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Il mio sì
Io sono creato per fare e per essere qualcuno per cui nessun altro è creato.
Io occupo un posto mio nei consigli di Dio, nel mondo di Dio:
un posto da nessun altro occupato.
Poco importa che io sia ricco, povero; disprezzato o stimato dagli uomini:
Dio mi conosce e mi chiama per nome.
Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato a nessun altro.
Io ho la mia missione.
In qualche modo sono necessario ai suoi intenti
tanto necessario al posto mio quanto un arcangelo al suo.
Egli non ha creato me inutilmente.
Io farò del bene, farò il suo lavoro.
Sarò un angelo di pace,
un predicatore della verità,
nel posto che egli mi ha assegnato anche senza che io lo sappia,
purché io segua i suoi comandamenti e lo serva nella mia vocazione.
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di Umberto Galimberti
Anche i popoli hanno un'anima, o come dicono i tedeschi un Geist, uno "spirito" che li caratterizza e li rende riconoscibili. "Qual è l'anima degli italiani oggi?" (...) Oggi a federare gli italiani è l'"inerzia" quando non addirittura il cupio dissolvi "che ha afferrato le coscienze ancor prima delle menti". L'inerzia infiacchisce l'anima, che più non si appassiona e non sogna. Non sognano i giovani a cui il futuro non appare più come una promessa ma come una minaccia; non sognano gli adulti che sembrano essersi consegnati a quell'unico generatore simbolico di tutti i valori che è il denaro; non sognano i vecchi a cui è stata allungata la vita solo per riempirla di vuoto. L'inerzia è come un fiume che tutto ingloba e che pigro scorre verso un mare lontano, senza più la spinta della sorgente, le cascate dei dislivelli, i vortici degli affluenti. A rallentare il suo cammino annoiato e triste è solo il suo ristagnare nelle anse sempre più inquinate, paludose e piatte. Questo infiacchimento spirituale più non conosce ideali forti in grado di affrontare i problemi che la globalizzazione e la tecno-scienza ogni giorno ci propongono: dalla bioetica alla pace, dalla giustizia all'immigrazione, dalla conservazione dell'ambiente alla lealtà fiscale per la costruzione del bene comune. Immersi nel grigio della rassegnazione, gli italiani oggi sono più tristi che felici e, incapaci di guardare il futuro, vivono la "dittatura del presente" dove l'attenzione è rivolta più ai sondaggi che ai movimenti della storia, in un mondo che cambia rapidamente intorno a noi, anche senza la nostra collaborazione, e soprattutto senza che noi lo si sappia interpretare, col rischio che alla fine si cambi in un mondo senza di noi. (...) Quelle solitudini di massa, ciascuno col suo ipod nelle orecchie o col video del computer davanti agli occhi per comunicare, dietro una maschera, con altre maschere che nascondono la propria identità. E tutto questo in un'Italia cattolica che ha il suo centro nella "comunione" che vuol dire comunità, soccorso al prossimo in quelle forme puntualmente elencate nel "Discorso della Montagna" pronunciato da Gesù. Ma già sappiamo che la chiesa del potere non coincide con la chiesa dell'amore, anche se la chiesa dell'amore probabilmente non sopravvivrebbe senza la chiesa del potere. Ma in quest'Italia tutta rifugiata nel privato, senza solidarietà, senza compassione, senza commozione per il proprio simile più svantaggiato, non sarebbe tempo di meno enunciazioni di principio e di più frequenti richiami all'amore del prossimo? Non è questo il grande comandamento del cristianesimo che chiede di scorgere il volto di Dio nel prossimo che non puoi evitare di incontrare lungo la via?
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A Milano 73 «ricoveri» al giorno per patologie riconducibili all'inquinamento, dall'asma all'ictus
Quest'aria malata ci fa ammalare. (...) L'elenco si allunga e cresce il rischio di caderci dentro, venir catturati e trasportati direttamente in ospedale. Ogni giorno, 73 accessi nei pronto soccorso hanno come causa disturbi «potenzialmente correlabili all'inquinamento»; in due anni i casi sono stati 53.514. Tosse, asma, bronchiti, polmoniti, attacchi di cuore, ictus. (...) La metà ha riguardato disturbi acuti delle vie respiratorie; 8.536 i casi di bronchite acute, 5.689 le infezioni per polmonite, 4.323 gli scompensi cardiocircolatori, 1.825 i casi di riacutizzazione di bronchite cronica ostruttiva. Spiegano i medici che per il 50% questi problemi riguardano gli under 18; e tra gli under 18 ci sono vagonate di bambini. E non basta star chiusi in casa. Per esempio, un'altra (recente) ricerca, condotta su 1.522 abitanti di Milano reclutati in dieci anni, dice che il rischio di trombosi è elevatissimo per chi abita a meno di tre metri da strade congestionate dalle automobili. Punto e basta, non si scampa. La «distanza di sicurezza » dallo smog è fissata, del resto, a 162 metri. Troppo, in una città; figurarsi in una città «raccolta » come Milano. (...) L'Oms, l'Organizzazione mondiale della sanità, ha sentenziato: «In città le concentrazioni fuori norma di Pm10 e ozono provocano un migliaio di morti l'anno». (...)
