«Questa educazione [di Gesù verso i discepoli] ha una caratteristica molto importante per tutta l'educazione evangelica. Non è, cioè, un'educazione ideologica, con un Gesù che annuncia dei princìpi e trae conclusioni, oppure che dà un programma e poi espone i punti successivi di attuazione. È invece un'educazione fatta nella vita: i discepoli vivono con Gesù, vedono come lui reagisce a proposito di una situazione, come parla, come si comporta. Annuncio e vita si intrecciano. Gesù fa e insegna: questo è fondamentale per l'educazione evangelica. Il Vangelo si impone per connaturalità affettiva col Signore e con coloro che lo vivono. Per questo quando si parla di «scuola di discepolato», nella tradizione della Chiesa ed è sempre un discepolato vivo: il rapporto maestro-discepolo. Le cose si imparano così. Noi stessi, se interroghiamo la nostra esperienza, possiamo dire che ciò che abbiamo imparato ci è venuto soprattutto dai contatti con veri cristiani; la grazia di genitori buoni e santi, l'incontro con qualche sacerdote che ci ha impressionato particolarmente; il loro modo di dire, di fare, di reagire, i loro silenzi, le loro osservazioni al tempo opportuno ci hanno insegnato molto. E’ così anche gli altri imparano da noi: non è tanto ciò che noi diciamo, ma il modo nostro di vivere, di reagire, di giudicare che è formativo. Gesù stesso ha voluto questo, è lui che ha cominciato questo tipo di scuola pratica; tante forme di iniziativa pastorale che mettono a contatto l'evangelizzatore con la gente sono efficacissime proprio se c'è questa osmosi, questa trasmissione invisibile di valori.
Leggevo, alcuni giorni fa, una trattazione teorica sul modo con cui vengono comunicati i significati della vita, e l'autore elencava una serie di elementi attraverso i quali vengono comunicati i significati: l'intersoggettività, il simbolo, la lingua e la vita concreta. Da questa catalogazione si vede come la lingua sia soltanto uno dei modi con cui si comunicano i valori e spesso non il più adeguato. Esiste l’intersoggettività, cioè tutte quelle attività che sono inerenti allo stare insieme, che hanno significato anche senza che ciò venga detto. Per esempio, il fatto stesso che noi siamo qui, riuniti in preghiera e in ascolto, ha un valore inesprimibile in parole perché significa comunità di fede, ascolto di un'unica Parola, comunione di presbiterio, relazione tra Vescovo e i suoi Sacerdoti, desiderio di camminare insieme.
Tutto questo è comunicato dal solo fatto di essere qui, senza che nessuno abbia bisogno di dirlo; attraverso questa intersoggettività passano moltissimi significati della vita. Ad esempio, la madre che tiene in braccio il bambino, assume un significato così grande e ricco che occorrerebbe un volume per esprimerlo. Poi ci sono i simboli; i simboli, i gesti, tutte le forme dell'arte, del canto dicono molto più di quello che la lingua può esprimere. Però la lingua è necessaria, perché altrimenti certi simboli restano ambigui, non chiari.
Soprattutto c'è la vita incarnata, le personalità che incarnano i valori: sono queste che trasmettono i significati in maniera eccezionale. Se poi queste personalità sono riunite in una intersoggettività comunitaria e usano simboli ben scelti, l'influsso è ancora più profondo. Pensiamo alle parabole di Gesù, ai suoi gesti, alla croce come simbolo fondamentale del suo amore, inesauribile come capacità di essere significante. Allora possiamo intuire come Gesù ha formato i suoi; ha usato una maniera per cui essi non riescono subito a capire e ad esprimere ciò che Egli dice e fa».
Carlo Maria Martini, L’evangelizzatore in San Luca, 94-96

