Svizzera, vescovi delusi

Una nota della conferenza episcopale critica il risultato del referendum sui minareti: ostacolo al dialogo.

di Marco Tosatti

Grande sorpresa e delusione dei vescovi cattolici per il "si'" degli elettori svizzeri alla proposta dell'estrema destra di vietare la costruzione di minareti in Svizzera: "Il si' al referendum aumenta i problemi della coabitazione tra religioni e culture - afferma la nota firmata dalla Conferenza episcopale elvetica - e per i pastori della Chiesa cattolica rappresenta un ostacolo e una grande sfida sul cammino dell'integrazione nel dialogo e nel rispetto reciproco; evidentemente non si e' riusciti a mostrare al popolo che il divieto di costruzione di minareti non contribuisce ad una sana coabitazione delle religioni e delle culture, ma al contrario la deteriora".

"La battaglia contro i minareti come quella contro i Crocifissi: la religione non può essere un fatto privato": c'é anche questo aspetto a preoccupare i vescovi svizzeri dell'esito del referendum anti-minareti, una tendenza che - ha sottolineato il segretario generale della Conferenza episcopale svizzera, mons.Felix Gmur in una intervista alla Radio Vaticana - complica le cose per i cristiani che vivono in Paesi dove la libertà religiosa è già limitata. "Quelli che sostenevano il referendum - ha detto mons.Gmur - dicono che la religione deve essere una cosa privata, ognuno può pregare dove vuole, ma non in luoghi pubblici. Nello stesso tempo si dicono cristiani, ma per un cristiano il culto non può essere solo un fatto privato. Su questo - ha affermato - occorre aprire un dibattito che faccia chiarezza, perché la società è disorientata, c'é una contraddizione in tutte le sue società europee, come dimostra la questione aperta sui crocifissi in Italia".

"Ora, ancora di più - è l'appello dei vescovi svizzeri - dobbiamo invece aiutare i cristiani che vivono nei Paesi musulmani, perché lì non sono liberi, non possono costruire chiese, né pregare in luoghi pubblici. Abbiamo il dovere - ha concluso - di lottare per loro". "Si vince la paura quando si vive insieme, ha osservato ancora Gmur, sottolineando il fatto che il referendum è stato respinto in città come Basilea e Ginevra, dove vive il maggior numero di musulmani, mentre ha preso il maggior numero di voti in zone a minor presenza di immigrati islamici.

Il referendum anti-minareti in Svizzera era stato preceduto da alcuni atti vandalici ai danni di moschee e minareti (...).
Missili e campanili

di Franco Cardini

Non c'è bisogno di aver letto Landscape and Memory (1995) di Simon Schama sulla storia del paesaggio per sapere che ambienti e landscapes si modificano col tempo. Anche e soprattutto grazie all'opera dell'uomo: e che poco c'è in essi di puramente «naturale», niente di definitivamente «bello». Agli antichi elvezi, probabilmente, le torri e i templi dei romani sulle prime non piacevano affatto; e, agli elvezi romanizzati, non dovevan garbare granché i campanili. Che quindi qualche minareto avrebbe davvero compromesso l'armonioso paesaggio svizzero, con i suoi laghi e i suoi pascoli, è lecito dubitare. Le ragioni del «sì» degli abitanti della felice Confederazione Elvetica al referendum sul bando alla costruzione delle torri da cui si chiamano i musulmani alla preghiera debbono essere anche altre.

«Simboli del potere islamico», è stato detto. Ma quale potere? Un campanile cattolico in Svezia significa forse che quel Paese è passato al papismo? I templi buddhisti di New York simboleggiano il passaggio degli States alla fede in Gautama Siddharta? E la monumentale sinagoga di Roma significa forse che la Città Eterna è in mano agli ebrei? «Niente minareti se non c'è reciprocità», ha cristianamente sentenziato qualcuno. Ma di quale reciprocità si tratta? Di campanili cristiani molti Paesi musulmani abbondano: dalla Turchia alla Siria alla Giordania all'Egitto all'Algeria; e il fatto che il re dell'Arabia Saudita ne vieti la costruzione autorizza forse moralmente gli svizzeri a negare un minareto a una comunità musulmana fatta di turchi o di maghrebini, che col monarca wahhabita non hanno proprio nulla a che fare? Ma le moschee sono fonte d'inquinamento fondamentalista, proclama qualcun altro. Dal che s'inferisce che l'unico modo per controllare e contrastare il fondamentalismo sia quello di umiliare molte decine di migliaia di credenti rifiutando loro un simbolo di libertà religiosa. E' arrivata a questo, la nostra regressione verso l'intolleranza?

Giratela come volete: ma il risultato del referendum svizzero è un altro tassello nell'allarmante puzzle della perdita delle virtù di tolleranza e di ragionevolezza di cui l'Europa e il mondo occidentale stanno dando di questi tempi prove sempre più chiare. E che questa febbre sia grave è prova il contestuale rifiuto, opposto dal medesimo popolo svizzero, all'altro referendum, che gli chiedeva il divieto dell'esportazione di armi e materiale bellico al fine di sostenere lo sforzo internazionale per il disarmo. Qui, di fronte a ovvi motivi di ben concreto interesse economico, il popolo per definizione più pacifico d'Europa - ma anche quello militarmente parlando meglio esercitato - ha rifiutato di arrestare il «commercio di morte». E' vero, le armi fanno male alla gente. Ma in fondo anche il tabacco e gli alcolici: e allora perché non continuarne produzione e vendita, magari con l'apposizione di qualche scritta d'avvertimento (tipo: «Sparare al prossimo fa male anche a te»)?

C'è del metodo, in questa follia. Curioso che il minareto somigli dannatamente a un missile, o anche a un bel proiettile lucente di fucile. I Mani di Charlton Heston, ex Mosè, ex Ben Hur, che tra 1998 e 2003 fu presidente dell'americana National Rifle Association, ne saranno estasiati. Lo ricordate, senescente eppur fiero della sua armeria simbolo di libertà, nel Bowling for Columbine di Michael Moore? Chi oggi esulta per l'esito del doppio referendum svizzero può prendere il vecchio Charlton a emblema del suo trionfo. A questo punto, per il momento, è arrivata la nostra notte.




Bisognerebbe compiere tutte le cose e anche le più ordinarie, soprattutto le più ordinarie - aprire una porta, scrivere una lettera, tendere una mano - con la massima cura e l'attenzione più viva, come se il destino del mondo o il corso delle stelle dipendessero da questo, e d'altronde è vero che la sorte del mondo e il corso delle stelle ne dipendono.

Christian Bobin, Il distacco dal mondo, 19

"Nessuno mai vide Dio" (1Gv 4,12). (...) Se vuoi vedere Dio, hai a disposizione l'idea giusta: Dio è amore. Quale volto ha l'amore? quale forma, quale statura, quali piedi, quali mani? nessuno lo può dire. Esso tuttavia ha i piedi, che conducono alla Chiesa; ha le mani, che donano ai poveri; ha gli occhi, coi quali si viene a conoscere colui che è nel bisogno; dice il salmo: Beato colui che pensa al povero ed all'indigente (Sal 40, 2). La carità ha orecchi e ne parla il Signore: Colui che ha orecchi da intendere, intenda (Lc 8, 8). Queste varie membra non si trovano separate in luoghi diversi, ma chi ha la carità vede con la mente il tutto e allo stesso tempo. Tu dunque abita nella carità ed essa abiterà in te; resta in essa ed essa resterà in te. E' mai possibile, o fratelli, che uno ami ciò che non vede? Perché allora, quando si fa la lode della carità, vi sollevate in piedi, acclamate, date lodi? Che cosa vi ho mostrato? Vi ho forse mostrato alcuni colori? Vi ho messo innanzi oro e argento? Vi ho sottoposto delle gemme tolte da un tesoro? Che cosa di grande ho mostrato ai vostri occhi? Forse che il mio volto nel parlarvi si è mutato? Io sono qui in carne ed ossa, sono qui nella stessa forma in cui ho fatto il mio ingresso; anche voi siete qui nella stessa forma in cui siete venuti. Ma si fa la lode della carità e uscite in acclamazioni. Certamente i vostri occhi non vedono nulla. Ma come essa vi piace quando la lodate, così vi piaccia di conservarla nel cuore. Capite, o fratelli, ciò che voglio dire: io vi esorto, per quanto il Signore lo concede, a procurarvi un grande tesoro. Se si mostrasse a voi un vaso d'oro cesellato, indorato, fatto con arte, ed esso attraesse i vostri occhi e attirasse a sé la brama del vostro cuore, e la mano dell'artista vi piacesse così come il peso della materia e lo splendore del metallo, forse che ciascuno di voi non direbbe: "oh, se avessi quel vaso"? Ma lo avreste detto inutilmente, poiché non era in vostro potere averlo. Oppure, se uno volesse averlo, penserebbe di rubarlo dalla casa di un altro. A voi vien fatto l'elogio della carità; se essa vi piace, abbiatela, possedetela; non è necessario che facciate un furto a qualcuno, non è necessario che pensiate di comprarla. Essa è gratuita. Tenetela, abbracciatela: niente è più dolce di essa. Se di tal pregio essa è quando viene presentata a voce, quale sarà il suo pregio quando è posseduta?

Agostino, 1a Lett. Giovanni 7, 10

Creme e trucco, aumenta il rischio allergie

La crema antirughe e quella idratante, dopo la doccia. Poi rimmel, rossetto, deodorante e ombretto. Le donne ogni giorno si spalmano su viso corpo e capelli circa 515 agenti chimici, secondo il calcolo fatto da una ricercatrice della casa cosmetica Bionsen. Per la cura del proprio corpo una donna moderna consuma quotidianamente «tredici prodotti in media
Siamo alle solite: non siamo capaci di fare un "bilancio" come si deve, una "verifica" vera e propria. Mi dispiace tanto, ma non riusciamo ad esprimere un volto collegiale, comunitario, sinfonico di "gestione" e di "interpretazione" della nostra Chiesa. Il bilancio in questione lo fa e lo presenta una persona sola; colui che ha fatto il "prodotto" è anche colui che lo valuta; i "dati" sono delle impressioni; lo scopo è apologetico. A cosa serve "verificare" in questo modo, senza cioé ascoltare sul serio la realtà; senza desiderare un vero miglioramento del "prodotto-iniziativa"; senza tenere conto di ciò che lo Spirito sta dicendo alle "chiese" (intendendo con questa espressione le comunità multiformi, le piccole parrocchie, le famiglie praticanti, i figli di Dio "piccoli", i ministri ordinati)...? Per esempio dal mio modesto punto di osservazione di elementi critici verso il nuovo lezionario ne ascolto, vedo, sperimento non pochi, non di scarsa qualità e non circoscritti (altro che "difficoltà", "polemica", "pigrizia"): li registro solo io?! E come mai la voce di quelli che con me hanno parlato non è riuscita a giungere alle orecchie di chi doveva - per servizio - ascoltarla? E se fosse giunta, perché non è stata tenuta in debito e rispettoso conto? Da secoli un proverbio dice: "non c'è peggior sordo di chi non vuole udire". Parafrasando un'espressione evangelica indicherei un rischio pericolosissimo: se non ascoltano il popolo, non ascoltano lo Spirito di Dio che anima questo popolo. E la Parola, che è la Persona del Verbo di Dio, resterebbe inascoltata.


don Chisciotte

Peppone fece un'alzata di spalle e interruppe don Camillo: "Reverendo, l'importante è che ci si capisca! Non è il caso di fare delle discussioni di letteratura. Tanto, la letteratura è una porca faccenda che serve soltanto per imbrogliare le idee, perché va a finire che uno, invece di dire quello che vorrebbe dire lui, dice quello che vuole la grammatica e l'analisi logica. E, a un bel momento, non ci capisce più dentro neanche quello che parla. Se io, porcaccio mondo, nei comizi potessi fare dei discorsi in dialetto, me la sbrigherei in metà tempo e difficilmente direi delle stupidaggini. Perché, quando uno fa un discorso, prima di tutto bisogna che capisca lui quello che dice. Se io parlo come mi ha fatto mia madre capisco tutto quello che dico. Perché, caro reverendo, mia madre mi ha fatto in dialetto, mica in italiano. Ma così, vigliacco mondo, va a finire che, dopo aver fatto un discorso, uno deve farsi spiegare da un altro quello che ha detto!". "Adesso parli giusto" osservò don Camillo.

Giovannino Guareschi, All'Anonima




L'intervento magisteriale giudica anche gli sprechi di taluni commercianti e altrettanti acquirenti, esemplificati sotto.



 


 


 


 


 


 


 


 


 


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Nutrirci della Parola, per essere «servi della Parola» nell'impegno dell'evangelizzazione: questa è sicuramente una priorità per la Chiesa all'inizio del nuovo millennio. È ormai tramontata, anche nei Paesi di antica evangelizzazione, la situazione di una «società cristiana», che, pur tra le tante debolezze che sempre segnano l'umano, si rifaceva esplicitamente ai valori evangelici. Oggi si deve affrontare con coraggio una situazione che si fa sempre più varia e impegnativa, nel contesto della globalizzazione e del nuovo e mutevole intreccio di popoli e culture che la caratterizza. Ho tante volte ripetuto in questi anni l'appello della nuova evangelizzazione. Lo ribadisco ora, soprattutto per indicare che occorre riaccendere in noi lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall'ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste. Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale esclamava: « Guai a me se non predicassi il Vangelo! » (1 Cor 9,16).

Questa passione non mancherà di suscitare nella Chiesa una nuova missionarietà, che non potrà essere demandata ad una porzione di «specialisti», ma dovrà coinvolgere la responsabilità di tutti i membri del Popolo di Dio. Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo. Occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno quotidiano delle comunità e dei gruppi cristiani. Ciò tuttavia avverrà nel rispetto dovuto al cammino sempre diversificato di ciascuna persona e nell'attenzione per le diverse culture in cui il messaggio cristiano deve essere calato, così che gli specifici valori di ogni popolo non siano rinnegati, ma purificati e portati alla loro pienezza.

Il cristianesimo del terzo millennio dovrà rispondere sempre meglio a questa esigenza di inculturazione. Restando pienamente se stesso, nella totale fedeltà all'annuncio evangelico e alla tradizione ecclesiale, esso porterà anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato. Della bellezza di questo volto pluriforme della Chiesa abbiamo particolarmente goduto nell'Anno giubilare. È forse solo un inizio, un'icona appena abbozzata del futuro che lo Spirito di Dio ci prepara.

Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 6.01.2001, n.40
Esce l'antologia dei primi dieci anni della rubrica.

Dall'idea alla scrittura: il metodo Gramellini


di Massimo Gramellini

Approfitto del decimo compleanno del Buongiorno (è nato in fondo alla prima pagina de «La Stampa» il 12 ottobre 1999) per rispondere alle domande che mi vengono rivolte con più frequenza dai lettori.


La prima: come fa a trovare tutti i giorni qualcosa da scrivere? Sottinteso: certe volte sarebbe meglio che lasciasse lo spazio bianco, invece di dire qualcosa di già detto. All'inizio la pensavo così anch'io. Poi ho capito che la caratteristica del Buongiorno risiede proprio nel suo essere un diario quotidiano che mima la vita. E la vita non è solo un'antologia di momenti magici. È un flusso ininterrotto di sogni e amarezze, di slanci imprevedibili e gesti ripetuti. Non si può essere originali tutti i giorni. E se uno scrivesse solo quando pensa di esserlo, alla fine non sarebbe originale mai.

