenata da Capello incassa 30 milioni l'anno, a questi la Nike deve aggiungere i 75 milioni di dollari che elargisce in totale ai suoi team presenti in Sudafrica tra cui Brasile, Olanda e Portogallo.
L'Adidas risponde con i 125 milioni che servono ad appiccicare il suo logo sulla Fifa (arbitri inclusi) e sulle sei nazionali più importanti, tra cui Germania, Spagna e Argentina. Da notare che la Francia è all'ultima uscita con la griffe tedesca: qui il colpo Nike è riuscito grazie a un'offerta faraonica. Più di 52 milioni di euro a stagione, record assoluto, hanno convinto i transalpini a cambiare maglia.
Le grandi manovre servono a mantenere il controllo del mercato mondiale di scarpe e divise: nel 2008 l'Adidas ha incassato 1,8 miliardi di dollari, la Nike quest'anno spera di superare quota 1,7. Un testa a testa che impone sforzi sempre maggiori, anche per assicurarsi i migliori testimonial. Cristiano Ronaldo intasca 6 milioni di euro l'anno per indossare le sue scarpette col baffo, Messi riceve 3 milioni dalla casa fondata da Adi Dassler nel 1920. Ne vale la pena, perché il pallone non si sgonfia nemmeno ai tempi della crisi: +7% nelle vendite nel primo trimestre per l'Adidas. Visto come andò nel 2006 (83 milioni di utili), i tedeschi si fregano le mani.
Gli interessi in campo sono enormi: l'Italia quasi impallidisce con i suoi “miseri” 15 milioni ricevuti dalla Puma, la maison fondata dal fratello di Dassler, Rudolf. La Puma è in effetti il parente povero dell'Adidas. Oltre agli azzurri sponsorizzerà le squadre africane, ritenute non ancora appetibili dai due giganti: alle loro spalle ci sono mercati troppo poveri. Fa eccezione il Sudafrica, accaparrato dall'Adidas perché Paese organizzatore.
L'enorme vortice di denaro influenzerà i risultati sul campo? Il dubbio è legittimo. Piace pensare che non sarà così, anche perché finora non ci sono prove di match decisi dagli sponsor. Pressioni, invece, potrebbero essercene state. Come quelle che secondo i maligni (e l'ex viola Edmundo) la Seleçao ricevette nel 2002 per far giocare la finale di Parigi a un Ronaldo che non stava in piedi. In Brasile indagò con, addirittura, una commissione d'inchiesta parlamentare, che però non scoprì nulla.
Ai dietrologi non mancherà di certo il materiale su cui speculare. Magari partendo da un dato: a parte il primo girone, che vede al via tre squadre Adidas (ma una è proprio la “traditrice” Francia), negli altri le nazionali sembrano equamente distribuite in base alle loro griffe. Un caso? Certamente sì. Di certo ogni marchio avrà modo di portare un buon numero di nazionali agli ottavi, evitando scontri fratricidi. Brasile e Portogallo, targati Nike, sono sì nello stesso girone. Ma Costa d'Avorio e Corea non sembrano un ostacolo insormontabile. E in caso di finale tra una nazionale Nike e una Adidas? Il fatto che anche gli arbitri vestano tedesco resta quantomeno imbarazzante. Soprattutto se si ripensa al rigore concesso alla Francia nella finale contro l'Italia 4 anni fa. A pensar male si fa peccato, ma non si sbaglia quasi mai.
Intanto sul fronte dei grandi sponsor che affiancano i mondiali in Sudafrica interviene il Wcrf, il Fondo Mondiale per la Ricerca sul Cancro, che bacchetta la Fifa accusandola di avere scelto prodotti "non salutari" come la Coca-Cola e McDonalds. Secondo quanto riporta il sito della Bbc, perchè un torneo come quello dei mondiali di calcio dovrebbe promuovere stili di vita attivi, mentre invece il messaggio che può passare è quello di comportamenti "negativi" sopratutto per i ragazzi sempre più affetti da obesità. Immediata la replica che fa notare come senza sponsor ci sarebbero molti meno eventi come il mondiale di calcio cui i ragazzi possono ispirarsi per uno stile di vita attivo e salutare.