Senza differenze, che dialogo è?
di Enzo Bianchi
Avere il gusto dell’altro”. Così Michel de Certeau, definiva il primo, il fondamentale passo di un cammino di umanizzazione, dove “l’altro è colui senza il quale vivere non è più vivere”. L’umanizzazione si gioca infatti nel rapporto tra l’io, il noi e gli altri, anche se troppo spesso ricorriamo sbrigativamente alle categorie di “noi” e “gli altri” per contrapporle, sperando così di essere agevolati nell’affrontare problemi, risolvere situazioni intricate, giustificare atteggiamenti e incomprensioni. Eppure sappiamo bene quanto sia arduo definire i confini tra queste due entità e, ancor di più, stabilire con certezza chi appartiene all’una o all’altra, in che misura e per quanto tempo. Quando giustapponiamo i due termini, in realtà intraprendiamo un percorso suscettibile di infinite varianti: ci possiamo infatti inoltrare su un ponte gettato tra due mondi, oppure andare a sbattere contro un muro che li separa o ancora ritrovarci su una strada che li mette in comunicazione. Possiamo anche scoprire l’opportunità di un intreccio fecondo dell’insopprimibile connessione che abita noi e loro. Sì, perché ciascuno di noi – e anche degli altri – esiste e trova la propria dimensione pienamente umana in quanto essere-in-relazione: con quanti lo hanno preceduto, con chi gli è o è stato accanto, con coloro che ha avuto o avrà modo di incontrare nella vita, con il pensiero, la vita e le azioni di persone che non ha mai conosciuto personalmente e perfino con chi non conoscerà mai ma che contribuisce con la sua esistenza, le sue gioie e le sue sofferenze a quel mirabile corpo collettivo che è l’umanità.
Ma allora come intraprendere e percorrere cammini di dialogo e di comunicazione con l’altro, capaci di condurre gli interlocutori a un’autentica umanizzazione? Credo che innanzitutto occorra riconoscere l’altro nella sua singolarità specifica, riconoscere la sua dignità di essere umano, il valore unico e irripetibile della sua vita, la sua libertà, la sua differenza. Teoricamente questo riconoscimento è facile, ma in realtà proprio perché la differenza desta paura, occorre mettere in conto l’esistenza di sentimenti ostili da vincere: c’è infatti in noi una tendenza a ripudiare tutto ciò che è lontano da noi per cultura, morale, religione, estetica, costumi. Occorre dunque esercitarsi a desiderare di ricevere dall’altro, considerando che i propri modi di essere e di pensare non sono gli unici ad aver diritto di esistenza. C’è un relativismo culturale che significa imparare la cultura degli altri senza misurarla sulla propria: questo atteggiamento è necessario in una relazione di alterità in cui si deve prendere il rischio di esporre la propria identità a ciò che non si è ancora…
A partire da questo atteggiamento preliminare, diventa possibile mettersi in ascolto: atteggiamento arduo ma essenziale quello di ascoltare una 

Apologia dell'alluce, il dito che ci fa tenere i piedi per terra
di Fabrice Hadjadj
Ho una grande ammirazione per colui che ha inventato la ruota (veramente, più per le carriole che per le automobili sportive), ma devo confessare che la mia massima ammirazione va all'inventore dell'alluce. Certo, una cosa con le ruote è un segno indiscutibile della presenza umana. La natura ci mostra animali che camminano, nuotano, volano, strisciano, galoppano – nessuno che rotola. Il ghepardo raggiunge i 112 km orari ma lo fa con le sue zampe, contraendo e rilassando il suo corpo; solo le Ferrari hanno la capacità di far filare il conducente in una vita senza colpi, dove tutto sembra poter andare «a ruota libera». E, tuttavia, l'alluce supera di gran lunga tale splendore pneumatico. Se c'è un organo che mette in dubbio la nostra parentela con la scimmia è proprio l'alluce. Osservate la testa o la mano di un vostro simile e potrebbe sussistere un dubbio (avevo una prozia che, diventando vecchia, somigliava sempre di più a una fantastica bertuccia). Ma guardategli i piedi e non avrete più nessuna esitazione: è proprio un essere umano. Georges Bataille insisteva su tale modo infallibile per distinguere Albertina da una babbuina: «L'alluce è la parte più umana del corpo umano, nel senso che nessun altro elemento del corpo è tanto differenziato dall'elemento corrispondente della scimmia antropomorfa (scimpanzé, gorilla, orangutan o gibbone)». Lo so che alcuni tra noi sono consumati dal dispiacere di non essere quadrumani e rimproverano all'alluce di non essere «opponibile» come il pollice della mano, così che potremmo appenderci ai rami, suonare la chitarra o salutare il vicino di casa con il piede. Costoro danno prova della loro ignoranza e della loro ingratitudine. È proprio perché non è opponibile che l'alluce ci permette l'equilibrio e il movimento nella posizione eretta, tanto che gli specialisti della biomeccanica lo chiamano «l'alluce della performance» o ancora «l'esecutore finale del passo». Il paleoantropologo André Leroi-Gourhan in una sua celebre affermazione ha detto: «L'uomo ha cominciato dai piedi». Questi, permettendoci di stare in piedi, hanno liberato le mani per la presa, e le mani hanno liberato la bocca per la parola. È dunque grazie al nostro alluce che parliamo. Di sicuro la lingua gioca un certo ruolo, ma senza l'alluce essa starebbe ancora a lappare nelle pozzanghere invece di intonare cantici. Questa è la luce dell'alluce. Narra Plutarco che Pirro, il padre dello scetticismo, possedeva nel suo alluce destro una «virtù divina»: bastava che lo imponesse sui ventri malati perché questi guarissero quasi subito. A Salonicco si trova una statua di Aristotele il cui alluce sinistro addita le altezze e brilla quanto il piede delle statue di san Pietro: i turisti lo accarezzano e lo baciano, come se il logos del filosofo fosse stato in questa estremità. Infine non posso non ricordare che, il giorno dell'Ascensione, l'ultima cosa che Cristo risorto offrì alla vista dei suoi discepoli furono certamente i suoi alluci (c'è tutta un'iconografia sacra che li rappresenta mentre il resto del corpo è già avvolto dalle nuvole). E dunque io credo alla resistenza dell'alluce (piuttosto che a quella dell'indice o del pugno chiuso). È un dito più umile e solido, che ci incoraggia al cammino, che non ha l'idea di vivere strangolando suo fratello, né pigiando dei bottoni. Vedere la sua luce è al tempo stesso mantenere i piedi per terra e toccare il cielo con un dito.
Avvenire, 20 settembre 2015