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Chi l'ha conosciuto, chi l'ha sentito predicare non può dimenticare il modo della sua vibrazione, l'intensità dello sguardo, quello straordinario impasto fra sguardo e parola con cui vi raggiungeva di sorpresa e vi toccava. Era un modo di predicare che tendeva a fondersi nell'essenza stessa della vita: non c'era male che avesse la forza di resistere alla sua forza, meglio direi alla sua pietà. Questo grande scaricatore di parole, che girava il mondo, che correva, che era pronto a prendere tutte le responsabilità, derivava la sua forza dalla presenza del Vangelo e, per illustrare la differenza che egli sapeva fare fra le parole di comodo e quelle che scottano, aveva definito il Vangelo "La parola che non passa" e sotto questo titolo aveva scritto uno dei più bei commenti del Vangelo (La Locusta, Vicenza).
Naturalmente non tutto si salverà dei suoi interventi; purtroppo gran parte del suo lavoro è un seme che è caduto ma non ha preso e nessuno più di lui ne era cosciente. Quando decise di dar vita a un foglio di battaglia, "Adesso", obbediva proprio a questo sentimento di tristezza, a una forma umana di scoraggiamento, ma subito dopo era di nuovo pronto per credere che battaglie di questo genere si vincono subito, nel momento, adesso. Soltanto lui poteva alzare questa bandiera e restare fedele a lungo, imperterrito nel dolore che era molto e nella gioia che era rara e fragile. Da don Mazzolari sono venuti, volta per volta, gli ammonimenti, i gridi d'allarme, l'invocazione alla realtà della vita religiosa.
Nato e cresciuto in campagna aveva registrato nella carne lo scandalo più desolante per un vero cristiano, l'allontanamento dei contadini e degli operai dalla lezione di Cristo: lo aveva registrato, riportando su di sé le colpe e le responsabilità. Aveva capito che ogni forma superstite di dialogo fra Cristo e l'uomo quasi sempre avveniva fuori delle regole, delle dimostrazioni episodiche, soprattutto della condizione politica e che avveniva al contrario nel segno del dolore, della miseria e della pena. In questo modo egli si adoperava per condurre la battaglia su due piani: da una parte l'obbedienza alla verità e, dall'altra, la protesta contro i soprusi, lo spirito di abbandono e di corruzione.
Questo è stato anche il suo testamento spirituale: in parole povere, don Mazzolari ha detto agli uomini di buona volontà che per riportare il figliuol prodigo alla casa del padre non basta ammonirlo ma aspettarlo con amore, rendendogli più facile, meno crudele e disperato il tempo dell'esilio.
Naturalmente don Mazzolari non poteva aspettarsi, in vita, consensi: di solito lo accompagnava il sospetto. Mazzolari dava noia, come tutte le persone che mettono il dito sulla piaga e non accettano il compromesso. Ora che è morto, cerchiamo di ricordarlo com'era, nel sangue stesso della sua parola, senza il facile scambio dell'immagine sacra ma inerte. Spero che quelli che l'hanno conosciuto, soprattutto la parte più nuova e coraggiosa della vita spirituale italiana, resteranno fedeli alla sua memoria.
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Per favore, non diteci che questo calo è tutta colpa di noi elettori!