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Il Presidente di turno, infastidito per lo scempio che veniva fatto della Sacra Scrittura, a un certo punto intervenne con tagliente sarcasmo: «Padre reverendissimo, prenda Matteo 25,5 e legga: "Giuda si allontanò e andò ad impiccarsi". Prenda poi Luca 10,37 e legga: "Va' e anche tu fa lo stesso"».
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di Chiara Saraceno
Quale può essere lo spazio e il senso di «un rendere onore» al padre e alla madre al di fuori dilogiche gerarchiche e/o di obbedienza acritica alla tradizione? È semplicemente il sentimento di obbligazione che si ha verso chi ci ha messo al mondo e bene o male ci ha allevato, o include qualche cosa di diverso? Io credo che possa esserci una dimensione autonoma dell'onorare (
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ed esso rimane per molti una delle poche esperienze mistiche che sia consentito vivere su questa terra.
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Ci sono elementi "strutturali" come l'invecchiamento che non lasciano pensare a un cambiamento
Natalità, c'è un aumento ma è solo relativo. Il 12,6% sono figli di coppie di immigrati
Si torna a fare figli, ma non sembra un'inversione di tendenza. Almeno per ora. Lo dicono i dati Istat sulla natalità che riguardano il 2008, quando nelle anagrafi comunali italiane sono stati registrati 13 mila bambine e bambini in più rispetto all'anno precedente: 576.659, rispetto a 563.933 del 2007. La media è salita così a 1,42 figli per donna, dopo quasi trent'anni in cui la linea del grafico tendeva drammaticamente verso il basso, con il minimo registrato nel 1995, quando di figli ogni donna ne faceva 1,19. Un incremento da attribuire in particolare alle immigrate e alle madri con almeno 40 anni di età.
Detto questo, i demografi e gli statistici tendono a precisare che non è il caso di parlare di una vistosa sterzata in direzione di una nuova diffusa fertilità. Il dato del 2008, non a caso, viene definito "massimo relativo", vale a dire un picco difficilmente superabile nei prossimi anni, considerate le attuali caratteristiche e i comportamenti riproduttivi della popolazione femminile in età feconda. Le cifre che riguardano il 2009, ad esempio, sono già inferiori di circa 7 mila nati.
Gli elementi che vanno considerati per avere un quadro esatto della situazione sono le differenti modificazioni strutturali che segnano l'andamento della natalità. C'è da tener presente, infatti, l'invecchiamento delle madri: il 5,7% dei nati ha una madre con almeno 40 anni: si è passati dai 12.383 del 1995 ai 32.578 nel 2008. Nel frattempo, prosegue il calo dei nati da madri di età inferiore a 25 anni, che sono stati poco più di 64 mila nel 2008: l'1,11% del totale. Continua ad aumentare il numero dei nati da genitori non comiugati: erano l'8,1% nel 1995, sono stati il 19,6% nel 2008, oltre 102 mila. Nel Centro-Nord, in particolare, i nati da persone non sposate sono poco meno di uno su quattro.
Evidentissimo è poi l'incremento dei nati da genitori stranieri: nel 2008 sono stati oltre 72 mila, pari al 12,6% del totale. Se a questi si sommano anche i nati italiani da coppie miste, si sfiora quota 100 mila nati da almeno un genitore straniero, cioè il 16,7% del totale. Le cittadine straniere residenti in Italia hanno avuto in media 2,31 figli, in diminuzione rispetto agli ultimi anni, ma pur sempre un figlio in più rispetto alle italiane.