Altra domanda: da dove prende gli spunti per i suoi corsivi? Dai fatti del giorno, esplorando le agenzie di stampa, i giornali, i telegiornali, i siti web. A quest'opera di scandaglio si aggiunge il contributo dei lettori che segnalano, suggeriscono e in qualche caso intimano di occuparsi di una certa vicenda. Il Buongiorno ha un unico vincolo. Trovandosi in fondo alla prima pagina, non può commentare le notizie presenti nei titoli principali, se non prendendole da una prospettiva particolare. Ma le costrizioni, si sa, allargano i pensieri. Così ho incominciato a differenziarlo dagli altri commenti. E i lettori a pretenderlo diverso, persino nella struttura linguistica: in rima, in forma di narrazione o come didascalia di una foto. Vogliono che assomigli il meno possibile a un articolo, ma soprattutto che racconti una storia: da ridere o da piangere, basta sia un'emozione.

Ultima domanda: da che parte sta? Come molti di coloro che hanno avuto la ventura di incrociare il decennio berlusconiano, mi è stata appioppata una etichetta surreale di comunista, solo perché la spregiudicatezza della destra sbrisolona è al centro dei miei sberleffi almeno quanto l'ingiustificato complesso di superiorità di una certa sinistra. Ma resto un liberale laico, le mie stelle polari si chiamano Cavour e Montanelli. Combatto i reazionari e diffido dei rivoluzionari. Mi considero un seguace del «giusto mezzo», che non è il terzismo di chi non si schiera mai, ma il buonsenso di chi persegue le riforme possibili. Non è facile far sentire le nostre ragioni in questa fase politica, dominata dalle curve degli ultrà. Però mi ostino a credere che esista un'altra Italia, maggioritaria e senza rappresentanza. Comprende milioni di cittadini di destra e di sinistra, ma soprattutto stanchi e confusi, che la brutalità del bipolarismo costringe ogni volta a schierarsi con quella delle altre due che in quel determinato momento sembra il male minore. Questi italiani non odiano nessuno e hanno un mucchio di cose da dirsi. Il Buongiorno è una delle loro case. Date le dimensioni, si tratta di una monocamera. Ma dentro non ci si sente mai soli. Chi la frequenta conserva la curiosità e il piacere di ritornarci. Ogni giorno, da dieci anni e, mi auguro, per molti altri ancora.

L'idea nacque dieci anni fa. Massimo Gramellini propose all'allora direttore della «Stampa», Marcello Sorgi, una rubrica quotidiana che raccontasse squarci di vita italiana al lettore che «già sa, senza offrirgli anche una soluzione», ovvero affidandosi a un po' di satira. Nacque un lungo dibattito sul nome che avrebbe dovuto avere questo spazio, ogni giorno, sulla prima pagina del giornale. Arrivarono decine di proposte. Gramellini, da parte sua, aveva in mente qualcosa tipo l'«aiuola». Alla fine fu il direttore a decidere per «Buongiorno». E aveva ragione lui. Perché fu un successo fin dall'inizio.




Il violinista di Dooney

Come le onde del mare, come le onde del mare balla la gente quando suono il mio violino.

Mio cugino è prete a Kilvarnet, mio fratello è prete a Mocharabuiee.

Ma io ho fatto più di mio fratello e mio cugino: leggono nei libri di preghiere,

io leggo nei miei libri di canzoni che ho comperato alla fiera di Sligo.

Quando alla fine dei tempi noi ci presenteremo a Pietro, andremo da lui seduto in maestà,

allora lui sorriderà ai nostri tre vecchi spiriti, ma chiamerà me per primo oltre il cancello.

Perchè sempre allegri sono i buoni, salvo che per cattiva sorte,

e la gente allegra ama il violino, la gente allegra ama ballare.

Quando mi vedono arrivare, corrono da me tutti gridando:

"Ecco il violinista di Dooney!".

Vengono a ballare come le onde del mare.


William Butler Yeats (tradotto e musicato da A. Branduardi)

Razzisti cioè cattivi

di Alessandro Portelli

È proprio vero che siamo un paese di poeti santi e navigatori. Solo in un paese di geni assoluti poteva essere concepita l'idea, scaturita dalla fervida immaginazione di un paese del bresciano, di lanciare di qui a Natale una campagna di pulizia etnica e chiamarla «White Christmas». La trovo un'idea entusiasmante. In primo luogo, perché spazza via tutte le menzogne mielate di quando ci raccontavano che a Natale siamo tutti più buoni: prendere spunto dal Natale per diventare più cattivi, e farlo in nome delle nostre radici cristiane mi pare un'operazione liberatoria di verità assolutamente ammirevole. Altro che cultura laica.

Qualche anno fa, quando il mio quartiere scese in piazza per impedire il trasferimento in zona di qualche famiglia rom, una compagna disse: «Non è razzismo, è cattiveria». Scrissi allora, e mi ripeto: non distinguerei fra le due cose (il razzismo è cattiveria), ma trovo giusta questa parola, «cattiveria», così elementare da essere caduta in disuso, perché qui è proprio l'elementarmente umano che è in gioco.

D'altra parte, un esimio leghista ministro della repubblica aveva già proclamato che bisognava essere cattivi con gli esseri umani non autorizzati. Disciplinatamente, fior di istituzioni democratiche eseguono: sbattono fuori dalle baracche i rom a via Rubattino a Milano e al Casilino a Roma e i marocchini braccianti in Campania, incitano i probi cittadini dei villaggi lombardi a denunciare i vicini senza documenti, premiano con civica medaglia intitolata a Sant'Ambrogio gli sgherri addetti ai rastrellamenti dei senza diritti. Fini dice che sono stronzi: no, non sono solo stronzi, sono malvagi.

Su un piano più leggero, trovo altrettanto geniale proclamare che l'operazione si fa in nome dell'incontaminata cultura lombarda e bresciana - e chiamarla con un nome inglese, per di più orecchiato da una canzone e un film americano. Non si potrebbe trovare un modo migliore per prendere in giro tutta la mitologia lombarda delle radici e della purezza culturale. Non è solo una bella presa in giro di quelli che mettono nomi lumbard sui cartelli all'ingresso dei paesi. Ma è anche un modo per ricordarci che non esiste cultura più paesana, più subalterna e più provinciale di quella che finge un cosmopolitismo d'accatto.

E infine, la trovata dell'inglese è una spietata denuncia dell'ipocrisia razzista. Dire «bianco Natale» significava mettere troppo in evidenza il colore della pelle, perciò lo diciamo con una strizzata d'occhio - dire le cose in inglese, non solo in questo caso ma più in generale ormai, significa dirle ma non dirle, è la nuova forma della semantica dell'eufemismo. E poi, «Christmas» invece di Natale: e hanno ragione, il nostro tradizionale Natale è sempre più sovrastato dall'americano Christmas, lasciamo perdere il misticismo e corriamo a fare shopping.

Aveva proprio ragione la mia amica appalachiana che diceva, «noi poveri di montagna non sognavamo un bianco Natale. Se nevicava, era più che altro un incubo». Io non so che Natale sognino i senza documenti del bresciano, dopo questo bell'esempio di cristianesimo. La cosa che immagino è che, cacciati dal villaggio, gli stranieri sbattuti fuori di casa andranno a dormire in una stalla e faranno nascere i loro clandestini bambini in qualche mangiatoia.

in “Il manifesto” del 24 novembre 2009
Il pellegrino e i tre spaccapietre

di Bruno Ferrero


Durante il Medioevo, un pellegrino aveva fatto voto di raggiungere un lontano santuario, come si usava a quei tempi. Dopo alcuni giorni di cammino, si trovò a passare per una stradina che si inerpicava per il fianco desolato di una collina brulla e bruciata dal sole. Sul sentiero spalancavano la bocca grigia tante cave di pietra. Qua e là degli uomini, seduti per terra, scalpellavano grossi frammenti di roccia per ricavare degli squadrati blocchi di pietra da costruzione.

Il pellegrino si avvicinò al primo degli uomini. Lo guardò con compassione. Polvere e sudore lo rendevano irriconoscibile, negli occhi feriti dalla polvere di pietra si leggeva una fatica terribile. Il suo braccio sembrava una cosa unica con il pesante martello che continuava a sollevare ed abbattere ritmicamente. "Che cosa fai?", chiese il pellegrino. "Non lo vedi?" rispose l'uomo, sgarbato, senza neanche sollevare il capo. "Mi sto ammazzando di fatica". Il pellegrino non disse nulla e riprese il cammino.


S'imbatté presto in un secondo spaccapietre. Era altrettanto stanco, ferito, impolverato. "Che cosa fai?", chiese anche a lui, il pellegrino.

"Non lo vedi? Lavoro da mattino a sera per mantenere mia moglie e i miei bambini", rispose l'uomo. In silenzio, il pellegrino riprese a camminare. Giunse quasi in cima alla collina. Là c'era un terzo spaccapietre. Era mortalmente affaticato, come gli altri. Aveva anche lui una crosta di polvere e sudore sul volto, ma gli occhi feriti dalle schegge di pietra avevano una strana serenità. "Che cosa fai?", chiese il pellegrino. "Non lo vedi?", rispose l'uomo, sorridendo con fierezza. "Sto costruendo una cattedrale". E con il braccio indicò la valle dove si stava innalzando una grande costruzione, ricca di colonne, di archi e di ardite guglie di pietra grigia, puntate verso il cielo.

 


E in genere non sono seguite ne' da un medico ne' da uno psicologo

Sposate e 50enni: l'identikit delle consumatrici di psicofarmaci

Il profilo emerge da un'indagine condotta nelle farmacie del Veneto. Ma sono i farmaci per il cuore i più acquistati

Donna, 52 anni, sposata, in grado di svolgere le attività quotidiane ma che non è seguita da uno psicologo nè da uno psichiatra. È questo l'identikit delle consumatrici di antidepressivi e ansiolitici che emerge dalla ricerca «Stili di vita, stato di salute psicofisica delle donne», il primo studio osservazionale caso-controllo condotto nelle farmacie venete. Lo studio, promosso dalla commissione Pari Opportunità della Regione Veneto è stato realizzato nel 2008 dal Dipartimento di Medicina e Sanità pubblica Sezione di Farmacologia dell'Università degli Studi di Verona.

L'indagine, pubblicata da «Dialogo sui farmaci» ha coinvolto 11.357 donne intervistate in farmacia da 249 farmacisti e ha analizzato sia le cause di stress degli ultimi 6 mesi che eventuali assunzioni di farmaci psicotropi. Risultato: il 44% del campione ha denunciato un forte stress emotivo dovuto alla morte di un parente, il 43% per problemi familiari e affettivi (malattie e incidenti), il 27% per difficoltà finanziarie, il 6% per violenza subita tra le mura domestiche. In seguito a questi eventi il 34% delle intervistate ha dichiarato di assumere ansiolitici e/o antidepressivi negli ultimi 6 mesi. Non solo: tra chi si recava in farmacia con una ricetta di medicinali psicotropi il 48% aveva una prescrizione per ansiolitici, il 33% per ansiolitici e anche antidepressivi, e il 19% solo per antidepressivi. Emerso anche un uso prolungato degli ansiolitici, quando invece le linee guida ne suggeriscono l'uso per periodi brevi.

In generale, comunque, tra i farmaci acquistati dal campione prevalgono quelli cardiovascolari, per l'apparato gastrointestinale e il metabolismo e per l'apparato muscolo scheletrico. Lo studio, secondo gli esperti mette in evidenza come il disagio femminile sia associato in una certa misura all'uso dei farmaci antidepressivi e ansiolitici. Fondamentali, inoltre, la capacità del farmacista nell'ascoltare, consigliare e informare le donne e nel fare da mediatore per la ricerca epidemiologica.
Attimi di una "normale" giornata lavorativa in una fabbrica di alluminio a Dhaka, in Bangladesh. Qui lavorano almeno 25 bambini, spesso per più di 12 ore consecutive al giorno. Per loro, lo stipendio quotidiano è di circa 60 taka, vale a dire 1,70 dollari. In queste immagini, scattate dal fotografo Andrew Biraj, i volti di Rustam (10 anni), Shaheen (10 anni) e Marjina (12 anni): bambini, come tanti altri, rubati troppo in fretta alla loro infanzia. Clicca sull'immagine
L'uomo «metrotextual»? Manda baci via sms (anche ai maschi)

Sempre più uomini concludono i messaggi con il classico «xxx». I più affettuosi sono i ragazzi tra i 18 e i 24 anni

Tramontata la moda dei metrosexual, fra i nuovi "tipi" urbani spunta il metrotextual. L'uomo, cioè, che protetto dallo steccato delle telecomunicazioni, manda bacini a tutto spiano, per concludere sms, mail e chat. Secondo uno studio dell'operatore telefonico americano T-Mobile, il sesso forte si è ammorbidito, ed è diventato più affettuoso, non solo con le amiche, ma anche con gli amici. Piovono bacini (xxx) e bacioni (XXX), nei messaggini di un quarto degli uomini intervistati (il 22 per cento), anche se si comunica con persone dello stesso sesso. I più affettuosi sono i ragazzi fra i 18 e i 24 anni, ma anche gli ultra 50enni si sbaciucchiano via sms (uno su dieci). Da baci e abbracci si salvano solo i capi e i clienti.

Il sondaggio, eseguito rigorosamente via email, per non suscitare imbarazzo tra gli intervistati, ha rivelato che il 75 per cento dei ragazzi fra i 18 e i 24 anni chiude la comunicazione con un bacio, mentre il 48 per cento si scambia baci e abbracci anche nei forum o nei gruppi di amici. La x, poi, spopola (nel 23 per cento dei casi) anche se si è semplici conoscenti. La ricerca sottolinea anche che esiste una certa “etichetta” tra i “metro-testuali”. È meglio usare la minuscola “x”, secondo il 52 per cento degli intervistati, che non la più strillata X maiuscola (preferita dal 17 per cento degli intervistati). Uno su tre, invece, ama esagerare con tanti “xxx”.

La spiegazione di tutto questo nuovo affetto virtuale fra uomini? Secondo Ron Bracey, psicologo clinico, «tradizionalmente gli uomini hanno tenuto imbottigliati i propri sentimenti, anche nei confronti degli amici. Ma la comunicazione non verbale, giunta con le e-mail, i telefonini e i social network, ha liberato questi sentimenti». «In generale
Canta e cammina

Ora infatti il nostro corpo è nella condizione terrestre, mentre allora sarà in quella celeste. O felice quell`alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace! Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo mai nessun amico. Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell`ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo pure ora, non tanto per goderci il riposo, quanto per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Canta per alleviare le asprezze della marcia, ma cantando non indulgere alla pigrizia. Canta e cammina. Che significa camminare? Andare avanti nel bene, progredire nella santità. Vi sono infatti, secondo l`Apostolo, alcuni che progrediscono si ma nel male. Se progredisci è segno che cammini, ma devi camminare nel bene, devi avanzare nella retta fede, devi avanzare nella retta fede, devi progredire nella santità. Canta e cammina.


dai «Discorsi» di sant'Agostino, Disc. 256, 1. 2. 3; PL 38, 1191-1193

Il ritratto degli automobilisti del Belpaese: indisciplinati e nervosi


Il 63% delle infrazioni commesse dagli automobilisti italiani non viene sanzionato. È il primo dato emerso dall'indagine (...).