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di Enzo Bianchi
I luoghi comuni sui giovani ormai si sprecano, a cominciare dalla stessa definizione di una categoria di persone legata unicamente a una fascia di età fino a una cinquantina d'anni fa inesistente: una serie di condizioni sociali e culturali faceva sì che non ci fosse «tempo per essere giovani», in quanto l'età di passaggio dall'adolescenza al mondo adulto era un brevissimo lasso di tempo. Eppure oggi si sente continuamente parlare di giovani, del loro «non essere più come quelli di una volta», delle loro attese e frustrazioni, del loro futuro. Anzi, proprio sul termine «futuro» un altro luogo comune rischia di portarci fuori strada nell'affrontare le problematiche giovanili: si sente ripetere che «i giovani sono il futuro della società (o della chiesa)», senza rendersi conto che questa affermazione da un lato tende a emarginalizzarli dal presente - come una sorta di difesa preventiva degli adulti che mantengono così la loro presa su un oggi di durata indefinita - e a ignorare che in realtà essi sono già «una parte del presente» della società, mentre dall'altro lato ignora pericolosamente il dato che più affligge oggi chi ha tra i venti e i trent'anni: la mancanza di speranza per il futuro. Tra gli aneliti più cocenti dei giovani, infatti, non vi è quello di «essere» il futuro di una determinata realtà sociale o ecclesiale, ma piuttosto di «avere» già ora un futuro verso cui tendere, un'attesa capace di dare senso al loro presente. Per la chiesa poi, specie in Italia e in Europa, la questione «giovani» si fa particolarmente preoccupante. Siamo di fronte alla prima generazione incredula - come l'ha definita Armando Matteo nella sua ottima riflessione su «il difficile rapporto tra i giovani e la fede» (...) - cioè a persone per le quali «nascere e diventare cristiano» non sono più «eventi che accadono in modo sincrono», una generazione cui «nessuno ha narrato e testimoniato la forza, la bellezza, la rilevanza umana della fede». L'analisi di Matteo - assistente ecclesiastico nazionale della Fuci e come tale in costante contatto con i giovani universitari - è lucida anche nel suo tratteggiare «quel senso di notte e quella notte di senso» che attanaglia tanti giovani. Sono interrogativi - ma anche suggerimenti, intuizioni, proposte da accogliere con gratitudine e approfondire con sapienza - che riguardano la chiesa intera e la sua presenza nella società, oggi prima ancora che domani, la sua capacità di «umanizzare», di far diventare l'essere umano più umano. Sono parole a volte sferzanti, dure da ascoltare, ma che ci risvegliano a un'urgenza a volte percepita ma raramente assunta con serietà: la consapevolezza che la fede, come la vita, la si trasmette da persona credibile a persona aperta alla possibilità di credere. Si tratta di essere coscienti non solo di avere un patrimonio da trasmettere, ma anche del dover rendere credibile e desiderabile l'eredità che si vuole lasciare a generazioni erroneamente definite «che verranno»: esse in realtà sono già in mezzo a noi e da noi attendono segni di un passato verso il quale essere grati, di presente aperto al domani, di un futuro possibile e che valga la pena di essere vissuto, a partire da qui e ora.
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La mia avversione cresciuta cieca sui libri, in Nicola aveva sintomi in carne. Incapace di ostilità reagiva con uno sfogo di timidezza. Un giorno mi disse che aveva riconosciuto un anno prima un soldato tedesco, uno che stava a Sarajevo. Si erano guardati, non si erano detti niente. Ma lui aveva risentito in pancia il morso della guerra. Era diventato rosso di vergogna, si trovava in chiesa a messa. Se n'era uscito senza nemmeno farsi il segno di croce: "Me so' mmiso scuorno pe' Ddio", si era vergognato per Dio.
"Adda tene' pacienza pure int'a casa soia", doveva avere pazienza pure a casa sua. È bella la pacienza in napoletano perché mette un po' della parola pace dentro la pazienza. Gli chiesi se era uno che aveva ammazzato della gente. Non rispose. M'insegnava a non aspettarmi sempre una risposta.
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![](/images/DNN/10_03/Feltri_sospeso_albo_10_03_26.jpg)
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Se per un attimo osiamo toglierti l'aureola, è perché vogliamo vedere quanto sei bella a capo scoperto. (trovi il testo completo nella sezione Testi)
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Per coloro che credono, nessuna prova e' necessaria.
Per coloro che non credono, nessuna prova e' sufficiente.
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Lo so bene: non è un'invocazione da mettere nelle litanie lauretane. Ma se dovessimo riformulare le nostre preghiere a Maria in termini più umani il primo appellativo da darle dovrebbe essere questo: donna senza retorica.
Donna vera, prima di tutto. Come Antonella, la ragazza di Beppe, che ancora non può sposarsi perché disoccupata e anche lui è senza lavoro. Come Angela, la parrucchiera della città vecchia che vive felice con suo marito. Come Isabella, la vedova di Leo che il mese scorso è morto in un naufragio lasciandola con tre figli sulle spalle. Come Rosanna, la suora stimmatina che lavora tra i tossicodipendenti della Casa di accoglienza di Ruvo.