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«Non è il momento per proporre al governo una Giornata della memoria da tenersi in Italia in ricordo di ben mezzo milione di nostri fratelli africani uccisi per mano italiana durante il periodo coloniale?», scrive da Cremona un lettore di Avvenire, lo studioso Mario Beccari . Nel testo si ricordano il ricorso da parte delle nostre truppe agli inumani campi di concentramento in Cirenaica o il confino alle Tremiti di centinaia di libici. E l'uso dei gas in Etiopia, le stragi di vescovi, monaci, diaconi, semplici fedeli («cristiani, in questo caso cattolici, che danno il martirio ad altri cristiani di diversa denominazione!»), i lanciafiamme e poi l'artiglieria con bombe caricate a iprite per snidare da una immensa caverna, dove si erano rifugiate alcune centinaia di partigiani abissini, ma anche donne e bambini. Tante insomma le operazioni 'criminali' di polizia coloniale in Somalia, in Libia e in Etiopia che per troppi anni sono state ignorate dalla gran parte degli italiani, «brava gente», e che solo studi recenti hanno fatto conoscere. Per il nostro lettore, «la storia bisognerebbe riscriverla con trasparenza e onestà intellettuale mettendo sui libri tutto ciò che ci onora e ciò che ci disonora e non solo ciò che fa piacere al regime di turno». (...) Come ci dice lo storico Bartolo Gariglio dell'Università di Torino, (...) «solleva un problema reale. Fino a che punto questi eccidi sono avvertiti dall'opinione pubblica?».
Il giornalista e storico Angelo Del Boca , il primo che rivelò l'uso criminale dei gas durante la guerra in Etiopia, aveva proposto già nel 2006 una apposita Giornata per i 500.000 africani ammazzati. «Ci sembra che essa abbia un valore non soltanto simbolico - aveva scritto su Nigrizia , il mensile dei comboniani - . Siamo convinti che potrebbe avere riflessi non effimeri su popolazioni che non soltanto lottano contro la povertà e l'Aids, ma cercano disperatamente anche un propria identità». Come le drammatiche e tragiche vicende dell'immigrazione dimostrano con somali, eritrei, etiopi in primo piano. Quattro anni fa l'iniziativa di Del Boca, anche se comunicata all'allora ministro degli Esteri D'Alema, non ebbe alcun esito. Ma il 2 marzo del 2009 è stato ratificato a Sirti in Libia da Berlusconi e da Gheddafi il trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra i due Paesi. In quell'occasione il presidente del Consiglio pronunciava parole esplicite: «Ancora una volta e formalmente accuso il nostro passato di prevaricazione e vi chiedo perdono
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"In Italia oggi è difficile convertire un cattolico al cristianesimo".
Paolo Rossi
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Di fronte alle resistenze e alle delusioni, molte anime delicate e poco inclini all'azione, si rifugiano nell'attività puramente religiosa, dedicandosi, come è dovere di ogni credente, a quelle opere di pietà che mirano solo al perfezionamento personale, lasciando la Provvidenza senza collaboratori. Il Signore mi guardi dal diminuire di un iota la fiducia nei mezzi soprannaturali - da noi non sappiamo far niente - mi riferisco esclusivamente a quel genere di fiducia presuntuosa e passiva, alla quale volentieri qualcuno s'appiglia in quanto essa non ci compromette in nessun modo, mentre ci tiene in un'aria dove la religione è tutto e il resto non esiste. Si sopprime un termine, il mondo, cioè il campo dove il Signore vuole che lavoriamo. Ci si estranea da esso, mentre per darci l'illusione del nuovo e del vivo, si moltiplicano le devozioni. La stessa pietà a lungo andare s'intorpidisce, degenera e si corrode non potendo esercitarsi in un apostolato reale. La religione prende un aspetto inamabile e fastidioso, specialmente per i giovani e la gente operosa e intelligente, che a buon diritto si domandano a che serve una vita interiore la quale non trabocca in carità d'opere e di salvezza. Donde un apostolato fiacco, disamorato e per nulla invitante, che s'incapsula ogni giorno più in forme organizzative complicate, infeconde e massacranti.
I lontani non si possono interessare con una preghiera che non diviene carità, con una processione che non aiuta a portare le croci dell'ora. Senza volerlo, li spingiamo sulle strade d'una carità senza Dio e d'una attività sociale senza preghiera. Lo stesso perfezionamento interiore non si raggiunge facilmente attraverso una pietà che ignora la follia della carità o l'accetta con la prudenza borghese dell'abbonato contro l'accattonaggio.