Per questo possiamo definirlo "pontefice".


«L’importante è non stare fermi.
Tutti sappiamo che quando l’acqua sta ferma marcisce. C’è un detto in spagnolo che dice: “L’acqua ferma è la prima a corrompersi”.
Non stare fermi.
Dobbiamo camminare, fare un passo ogni giorno, con l’aiuto del Signore».
papa Francesco ai detenuti, Isernia, 5 luglio 2014
/>Nell’arte non c’è mai l’ora del ritiro
di Ferdinando Camon
Diventata campione del mondo, Flavia Pennetta annuncia: «Mi ritiro. È il momento perfetto per ritirarsi». È un ammonimento per noi tutti: quando dobbiamo smettere? Qual è il momento perfetto per passare la mano? Per uno sportivo, un politico, un artista, uno scienziato? 
Per la verità, la campionessa del mondo ha anche detto: «Voglio sposarmi e vivere una vita normale». (...) Ogni vita è una competizione, e la Pennetta dice che dalla competizione ti conviene ritirarti quando sei all’apice. E qual è l’apice? 
Per lei, che fa sport, è facile rispondere: l’apice è il titolo mondiale. Tutto quello che fan gli uomini adesso è cronaca, diluita in migliaia di articoli, domani sarà storia, e di un migliaio di nomi, 999 saran perduti. Ne resta uno, il vincitore. Sii quel nome, prima di ritirarti, e non morirai più. La vita è un grafico, come quello della Borsa: è bella se termina in alto, in verticale. Allora è una vita vincente, tutti vorrebbero vivere la tua vita. Se termina in basso, in discesa, è la vita di un perdente, tutti si scansano da te. Ci sono vite che han toccato vertici altissimi, ma non si sono fermate, e poi sono precipitate. (...)
Ma è visibile questo «prima»? Qui è il problema. Se uno lavora nello sport, sente quando le forze calano (la Pennetta lo sente, per questo si allarma), e se uno lavora nella scienza, capisce quando raggiunge un risultato, perché la scienza te ne dà le prove. (...) Chi lavora nell’arte resta sempre in dubbio. «Scrivo di notte – raccontava Pratolini -, in una stanza vuota, su un tavolo pieno di sigarette. Alle 5 vado a letto, convinto di avere scritto Guerra e pace. Otto ore dopo mi rialzo, rileggo, e mi cascan le braccia». La Pennetta ha fatto un capolavoro, e glielo conferma il titolo mondiale. Ma nel fare libri, o film, o quadri, non c’è premio che ti garantisca la riuscita. Vai avanti sperando sempre che l’opera che stai facendo superi le precedenti. È impossibile fermarsi. Nello sport, quando sei campione del mondo puoi fermarti. Nella scienza, quando hai trovato ciò che tutti cercavano puoi fermarti. Nell’economia, quando hai costruito quel che volevi puoi fermarti. Nell’arte, no. Morirai senza aver raggiunto l’«attimo bello», ma avendone al massimo, come Faust, un dubbioso presentimento.
La Stampa - 15 settembre 2015
 