Il non rispetto dei limiti di velocità è l'infrazione più comune, commessa dal 56% dei patentati. E a correre di più sono gli uomini (61% contro il 49% delle donne). Al secondo posto c'è un altro pericoloso vizio alla guida: parlare al cellulare. Lo fa, infatti, il 52% dei guidatori e soprattutto i giovani. Nella fascia d'età 18-34 anni il dato sale al 58%.

Più di un intervistato su tre (35%) non mantiene la distanza di sicurezza e quasi un terzo degli italiani al volante (31%) passa con il rosso o non allaccia le cinture. Al sud, quasi un guidatore su 2 non usa le cinture (46%). A livello nazionale, i più restii ad allacciarle sono i patentati cha hanno già compiuto i 55 anni (37% rispetto al 26% dei 18-34enni, ad esempio).

Nell'ultimo anno il 66% degli italiani è stato coinvolto in un incidente stradale. Nel 74% delle circostanze si ricorre alla constatazione amichevole, ma ben oltre 1.500.000 italiani hanno preferito pagare di tasca propria l'altro conducente piuttosto che rivolgersi alla compagnia assicurativa. In media la loro spesa è stata di 237 euro, «quasi il doppio - si rileva in una nota - di quanto sarebbe aumentato il loro premio cambiando classe di merito, se si fossero rivolti a un comparatore prezzi e avessero confrontato le offerte di diverse compagnie». Sono le donne le più inclini a risolvere la questione dell'incidente indennizzando l'altro conducente e al sud si cerca di non ricorrere all'assicurazione molto più di quanto non accade in qualunque altra parte d'Italia (20% rispetto a una media nazionale del 12%).

L'indagine condotta da Tns ha messo in luce anche quali micce accendono l'ira dei patentati italiani. Nel 59% dei casi ci si infuria per l'esecuzione di manovre pericolose, nel 52% per le mancate precedenze e, nel 41%, perché un altro mezzo ostruisce la carreggiata. L'uso eccessivo del clacson occupa l'ultimo posto nella classifica dei motivi d'ira (18%).
Foreste, alberi, rami, frutti, germogli, montagne, uccelli. Spighe, falci, chicchi, mietitura, contadino, gigli del campo, granello di senape, ortaggi, pesci, ombra riposante ai margini di un pozzo...

... C'erano una volta i profeti e un Maestro di nome Gesù che parlavano di queste cose con la massima naturalezza.

... C'era una volta un Maestro di nome Gesù, il quale, dovendo spiegare una realtà difficile come il Regno di Dio, si affidava a un racconto, a immagini ricavate dai campi o dalla vita domestica (sale, lievito, farina, olio, vino, acqua, lucerna...).

... C'erano una volta preti che avevano la terra appiccicata alla suola delle scarpacce. Coltivavano l'orto, si occupavano personalmente della cantina, erano esperti di viti e di api, non disdegnavano la frequentazione della stalla o del pollaio, e quando passavano per i campi si fermavano ad osservare.

E poi sapevano raccontare.

La loro predicazione non sempre rientrava nei canoni classici dell'eloquenza sacra, in compenso azzeccavano senza fatica le immagini familiari al mondo della loro gente, e i paragoni erano quasi sempre indovinati.

Forse parlavano un po' a braccio. In compenso si facevano ascoltare e soprattutto capire.

Oggi i preti sfrecciano velocissimi sull'autostrada e non si fermano mai, se non all'autogrill. Organizzano viaggi - chiamati pudicamente pellegrinaggi (un santuario si trova sempre nei dintorni...) - nelle parti più remote del globo. Ma non camminano più. Tantomeno in campagna.

La loro predicazione, normalmente, è impeccabile, tirata a lustro come le loro scarpe. Parlano il linguaggio della tecnologia, svolgono i loro bravi temi sociologici, esaminano i problemi dal punto di vista psicologico e persino psicanalitico, citano i più moderni maitres à penser o opinion maker, fanno riferimento ai film di Ingmar Bergman e di Krzystof Kieslowski, citano i versi di cantautori famosi spacciati per poeti, declamano le poesie di Rilke e Hopkins, interpretano i quadri di Chagall e di Munch, discutono le tematiche dell'ultimo romanzo che nessuno degli ascoltatori ha ancora letto, polemizzano col teologo che non gli va a genio e di cui tutti ignorano perfino il nome, si avventurano spericolatamente perfino nell'analisi strutturale della Parola di Dio, tirano in ballo la semiotica, mettono in guardia contro i pericoli della new-age (che è l'argomento preferito nelle discussioni al bar o in famiglia...).

Tutto bene, funzionale. Ma non sanno raccontare. Le loro immagini, i loro esempi, risultano sfasati rispetto all'esperienza della gente comune, che di fatto li subisce più che mostrarsi interessata.

Per sentirli "parlare terra" bisogna aspettare una domenica in cui vengono costretti dai brani del Lezionario, cui non possono sottrarsi. Ma si intuisce subito che su quel terreno si muovono con evidente impaccio, e ne farebbero benissimo a meno, perché quelle cose non rientrano nei loro gusti.

Forse sarebbe opportuno rendersi conto che il linguaggio per "rendere" il mistero è il linguaggio delle cose semplici. Paradossalmente, il mistero può essere contenuto, non nell'involucro pretenzioso delle elucubrazioni intellettuali, ma nelle immagini legate alla vita di tutti i giorni. Il mondo che più ci è familiare è quello che meglio di ogni altro offre la possibilità almeno di sfiorare le realtà trascendenti.

Sorge spontanea una domanda: perché la religione non viene "raccontata"? Perché i fedeli sono costretti a sorbirsi lezioni teoriche, documenti dottrinali impervi, statistiche, inchieste, informazioni varie, dibattiti intellettuali, e non viene loro quasi mai regalata la sorpresa di un racconto?

Qualcuno implora: «Parlateci di Dio!» Io direi, soprattutto: «Raccontatecelo!» Gesù veniva da lontano, dall'alto. Ma aveva i sandali imbiancati dalla polvere delle strade. Anche per questo sapeva raccontare. E si guardava attorno, cercava gli occhi degli ascoltatori, vi leggeva dentro la loro vita quotidiana.

Alessandro Pronzato, La predica prova della fede, 104-106


In fondo - visto che sono cristiano -trovo normale che anche a 2 km dal Vaticano, considerato il cuore della cattolicità, un leader politico-religioso possa tenere le sue catechesi e proclami che non fu Gesù ad andare sulla croce ma un suo sosia.

Dopo aver visto le file per le selezioni di X-Factor, il Grande Fratello, la discoteca dove verrà (o non verrà) Fabrizio Corona, ecc. non mi colpisce più che un tot di cittadine italiane (che si considerano "di bella presenza") aspiri a partecipare anche a questo "evento".

Non dovrei più sorprendermi che i media abbiano abbondantemente coperto i contenuti di questi incontri, soffermandosi solo sulla sua facciata di gossip.

Mi domando dove finiscano - quando appare Gheddafi - i difensori del crocifisso, della cosidetta "cultura cattolica italiana", e tutti quelli che ce l'hanno su con i marocchini, i tunisini, i maghrebini, ecc. Come mi domando dove finiscano - quando appare Putin - i detrattori del comunismo e delle sue nefandezze.

Però le mie orecchie sono contente quando - almeno in queste occasioni - non sentono né gli uni né gli altri.


don Chisciotte


Gheddafi dà lezione a 200 hostess

Roma, parla di Islam e regala un Corano

Convoca duecento hostess in una villa a Roma. Loro credono di essere state invitate a una serata di gala e invece trovano il leader libico che dà loro lezione di Islam. Il singolare "professore", nella capitale per il vertice Fao sulla fame nel mondo, ha organizzato un incontro per spiegare che l'Islam non è contro le donne, che sulla croce non ci è andato Gesù Cristo ma un suo sosia, e per invitare le sue ospite a convertirsi.

Le hostess erano state reclutate da una società di pubbliche relazioni, che nell'annuncio diceva di cercare ragazze piacevoli, tra i 18 e i 35 anni, ben vestite ma non in minigonna o scollate, alte almeno un metro e 70 centimetri e prometteva un compenso di 50 euro.

Una volta arrivate a destinazione, le ragazze passano il controllo di un metal detector, lasciano tutti gli oggetti personali all'ingresso della villa, vengono fatte fatte accomodare in una grande sala, le più graziose si siedono nelle prime file, e lì attendono l'arrivo di Gheddafi accompagnato da un interprete.

Il premier libico parla a lungo raccontando i suoi precedenti viaggi in Italia, gli incontri avuti con il presidente del Consiglio Berlusconi, e la cooperazione tra Italia e Libia. Chiede alle giovani se sarebbero disposte ad accogliere nel loro Paese cittadini libici (la risposta è un coro di sì) e se sarebbero disposte ad andare loro in Libia. E infine, spiega a lungo i principi dell'Islam concludendo con l'invito a convertirsi "ma solo con convinzione". Dura quasi due ore la serata di lavoro delle ragazze, che si chiude con il dono di una copia a testa del Corano e del libretto verde della Jamaria.




«Non insegno mai ai miei allievi, cerco solo di metterli in condizione di poter imparare».


Albert Einstein

 

La Messa parrocchiale

di don Primo Mazzolari

Non una Messa pontificale, non una Messa in una basilica o in una abbazia benedettina, ma la più povera delle Messe, celebrata dal più povero dei sacerdoti.

La nostra chiesa è la più povera delle chiese.

Il vescovo non s'illuda se in visita pastorale la trova quasi bella. Siamo anche noi dei poveri uomini che, quando viene il superiore, danno un colore di festa anche agli stracci.

Ma non vergognamoci della povertà della nostra chiesa, che s'intona assai bene con la Messa e fa meno paurosa la nostra povertà.

Quale preparazione possiamo fare noi poveri parroci, alla nostra Messa parrocchiale della domenica?

La liturgia è un momento composto, dicono alcuni. Vorrei che qualche mio confratello di città venisse a celebrare da me la domenica. Dopo, potrebbe parlare con più competenza di «momento composto».

Dov'è il popolo? La chiesa è ancora vuota. O perché piove, o perché fa caldo, o perché gela: bisogna attendere, i nostri clienti non hanno fretta.

Andiamo in sacrestia. Il sacrista è sbadato: i chierichetti litigano per il primo posto, come gli apostoli...

Finalmente, ci si avvia all'altare. Il momento richiederebbe il massimo raccoglimento: ma come si fa a non dare uno sguardo alla navata per vedere se c'è gente e come sta?

Adesso salgo l'altare. Incomincia la Messa parrocchiale... (continua - fai il download dell'intera meditazione tra i nostri Testi)
Dal vangelo della Messa di oggi (rito ambrosiano): Matteo 9, 16-17

Gesù disse ai discepoli di Giovanni: «Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l'uno e gli altri si conservano».
Funerali

di
Yoani Sanchez (da Cuba)

Da un po' di tempo a questa parte si respira un'aria funebre. All'interno del notiziario televisivo, le immagini delle cerimonie funebri sono diventate un'abitudine quasi mensile: suoni di tromba che invitano al silenzio, ventuno colpi sparati a salve, il passo marziale dei soldati, lacrime e parole di commiato. Sono stati inaugurati nuovi mausolei e hanno restaurato le strutture già esistenti. A tutto questo dobbiamo aggiungere una mania febbrile di commemorare anniversari di qualunque fatto e di esaltare eventi ritenuti degni di celebrazione. La preoccupazione senile per la conservazione della memoria ha preso il posto della giovanile inquietudine creativa. La popolazione cubana è invecchiata, a causa della bassa natalità, per la costante emigrazione dei più giovani e per l'aumento della speranza di vita. Ma tra coloro che si trovano alla guida del paese registriamo un numero più elevato di persone anziane. Forse per questo motivo sono in aumento gli analisti che usano la parola gerontocrazia per definire la nostra forma di governo.

La definizione può sembrare inesatta se prendiamo in considerazione l'età media dei deputati dell'Assemblea Nazionale, ma al contrario osserviamo che da oltre dodici anni non viene rinnovato il Comitato Centrale del Partito Comunista. Un buon numero di ministri ha un'età intorno ai sessanta anni, ma la quota maggiore di potere è concentrata nelle mani di settantenni e ottantenni. Invece di accelerare la marcia verso il futuro, questi veterani si compiacciono nel guardare il percorso compiuto ed esigono apprezzamenti per le cose ottenute. Mentre si preparano per quello che senza dubbio sarà il funerale più spettacolare della storia di Cuba, quella che alcuni chiamano “la soluzione biologica”, la saga luttuosa che pervade la programmazione televisiva sembra una sorta di prova generale. Il rumore dei colpi di cannone previsti dal cerimoniale non fa sentire i colpi della nuova generazione che sta bussando alla porta, dalla quale entrerà come una tromba d'aria distruggendo tutto. Spazzando via - una volta per tutte - questo odore di fiori secchi che sentiamo in ogni luogo.


Traduzione di Gordiano Lupi

Attenti alla bellezza di Lucifero

di Andrea Cammilleri

Metto le mani avanti: non ho visto il film «La Prima Linea» e scrivo basandomi su quello che ne hanno scritto persone degne di fede. Mi pare sia concorde l'opinione che si tratti di un film molto serio, che non intende esaltare posizioni estremiste, che è recitato senza inutile enfasi.

Eppure sono in tanti, alla fine, a dichiarare di averne ricavato una sensazione di disagio, consistente nell'avere apprezzato la narrazione e l'interpretazione datane fino a raggiungere un certo grado di coinvolgimento, pur sapendo che mai, per loro educazione, cultura, vicende personali e politiche, avrebbero potuto avere punti di contatto con i terroristi del film. E non credo che ciò sia dovuto solo al fatto che Scamarcio e la Mezzogiorno siano belli e bravi. Esistono anime celestiali in corpi sgradevoli e viceversa. E Lucifero era un angelo bellissimo o un orrendo essere deforme? Sono convinto che libri e film che eleggono a protagonisti degli appartenenti, in un modo o nell'altro, al terrorismo, siano assai più difficili a scriversi e a farsi che non libri e film su boss mafiosi o capi camorristi, già di per sé temi assai problematici. Anche con le migliori intenzioni del mondo, si rischia un effetto boomerang.

E questo soprattutto perché dietro a ogni gesto terroristico c'è una complessa miscela esplosiva di ideologia deviata e deviante, di «missione da compiere», di «estasi verso il basso» (per dirla con Malraux), di esaltazione, di autoreferenzialità, di indifferenza verso il dolore altrui, di amore per il rischio, e tantissime altre componenti che non possono essere, non dico analizzate, ma nemmeno accennate in un film. Così lo spettatore rimane in una condizione emozionale per quei gesti, è coinvolto dall'emozione allo stato puro di uno spettacolo che esclude del tutto l'intervento della ragione. Alla quale perciò, anche non volendolo coscientemente fare, in sostanza non vengono forniti né i mezzi né l'opportunità di calibrare quell'emozione.