Molte anime nobilissime rifiutano il proprio nome a delle associazioni, che, all'infuori della preghiera in comune, non hanno nessuna porta aperta sulle vere necessità della vita sociale.
La parrocchia declina per mancanza di comunione con la vita, ossia per difetto d'incarnazione.
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Cerchiamo di non diventare troppo vecchi prima di realizzare i nostri sogni.
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Lo sostiene uno studio su 20 mila ragazzi: quelli con «Q.I» più basso sono più propensi alla sigaretta
Fumare è un'abitudine poco intelligente: non è solo il buon senso che porta a questa considerazione, ma la realtà dei fatti. Pare infatti che i giovanissimi meno dotati d'intelletto abbiano maggior probabilità di contrarre questo cattivo vizio.
La ricerca che lo indica è stata guidata dal professor Mark Weiser del Dipartimento di Psichiatria dell'Università di Tel Aviv ed è stata realizzata su un campione vastissimo, attingendo dai nominativi dell'esercito israeliano. Ventimila giovani uomini tra i 18 e i 21 anni sono stati monitorati durante e dopo il servizio militare. Tra questi, il 28 per cento era fumatore, il 3 per cento si definiva ex-fumatore e il 68 per cento non aveva mai fumato una sigaretta. Sottoponendo i ragazzi a un test di misurazione del QI è emerso che i non fumatori avevano un punteggio medio di 101, mentre i fumatori avevano in media sette punti in meno, ovvero 94 (in una persona mentalmente sana il valore del QI oscilla tra 84 e 116). Ancora più clamoroso è stato il punteggio di 90 riportato dai fumatori pesanti (oltre il pacchetto al giorno).
Insomma il quoziente intellettivo decresceva al crescere delle sigarette. A rinforzare la teoria secondo la quale i meno intelligenti sono più portati a iniziare a fumare arriva infine l'esempio dei gemelli, spesso utilizzato dai ricercatori per isolare le variabili ambientali, socio-educative e genetiche: i gemelli presenti nel campione studiato dagli scienziati israeliani hanno riportato differenze nel quoziente d'intelligenza (pur minime) e se tra i due uno era fumatore e l'altro no, quest'ultimo ha rivelato puntualmente un minore quoziente d'intelligenza.
La teoria secondo la quale le persone meno istruite e meno stimolate intellettualmente tendono spesso ad assumere comportamenti meno conservativi rispetto alla salute e hanno una maggior propensione a comportamenti di dipendenza è sempre valida, ma non basta a spiegare questo curioso link tra sigarette e intelligenza. Il campione studiato è infatti estremamente vasto e trasversale e sarebbe semplicistico ridurre il fumo a una questione di appartenenza sociale. Inoltre il QI ha a che fare con le abilità cognitive e non con la provenienza sociale (anche se è pur vero che crescere in un ambiente stimolante aiuta a sviluppare l'intelletto). Dunque la conclusione a cui porta questa ricerca è semplice e lapidaria: le persone meno intelligenti hanno maggior probabilità di iniziare a fumare.
«Only dopes use dope» (solo gli stupidi usano la droga): gli inglesi hanno coniato questa massima, giocando sul doppio significato della parola dope, che in slang significa anche stupido (oltre che droga). A questo punto lo slogan si adegua benissimo anche alle sigarette e i risultati di questo studio potrebbero portare a migliorare le campagne di comunicazione che vogliono scoraggiare il vizio della sigaretta. Spesso, sia nelle droghe che nel fumo, le pubblicità enfatizzano i danni dei cattivi vizi, ma non smontano le icone, a cui i giovani sono tradizionalmente molto sensibili. Vedere Keith Richards con la sigaretta penzolante può agganciare più giovani al fumo di quanti sia in grado di scoraggiare una seria campagna di comunicazione (che sottolinea i danni alla salute della sigaretta). Per comunicare con i ragazzi bisogna fare leva sull'appeal o sul non-appeal. (...)
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Il miglior paradiso è un orto ben irrigato
dove un uomo e una donna lavorano insieme
e si abbandonano l'uno all'altra
senza possesso nè possessore.