Donna vera, perché acqua e sapone. Perché senza trucchi spirituali. Perché, pur benedetta tra tutte le donne, passerebbe irriconoscibile in mezzo a loro se non fosse per quell'abbigliamento che Dio ha voluto confezionarle su misura: «vestita di sole e coronata di stelle».
Donna vera, ma, soprattutto, donna di poche parole. Non perché timida, come Rossella che tace sempre per paura di sbagliare. Non perché irresoluta, come Daniela che si arrende sistematicamente ai soprusi del marito, al punto che tronca ogni discussione dandogli sempre ragione. Non perché arida di sentimenti o incapace di esprimerli, come Lella, che pure di sentimenti ne ha da vendere, ma non sa mai da dove cominciare e rimane sempre zitta.
Donna di poche parole, perché, afferrata dalla Parola, ne ha così vissuta la lancinante essenzialità, da saper distinguere senza molta fatica il genuino tra mille surrogati, il panno forte nella sporta degli straccivendoli, la voce autentica in una libreria di apocrifi, il quadro d'autore nel cumulo delle contraffazioni. Nessun linguaggio umano deve essere stato così pregnante come quello di Maria. Fatto di monosillabi, veloci come un "sì". O di sussurri, brevi come un fiat. O di abbandoni, totali come un amen. O di riverberi biblici, ricuciti dal filo di una sapienza antica, alimentata da fecondi silenzi.
Icona dell'antiretorica, non posa per nessuno. Neppure per il suo Dio. Tanto meno per i predicatori, che l'hanno spesso usata per gli sfoghi della loro prolissità.
Proprio perché in lei non c'è nulla di declamatorio, ma tutto è preghiera, vogliamo farci accompagnare da lei lungo i tornanti della nostra povera vita, in un digiuno che sia, soprattutto, di parole.
Santa Maria, donna senza retorica, prega per noi inguaribilmente malati di magniloquenza.
Abili nell'usare la parola per nascondere i pensieri più che per rivelarli, abbiamo perso il gusto della semplicità. Convinti che per affermarsi nella vita bisogna saper parlare anche quando non si ha nulla da dire, siamo diventati prolissi e incontinenti. Esperti nel tessere ragnatele di vocaboli sui crateri del "non senso", precipitiamo spesso nelle trappole nere dell'assurdo come mosche nel calamaio. Incapaci di andare alla sostanza delle cose, ci siamo creati un'anima barocca che adopera i vocaboli come fossero stucchi, e aggiriamo i problemi con le volute delle nostre furbizie letterarie.
Santa Maria, donna senza retorica, prega per noi peccatori, sulle cui labbra la parola si sfarina in un turbine di suoni senza senso. Si sfalda in mille squame di accenti disperati. Si fa voce, ma senza farsi mai carne. Ci riempie la bocca, ma lascia vuoto il grembo. Ci dà l'illusione della comunione, ma non raggiunge neppure la dignità del soliloquio. E anche dopo che ne abbiamo pronunciate tante, perfino con eleganza e a getto continuo, ci lascia nella pena di una indicibile aridità: come i mascheroni di certe fontane che non danno più acqua e sul cui volto è rimasta soltanto la contrazione del ghigno.
Santa Maria, donna senza retorica, la cui sovrumana grandezza è sospesa al rapidissimo fremito di un fiat, prega per noi peccatori, perennemente esposti, tra convalescenze e ricadute, all'intossicazione di parole. Proteggi le nostre labbra da gonfiori inutili. Fa' che le nostre voci, ridotte all'essenziale, partano sempre dai recinti del mistero e rechino il profumo del silenzio. Rendici come te, sacramento della trasparenza. E aiutaci, finalmente, perché nella brevità di un "sì" detto a Dio ci sia dolce naufragare: come in un mare sterminato.
mons. Tonino Bello, Maria donna dei nostri giorni, 14-16
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Di corsa verso l'incontro
«Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino» (v. 1).
Possiamo immaginare il suo passo. È quello tipico di chi si reca al cimitero. Non si corre di certo quando si ha un appuntamento con la morte. Così come non si corre allorché si è intruppati in un corteo che segue una bara. Non si corre quando uno va a versare lacrime sulla tomba di Colui nel quale si erano investite tutte le proprie speranze, che si era amato più di tutto e di tutti.