Saviano ha saputo dimostrare che si può scrivere un ottimo libro sulla camorra evidenziandone la ferocia e l'orrore. Ma il film che dal libro è stato tratto è allo stesso livello? Ancora: mi è capitato di leggere uno splendido romanzo su un terrorista. Era firmato Conrad. E qualcosa del modo di pensare terroristico me l'hanno suggerito certe pagine di Dostoevskij. E questo qualcosa deve significare.




Meglio non dimenticarle, certe espressioni.

(...) Anche le gerarchie ecclesiastiche si smarcano dal Carroccio, come già accaduto sulla sentenza di Strasburgo. Lì è stato il vescovo di Padova, Mattiazzo a stigmatizzare la «strumentalizzazione politica» del simbolo cristiano, qui l'«altolà» arriva direttamente dal cardinale Walter Kasper, ministro vaticano per l'Unità dei cristiani. «La sacralità e la santità della messa richiedono le lingue ufficiali, altrimenti si ridicolizza e si banalizza la celebrazione - afferma -. La messa è unificante. Nelle città la popolazione è mista e tutti hanno diritto di capire. In una diocesi è inammissibile che ciascuna componente celebri se stessa invece dell'Eucarestia. Non si avvicina così al sacro un popolo che anche nei documenti e negli atti dello Stato usa la lingua ufficiale». Una bocciatura senza appello. «Amo il mio meraviglioso dialetto svevo, che si avvicina al bavarese e si differenzia dal tedesco della Svizzera, ma lo parlo in casa, non lo utilizzerei mai fuori dal contesto familiare, tanto meno per celebrare - precisa lo stretto collaboratore del Papa -. La messa in dialetto non è inclusiva, ostacola la comprensione generale e si presta a strumentalizzazioni. Pubblicamente bisogna usare la lingua ufficiale».


Giacomo Galeazzi su "La Stampa" del 16.11.2009


Dal discorso di papa Benedetto XVI in visita al vertice della FAO

E' necessario contrastare anche il ricorso a certe forme di sovvenzioni che perturbano gravemente il settore agricolo, la persistenza di modelli alimentari orientati al solo consumo e privi di una prospettiva di più ampio raggio e soprattutto l'egoismo, che consente alla speculazione di entrare persino nei mercati dei cereali, per cui il cibo viene considerato alla stregua di tutte le altre merci.

La debolezza degli attuali meccanismi della sicurezza alimentare e la necessità di un loro ripensamento sono testimoniati, in un certo senso, dalla stessa convocazione di questo Vertice. (...) Il concetto di cooperazione deve essere coerente con il principio di sussidiarietà: è necessario coinvolgere "le comunità locali nelle scelte e nelle decisioni relative all'uso della terra coltivabile" (...) Di fronte a Paesi che manifestano necessità di apporti esterni, la Comunità internazionale ha il dovere di partecipare con gli strumenti della cooperazione, sentendosi corresponsabile del loro sviluppo, "mediante la solidarietà della presenza, dell'accompagnamento, della formazione e del rispetto". (...) La via solidaristica per lo sviluppo dei Paesi poveri possa diventare anche una via di soluzione della crisi globale in atto. Sostenendo, infatti, con piani di finanziamento ispirati a solidarietà tali Nazioni, affinché provvedano esse stesse a soddisfare le proprie domande di consumo e di sviluppo, non solo si favorisce la crescita economica al loro interno, ma si possono avere ripercussioni positive sullo sviluppo umano integrale in altri Paesi.

Nell'odierna situazione permane ancora un livello di sviluppo diseguale tra e nelle Nazioni, che determina, in molte aree del pianeta, condizioni di precarietà, accentuando la contrapposizione tra povertà e ricchezza. Tale confronto non riguarda più solo i modelli di sviluppo, ma anche e soprattutto la percezione stessa che sembra affermarsi circa un fenomeno come l'insicurezza alimentare. Vi è il rischio cioè che la fame venga ritenuta come strutturale, parte integrante delle realtà socio-politiche dei Paesi più deboli, oggetto di un senso di rassegnato sconforto se non addirittura di indifferenza. Non è così, e non deve essere così! Per combattere e vincere la fame è essenziale cominciare a ridefinire i concetti ed i principi sin qui applicati nelle relazioni internazionali.

Testo integrale

Ricordati, o piissima Vergine Maria,

che non si è mai udito che qualcuno sia ricorso alla tua protezione,

abbia implorato il tuo patrocinio e domandato il tuo aiuto,

e sia rimasto abbandonato.

Sostenuto da questa fiducia, mi rivolgo a te, Madre, Vergine delle vergini.

Vengo a te, con le lacrime agli occhi, colpevole di tanti peccati,

mi prostro ai tuoi piedi e domando pietà.

Non disprezzare la mia supplica, o Madre del Divin Verbo,

ma benigna ascoltami ed esaudiscimi.

Amen.

"Sono i giovani i crocifissi da difendere"

di don Luigi Ciotti

I crocifissi da difendere, quelli veri, non sono quelli appesi ai muri delle scuole. Sono altri. Sono uomini e donne che fanno fatica. Che non ce la fanno e muoiono di stenti. E' verso di loro che non possiamo e non dobbiamo restare indifferenti. E' verso di loro che dobbiamo concentrare i nostri sforzi.

«Un crocifisso è un malato di Aids, che ha bisogno di cure e di sostegno. Un crocifisso è quel ragazzo brasiliano che è morto qualche giorno fa a Torino. A casa aveva lasciato la moglie e i figli, era arrivato qui alla ricerca di un lavoro, e non ce l'ha fatta».

Abbiamo partecipato al suo funerale. C'erano tante persone, molte nemmeno lo conoscevano, ma erano lì ugualmente, a condividerne la sofferenza e il dolore.

«E' giusto lottare per difendere i simboli di ciò in cui crediamo, ma allo stesso tempo bisognare stare molto attenti a non cedere al puro idealismo. Lo dice il Vangelo stesso: i pezzetti di Dio sono sparsi nel mondo che ci circonda. Li troviamo ovunque. Nel concreto, nella vita di tutti i giorni, tra le persone che vivono accanto a noi, e di cui spesso nemmeno ci accorgiamo dell'esistenza. E' con queste realtà che dobbiamo imparare ad avere a che fare e a misurarci.

«Bisogna imparare a vivere con corresponsabilità, come i tanti e tanti volontari che dedicano il proprio tempo a un bene che non è esclusivamente loro, ma pubblico, di tutti quanti. Dobbiamo sentirci tutti chiamati in causa, nei grandi nuclei urbani come nei tanti piccoli paesi di provincia. La partecipazione è il primo passo in favore dei più deboli.

«I crocifissi non si difendono soltanto con le parole. Infatti queste troppe volte non bastano. Bisogna imparare ad affrontare la realtà con concretezza, e tendere la mano alle persone sole, a chi non ha più una famiglia e a chi non può ricorrere all'aiuto dei propri cari».
"Messa in dialetto"

Attraverso l'eurodeputato Matteo Salvini, la Lega appoggia l'idea di celebrare la messa in dialetto.

di Giacomo Galeazzi

"Si alla messa in dialetto, attirerebbe i giovani", afferma Matteo Salvini, della Lega Nord convinto sostenitore di questa campagna dei cattolici del Carroccio. "Non sta a noi decidere-  sostiene Salvini - ma alla Chiesa nella sua totale autonomia. Mi permetto solo un suggerimento ai vertici del Vaticano: se le messe fossero celebrate negli idiomi locali, i giovani ne verrebbero sicuramente incuriositi e attirati. Credo che un cambiamento in questa direzione non possa che giovare alla efficacia comunicativa della Santa Messa». Matteo Salvini, direttore di Radio Padania ed eurodeputato della Lega Nord sposa in pieno i risultati di un sondaggio lanciato dalla trasmissione, secondo il quale ben il 77% degli elettori leghisti gradirebbero preghiere ed omelie celebrate in dialetto. «Sarebbe sciocco - ha detto nel corso del programma, pensare che questo cambiamento tolga qualcosa a qualcuno. Anzi, a mio parere aggiunge qualcosa». Salvini ricorda che Già nel 2003 furono celebrate delle messe in dialetto. Si chiamavano messe «zeneizi» e furono celebrate da don Sandro Carbone, rettore del santuario di Nostra Signora della Vittoria. L'allora Arcivescovo di Genova Tarcisio Bertone diede il permesso di celebrare alcune messe in latino e in italiano con alcune parti della cerimonia in genovese (letture, preghiera dei fedeli, predica e canti in dialetto)«. Salvini ha precisato:  «Lo stop arrivò poi da Bagnasco. Fino ad allora le messe che venivano celebrate in dialetto erano quattro all'anno: al Santuario presso l'Abbazia del Boschetto e presso la Chiesa di Santa Caterina». Salvini ha sottolineato che la Lega non mira «assolutamente alla secessione liturgica. Ci limitiamo ad osservare che sono documentate già da tempo messe celebrate in idiomi locali: dal francese della Val d'Aosta al tedesco dell'Alto Adige, dallo sloveno al cividalese fino al sardo. Quanto al progetto di Chiesa Padana - ha spiegato- va avanti ma non credo si tradurrà mai in una istituzione. Io stesso in questi giorni ho inaugurato una sede della Lega a Santhià. Il parroco locale ha benedetto la sezione in quanto luogo di comunità. Segnali simili ci sono in tantissime città del nord. Credo che anche questa sia una forma di vicinanza al territorio».


Lo Spirito Santo operatore della comunione nella verità totale

Individuare alcuni tra i principali punti di frattura della verità integrale, non è stato difficile; diventa invece un'impresa disperata catalogare tutti i frantumi di cristianesimo che possono derivare dalle diverse rotture. Ne abbiamo ricordati alcuni; continuare nell'elencazione sarebbe troppo lungo oltre che penoso. I frammenti raccolti insieme non compongono un tutto, ma un mucchio confuso di pezzi grandi o piccoli, di molto o di scarso valore. E in ciascuno di essi la verità piena del cristianesimo a volte non può che riflettersi in modo miseramente deformato e parziale.

C'è chi proclama che il cristianesimo si vive nel «gruppo», evidentemente nel «suo» gruppo; e c'è chi continua a credere in un cristianesimo individualistico.

C'è chi riconosce il cristianesimo solo se si compromette nei conflitti sociali, perché, a suo giudizio, il cristianesimo o è «politico» o non è; e c'è chi riconosce il cristianesimo solo se non si fa «parte» nella contesa socio-politica.

C'è chi vede lo Spirito Santo solo nei carismi indisciplinati e ribelli; e c'è chi lo vede nel ministero dei vescovi, ma solo per il dialogo e la partecipazione non per l'ascolto e il riconoscimento della «parola di salvezza» espressa nella voce dell'autorità. C'è chi afferma la «specificità» del cristianesimo e c'è chi nega che il cristianesimo abbia una tale specificità che giustifichi le sue scuole, le sue istituzioni di assistenza, le sue opere di formazione.

C'è chi agita il suo frammento, raccoglie intorno a esso i «suoi», ma esclude gli altri che si agitano intorno a un diverso frammento. I frammenti dividono e non uniscono. Intorno a essi si possono prendere e fare accordi e compromessi, ma non comunione.

Sul tumulto di queste voci concitate e passionali pare che si levi ancora la voce del Signore: «Se sentirete che il Cristo è qui o è là, non credete, non muovetevi, state dove siete» (Mt. 24, 23).

Per fare comunione, ci vuole l'unica fede in tutta la verità; ma a quest'unica fede in tutta la verità non si può pervenire senza lo Spirito Santo. Ille Spiritus veritatis docebit vos omnem veritatem (Gv. 16, 13).

Venga, dunque, lo Spirito Santo: egli è il primo e supremo operatore di comunione tra le persone, a cominciare da quelle augustissime della Trinità divina. Venga e si effonda in noi come un crisma sacro: tanto più ci potrà penetrare, quanto più coltiveremo l'amicizia personale col Signore Gesù: perché è lui che ce lo manda; tanto più ci potrà possedere, quanto più ameremo la Chiesa, perché è sulla Chiesa che discende.

Venga, e c'insegni a non frantumare il tutto, ma a riconoscere nei frantumi il rimpianto e il sospiro verso il tutto.

Venga e faccia di tutti i presbiteri, con i vicari episcopali, i vescovi e l'arcivescovo della santa Chiesa ambrosiana una sola comunione nella verità totale, che è Cristo Signore, morto e risorto.

card. Giovanni Colombo, Omelia del giovedì santo 1974


In questi giorni mi è ritornata in mente questa semplice canzone: non sono più un ragazzo, ma sono proprio sempre fortunato! E lo dico sottovoce, e con un po' di pudore, pensando a chi non può dire lo stesso di sé.


don Chisciotte





Da "Pinocchio", "Chi ha incastrato Peter Pan?", "Don Matteo", "Un medico in famiglia": nell'audience vincono i programmi per i piccoli

L'Auditel sbancata dai bambini sono loro a decidere i programmi

di Ernesto Assante

I bambini alla conquista del prime time televisivo. I dati parlano chiaro: il "Grande Fratello 10" viene schiacciato da "Pinocchio" prima e dal "Medico in famiglia" poi; Bonolis con "Chi ha incastrato Peter Pan?" batte ogni trasmissione provi a fargli concorrenza; "Don Matteo", arrivato alla settima stagione, continua a raccogliere ascolti record.

Insomma, qualsiasi trasmissione possa interessare il pubblico che va dai 4 ai 14 anni fa crescere lo share e l'ascolto della rete che la ospita. I bambini non vanno più a letto presto, anzi sono l'elemento determinante dei successi di questo autunno, spingendo davanti al televisore tutta la famiglia e tenendo saldamente in mano il telecomando.

Basta guardare la classifica delle trasmissioni più viste in questi primi giorni di novembre (...) Nemmeno il calcio riesce a resistere alla carica dei bambini, e tra le prime venti trasmissioni più viste c'è una sola partita, Dinamo Kiev-Inter, ma al sedicesimo posto.

La "trasgressione" del "Grande Fratello", le lacrime e i ricongiungimenti di "C'è posta per te", la tv per adulti o per il pubblico "over 65", non riescono più a fare il pienone, e i programmi che vincono sono quelli che consentono ai bambini di stare davanti alla tv senza grandi problemi. "E' vero", dice Carlo Bixio, produttore della serie con Lino Banfi, "sono programmi che possono tenere davanti alla tv tutta la famiglia. I bambini seguono "Un medico in famiglia" dalla prima stagione, sono cresciuti assieme ai personaggi e questo fa la differenza". (...)


Bisogna valutare attentamente se è vero che davanti ai programmi citati i bambini possono stare «senza grandi problemi».

 


Raccolte di foto di foglie autunnali: clicca sull'immagine.


Tra i libri rivoluzionari non citati qui, mi permetto di ricordare il Vangelo!



