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«Questa educazione [di Gesù verso i discepoli] ha una caratteristica molto importante per tutta l'educazione evangelica. Non è, cioè, un'educazione ideologica, con un Gesù che annuncia dei princìpi e trae conclusioni, oppure che dà un programma e poi espone i punti successivi di attuazione. È invece un'educazione fatta nella vita: i discepoli vivono con Gesù, vedono come lui reagisce a proposito di una situazione, come parla, come si comporta. Annuncio e vita si intrecciano. Gesù fa e insegna: questo è fondamentale per l'educazione evangelica. Il Vangelo si impone per connaturalità affettiva col Signore e con coloro che lo vivono. Per questo quando si parla di «scuola di discepolato», nella tradizione della Chiesa ed è sempre un discepolato vivo: il rapporto maestro-discepolo. Le cose si imparano così. Noi stessi, se interroghiamo la nostra esperienza, possiamo dire che ciò che abbiamo imparato ci è venuto soprattutto dai contatti con veri cristiani; la grazia di genitori buoni e santi, l'incontro con qualche sacerdote che ci ha impressionato particolarmente; il loro modo di dire, di fare, di reagire, i loro silenzi, le loro osservazioni al tempo opportuno ci hanno insegnato molto. E’ così anche gli altri imparano da noi: non è tanto ciò che noi diciamo, ma il modo nostro di vivere, di reagire, di giudicare che è formativo. Gesù stesso ha voluto questo, è lui che ha cominciato questo tipo di scuola pratica; tante forme di iniziativa pastorale che mettono a contatto l'evangelizzatore con la gente sono efficacissime proprio se c'è questa osmosi, questa trasmissione invisibile di valori.
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Senza differenze, che dialogo è?
di Enzo Bianchi
“Avere il gusto dell’altro”. Così Michel de Certeau, definiva il primo, il fondamentale passo di un cammino di umanizzazione, dove “l’altro è colui senza il quale vivere non è più vivere”. L’umanizzazione si gioca infatti nel rapporto tra l’io, il noi e gli altri, anche se troppo spesso ricorriamo sbrigativamente alle categorie di “noi” e “gli altri” per contrapporle, sperando così di essere agevolati nell’affrontare problemi, risolvere situazioni intricate, giustificare atteggiamenti e incomprensioni. Eppure sappiamo bene quanto sia arduo definire i confini tra queste due entità e, ancor di più, stabilire con certezza chi appartiene all’una o all’altra, in che misura e per quanto tempo. Quando giustapponiamo i due termini, in realtà intraprendiamo un percorso suscettibile di infinite varianti: ci possiamo infatti inoltrare su un ponte gettato tra due mondi, oppure andare a sbattere contro un muro che li separa o ancora ritrovarci su una strada che li mette in comunicazione. Possiamo anche scoprire l’opportunità di un intreccio fecondo dell’insopprimibile connessione che abita noi e loro. Sì, perché ciascuno di noi – e anche degli altri – esiste e trova la propria dimensione pienamente umana in quanto essere-in-relazione: con quanti lo hanno preceduto, con chi gli è o è stato accanto, con coloro che ha avuto o avrà modo di incontrare nella vita, con il pensiero, la vita e le azioni di persone che non ha mai conosciuto personalmente e perfino con chi non conoscerà mai ma che contribuisce con la sua esistenza, le sue gioie e le sue sofferenze a quel mirabile corpo collettivo che è l’umanità.