 


«Ci sono persone che cercano di insegnare e non ci riescono.
Ed altre che insegnano moltissimo senza neanche saperlo».
S. Lion


"Non è un film"
Fiorella Mannoia feat Frankie Hi-NRG MC
«Non è un film quello che scorre intorno 
che vediamo ogni ogni giorno, che giriamo distogliendo lo sguardo.
Non è un film e non sono comparse le persone disperse 
sospese e diverse tra noi e lo sfondo, 
e il resto del mondo che attraversa il confine,
ma il confine è rotondo: si sposta man mano che muoviamo lo sguardo,
ci sembra lontano perché siamo in ritardo, perenne, costante, ne basta un istante, 
a un passo dal centro è gia troppo distante, 
a un passo dal mare è gia troppo montagna, 
ad un passo da qui era tutta 

“Sono islamici, via dalla canonica”: i fedeli fermano il prete pro-rifugiati
di Jenner Meletti
Gli pesa ancora sul cuore, quell’«assemblea avvelenata». «Non me l’aspettavo proprio. Volevamo ospitare sei, al massimo dieci profughi in una canonica abbandonata da anni. Ne abbiamo discusso in assemblea, nella chiesa di Santa Cecilia. Quasi tutti hanno detto no. “‘Mio nonno ha costruito quella canonica per i preti, non per i musulmani”’, ha gridato uno di loro». Don Lucio Mozzo, 63 anni, parroco di Valle e di Trissino, è ancora scosso. Una chiesa così piena - 250 persone - la vede solo a Natale. Anche mercoledì sera era colma ma quando una ragazza ha mostrato la sua maglietta con la scritta «Chi ha paura muore tutti i giorni…» e ha detto che lei i migranti li avrebbe accolti, «subito si sono alzati - racconta il parroco - i buu e le urla, come allo stadio». «Per fortuna, domenica dopo pranzo, mi è arrivato il primo messaggino. “Don Lucio, il Papa la pensa come te”. Spero che con l’aiuto di Francesco le cose cambino. Ma ho i miei dubbi».
Boschi e annunci di sagre, nel paese di Valle, 1.200 abitanti. La canonica è grande, perché ospitava non solo parroco e perpetua ma aveva anche stanze per i missionari. «L’edificio ci è stato chiesto - racconta don Lucio Mozzo - dall’associazione Giovanni XXIII, quella fondata da don Oreste Benzi, per ospitare migranti in attesa di esame, soprattutto donne e bambini. Non abbiamo voluto decidere solo noi, come Consiglio pastorale. Ci sembrava giusto ascoltare il parere dei fedeli che dovranno convivere con quelle persone. Ma il confronto è stato quasi impossibile. Io ho detto che il cristiano, di fronte a chi ha bisogno, non può guardare da un’altra parte. Non può dire soltanto “prima i nostri”, come annunciano i nostri sindaci. “Prima i nostri” può andare bene ma non può significare “nulla per gli altri”. Onestamente, quelli della 

Grazie a Fabio Franzella.


«Essendo un corpo, la chiesa non rimane stazionaria, ma si sviluppa, cambia, si ingrandisce. (...) Situate in questa prospettiva (...) le successive attuazioni della chiesa, nonché impoverirla, la fanno crescere. (...) Ciascuna delle società e delle forme sociali in cui si incarna concorre a "completare" il Cristo. Sì, il corpo ha bisogno del capo, ma il capo ha bisogno esso stesso del corpo. (...) Conclusione importante per intendere le relazioni della chiesa e del mondo - e quindi mettere a fuoco il modo d'impegno dei cristiani: il mondo ha bisogno della chiesa per vivere; la chiesa ha bisogno del mondo per il suo sviluppo e per il suo compimento».
Emmanuel Suhard (1874-1949)

Dieci anni fa (6.09.2005) cominciavo la pubblicazione di alcuni post su Blogger:
http://seiunoseitre.blogspot.it/
Grazie a chi è stato compagno di strada lungo i giorni, i mesi, gli anni.
A presto, cioè: a domani!
don Chisciotte Mc

Qui sotto un piccolo esempio

(clicca sull'immagine per ingrandirla),
il post del 25 maggio 2009:


«La chiesa non compie da sé il proprio rinnovamento, ma Dio lo opera in essa. Abbiamo qui una verità molto pratica, poiché il rinnovamento della chiesa non ha come origine le decisioni più o meno solenni di sinodi, congressi o comitati, ma un incontro tra Dio e gli uomini, nel quale Dio prende in mano la situazione e concede agli uomini di essere strumenti dell'opera di rinnovamento. Per mettere mano a un'azione di rinnovamento della chiesa dobbiamo dunque attendere sempre la manifestazione di Dio? Sì. Sappiamo che egli è il Dio vivente che fa nuove tutte le cose e vuol fare della chiesa il centro della vita nuova in un mondo invecchiato ed effimero.
Dobbiamo dunque vigilare sempre per discernere le iniziative che Dio prenderà. In maniera inevitabile, la chiesa, vivendo in un mondo che non conosce autentico rinnovamento, ridiventerà uno degli elementi di questo mondo battendone le strade. Ma - è altrettanto inevitabile! - il Signore le offrirà la possibilità di fuggire da questa prigione. La chiesa deve essere rinnovata, perché lo è già stata. Abbiamo buoni motivi per credere che Dio non l'abbandonerà a se stessa. Noi attendiamo fondatamente che egli ci diriga chiaramente nel compito che ci traccia per il rinnovamento della chiesa di oggi.
Come e dove scoprire il senso del rinnovamento secondo la volontà di Dio? Ogni autentico rinnovamento nasce da uomini che si mettono in ascolto della parola di Dio così come la Bibbia la rivela».
Willem Adolf  Visser’t Hooft (1900-1985)
 

«A prendere posizione, a volte, si perde qualcuno.
A non prenderla, a volte, si perde se stessi».
frase trovata in rete

O forse è una nuova forma di assenteismo... della testa?!
 


Facebook: quando credendo di parlare con altri, comunichiamo solo con noi stessi
di Pino Corrias 
Nel tempo in cui si va globalizzando tutto, compresa la disperazione dei migranti che ci parlano attraverso il loro corpo, la loro allarmante invadenza fisica, il re della più grande rivoluzione immateriale e antisociale, Mark Zuckerberg, festeggia con un miliardo di persone connesse in un solo giorno, il rumore di fondo che ci avvolge (ci scalda, ci illude) e che noi chiamiamo comunicazione interattiva, equivocandone il suo sostanziale silenzio passivo. Perché credendo di parlare agli altri, stiamo in realtà parlando con noi stessi. In una collettiva regressione infantile, verso quei giochi che giocavamo da soli, ma facendo le voci di tutti i personaggi in campo.
Facebook è un kinderheim planetario. Dentro al quale la benestante moltitudine del pianeta – quella che in questo momento non sta morendo di fame, di sete, di aids, non sta per annegare su un barcone, non si sta scannando nella macelleria di una qualche lurida guerra santa – non ha assolutamente nulla da dire, ma lo dice almeno una dozzina di volte al giorno.
Lo fa postando nella propria pagina il piatto di patatine che sta per mangiare. La bevanda colorata che ha di fronte. Il bel tramonto ad ampio schermo e il brufolo stretto nel dettaglio. Lo fa scrivendo resoconti non richiesti di vacanze andate in malora e di diete da ultimare. Di amori finiti male. Di un film da vedere, di un ristorante vegano da evitare. Di un video imperdibile dove un tizio da qualche parte in America ha appena sterminato la famiglia e ora finalmente sta per suicidarsi, appena dopo la pubblicità.
La forma che in Facebook diventa sostanza, illude chi digita i messaggi che stia per davvero comunicando qualcosa a qualcuno, ma non è quasi mai vero. Il più delle volte sta solo facendo a se stesso il resoconto millimetrico della propria solitudine. E sta usando gli altri come pretesto. Sta semplicemente dicendo allo specchio “Io sono qui”. E dicendolo dieci volte al giorno, vuole convincersi di esistere per davvero almeno in quello specchio, grazie a quella scia digitale che lo avvolge di luce. Per poi cercare il coraggio di farsi la seconda domanda, quella cruciale: “C’è qualcuno in ascolto?”.
Domanda che non ha quasi mai una vera risposta, anche quando ne raccoglie cento oppure mille. Perché se chi manda una voce in rete la manda a se stesso, altrettanto fa chi risponde, quasi sempre parlando d’altro, accontentandosi di cogliere uno spunto per imprimere una nuova direzione al discorso, la sua.
Un tempo mi impressionavano i primi viaggiatori di treni e metropolitane che non alzavano mai 


«Un uomo con un idea nuova è un matto
finché quell'idea non ha successo».
Mark Twain, La vita oltre lo specchio