Lo speciale di Roberto Saviano su Rai 3 - Un lungo racconto da Garcia Lorca a Rushdie

"I libri pericolosi per mafie e tiranni"

di Carlo Brambilla

"Pagine più forti della nitroglicerina". Libri pericolosi, autori perseguitati, volumi capaci di far tremare i governi e crollare i regimi. Di smascherare le mafie e i poteri criminali. Da I versetti satanici di Salman Rushdie alle inchieste di Anna Politkovskaja. Dalle poesie di Federico Garcìa Lorca ai racconti del gulag di Varlam T. Salamov. Dall'inferno che sembra prevalere in certi momenti, alla bellezza della parola scritta, che dà la possibilità di esistere e di lottare. Di questo ha parlato ieri sera con Fabio Fazio a Che tempo che fa, in uno speciale emozionante, dedicato a lui, Roberto Saviano, lo scrittore italiano costretto a vivere blindato, sotto scorta, per le minacce ricevute dalla camorra.

Seduto a un tavolino rotondo, ricoperto di libri e poi in piedi, davanti alle immagini che scorrevano alle sue spalle, Saviano ha raccontato alcuni casi emblematici nei quali "la parola è diventata pericolosa e straordinariamente bella". Ha parlato di "autori delegittimati". E ha spiegato come "l'unico modo per difendersi dalla delegittimazione per chi la subisce è sperare che le sue parole vengano credute": "Salman Rushdie quando ha scritto I versetti satanici non credeva affatto di imbattersi nella fatwa, nella possibilità che l'intero mondo islamico intorno a Khomeini potesse sentirsi offeso. Ma c'è un momento preciso in cui la parola, per una specie di alchimia, diventa pericolosa. Magari se un libro fosse uscito un anno piuttosto che un altro avrebbe avuto un destino completamente diverso".

Libri bomba. Saviano cita il poeta turco Nazim Hikmet, che ha avuto il coraggio di ricordare il massacro degli armeni e ha subito 28 anni di carcere. "Perché le sue poesie erano lette dai soldati turchi. Erano lette dalla società civile. E il governo non sopportava tutto questo. Non poteva permettere che le parole di quello che consideravano un sovversivo potessero arrivare alle persone. Ma la maggior parte delle sue poesie non sono poesie politiche". E poi lo scrittore cubano Reinaldo Arenas, autore di Prima che sia notte. "Il regime comunista castrista costringe Arenas al carcere per due ragioni: è omosessuale ed è uno scrittore. Questo libro riuscirà a pubblicarlo perché lo scrive sulla carta igienica. E transessuale incarcerato userà questo libro come supposta e lo porterà fuori dal carcere".

Cita i Racconti siciliani di Danilo Dolci. "I suoi scritti cambiano il corso delle cose. Porta avanti al Sud un progetto di sciopero davvero unico: disoccupati che si mettevano a lavorare". E Poi Federico Garcia Lorca, "fucilato e scelto tra tanti intellettuali perché aveva firmato un documento di sostegno alla Repubblica spagnola, che aveva vinto attraverso le elezioni. Vengono punite le sue parole che si identificano con la sua vita". E ancora I racconti della kolyma di Varlam T. Salamov che dai gulag siberiani è riuscito a far arrivare i suoi scritti non svendendo l'anima né la dignità. Il bisogno di libertà di Vita e destino di Vasilij Grossman. Fino ai libri di Anna Politkovskaja, uccisa per i suoi racconti sulla Cecenia. Perché non c'era altro modo di fermare la sua implacabile testimonianza sulle crudeltà commesse dal governo.


Il vento "scherzoso" della Pentecoste

Ho il sospetto che specialmente lo Spirito Santo ami scherzare, farsi gioco delle nostre previsioni, smentire clamorosamente le nostre sentenze "inappellabili", mandare all'aria i nostri rigidi schemi. Sarebbe interessante scrivere la storia della Chiesa mettendo in evidenza gli scherzi compiuti dallo Spirito, ad esempio suscitando un san Francesco d'Assisi o un papa Giovanni.

"Venne all'improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano" (Atti degli Apostoli 2,2).

Per favore, non blocchiamo le serrature. Almeno una volta, proviamo ad essere sbadati. Lasciamo socchiuse porte e finestre, in modo che quel vento impertinente le sbatta fragorosamente e irrompa dentro combinando tutti gli scherzi che vuole.

Non facciamolo filtrare semplicemente attraverso le fessure che non riusciamo a tamponare. Lasciamoci investire in pieno, a costo di ritrovarci stesi a terra, in pose un po' goffe.

Permettiamo che sollevi tendaggi solenni, laceri i veli delicati, mitrie, parrucche e parrucchini, maschere, occhiali, rughe...

E se strappa qualche pagina dai nostri codici, dai severi testi teologici, se porta lontano i fogli dei discorsi già preparati, non rincorriamoli. Il fuoco, poi, provvederà a incenerirli, e sarà un grosso guadagno per tutti.

Il vento "scherzoso" della Pentecoste sibila rabbioso, scompiglia, solleva, trascina, sconvolge, buffa, scombina, scuote, sradica, spazza, schiaffeggia. È il suo mestiere. Ma consentiamogli di farlo fino in fondo.

Troppo spesso cerchiamo di amministrare lo Spirito, ridurlo a dimensioni di buon senso, dosarlo, regolamentarlo. Ci illudiamo di farlo entrare per garantire l'ordine e la disciplina, avallare le decisioni già adottate, legittimare le scelte ormai fatte, svolgere la funzione di arbitro per i nostri giochi "giudiziosi", con le regole accuratamente fissate da noi.

Proviamo ad accoglierlo come elemento di disturbo impertinente, insolente, di improvvisazione, vera ispirazione, disordine, sconvolgimento di tutte le regole prefissate, sparizione dei programmi già accuratamente definiti dopo discussioni interminabili e noiosissime, portatore di cose mai viste, mai sentite, mai sperimentate prima.

Preghiamolo, invochiamolo, supplichiamolo. Ma poi, per carità, non corriamo ai ripari, non nascondiamoci nelle solite buche. Soprattutto, permettiamogli di scherzare...

Alessandro Pronzato, La nostra bocca si aprì al sorriso, 55-56

Divisa in 12 video, si può trovare tutta la trasmissione di ieri sera "Che tempo che fa", con il racconto-testimonianza di Roberto Saviano.





Amici a pagamento

di Massimo Gramellini

Una società australiana, la Usocial, vende pacchetti di «amici» agli utenti di Facebook, la piazza gremita di tavolini virtuali (lo spiego a chi non passa la metà del suo tempo davanti al computer) in cui persone più o meno affini si incontrano per ciacolare. Qualcuno si è già scandalizzato: del cinismo di chi vende e della vanità di compra. L'amicizia è un bene sacro e i beni sacri non si commerciano né si ostentano. Ma lo scandalo non esiste. Da ragazzi chi aveva il maggior numero di invitati alle sue feste? Il più brillante, istruito e intelligente o quello che poteva garantire la casa più grande, i genitori più assenti, lo stereo più rumoroso e la cantina più fornita? L'amicizia di massa è soggetta alle regole della convenienza. La Usocial ha tolto il velo dell'ipocrisia a una pratica diffusa da sempre. Gli «amici» si comprano: con il potere, la comodità e, appunto, i soldi.

Resta da intendersi sul significato della parola, di cui Facebook fa un uso spregiudicato. Gli «amici» della Rete assomigliano a quelli che si incontrano alle feste dei giovani e nei salotti degli adulti: conoscenze occasionali e relazioni utili. Gli amici senza virgolette sono pochi ma buoni, così si dice. Bisognerebbe aggiungere che, per essere buoni, devono necessariamente essere pochi. Un rapporto coltivato in profondità ha bisogno di tempo e gli amici stanno agli «amici» come l'amore di una vita all'avventura di un'estate. Ma ormai è tale l'abuso che forse dovremmo cominciare a chiamare gli amici con un altro nome.

L'addio alla televisione del palinsesto

Il tg della sera resta l'unico «orologio sociale».

Ognuno si organizza la propria giornata davanti alla tv

di Aldo Grasso

Per anni le nostre abitudini casalinghe sono state regolate dal palinsesto. Persino la cena veniva a coincidere con il tg, giusto per condividere le notizie della giornata a tavola. Per anni il nostro rapporto con la tv è stato regolato da una specie di orario dei treni: a volte impreciso, a volte ballerino, ma pur sempre orario; se mancavi l'appuntamento il programma era perduto, difficile riprenderlo.

Adesso le cose stanno cambiando, in maniera radicale. È vero, come predicano i guru della comunicazione, che siamo alle soglie della scomparsa del palinsesto? La tv è pronta a poter fare a meno di quella griglia temporale che per mezzo secolo l'ha caratterizzata come principio ordinatore? Di scomparsa del palinsesto si parla da anni. Almeno dall'avvento delle prime tecnologie domestiche che hanno consentito di «addomesticare il flusso», di renderlo docile alle proprie esigenze, ai ritmi della vita quotidiana: il videoregistratore, prima, il masterizzatore poi. Ma prima di gridare al salto di qualità facciamo un passo indietro per capire le logiche che hanno governato l'età del palinsesto. Il termine palinsesto in origine indicava il codice di pergamena su cui, raschiata la prima scrittura, si vergava un nuovo testo (dal greco palímp­sèstos , «raschiato di nuovo»). La parola è diventata famosa quando il fi­lologo Angelo Mai (1782-1864) trovò tra i palinsesti della Biblioteca Va­ticana testi di Frontone e Cicerone. Un funzionario colto della Rai (un tempo ne esistevano) chiamò palinsesti i fogli - sovrapposti gli uni agli altri - che scandivano la programmazione trimestrale. Il palinsesto è il prospetto o quadro d'insieme delle trasmissioni programmate da una rete per un dato periodo (giorno, settimana, mese, trimestre), con titoli dei programmi, caratteristiche tecniche, durata, orari di messa in onda.

Rispetto al corrispettivo francese (grille) e inglese (schedule), il termine sembra sottolineare il continuo lavoro di perfezionamento, ridefinizione, correzione cui è sottoposta la programmazione. Che può essere infatti continuamente rielaborata in rapporto agli obiettivi della rete. Per molti anni, quando esisteva ancora il RadioCorriere , il palinsesto è stato l'orgoglio del reggimento, il grande orologio sociale. Ordine, regolare funzionamento, puntualità: «E dopo Carosello tutti a nanna». Poi la tv generalista ha preso un'altra china: per seguire le logiche della controprogrammazione (counter programming: collocazione su una rete di un programma destinato a un target diverso da quello della rete concorrente, oppure competitive programming: collocazione su una rete di un programma destinato allo stesso target della rete concorrente), per cancellare i flop, per tirare fino a mezzanotte un appuntamento di prima serata ha cominciato a infischiarsene degli orari palesando un'assoluta mancanza di rispetto nei confronti dello spettatore: un vecchio vizio di una dirigenza abituata a operare in regime di monopolio (o duopolio), a ignorare le proteste degli utenti, a non dover mai rendere conto a nessuno.

Non solo l'orario comincia a diven­tare variabile, ma anche il giorno di messa in onda non è più un dato definitivo. Questo rende ardua la vita dello spettatore, e mina due meccanismi su cui si fonda, o si dovrebbe fondare, il patto comunicativo con la tv: l'abitudine e la fedeltà. Il pubblico è consuetudinario e affezionato ai suoi programmi preferiti. Quasi un riflesso automatico: stesso giorno, stessa ora, stessa rete. Se invece si cambiano continuamente orari e giorni di messa in onda, per di più senza preavviso, il pubblico fatica a trovare ciò che vuole, e si disaffeziona. Si smarrisce nei cambiamenti, e lascia perdere. Con l'arrivo della pay-tv (satellite e digitale terrestre) le cose sembrano migliorare. Certi diritti (certezza e puntualità della messa in onda) in Italia sono lussi a pagamento. Lo spettatore comincia a prendere confidenza con la nuova sintassi della tv tematica - destinata a un pubblico settoriale, consapevole di aver scelto quella proposta televisiva (solo news, solo sport, solo cinema...) per la quale paga un canone - che porta con sé interessanti effetti comunicativi e pragmatici: la sua proposta è «discreta», non impone una «temporalità dura», come fa invece la tv generalista, che mima i ritmi della quotidianità, ma offre un «pacchetto», che si ripete durante il giorno e si adatta ai tempi e allo stile di vita dello spettatore.

È venuto ora il momento di rendere il flusso molto più gestibile dall'utente. Ormai da tempo gli operatori della «IpTV» (in Italia Alice e Fastweb) offrono dei servizi online che consentono di «recuperare» ogni programma andato in onda nell'arco di sette giorni, di fissarlo sull'hard disk del proprio decoder e di poterlo guardare quando lo si desidera. Sulla scia dell'ampia diffusione dei regi­stratori digitali negli Stati Uniti (il famoso TiVo), Sky rende disponibile con MySky un sistema estremamente semplificato e user friendly per poter posticipare la visione dei propri programmi preferiti. Sono le cosiddette time shifting technologies, tecnologie che rendono il tempo televisivo flessibile e maneggevole. Ma c'è di più: perché spesso è Internet a diventare un deposito sempre disponibile di prodotti televisivi, e certi programmi sono consciamente o inconsciamente pensati per finire su YouTube. La novità non sta tanto nelle tecnologie, quanto negli usi: recuperare la canzone sulla D'Addario di Checco Zalone o la telefonata di Silvio Berlusconi a «Ballarò» è pratica sempre più diffusa e condivisa (decine di migliaia di visualizzazioni). Con le sue doti d'archivio, Internet diventa volano della popolarità di personaggi e singoli frammenti televisivi; libera, in qualche modo, dalla schiavitù del flusso, lo blobbizza: l'ho perso, ma posso recuperarlo. Fatto sta che la televisione time shifted , la tv differita, adattata ai tempi di ciascuno, è sempre più qualcosa di comune.

Ma il palinsesto è davvero destinato all'estinzione, come i dinosauri? E senza palinsesto, la tv è sempre tv, o è qualcosa di diverso? Le cose sono sempre più complesse. Il palinsesto è stato il mattone chiave d'edificazione della popolarità della tv: perché la tv non s'identifica semplicemente coi suoi contenuti, ma è fatta di ritualità condivise, del gusto di guardare lo stesso programma con un'intera comunità nazionale. È il gusto di parlare di Grande Fratello al bar, la mattina successiva, con i colleghi, i compagni di scuola o d'università

«Che cosa vogliamo veramente? Cercando di prestare ascolto alle mie più profonde aspirazioni e alle aspirazioni degli altri, la parola che sembra meglio sintetizzare il desiderio del cuore umano è «comunione». Comunione significa «unione con». Dio ci ha dato un cuore che rimane inquieto finché non trova la piena comunione. La cerchiamo nell'amicizia, nel matrimonio, nella comunità. La cerchiamo nell'intimità sessuale, nei momenti di estasi, nel riconoscimento dei nostri doni. La cerchiamo attraverso il successo, l'ammirazione e le ricompense. Ma ovunque guardiamo, è la comunione quella che cerchiamo.

Osservando il volto dei vincitori delle medaglie d'oro alle Olimpiadi, sotto gli occhi di più di sessantamila persone che li applaudivano e milioni di altre che li guardavano alla televisione, ho colto un attimo di quella momentanea esperienza di comunione. Sembrava che avessero finalmente ricevuto l'amore per cui avevano faticato con dedizione instancabile. Eppure, quanto presto verranno dimenticati. Tra quattro, otto o dodici anni, altri prenderanno il loro posto sul podio del successo e il loro breve momento di gloria sarà ricordato da pochi.