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di Massimo Gramellini
Fino a quando lo affermavano politici prevenuti e intellettuali invidiosi, si poteva sorvolare. Ma ora che persino un punto di riferimento per le masse come il centravanti milanista (e napoletano) Borriello accusa Saviano di «aver lucrato sulla mia città», la questione si fa maledettamente seria. È giusto che uno scrittore possa acquisire fama e denaro parlando di camorra, come un centravanti facendo dei gol? Nel suo ultimo disco il musicista partenopeo Daniele Sepe - meno conosciuto di Borriello perché non si è mai fidanzato con Belen - rinfaccia a Saviano: «Hai fatto fortuna, ma chi ti paga è il capo dei burattinai», come se fosse la berlusconiana Mondadori ad aver arricchito il suo autore e non viceversa. Eppure basta bighellonare fra i blog che commentano le parole di Borriello per accorgersi che tanti la pensano come lui e paragonano Saviano a «uno che fa beneficenza e va a dirlo in giro».
In questo Paese cattolico e contadino, che pensa al denaro di continuo, ma non smette di considerarlo lo sterco del demonio, è passato il principio che argomenti nobili come la legalità e la giustizia sociale vanno maneggiati in incognito e senza percepire compensi di mercato. Briatore può farsi docce di champagne su tutti gli yacht che vuole: è coerente col personaggio. Ma Santoro non deve guadagnare come Letterman né Saviano come Grisham, perché da chi sferza il malcostume gli italiani pretendono voto di povertà. A noi gli eroi piacciono scalzi e sfigati, per poterli compatire e sentirci più buoni. Così dopo votiamo i miliardari con maggiore serenità.
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Molti nostri contemporanei, però, sembrano temere che, se si fanno troppo stretti i legami tra attività umana e religione, venga impedita l'autonomia degli uomini, delle società, delle scienze.
Se per autonomia delle realtà terrene si vuol dire che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza d'autonomia legittima: non solamente essa è rivendicata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme al volere del Creatore. Infatti è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l'uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o tecnica.
Perciò la ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio. Anzi, chi si sforza con umiltà e con perseveranza di scandagliare i segreti della realtà, anche senza prenderne coscienza, viene come condotto dalla mano di Dio, il quale, mantenendo in esistenza tutte le cose, fa che siano quello che sono.
A questo proposito ci sia concesso di deplorare certi atteggiamenti mentali, che talvolta non sono mancati nemmeno tra i cristiani, derivati dal non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza, suscitando contese e controversie, essi trascinarono molti spiriti fino al punto da ritenere che scienza e fede si oppongano tra loro.
Se invece con l'espressione «autonomia delle realtà temporali» si intende dire che le cose create non dipendono da Dio e che l'uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora a nessuno che creda in Dio sfugge quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce.
Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di Dio nel linguaggio delle creature. Anzi, l'oblio di Dio rende opaca la creatura stessa.
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fa' che in essa fioriscano la giustizia e la concordia,
e con l'onestà dei cittadini e la saggezza dei governanti si attui un vero progresso nella pace.
messale ambrosiano, formulario per la patria
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di Massimo Gramellini
Nel giorno della parata militare lungo i Fori, oso sperare che nessuno sottovaluterà l'importanza dell'acquisto di centotrentuno cacciabombardieri F-35, centoventuno caccia Eurofighter e cento elicotteri NH90 da parte delle nostre Forze Armate. Con una certa malizia i Verdi fanno notare che lo scontrino complessivo di una spesa degna del set di «Apocalypse now» ammonta a 29 miliardi di euro, 5 in più della manovra (a proposito di apocalissi).
Ma tutti sappiamo che, oggi come oggi, senza un cacciabombardiere non si va da nessuna parte. Quindi lungi da noi l'idea populista di rinunciare al rombo dei motori guerrieri per tutelare lo stipendio di un impiegato pubblico o la sopravvivenza di un ente culturale. Però, forse, almeno un accenno a questa eventualità poteva essere fatto da chi ci governa. Anche solo come gesto di trasparenza e di cortesia: cari italiani, vi chiediamo di stringere la cinghia, però sappiate che i vostri sacrifici non saranno vani, perché dei cacciabombardieri così belli non li ha nessuno. Per non parlare degli elicotteri.