L'andatura di Maria Maddalena verso il sepolcro è quella, pesante, faticosa, dolente, rassegnata, di una che si è vista strappare via l'amore, l'avvenire, e si porta addosso soltanto i ricordi e i rimpianti del passato.
Ma ecco che diventa all'improvviso testimone di un incidente. L'incidente più incredibile che si possa immaginare.
«... Vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro» (v. 1).
Ecco l'imprevisto, l'incidente inatteso. Quello che cambia tutto.
Se questa pietra, che sigilla una tomba, non sta al suo posto, più niente è al suo posto. Se non c'è ordine neppure in un cimitero, allora davvero ogni cosa è sconvolta. Se perfino i segni intoccabili della morte sono stati manomessi, non ci si ritrova più da nessuna parte.
Le cosiddette "pulizie di Pasqua" sono diventate una scadenza ineludibile. Anche per la nostra anima. Ma la Pasqua, così come viene descritta dal Vangelo, non è elemento di ordine, bensì di disordine. La Risurrezione del Signore è "perturbatrice" dell'ordine così come l'abbiamo stabilito noi. Ha ragione il mio amico A. Maillot: «La Pasqua è Anarchia».
La Pasqua getta lo scompiglio in tutto, confonde, sconvolge ogni cosa: gioia, tristezza, ragionevolezza, speranza, possibilità.
«Né la morte né la vita sono più quello che sono state finora. Nessuna persona è semplicemente quello che vediamo. E io stesso non sono più io» (A. Maillot).
Il mattino di Pasqua si realizza un capovolgimento generale, uno sconquasso, uno scombussolamento totale: abitudini, tradizioni, leggi, necessità, esigenze. Inutile vogliamo riprendere il controllo della situazione secondo i moduli collaudati. Dobbiamo accettare il disordine di Pasqua.
Se una pietra tombale non è più al suo posto, se nemmeno un cadavere sta più là dove era stato sistemato, se Maria di Magdala ha la sensazione di perdere due volte (da vivo e da morto) Colui che ama, allora l'unica maniera per essere ragionevoli è quella di perdere la testa.
La Maddalena perde la testa. In seguito all'incidente di cui è la prima testimone, si lancia in una corsa frenetica, che contagerà anche altri.
Sì, il mattino di Pasqua si va all'incontro con Gesù... di corsa. Maria di Magdala corre verso la casa dove stanno gli amici del Maestro.
«Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!"» (v. 2).
A loro volta, Pietro e Giovanni, informati dell'incidente, si mettono a correre in quella direzione.
Tutti corrono, si incrociano, fanno perfino un po' di confusione, come quando succede una disgrazia, cercano di rendersi utili in qualche modo. Ma qui una disgrazia irreparabile è toccata alla Morte, dopo essersi azzuffata con la Vita: «Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello...» (Sequenza del giorno di Pasqua).
Ed è successo qualche cosa di grave, di irreparabile, alla Morte. Proprio a lei, che sembrava padrona assoluta del campo, dominatrice incontrastata da sempre, abituata ad avere immancabilmente l'ultima parola.
In chiesa, come a un funerale
Amico lettore, per caso hai disimparato a correre?
Ti vergogni, adducendo come pretesto il fatto che non sei più un ragazzino, e che certe cose sono disdicevoli per un uomo posato?
Sei diventato anche tu saggio, prudente, controllato, come chi sa che non vale la pena affannarsi, che bisogna abituarsi alla morte?
Anche tu vai in chiesa col tuo passo abituale, tranquillo, un po' legnoso, disposto ad assistere a una calma liturgia, ad ascoltare un sermone rassicurante?
C'è gente che va a "fare Pasqua", o si reca abitualmente in chiesa, magari tutti i giorni, come si va a un funerale. Con una certa compostezza, compunzione, cercando di darsi un certo contegno, assumere una certa aria perbene, apparire cortese, garbata.
Non succede niente. Tutto in ordine, previsto, regolamentato. Nessuna sorpresa.
Lasciarsi portare via Dio
«Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto...» (v. 13).
Maria di Magdala deve accettare, prima di tutto, di perdere il suo Signore. Paradossalmente, per trovare veramente Dio, bisogna perderlo.
Amico, lasciati portare via il tuo Dio triste. Non contribuire anche tu a mettere in circolazione l'immagine di un Dio triste, di una Chiesa cupa e severa, di un cristiano mesto e annoiato.
Lascia che altri vadano a trovarlo, con passo lento e ritmato, al cimitero... Tu, come Maria di Magdala, apriti alla sorpresa di un Dio "irriconoscibile" rispetto a quello del passato.