Eppure, il desiderio di comunione rimane. È un desiderio che Dio ci dà, un desiderio che può causare sia un'immensa sofferenza che un'immensa gioia. Gesù è venuto a proclamare che il nostro desiderio di comunione non è vano, ma sarà adempiuto da Colui che ci ha dato quel desiderio. I passeggeri momenti di comunione sono soltanto dei piccoli segni della Comunione che Dio ci ha promesso. Il vero pericolo che ci insidia è quello di diffidare del nostro desiderio di comunione. È un desiderio che Dio ci dà, e senza di esso la nostra vita perde la propria vitalità e il nostro cuore diventa freddo. Una vita veramente spirituale è una vita in cui non riposeremo finché non avremo trovato riposo nell'abbraccio di Colui che è Padre e Madre di tutti i desideri».

H. J. M. Nouwen, Vivere nello Spirito

Il Comune convoca l'esperto per l'emergenza sul «doping» della vita quotidiana

«Cocaina, controlli nelle aziende»

Milano, il capo del Dipartimento dipendenze: la classe dirigente schiava della dose

La scuola e la famiglia, certo. Ma non bastano. Nella metropoli invasa dalla coca «bisogna puntare al cuore delle aziende». Riccardo Gatti è il direttore del Dipartimento dipendenze della Asl di Milano. «La prevenzione va fatta lì», giura. «Perché lì stanno in massima parte i consumatori di cocaina» e perché lì sta la classe dirigente della città. L'accusa è pesante: «Mercenarizzazione». Nella (ex) capitale morale la classe dirigente è ostaggio non solo della droga, ma anche del «giro», di chi la smercia, di chi la usa, di chi ne fa un modello di vita, una cifra sociale. «È una società civile in ostaggio e potenzialmente sotto continuo ricatto». (...)

A Milano un giovane adulto su tre ha fatto uso, almeno una volta, della polvere bianca. «Serve a lavorare, a divertirsi, a fare sesso. Ma poi l'asticella della soddisfazione si fa sempre più alta. E allora chi consuma coca paradossalmente fa una fatica terribile a divertirsi». Funziona così. Eppure dilaga, spopola, trova ogni giorno nuovi schiavi. Su cento milanesi, quasi quindici l'hanno provata. Nei Paesi Ue la percentuale non raggiunge il 4%. «Certo - puntualizza Gatti - è un dato che non può esse­re omogeneo: una grande città fa per forza di cose storia a sé». Prendiamo le metropoli, allora. Milano è sul podio, dopo due capitali riconosciute della movida mondiale: Londra e Barcellona.

A Milano c'è la coca e c'è, oggi più di ieri, l'eroina. Lo confermano gli ultimi dati. Nella fascia d'età tra i 25 e i 44 anni ha provato eroina il 5% della popolazione. Stessa, identica percentuale di un'altra fascia anagrafica, quella dei 40-50enni, la «generazione del buco». La fascia intermedia dei trenta-quarantenni è invece su percentuali di consumo nettamente inferiori. L'eroina è tornata su piazza. Una questione di mercato. «In tempo di crisi è come tornare ai Bot. Rendimento basso, ma sicuro». Poi ci sono le altre dipendenze, quelle considerate leggere: cannabis e alcol. Il 44% dei milanesi s'è fatto almeno una volta nella vita una «canna». E un ragazzo su tre nell'ultimo mese ha ammesso di essersi preso (almeno) una sbronza. (...)

Andrea Senesi

«Il bello non è sempre a portata di mano, né l'animo ognor trasparente e lucido.

Inoltre, nella parrocchia - quella vera, ben diversa da quella dei libri e dei predicatori - non c'è tutto di bello. Vi sono cose viste udite e patite che colpiscono dolorosamente e disamorano anche i parrocchiani meglio temprati: arresti crisi decadenze che non possono esser vinte né da intelligenti rievocazioni né da una fede ordinaria. La stessa esigenza spirituale dei migliori parrocchiani può indurre in tentazione, poiché - lo dico una volta per sempre - la critica, agli uomini più che alle istituzioni, non vuol dire comunemente animo indisposto o avverso. Chi vuol bene, starei per dire solo chi vuol bene, ha una vera e sofferente sensibilità, perché egli porta nello sguardo e nel cuore l'immagine della parrocchia ideale.

Gli altri, i parrocchiani du parvis [della soglia]? I semplici battezzati non sanno neppure d'avere una Chiesa. Il metodo che finora prevalse nelle pubblicazioni e negli schemi proposti per le Settimane di studio sulla parrocchia - metodo lodevole e savio per diverse ragioni - non scalfisce l'indifferenza né attenua il distacco o l'ostilità preconcetta o dormiente della massa dei parrocchiani. Chi li conosce ha l'impressione ch'essi camminino sovra un piano diversissimo dal nostro con idee pregiudizi abitudini senz'interferenza con quanto ci sforziamo d'esporre e che a buon diritto vantiamo. Inutile l'indignarci: inutile lo stesso perseverare in uno sforzo che non ha presa. I fatti hanno una loro logica, che non si vince né con ragionamenti astratti né con querimonie. Chiunque vuole efficacemente operare sugli uomini deve fare i conti coi fatti.

(...)

L'uomo medio, il parrocchiano comune, disamorato indifferente o avverso, non lo s'interessa con rievocazioni o rimpianti. Con un po' di rumore si potrà anche raccoglierlo intorno al tavolo delle nostre Settimane parrocchiali in discreto numero. Ma un conto è discorrere di cose belle e far lamenti, un conto destare un bisogno, rianimare un vincolo, saldare un problema o un fatto nella vita quotidiana del nostro popolo.

Si può parlare eloquentemente della parrocchia senza riuscire a portarla, come realtà viva e operante, all'incrocio della strada ordinaria dei parrocchiani di oggi. La Chiesa bella, le funzioni decorose, le campane, le congregazioni, le associazioni, i ritiri, un clero numeroso e volenteroso ecc. sono mezzi indispensabili: eppure - lo si constata con pena ogni giorno - non bastano. Si ha quasi l'impressione di armi a tiro corto, che non raggiungono lo scopo. Con tanta artiglieria e soldati disposti a farsi ammazzare sulle posizioni, non s'arriva al di là delle nostre linee. E allora, credendo di rimediarvi con la quantità, si moltiplicano le batterie, mentre potrebbe essere questione di portare avanti, in prima linea. Il lavoro parrocchiale è divenuto un magnifico facchinaggio con arsenale ove nulla manca, e con intorno una cinta che cresce ad ogni insuccesso e trasforma la parrocchia in fortilizio.

Chi dice che il nostro armamento è vecchio, sbaglia. Siamo aggiornatissimi. Statistiche alla mano come gli altri: raduni, congressi, parate come gli altri: circolari, fogli d'ordine, giornali o roba stampata come gli altri: decorazioni, avanzamenti, promozioni come gli altri. E si lavora e ci si logora, clero e laicato fedele. Ed ogni giorno una pena senza nome, che si riesce a scordare in un attimo, allorquando un avvenimento, prodotto frequente di un'artificiosa favorevole concomitanza, ci dà l'illusione che qualcosa nella parrocchia si rianimi. Poi, si ripiomba nell'oscurità e nella solitudine, le quali danno spesso al nostro lavoro quel tono amaro che si sfoga in lamenti e in rimproveri oppure lo rende totalmente meccanico e disamorato.

Il povero prete della parrocchia, non quello di parata, quello di sentinella ai piccoli posti, la santa fanteria della Chiesa, ha spesso l'impressione che la sua fatica non prenda. Nessun comprendimento, nessuna risposta, nessuna reazione più. La distanza aumenta: la solitudine intorno alla Chiesa parrocchiale e alla canonica, nonostante il moltiplicarsi delle iniziative, aumenta. C'è nel popolo una resistenza silenziosa, un'apatia ferrigna che disarma il parroco più agguerrito. Di quanta fede egli ha bisogno per resistere alla tentazione di scappare in convento!».


don Primo Mazzolari, Lettera sulla parrocchia, 39-42 passim






Lullaby

Loreena McKennitt, Album "Elemental" (1985)

O for a voice like thunder, and a tongue

To drown the throat of war! - When the senses

Are shaken, and the soul is driven to madness

Who can stand? When the souls of the oppressed

Fight in the troubled air that rages, who can stand?

When the whirlwind of fury comes from the

Throne of God, when the frowns of his countenance

Drive the nations together, who can stand?

When Sin claps his broad wings over the battle,

And sails rejoicing in the flood of Death;

When souls are torn to everlasting fire,

And fiends of Hell rejoice upon the stain.

O who can stand? O who hath caused this?

O who can answer at the throne of God?

The Kings and Nobles of the Land have done it!

Hear it not, Heaven, thy Ministers have done it!

Un'anticipazione di "Qualcosa di così personale. Meditazioni sulla preghiera" del cardinale Carlo Maria Martini

Ho ben 82 anni di vita e la malattia di Parkison e gli acciacchi dell'età si fanno sentire. Ma probabilmente, per quanto riguarda la preghiera, sono ancora a metà del guado. Sento che la mia preghiera dovrebbe trasformarsi, ma non so bene in che modo, e sento anche una certa resistenza a compiere un salto decisivo. So che posso dire come Isacco: «Io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte» (Gen 27,2), ma di questo non ho ancora tratto le conclusioni. Cerco comunque di chiarirmi le idee riflettendo un po' sull'argomento.

Mi pare che si possa parlare in due modi della preghiera dell'anziano. Si può considerare l'anziano nella sua crescente debolezza e fragilità, secondo la descrizione metaforica (ed elegante) del Qohèlet: «Ricordati del tuo Creatore / nei giorni della tua giovinezza / prima che vengano i giorni tristi / e giungano gli anni di cui dovrai dire: non ci trovo alcun gusto. / Prima che si oscurino il sole, / la luna, la luce e le stelle / e tornino ancora le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa / e si curveranno i gagliardi / e cesseranno di lavorare le donne che macinano, / perché rimaste poche / e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre / e si chiuderanno i battenti sulla strada: / quando si abbasserà il rumore della mola / e si attenuerà il cinguettio degli uccelli / e si affievoliranno tutti i toni del canto» (12,1-4, ma anche fino al verso 8). In questo caso il tema sarà la preghiera (qui evocata dalle parole «Ricordati del tuo Creatore») di colui che è debole e fragile, di colui che sente il peso della fatica fisica e mentale e si stanca facilmente. La salute e l'età non consentono più di dedicare alla preghiera i tempi lunghi di una volta: si sonnecchia facilmente e ci si appisola. Mi pare quindi sia necessario imparare a utilizzare al meglio il poco tempo di preghiera di cui si è in grado di disporre. Non riuscendo più a dedicare alla preghiera lo stesso tempo di quando si avevano più energie, e sentendola spesso come un po' distante e poco consolante, è possibile che il proprio spirito venga catturato da un certo senso di scoraggiamento. Allora la tentazione sarà di accorciare ulteriormente i tempi da consacrare alla preghiera, limitandosi allo strettamente necessario. Tuttavia questo accorciare i tempi dell'orazione potrebbe essere molto pericoloso. Infatti la preghiera, per dare qualche conforto, deve essere di norma un po' prolungata. Se si restringe il tempo, anche le consolazioni sorgeranno con maggiore difficoltà e si creerà una sorta di circolo vizioso, che porterà a pregare sempre meno.

Ma la preghiera dell'anziano potrebbe anche essere considerata la preghiera di qualcuno che ha raggiunto una certa sintesi interiore tra messaggio cristiano e vita, tra fede e quotidianità. Quali saranno allora le caratteristiche di questa preghiera? Non è facile stabilirlo in astratto e aprioristicamente: occorrerebbe piuttosto riflettere sull'esperienza dei santi, in particolare dei santi anziani. Perciò bisognerebbe dedicare, con pazienza, un po' di tempo alla ricerca. Anzitutto nella Bibbia. In molti Salmi si parla apertamente dell'anziano e della sua condizione con espressioni molto significative e suggestive. Ad esempio: «Sono stato fanciullo e ora sono vecchio; non ho mai visto il giusto abbandonato né i suoi figli mendicare il pane» (Sal 36,25). Si veda anche l'esortazione del Salmo 148,12: «I vecchi insieme ai bambini lodino il nome del Signore». La Scrittura ci offre anche preghiere tipiche di un anziano. La più nota è la preghiera dell'anziano Simeone al tempio quando prende tra le sue deboli braccia il piccolo Gesù: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli» (Lc 2,29 ss.).

La ricerca dovrebbe allargarsi ai Padri apostolici, come Ignazio e Policarpo, quindi ai Padri del deserto e ai grandi oranti di tutti i secoli. Non essendo qui possibile percorrere una tale via analitica, mi limiterò ad alcune riflessioni generali, aiutato anche dalla testimonianza di qualche confratello più anziano di me.

Mi chiederò, cioè, quali potrebbero essere alcune caratteristiche positive nella preghiera di un anziano. Mi pare che possano emergere tre aspetti: un'insistenza sulla preghiera di ringraziamento; uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza; infine una forma di preghiera più contemplativa e affettiva, una prevalenza della preghiera vocale sulla preghiera mentale.

Sul primo di questi tre punti riporto la testimonianza di un confratello: «Riguardo ai contenuti della mia preghiera in questi anni di vecchiaia - ho 85 anni - si distingue la preghiera di ringraziamento. Si sono sviluppati due motivi per ringraziare Dio: anzitutto per avermi concesso un tempo in cui mi posso dedicare (vorrei quasi dire "a tempo pieno") a prepararmi alla morte. E ciò non è dato a tutti. In secondo luogo per avermi mantenuto finora nel pieno dominio delle risorse mentali e, largamente, anche di quelle fisiche». Là dove invece non c'è questo vigore fisico e/o mentale la preghiera si colorerà soprattutto di pazienza e di abbandono nelle mani di Dio, sull'esempio di Gesù che muore dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). È così che i Salmi ci insegnano a pregare: «Tu salvi dai nemici chi si affida alla tua destra» (Sal 16,7); «Mi affido alle tue mani: tu mi riscatti, Signore, Dio fedele» (Sal 30,6); «Lo salverò, perché a me si è affidato» (Sal 90,14).

Chi ha raggiunto una certa età è anche nelle condizioni di volgere uno sguardo sintetico sulla propria vita, riconoscendo i doni di Dio, pur attraverso le inevitabili sofferenze. Veniamo quindi invitati a una lettura sapienziale della nostra storia e di quella del mondo da noi conosciuto. E beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente in confronto con quelli passati!