L'emozione sarebbe stata talmente forte che i dipendenti dello Stato avrebbero donato, se non l'oro (di cui al momento sono sprovvisti), i loro straordinari alla Patria, pur di consentirle di sfrecciare invitta e gloriosa nei cieli. E i poliziotti avrebbero sbandierato con orgoglio la mancanza di soldi per il carburante delle auto di servizio, con la tranquilla consapevolezza di chi sa che per combattere la mafia, stroncare la corruzione e proteggere i cittadini, nulla è più efficace di uno stormo di cacciabombardieri.
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di Massimo Gramellini
In Germania si è dimesso il presidente della Repubblica. Nei giorni scorsi aveva dichiarato che i soldati tedeschi non sono andati in Afghanistan solo per combattere il terrorismo, ma per tutelare gli interessi economici del loro Paese. Governo e opposizione lo hanno trattato come uno zimbello, al punto da indurlo a uno scatto di dignità. Analoga indignazione avevano suscitato le affermazioni del nuovo ministro della Difesa inglese: «Non siamo a Kabul per educare un popolo rimasto fermo al medioevo, ma perché i nostri interessi nel mondo non vengano minacciati».
Sorprende che due politici abbiano detto per una volta la verità: infatti si è parlato di «gaffe». Sorprende un po' meno che l'essere umano senta il bisogno di ammantare le guerre di motivi nobili o comunque non biecamente commerciali. Da Elena di Troia all'esportazione della democrazia, la fantasia non ci è mai mancata (anche se Omero aveva obiettivamente più talento degli uffici stampa). Gli stessi dittatori, che vantano meno scrupoli formali, preferiscono agitare spettri molto più orrendi, come la difesa della razza o della purezza ideologica, pur di non riconoscere che fanno la guerra per fare affari. Guai a chi osa parlare di petrolio, gasdotti, rotte commerciali. Quella è materia da bottegai: si fa, ma non si dice. Un principio che continua a valere persino in un'epoca come la nostra, dove si dice tutto, compreso quello che non si fa. Assuefatti a ogni sorta di scandalo, siamo rimasti sensibili a un ultimo tabù: i soldi, motore «vergognoso» del mondo.
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Uno studio di ricercatori pisani sulla risonanza magnetica funzionale
Perdonare un torto non solo solleva simbolicamente la coscienza, ma scientificamente aiuta a stare meglio: lo dimostra la risonanza magnetica funzionale, almeno secondo una ricerca condotta dal dipartimento di Medicina di laboratorio e diagnostica molecolare dell'Azienda ospedaliero-universitaria pisana intitolato “The Moral Brain: an fMRI study of the neural bases of forgiveness and unforgiveness in humans”, premiato con il primo premio per giovani ricercatori dalla “Fondazione Giannino Bassetti”. Nello studio i ricercatori hanno utilizzato metodiche di risonanza magnetica cerebrale funzionale (fMRI) per esaminare le basi cerebrali che sottendono distinte scelte morali. «Ci siamo chiesti - spiega Giuseppina Rota, assegnista di ricerca nel laboratorio del professor Pietrini e primo autore della ricerca - cosa succede nel cervello quando un individuo che ha subito un torto da una persona a cui è legato deve decidere come superare la situazione di conflitto, se perdonare o meno la persona». Studiando le connessioni funzionali del cervello nelle diverse situazioni, i ricercatori hanno dimostrato che complesse reti di aree cerebrali coinvolte nei processi decisionali, nelle teorie della mente e nella regolazione emotiva dialogano intensamente tra loro nel prendere una o l'altra decisione. «Perdonare permette di superare una situazione di stallo che, se protratta, porterebbe altrimenti ad un'alterazione dell'omeostasi biochimica e psicologica dell'individuo», spiega Emiliano Ricciardi, coautore dello studio. In pratica, i circuiti coinvolti nell'empatia sono chiamati in causa quando si perdona, come se “calarsi nei panni altrui” potesse aiutare a comprendere le ragioni di chi ci ha offesi e, quindi, a perdonare.