La voce non tradisce
Ma sottolineiamo il momento e, soprattutto, il modo del "riconoscimento".
Maria di Magdala, allorché si affida al "vedere", si sente autorizzata a piangere - di fatto, accanto al sepolcro, ha gli occhi coi lucciconi -, perché avverte ciò che le è stato tolto.
«Hanno portato via il mio Signore...»
Lo ritrova al suono, inconfondibile, della voce:
- Maria!
- Rabbunì! (v. 16).
Gli occhi le hanno fatto velo, non le hanno consentito di riconoscerlo. La voce, però, non tradisce. Quel timbro, quel tono, il nome pronunciato come una carezza, fanno scoccare la scintilla del "riconoscimento".
Anche lei, come le pecore nel recinto, riconosce il Pastore, l'amico, quando lo sente pronunciare il proprio nome (Gv 10,3).
In un rapporto d'amore, non soltanto il volto, ma anche la voce ha una funzione rivelatrice.
È possibile parlare di "sacramento della voce".
La voce consente la manifestazione. Stabilisce il contatto. Rende possibile l'incontro. Celebra il possesso.
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di Andrea Riccardi
Trent'anni sono trascorsi da quel 24 marzo 1980, quando, alle 18,25, uno sparo secco dalla porta della cappella uccise l'arcivescovo di San Salvador, Oscar Romero. Si accasciò ai piedi dell'altare, su cui celebrava la messa. La notizia fece il giro del mondo. Un vescovo assassinato durante la messa... Il mondo parlò del Salvador, piccolo e povero Paese centroamericano, ignorato dai più. Divenne la terra di Romero, l'unico salvadoregno conosciuto al mondo. Ma chi fu monsignor Romero? Dal 1977 era arcivescovo in una nazione tribolata, dove una forte guerriglia (appoggiata da cubani e sovietici) combatteva il potere militare al servizio di un'oligarchia agraria in un Paese poverissimo e tanto cattolico. Dopo quella morte, l'opinione internazionale cominciò a parlare di questa guerra disperata, che avrebbe ucciso quasi 100.000 persone. La guerriglia fece di Romero un simbolo, che si diffuse in America Latina: “San Romero de América” per i cristiani di sinistra e liberazionisti. Gli fu attribuita la frase, “risorgerò nel mio popolo” (che la biografia di Roberto Morozzo ha mostrato come apocrifa). Era il tempo in cui bisognava schierarsi da una parte o dall'altra. Papa Wojtyla aveva intuito la profondità drammatica della vita di Romero. Nel 1983, in visita al Salvador dopo la contestazione del Nicaragua sandinista, pretese di andare sulla sua tomba cambiando programma. La cattedrale era chiusa. Aspettò caparbiamente che gliela aprissero e si inginocchiò stendendo le mani sulla tomba e dicendo: “Romero è nostro”. Su quella tomba i poveri salvadoregni vanno a pregare, riempiendola di fiori. Bisogna averla vista, per capire la pietà popolare di questa gente umiliata e rassegnata, che molto crede in Dio. Nel 2000, il Papa decise di menzionare tra i martire anche Romero, definendolo “indimenticabile”. Romero era un uomo di Chiesa dalla formazione tradizionale. Nella situazione di un Paese in ostaggio della violenza, non si rassegnò ad assistere al massacro della gente e dei preti. Lottò come poteva, denunciò il potere militare, attaccò la guerriglia, cercò mediazioni. Divenne una presenza scomoda in una guerra ideologica. Non accettò le semplificazioni laceranti per cui o si stava dalla parte dell'ordine o del popolo. In un clima di odio, cercò una soluzione pacifica che appariva impossibile. Pochi hanno capito la sua dolorosa e coraggiosa complessità in un'America Latina fatta di drammatiche semplificazioni. Romero sapeva di rischiare la vita: “Mi uccideranno, non so se la destra o la sinistra”, disse a monsignor Neves nel gennaio 1980 di passaggio a Roma. Non c'era spazio per lui nel Salvador polarizzato dall'odio. Ma cercava spazio per la pace, lottando a mani nude contro la logica implacabile del conflitto. Così fu ucciso. Il conflitto ideologico è continuato dopo la sua morte, coinvolgendo media e protagonisti anche sulla sua memoria. Così il processo di beatificazione è risultato difficile. In realtà Romero è un grande cristiano (non un teologo o un politico). Far sbiadire la sua memoria è una perdita sotto tanti aspetti. Dal 1992, con gli accordi di pace, c'è la democrazia in Salvador. La destra ha governato a lungo e, dal giugno 2009, la sinistra è al potere. Non c'è più guerriglia da quasi vent'anni, ma si muore ancora. Le bande criminali uccidono implacabilmente: 4.365 morti nel 2009. La violenza è una malattia da cui non si guarisce facilmente e un'eredità che si trasmette. Romero lo aveva intuito incompreso, guardando lontano. Diceva don Primo Mazzolari: “I preti sanno morire”. Così è stato per Romero, consapevole di lottare contro un conflitto più forte di lui.