La terza caratteristica della preghiera dell'anziano dovrebbe essere un crescere della preghiera vocale (e quindi una diminuzione della preghiera mentale) insieme a un inizio di semplice contemplazione che esprime con mezzi molto poveri la propria dedizione al Signore. Diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione dell'anziano. Ma contemporaneamente bisogna aver cura di aumentare la preghiera vocale. Anche se un po' assonnata o distratta, essa è comunque un mezzo per avvicinarci al Dio vivente. Sarebbe ideale arrivare a contemplare molto semplicemente il Signore che ci guarda con amore, oppure pensare a Gesù che ha bisogno di noi per rendere piena la sua lode al Padre. Ma qui sarà lo Spirito Santo che si farà nostro maestro interiore. A noi non resterà che seguirlo docilmente.


da La Repubblica del 31 ottobre 2009

 


Non riesco a trovare le parole per esprimere il disagio e il senso di ripulsa di fronte a parole come queste, ma soprattutto non riesco ad accettare questo stile. Mi tornano alla mente parole della Scrittura (come il salmo 54,22), considerandole come espressioni letterarie che manifestano ciò che provo, più che come "spada biblica" da sguainare nella polemica. E mi ritengo libero di dire la mia, anche se un domani dovessi bussare alle porte di quelle strutture ospedaliere: almeno non sarò nell'elenco dei "grandi personaggi" citati. Mi resta un'amara speranza: se un prete può esprimersi così nei riguardi di una parte politica e di un modo di pensare la vita oggi imperante, mi auguro sia concessa la stessa libertà a chi non sostiene quella parte. E a chi non ha la stessa preponderante forza economica.


don Chisciotte



Corriere della Sera di venerdì 6 novembre 2009, pagina 12

Intervista a Luigi Verzé

Don Verzé: il Cavaliere? Un dono di Dio all'Italia

di Cazzullo Aldo

«In questi giorni sono arrabbiato».

Per quale motivo, don Verzé?

«La sentenza europea che vieta il crocifisso è una cosa orrenda. Uno sputo su tutto quel che di grande ha fatto l'Europa. Disconosce le nostre origini. Viola la nostra storia. Mi pare di sentire il corpo di Giovanni Paolo II che si rotola nella cassa. Mi pare di vederlo, ormai consumato, che viene fuori, uno stinco su quell'altro, a impugnare un bastone...».

Che fare?

«Reagire. A Natale, anziché l'albero, erigiamo una croce. Spero lo faccia anche il Santo Padre, in piazza San Pietro. Mi offro di portargliela io: una grande croce di 25 metri».

Nell'attesa del Papa, lei l'altra mattina ha visto Berlusconi.

«Abbiamo rievocato i nostri precedenti incontri. La prima volta ci vedemmo in ospedale, al San Pio X. Erano i primi Anni ‘70, lui era un giovane imprenditore. Ed era malato seriamente. Io gli parlai: Lei guarirà e farà grandi cose. Nel ‘94 al tempo della sua discesa in campo, gli dissi che lui era una benedizione per il Paese, un dono di Dio all'Italia».

E non ha cambiato idea?

«No. Una volta un contestatore mi si è avvicinato, puntandomi il pugno sotto il mento, e mi ha chiesto se la pensavo ancora così su Berlusconi. Gli ho risposto di sì. L'hanno portato via prima che mi colpisse».

Con Berlusconi avete parlato anche degli scandali estivi?

«Certo. Mi ha assicurato che lui non ha fatto quel che dicono. E io gli credo: non l'ha fatto. Ho visto tante cose nella vita, ma mai una vergogna simile. Sono state enfatizzate supposizioni, voci. E se anche se fossero verità, dovremmo vergognarci e tenerle nel cuore. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. E di peccati ne commettiamo tutti. Eppure vedo molti peccatori tirare molte, troppe pietre».

Non sono soltanto voci. Tutto ha avuto inizio con il divorzio chiesto da Veronica Berlusconi.

«Conosco bene anche lei. Non voglio giudicare. Berlusconi è un uomo, non un santo; anche se io in ogni uomo vedo la santità. Gesù non ha detto: siate puri, siate giusti. Ha detto: amatevi l'un l'altro come io ho amato voi. L'Italia è un Paese profondamente cristiano, un Paese meraviglioso, ma sta perdendo il rispetto per se stesso pur di rovistare nella rogna, sta dissacrando e calpestando i suoi valori in un drammatico vuoto di cultura. E il peggio della nostra cultura sono alcuni magistrati».

Che c'entrano i magistrati?

«La giustizia in Italia sembra una spada di Damocle pendente sulla testa di chiunque. Purtroppo alcuni magistrati non hanno il senso della giustizia. Un dubbio per loro è sufficiente per giudicare. E giudicano».

Beh, è il loro mestiere.

«Ma, pur di giudicare, inventano. E quel che mi dice Berlusconi: Don Luigi, lei non ha idea di cosa sono capaci di inventarsi sul mio conto... ».

Lei ha buoni rapporti anche a sinistra. Ad esempio con il presidente della Regione Puglia, Vendola.

- «Un uomo che cerca la verità. La gente giudica dalle apparenze, dall'orecchino. Che mi importa dell'orecchino! Io guardo il meglio dell'uomo. Ne ho parlato con Berlusconi, che ha per Vendola molta simpatia e stima. Qui sta la sua superiorità: cerca le intelligenze, anche nell'opposizione».

Cacciari, sindaco di Venezia, lascia la politica.

«Meglio. Così torna a casa, all'università del San Raffaele. Mi ha detto: Don Luigi, non volevo rifare il sindaco... . Invece rientra da Venezia arricchito. Cacciari è un'intelligenza superiore. Gli ho detto:

Tu Massimo tocchi il cielo con un dito, e un giorno lo bucherai».

Bersani?

«Non lo conosco. Conosco D'Alema, gli ho fatto sapere che prego per lui. Mi ha risposto che ne ha molto bisogno».

Presidente del Pd diventerà forse Rosy Bindi, di cui lei non è grande estimatore.

«Per me la Bindi è stata una disgrazia. Si è comportata in modo cattivissimo, per impedirmi di avere un ospedale a Roma Ma io la amo lo stesso. Se venisse qui ai San Raffaele bisognosa di cure, mi farei in quattro».

Con il cardinal Martini avete scritto un libro.

«Gli ho appena telefonato, per chiedere la sua benedizione.. Lui per me è san Carlo Borromeo vivente, a causa della sua sofferenza Uno dei grandi personaggi che hanno segnato la mia vita e quella di Milano, e andrebbero riscoperto».

Quali personaggi?

«Don Calabria, di cui sono stato segretario. Padre Gemelli, di cui ero il pupillo. Mario Missiroli, che  nel 1959 scrisse un fondo in cui antevedeva il San Raffaele; e non c'era ancora neppure il terreno. Pietro Bucalossi, il mio nemico mortale. Diceva: Se don Verzé farà il suo ospedale, distruggerà tutti i nostri!».

Gli altri personaggi da scoprire?

«Schuster. Antonio Greppi, di cui non parlate mai. Virgilio Ferrari, il padre della metropolitana milanese. Ferdinando innocenti, che assumeva e dava uno stipendio ai ragazzi cerebrolesi. Craxi. Montini: cuore lombardo, mente vaticana, mi ha fatto soffrire, ma mi ha insegnato a essere un prete libero. Fuori da Milano. Andreotti. Ricordo quando gli dissi che volevo fare un ospedale in Sicilia ma temevo la mafia. Mi rispose: la mafia un tempo si poteva controllare, ora non più. Infatti... E poi Fidel Castro».

Castro?

«Grand'uomo. Così prepotente, così simpatico. Mi faceva portare l'olio del mio Veneto e il Recioto. Dieci bottiglie: una la apriva in Consiglio dei ministri, le altre nove le beveva lui. Ore e ore a parlare di tutto. Un carisma che ritrovo solo in Gheddafi».

Gheddafi?

«Ci sono andato prima di tutti, anche di Berlusconi. Serviva il permesso della Cia, e l'ho avuto. Arrivo in Libia passando dalla Tunisia. Appuntamento in un palazzo che pare quello di Serse: marmi, sete dorate; ma lui non c'è. Uomini armati mi portano su una camionetta nel deserto. Lui spunta da una carovana di cammelli. Tutto vestito di bianco, senza le bardature che mette adesso: pareva un profeta. Era terrorizzato dai satelliti americani: mi racconta che sua figlia era morta sotto il bombardamento per proteggere lui. Volevo portare il San Raffaele in Libia, accettò. Ma tutto si fermò subito dopo, quando Gheddafi fu ferito alle gambe in un attentato, ordito da tribù ostili».

Questa non si è mai sentita.

«Infatti non è un episodio conosciuto. Ma è vero. Per fortuna non ci siamo fermati. Oggi il San Raffaele è a Gerusalemme. In Afghanistan. In Iraq, a Ur, dentro la fortezza americana, dove nascerà un centro di ricerca intitolato ad Abramo. In India curiamo i tibetani del Dalai Lama a Daramsala. Siamo in Nigeria e in Uganda, a Kampala, dove è sempre primavera e i malati anziché in corsia preferiscono stare sul prato; la notte piove, ma al mattino il sole è subito caldo. In Colombia abbiamo una nave-ospedale, in Brasile abbiamo appena costruito il nostro sesto centro, che sta sradicando la lebbra nella regione di Barra. E sa chi l'ha pagato? Berlusconi».

Dal San Raffaele viene anche il viceministro Fazio. Non sta facendo un po' di confusione sull'influenza?

«Fazio non è un politico. E' un grande ricercatore. Io faccio fatica quando mi occupo di politica, e Fazio è come me. Ma sull'influenza ha ragione: è più la paura del rischio. L'importante è non sovraffollare gli ospedali».

Perché ha rotto con CL?

«Io non ho rotto. Ho distinto. Sono amico di Formigoni, uomo di statura, cui ogni tanto do qualche consiglio. Sono stato grande amico di Giussani. L'ho curato per dieci anni, l'ho tenuto qui sino all'ultimo, gli portavo in camera Berlusconi. Si adoravano. Berlusconi si sedeva sul suo letto, si abbracciavano, si baciavano. Giussani aveva molte idee. Ora i suoi successori sono liberi di fare secondo la loro mentalità. Qui dentro è San Raffaele; non è CL. Facciamo come i gesuiti con i cappuccini: ognuno padrone a casa propria. Noi abbiamo una dottrina che non è quella di CL. Facciamo scienza e cultura, grazie a un'università che è libera, non ecclesiastica. Odio che si adoperi Gesù Cristo per fare soldi».

Cosa pensa di Umberto Veronesi?

«È un grande amico mio. Io sono una persona libera. Non ho mai avuto uno stipendio. I soldi che raccolgo sono per il San Raffaele, i ricercatori, gli ammalati, l'università. Il mio socio di maggioranza è Cristo. Ogni volta che lo chiamo, lui risponde».

C'è ancora Imperator, il suo cavallo?

«Certo. Galoppa. E vince».

 

Diceva padre Nazareno Fabbretti, cresciuto alla scuola fondamentale del giornalismo: «La prima cosa da capire è che bisogna farsi capire». E il grande esegeta - nonché sensibilissimo poeta - Luis Alonso Schokel, scomparso nel 1999, ribatteva nella testa dei suoi studenti dell'Istituto Biblico di Roma questo chiodo: «Ricordate che chiarità è carità».

Sì, la chiarezza dice rispetto delle persone. Mentre l'oscurità, specie se voluta, magari camuffata da scientificità, denota un evidente disprezzo degli altri. Dobbiamo osare la chiarezza. E dobbiamo esigerla anche dagli altri. Chi sembra divertirsi a non farsi capire, in realtà, è uno che sta architettando una frode nei confronti del prossimo. Urge, perciò, smascherare questi imbroglioni. C'è da stare alla larga da chi non ha le carte in regola con la chiarezza. Bisogna diffidare di chi non va d'accordo con la semplicità.

Quanto più le cose sono difficili, tanto più occorre spiegarle in maniera facile. E se certe faccende appaiono complesse e ingarbugliate, uno ha diritto di... vederci chiaro.

Il guaio è che la chiarezza non la si apprende all'università, né penso ci siano insegnanti preparati sull'argomento. Però basterebbe (...) frequentare la scuola d'obbligo della vita comune. E il titolo di iscrizione è quello rappresentato dalla virtù dell'umiltà. Il prete dovrebbe rendersi conto che il problema non è quello di apparire dotto, ma di farsi capire da tutti. Se il prete rinuncia alla pretesa di apparire più intelligente della sua gente, e si mette su un piano di chiarezza e semplicità, la cosa torna a vantaggio di tutti.


Alessandro Pronzato, La predica prova della fede?, 90-91















Thomas Fuller ha scritto: "Il paradiso dello stolto è l'inferno dell'uomo saggio."

5/11/2009

Obama o non m'ama?

di Massimo Gramellini

A un anno esatto dal plebiscito che lo issò al potere, la prima tranvata elettorale di Obama (ha perso in due Stati su due) rivela uno dei mali oscuri della nostra democrazia. La psicologia immatura degli elettori. I quali si accostano alla politica con lo stesso atteggiamento emotivo con cui, secondo me sbagliando anche lì, vanno incontro all'amore. Obama è stata una cotta. E, come nelle cotte, i suoi morosi hanno costruito un personaggio immaginario e lo hanno riempito di tutto ciò che volevano vedere. Era bello, era nero, era nuovo e le sue parole massaggiavano i cuori. Ci siamo innamorati di lui come ci si innamora di una ragazza conosciuta a una festa: intensamente, ma in superficie. Infatti è bastato che si rivelasse per quel che è, un uomo politico e non un mago, perché milioni di elettori in America e di fan in tutto il mondo si ritraessero delusi, addirittura traditi. Ma traditi da cosa? Dai propri sogni esagerati e da quel transfer infantile che porta a delegare al Capo-Icona la soluzione, naturalmente immediata, di problemi epocali.

Non si dovrebbe giudicare un leader dopo un anno di lavoro, come non si giudica un raccolto al momento della semina. E' la stessa traiettoria di tanti matrimoni che non sopravvivono alla convivenza e al calo di adrenalina, quando la vita smette di essere un susseguirsi di gesta eroiche per diventare azione paziente, prosaica, quotidiana. Obama avrà anche perso il suo fascino di amante, ma diamogli almeno la possibilità di riconquistarci come marito.

«Signore, nel realizzare il tuo disegno eterno, mi hai chiamato all'esistenza in quel contesto di dati che sono la mia storia.

Perché così e non in altro modo? Ti sei forse sbagliato? No.

Tu non mi hai creato per sbaglio, né per distrazione, né per contrattempo. Al momento giusto, all'ora tua, secondo il tuo disegno e la tua volontà, secondo la tua scelta, tu mi hai formato.

Sono fatto bene per essere santo.

Se dicessi di no mi parrebbe di mancarti di riguardo, di dire che neppure a te riescono le cose come le vuoi, che anche a te capitano gli infortuni.

Signore, sono fatto bene per te.

Alle volte - perdonami se te lo dico - mi trovo fatto un po' meno bene per me.

Ma confesso, sia pure con un po' di fatica, che è più importante essere fatto bene per te che per me.

I miei limiti non devono essere motivo di cruccio per la mia superbia, né motivo di malumore quando gli altri li vedono.

Signore, ti benedico e ti ringrazio che mi hai fatto come mi hai fatto.

Gli altri possono dire quello che vogliono. Io ho solo da dirti: grazie.

Ho solo da benedirti, ho solo da sentire una riconoscenza eterna perché mi hai fatto come mi hai fatto.

E quando gli altri trovano che sono uno sgorbio, più che una cosa buona, io, Signore, credo a te.

Alle volte mi prende la voglia di vedere come te la caverai con questa povera creatura che io sono.