Ma allora come intraprendere e percorrere cammini di dialogo e di comunicazione con l’altro, capaci di condurre gli interlocutori a un’autentica umanizzazione? Credo che innanzitutto occorra riconoscere l’altro nella sua singolarità specifica, riconoscere la sua dignità di essere umano, il valore unico e irripetibile della sua vita, la sua libertà, la sua differenza. Teoricamente questo riconoscimento è facile, ma in realtà proprio perché la differenza desta paura, occorre mettere in conto l’esistenza di sentimenti ostili da vincere: c’è infatti in noi una tendenza a ripudiare tutto ciò che è lontano da noi per cultura, morale, religione, estetica, costumi. Occorre dunque esercitarsi a desiderare di ricevere dall’altro, considerando che i propri modi di essere e di pensare non sono gli unici ad aver diritto di esistenza. C’è un relativismo culturale che significa imparare la cultura degli altri senza misurarla sulla propria: questo atteggiamento è necessario in una relazione di alterità in cui si deve prendere il rischio di esporre la propria identità a ciò che non si è ancora…
A partire da questo atteggiamento preliminare, diventa possibile mettersi in ascolto: atteggiamento arduo ma essenziale quello di ascoltare una
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«L’importante è non stare fermi.
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Ma è visibile questo «prima»? Qui è il problema. Se uno lavora nello sport, sente quando le forze calano (la Pennetta lo sente, per questo si allarma), e se uno lavora nella scienza, capisce quando raggiunge un risultato, perché la scienza te ne dà le prove. (...) Chi lavora nell’arte resta sempre in dubbio. «Scrivo di notte – raccontava Pratolini -, in una stanza vuota, su un tavolo pieno di sigarette. Alle 5 vado a letto, convinto di avere scritto Guerra e pace. Otto ore dopo mi rialzo, rileggo, e mi cascan le braccia». La Pennetta ha fatto un capolavoro, e glielo conferma il titolo mondiale. Ma nel fare libri, o film, o quadri, non c’è premio che ti garantisca la riuscita. Vai avanti sperando sempre che l’opera che stai facendo superi le precedenti. È impossibile fermarsi. Nello sport, quando sei campione del mondo puoi fermarti. Nella scienza, quando hai trovato ciò che tutti cercavano puoi fermarti. Nell’economia, quando hai costruito quel che volevi puoi fermarti. Nell’arte, no. Morirai senza aver raggiunto l’«attimo bello», ma avendone al massimo, come Faust, un dubbioso presentimento.
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«Ci sono persone che cercano di insegnare e non ci riescono.
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"Non è un film"
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«Essendo un corpo, la chiesa non rimane stazionaria, ma si sviluppa, cambia, si ingrandisce. (...) Situate in questa prospettiva (...) le successive attuazioni della chiesa, nonché impoverirla, la fanno crescere. (...) Ciascuna delle società e delle forme sociali in cui si incarna concorre a "completare" il Cristo. Sì, il corpo ha bisogno del capo, ma il capo ha bisogno esso stesso del corpo. (...) Conclusione importante per intendere le relazioni della chiesa e del mondo - e quindi mettere a fuoco il modo d'impegno dei cristiani: il mondo ha bisogno della chiesa per vivere; la chiesa ha bisogno del mondo per il suo sviluppo e per il suo compimento».
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Dieci anni fa (6.09.2005) cominciavo la pubblicazione di alcuni post su Blogger:
http://seiunoseitre.blogspot.it/
Grazie a chi è stato compagno di strada lungo i giorni, i mesi, gli anni.
A presto, cioè: a domani!
don Chisciotte Mc
Qui sotto un piccolo esempio
(clicca sull'immagine per ingrandirla),
il post del 25 maggio 2009:
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«La chiesa non compie da sé il proprio rinnovamento, ma Dio lo opera in essa. Abbiamo qui una verità molto pratica, poiché il rinnovamento della chiesa non ha come origine le decisioni più o meno solenni di sinodi, congressi o comitati, ma un incontro tra Dio e gli uomini, nel quale Dio prende in mano la situazione e concede agli uomini di essere strumenti dell'opera di rinnovamento. Per mettere mano a un'azione di rinnovamento della chiesa dobbiamo dunque attendere sempre la manifestazione di Dio? Sì. Sappiamo che egli è il Dio vivente che fa nuove tutte le cose e vuol fare della chiesa il centro della vita nuova in un mondo invecchiato ed effimero.
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«A prendere posizione, a volte, si perde qualcuno.
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Facebook: quando credendo di parlare con altri, comunichiamo solo con noi stessi
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«Un uomo con un idea nuova è un matto
finché quell'idea non ha successo».