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C'era una volta un programma che, caso (quasi) unico nei palinsesti televisivi, raccontava al pubblico le storie degli "ultimi", di coloro che non trovano mai una telecamera che li riprenda o un microfono che dia loro voce. Quel programma si chiamava proprio C'era una volta perché il suo autore nonché conduttore, il giornalista Silvestro Montanaro, voleva sottolineare che non sempre le fiabe che iniziano con quelle quattro paroline hanno un lieto fine. Sicuramente non lo hanno per i bambini che Montanaro ha incontrato (e raccontato) nei Paesi del mondo dove l'infanzia viene sistematicamente abusata e violata da chi, invece, dovrebbe raccontare a quei piccoli la favola della buonanotte.
Oggi quel programma non esiste (quasi) più. Al momento per C'era una volta, votato come programma dell'anno nel 2000 e che da allora ha vinto una decina di prestigiosi premi internazionali, si ha notizia solo di cinque puntate in onda su Raitre a partire dalla metà del prossimo agosto, rigorosamente in terza serata. Ma, da qui all'estate, chissà cosa succederà: «Purtroppo non abbiamo certezze» afferma Montanaro che, subito dopo, puntualizza: «Non voglio difendere C'era una volta, se qualcuno crede nel nostro programma sarà lui a farlo. Quello che mi interessa è dare visibilità a quella che chiamo L'isola dei non famosi. Da quando è iniziato C'era una volta abbiamo cercato di raccontare le pagine più oscure dei processi di globalizzazione non solo per rendere visibili i mondi degli ultimi ma anche avvisando coloro che vivono nel mondo ricco che certi meccanismi avrebbero finito per travolgere anche noi. Oggi gli ultimi non appartengono più ai mondi lontani, milioni di famiglie occidentali hanno ormai gli stessi problemi di quelle che, in questi anni, abbiamo incontrato».
Un esempio? «Se io racconto cosa succede alle operaie del settore tessile che lavorano in Bangladesh in condizioni disumane, con stipendi ridicoli e senza alcun diritto, racconto anche alle famiglie italiane perché i loro familiari hanno perso, o perderanno, il lavoro nelle fabbriche tessili del nostro Paese che chiudono per riaprire là dove la manodopera è praticamente a costo zero».
Oppure «vogliamo parlare di uno dei peggiori incubi delle famiglie italiane, lo stupro e la pedofilia? Sono appena tornato da un viaggio tra la Thailandia, la Cambogia e il confine birmano: lì ci sono milioni di bambini in vendita. Nella sola Pattaya, un ex villaggio di pescatori diventato una delle mete preferite del cosiddetto turismo sessuale, ci sono 350 mila ragazzine che si prostituiscono. Per non parlare dei film pornografici con scene sempre più violente (omicidi compresi) che hanno per protagonisti bambini di tutto il mondo e che vengono venduti normalmente sulle bancarelle al margine della strada.
Ammesso che qualcuno possa pensare che, in fondo, non è un problema nostro ma di quei Paesi, io voglio solo far notare che quei turisti, molti dei quali italiani e padri di famiglia, dopo la loro scellerata vacanza tornano in Italia: che rapporto possono avere con i bambini qui da noi, visto che lì si sono abituati a violentarli?». Il discorso, prosegue Montanaro, è valido «per tutte le grandi questioni mondiali, dal lavoro alle risorse energetiche e alla lotta alla criminalità organizzata. Se non le leggiamo in chiave geopolitica, non possiamo capirle. Non possiamo accorgerci dell'Ucraina solo quando corriamo il pericolo che ci chiuda i rubinetti del gas».