E penso che la vita eterna sarà beata anche per questo: perché là capirò quello che adesso non capisco e mi spiegherò ciò che adesso è un mistero».


card. Ballestrero

Al di là delle immagini (inserite da chi ha composto il video) è simpatica la canzone!



«Più severa ancora è la requisitoria di s. Carlo contro il secondo male da evitare [da parte del prete]: l'avarizia. È definita la radice di tutti i mali, proprio perché è essa ad inquinare tutto ciò che il sacerdote fa: inquina le messe celebrate per lucro, inquina il coro a cui si partecipa solo per trarne un profitto materiale, inquina la predicazione, i funerali, inquina tutto il ministero, quando esso è vissuto solo come occasione di arricchimento. E, parafrasando le parole del Vangelo (cfr. Mt 6,21), il santo arcivescovo conclude: "Dove è il tesoro del sacerdote, lì è il suo cuore"».


don Marco Navoni, Il ministero sacerdotale in san Carlo Borromeo, 37

«Amiamo di un amore geloso il nostro tempo, così grande, così avvilito, così ricco e così disperato, così dinamico e così dolorante, ma in ogni caso sempre sincero e appassionato. Se avessimo potuto scegliere il tempo della nostra vita e il campo della lotta, avremmo scelto

Manda i tuoi AUGURI di BUON ONOMASTICO al card. Carlo Maria Martini

Cronache suine

di Massimo Gramellini

Tu hai un figlio di sette anni con un filo di tosse che non si spezza e metà della classe scomparsa sotto le lenzuola, compresa la bambina a cui dice di aver dato un bacio sulla bocca (a sette anni, depravato!). Vuoi sapere se rischia la peste o una semplice costipazione. Compulsi il comunicato di una associazione di pediatri. Sostiene che bisogna vaccinare tutti i bambini, ma che i vaccini non ci sono. Stai per lanciarti a testa bassa contro la serranda di una farmacia quando sul telefonino appare un comunicato: è un'altra associazione di pediatri, che gentilmente ti informa che i vaccini ci sono, ma i bambini non vanno vaccinati. Stai per impazzire. Compri i giornali. Quelli d'opposizione dipingono scenari a metà fra la bidonville e il lazzaretto. Quelli governativi trattano la suina con lo stesso divertito distacco di un raffreddore da fieno. Possibile che anche l'influenza debba essere di destra o di sinistra? Vorresti un'influenza tranquilla, un'influenza Udc.


Accendi il televisore per la conferenza del viceministro Fazio. Hai bisogno del verbo rassicurante dell'Autorità. Compare un signore involuto e palesemente a disagio con il microfono: così poco berlusconiano che, se lo vede il Principale, per la rabbia gli attacca la scarlattina. Spegni, più agitato di prima. Arriva un dispaccio d'agenzia: dei ricercatori inglesi garantiscono che i baci rafforzano il sistema immunitario, purché i baciatori si scambino effluvi da almeno sei mesi. Chiedi a tuo figlio quante volte ha baciato la bambina. Soltanto una, dice lui per tranquillizzarti. E tu ti disperi.






Visita il sito dell'iniziativa dell'Opera San Francesco.

Non si uccidono così anche i morti?

di Enzo Bianchi

Ogni anno ritornano «i morti», giorno in cui si ricordano «quelli che se ne sono andati e non sono più qui». Fin dalla preistoria, da quando l'uomo è uomo, la morte è un enigma, un'ingiustizia vissuta dall'uomo come destino ma mai accolta con semplice naturalezza. Per chi muore, la morte è un evento sconosciuto: è la fine di tutto o l'apertura a un altro mondo? Per questo la paura della morte è innestata in ogni vita umana e di fatto è, come dice Giobbe, «la regina delle paure», la radice di tutte le paure. Per questo l'autore della Lettera agli Ebrei ha un'affermazione poco ricordata e meno ancora esplorata, ma di importanza decisiva per lo svelamento che contiene: «a causa della paura della morte, (gli esseri umani) sono soggetti ad alienazione per tutta la vita» (Ebrei 2,15). Oggi accettiamo con difficoltà ancora maggiore di guardare alla morte, perché la nostra società assomiglia al palazzo che il padre di Gothama Buddha aveva costruito per il figlio: un luogo da cui era stato bandito ogni segno di malattia, di vecchiaia e di morte. Nonostante i media siano pieni di morte - morti spettacolari, vittime di guerra, di calamità naturali, di delitti e di incidenti stradali - oggi la morte è sistematicamente ritenuta oscena e rimossa. Ma questa è la morte degli altri, la morte che «fa notizia», tanto più spettacolare quanto meno è la mia morte. Così, il risultato di questo eccesso di rappresentazione provoca l'espulsione della morte dal nostro quotidiano e la rende lontana, improbabile per noi. Sì, però i nostri morti? Prima o poi, infatti, muore anche qualcuno vicino a noi. E, a meno che non si tratti di un evento improvviso, anche per loro è in atto un processo che ce li rende sempre più estranei: il periodo finale della loro vita è tenuto lontano dal nostro quotidiano, in ospedale, in luoghi dedicati a malati «terminali», appunto. Altri sono deputati ad accompagnare chi muore e, quando la morte sopraggiunge, tutto è approntato affinché il morto non torni neppure a casa ma, pur con tutti gli onori del funerale, raggiunga presto il cimitero dove, anche lì, c'è sempre meno spazio e tempo per i morti. Dopodiché ci si affretta a insegnare vie per «elaborare il lutto», perché si pensa che il dolore per la perdita di chi abbiamo amato e amiamo debba essere addolcito e fatto sparire il più in fretta possibile: occorre dimenticare, e l'oblio va accelerato... Questo tentativo di occultare la morte e dimenticare i morti lo ritroviamo presente anche nella macabra carnevalata celebrata come Halloween - festa estranea alla tradizione culturale italiana, ma impostasi per i suoi risvolti smaccatamente commerciali, all'insegna del principio che «tutto si può vendere e con tutto ci si può divertire» - in cui i bambini sono indotti a divertirsi parodiando la morte: è un tentativo disperato e antropologicamente falso di esorcizzare la morte. Distogliere lo sguardo da questo evento ineluttabile è impossibile, perché la morte è solo la forma più decisiva e definitiva della sofferenza che accompagna tutta la vita, e il dolore non può essere eliminato. Sicché la morte che si vorrebbe ignorare diventa oppressione, incubo, fantasma e noi restiamo inconsapevoli di cosa ci attende, alienati dalla paura della morte. Perché si è giunti oggi a questa parodia di un giorno che era umanissimo, un giorno di memoria che gli esseri umani - e solo loro - di tutte le culture hanno creato e vissuto con riti diversi, ma sempre tesi a ricordare quanti li hanno preceduti nel cammino della vita e della morte, e a esercitarsi a vivere per loro segni di attenzione? Sembra impossibile questa spaventosa perdita di memoria. Ancora la mia generazione ha conosciuto questo bisogno della visita alle tombe delle persone amate: rito a volte addirittura settimanale, ma sentito come dovere assoluto in questa stagione autunnale, quando tutta la natura ci parla di una fine, una morte, un sonno e un riposo. Non c'entrava essere credenti o meno: c'era nel cuore una relazione d'amore vissuta, e questa abbisognava di essere ricordata e in qualche misura rivissuta. D'altronde, tra tutti gli animali, solo l'essere umano ha sentito da sempre il bisogno di dare sepoltura a chi moriva e di porre un segno visibile e tangibile dove il corpo aveva raggiunto la terra e si era unito a essa per sempre. Ecco allora la necessità umanissima di recarsi alla tomba, specie in occasione di ricorrenze personali - come l'anniversario della morte o della nascita - o di commemorazioni collettive, come il «giorno dei morti» o quello dei «caduti». Ripulire la tomba, lavare la pietra che reca impresso il ricordo, ornarla di fiori, illuminarla di un lume sono tutti gesti tesi a celebrare il morto e a ravvivare la comunione vitale con lui. Culto di morte? Piuttosto, in un certo senso, culto dei morti: in questi gesti non c'è venerazione per dei cadaveri né tanto meno evocazione di spiriti, bensì il desiderio di accendere un rapporto impossibile nel presente, ma che nel passato è stato autentico, significativo, vitale. Bisogno di raccoglimento, di un momento di sobria tristezza e di contenuta nostalgia per storie umane, difficili e faticose, ma nelle quali si è trovato un senso che non può essere scomparso con la morte. Ma ora che la Chiesa «permette» la cremazione, cioè di ridurre subito il corpo in poca cenere, sorgono nuovi problemi: dove deporre le urne se non sono previsti appositi luoghi che le raccolgano consentendo che svolgano la loro funzione di memoriale, di «sito» di un corpo morto ma del quale sentiamo il bisogno di una localizzazione? Saranno custoditi in casa in un'ottica feticistica che vuole eliminare la distanza posta dalla morte? Saranno disperse nei fiumi o in mare o al vento, in una ideologia new age che dissolve la persona, la storia e il rapporto personale di comunione con Dio? E per i cristiani la sacramentalità della morte di Gesù, sepolto nella terra, come potrà essere mantenuta e restare esemplare? Nella celebrazione della «festa di Ognissanti» i cristiani affermano infatti di «leggere» i morti nella speranza di una grande comunione in cui la morte è stata vinta, vinta dall'amore umano vissuto fino all'estremo da Gesù di Nazaret. Eros e Thanatos, Amore e Morte: ecco il duello vero e definitivo, un duello che per i cristiani è già avvenuto perché ormai sulla morte regna l'amore, ma un duello cui possiamo partecipare ancora oggi. Quando rinnoviamo l'amore per i nostri cari che sono morti, noi vinciamo la morte perché rinnoviamo una relazione vitale, mentre essere immemori dei morti e sgomenti di fronte alla propria morte significa non essere realmente e autenticamente persone vive. L'amore ci fa sentire nemica la morte, ma l'amore per chi è morto ci può parlare della vita.

“La Stampa”, 1° novembre 2009

Maria, donna del sabato santo

Il senso del tuo soffrire, o Maria, è dunque la generazione di un popolo di credenti. Tu nel Sabato Santo ci stai davanti come madre amorosa che genera i suoi figli a partire dalla croce, intuendo che né il tuo sacrificio né quello del Figlio sono vani.

Se lui ci ha amato e ha dato se stesso per noi, se il Padre non lo ha risparmiato, ma lo ha consegnato per tutti noi, tu hai unito il tuo cuore materno all'infinita carità di Dio con la certezza della sua fecondità.

Ne è nato un popolo, "una moltitudine immensa... di ogni nazione, razza, popolo e lingua"; il discepolo prediletto che ti è stato affidato ai piedi della croce ("Donna, ecco il tuo figlio": Gv 19,26) è il simbolo di questa moltitudine.

La consolazione con la quale Dio ti ha sostenuto nel Sabato santo, nell'assenza di Gesù e nella dispersione dei suoi discepoli, è una forza interiore di cui non è necessario essere coscienti, ma la cui presenza ed efficacia si misura dai frutti, dalla fecondità spirituale. E noi, qui e ora, o Maria, siamo i figli della tua sofferenza.

C.M.Martini, La Madonna del Sabato Santo

La sconvolgente morte di Stefano

Non solo botte: è il silenzio che uccide. Noi non taceremo

di Giuseppe Anzani

La parola 'omicidio' che un pubblico ministero ha scritto sulla copertina del suo fascicolo di indagini sulla morte di Stefano Cucchi, mentre rinfocola l'orrore e il dolore per l'ipotesi atroce, sembra per paradosso sollevarci per un attimo dall'incubo. E' un incubo infatti, un incubo di civiltà, la tragedia incredibile di un ragazzo preso vivo nella maglia della legge e uscito morto sei giorni dopo. Se qualcuno lo ha ammazzato, vorrebbe dire almeno che il male, il guasto, ha fisionomia circoscritta, è la 'mela marcia'. E inoltre, 'preterintenzionale' vuol dite che la mela marcia non voleva neanche uccidere, solo picchiare. Se è tutta colpa della mela marcia, il canestro è salvo.

Il canestro sono le istituzioni, il canestro è il sistema. Il sistema della sicurezza e della repressione, il sistema del giudizio e delle carceri, il sistema sanitario-terapeutico e in ultima sintesi il sistema 'umano' di una civiltà che tien sacra oppure spregia la dignità della vita. Se la morte di Stefano non è colpa di nien­te e di nessuno, se è una morte che è capitata così, fatalmente, e potrebbe capitare a chiunque (una faccia spaccata, una schiena spezzata), allora forse il guasto ha contagiato i canestri. Allora c'è bisogno di una più profonda revisione collettiva dei nostri standard mentali sul rispetto dell'uomo e della vita. Perché quando un uomo è arrestato, cioè quando il corpo dell'uomo è 'preso' dal potere dello Stato, per una ragione legittima, quel corpo va tenuto al sicuro da ogni aggressione, da ogni minaccia, da ogni pericolo, e lo Stato deve rispondere, in presa diretta, di ogni lesione.

Il rispetto dei diritti umani esigerà adesso almeno la messa in sicurezza delle scale da cui periodicamente cadono gli arrestati con gli occhi pesti? Andiamo, c'è un pudore-limite anche per le ipocrisie. Gli occhi pesti non devono esistere, e se esistono lo Stato ha già fallito comunque, perché ha messo mani su un uomo che dalle sue mani è uscito straziato, e ne ha dunque colpa immanente e oggettiva. La messa in sicurezza riguarda invece la civiltà. Riguarda la coscienza di tutti quelli che sanno, che vengono a sapere perché assi­stono, che assistono e non si ribellano.

E poi, tragedia nella tragedia, la sanità. La sanità che può monitorare il tutto, in caserma, in tribunale, in carcere, in pronto soccorso, in ospedale. E lo fa stavolta, e però totalizza per frutto solo la descrizione finale della morte. C'è nell'epilogo, per giunta, l'annotazione inquietante del rifiuto di cibo e acqua di quel ragazzo disperato e morente. Forse diranno di aver rispettato il diritto al rifiuto, forse nessuno penserà ai risvolti disperati di una solitudine che ha invocato soccorso e ha ricevuto catene. Forse diranno che lui s'è fatto morire. Ma è la genesi del pensiero di morte che ci toglie il respiro. Nei giorni che Stefano moriva, i medici avrebbero potuto e dovuto informare la famiglia e frattanto salvare la vita. Ma i genitori erano respinti alle porte, senza avere notizie, e se questo è vero è un altro crimine disumano.

Forse Stefano non è morto solo per le botte. Ma sicuramente Stefano è morto per 'tutto' quello che è successo, le botte, la caserma, il carcere, gli ospedali. Morto per l'assenza di una relazione 'umana' sufficiente alla vita, quando le esigenze della legge più repressiva, anche nei casi più gravi ed estremi, dicono pur sempre umanità. Se la morte di Stefano è una disperazione traboccata, essa grida una invocazione rifiutata, è la desolazione interiore arresa al silenzio crudele di chi esclude. E' il silenzio che uccide, noi non taceremo.

Avvenire, editoriale, 01.11.09

“Il santo non cancella il male:

gli mette di fronte tanto bene

che anche nella notte più fonda

qualche cosa del divino disegno

continuamente risplende”.


don Primo Mazzolari, La parrocchia, 13