Il problema, insomma, è l'informazione: «Essere informati ci permette di essere cittadini e democratici. E di non lasciarci condizionare dalla paura, dell'aviaria o della suina solo per citarne un paio, che permette a qualcuno di fare affari infiniti alle nostre spalle e sulle nostre vite». Montanaro chiude lanciando una campagna che sa di provocazione: «Chiedo a tutti coloro che condividono il mio pensiero di esibire la loro "non famosità". Esponete una foto della vostra famiglia, dei vostri figli, accanto a quella di un bambino lontano. Io lo farò, con mia figlia Sole vicina a quella dell'ultima bambina che ho conosciuto in Thailandia. Chissà che, un giorno, non si possa andare con tutte queste foto sotto le sedi Rai o Mediaset a chiedere di dare voce a chi non ce l'ha».
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Otto milioni di morti all'anno. Cinquemila bambini al giorno, uno ogni venti secondi. Nemmeno le guerre e le violenze che tormentano ogni angolo del Pianeta, messe tutte insieme, possono tanto. La mancanza d'acqua, sì. La tragedia silenziosa, che si lega a quella di risorse idriche non potabili
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L'oggi si fa chiaro nel domani.
Il contadino, quando semina, ha negli occhi il fulgore del giugno,
e va verso quello mentre la nebbia ottombrina gli vela lo sguardo.
La primavera incomincia con il primo fiore, il giorno con il primo barlume,
la notte con la prima stella, il torrente con la prima goccia,
il fuoco con la prima scintilla, l'amore con il primo sogno.
La speranza vede la spiga quando i miei occhi di carne non vedono che il seme che marcisce.
L'uomo cammina e la Speranza gli fa buona ogni strada, anche la strada della croce.
Sentirmi ospite e pellegrino in qualunque dimora terrena, dentro e fuori di ogni casa;
sentirmi da capo ad ogni arrivo, sotto una tenda anche nel palazzo più quadrato;
avere sempre l'ultimo anello della catena da saldare,
una mano tesa verso qualcuno, un sospiro per qualche cosa.., è la mia vocazione di cristiano.
L'uomo non è mai tanto povero come quando s'accorge che gli manca tutto;
non e mai tanto grande come quando da questa stessa povertà, tende le braccia e il cuore verso Qualcuno.
Chi ha Qualcuno davanti non si ferma più e nessuno lo ferma, neanche la morte, perché Lui è più forte della morte.
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di Marco Garzonio
Fa indubbiamente scalpore la Chiesa che merita le prime pagine per una serie di vicende che hanno a che fare più con il potere che con il Vangelo delle Beatitudini. Ma, come dice la Scrittura, è bene che gli "scandali" siano rivelati. Primo, perché aiutano a purificare animi e situazioni, a far entrare aria fresca e a coinvolgere energie nuove. Secondo perché fanno crescere l'opinione pubblica nella Chiesa (come voleva il Concilio), fra i cristiani tutti, troppo spesso afflitti da conformismo, remissività, convenienze, appartenenze, quieto vivere. Terzo perché spronano ad allargare gli orizzonti entro cui considerare non solo le vicende interne alla Chiesa e dei credenti, ma quelle del mondo intero, verso il quale il cristiano dovrebbe essere testimone autentico ed autorevole della speranza che è il lui, quella per cui Cristo è morto in croce per salvare l'umanità intera. E' difficile per un non credente pensare che lo Spirito Santo sia sempre presente e di continuo agisca nelle vicende ecclesiastiche. Anche perché, invece di evidenziare la valenza profetica, la Chiesa e i suoi fedeli spesso esitano nel fare tutto ciò che spetterebbe loro per rendere viva e operosa quella presenza. La Chiesa è visibile di per sé e spesso mostra come preponderante la dimensione istituzionale. E alcuni luoghi, Vaticano e Santa Sede, ad esempio, paiono perdere funzione simbolica e acquisire piuttosto una dimensione più di governo terreno, di gestione e di amministrazione. Perché questa riflessione? Non sfugge a nessuno che alla morte di Giovanni Paolo II i cardinali chiamati a eleggere il successore si sono trovati a un bivio. Semplificando: o assecondare lo slancio wojtyliano, e quindi andare oltre, aprirsi a una dimensione universalistica, autenticamente cattolica. Oppure, cercare di "riorganizzare" le fila, proprio dopo il ciclone Wojtyla. La prima strada avrebbe comportato un'apertura ai mondi in cui la Chiesa, come si dice, è "in stato di missione" e per questo guardata da molti popoli come via di riscatto e salvezza da povertà, guerre, discriminazioni. E in effetti gli episcopati di America Latina, India, Africa, pur fra contraddizioni, si sono spesso rivelati portatori di istanze evangeliche e di richieste e che queste vengano tradotte in pratica, con coraggio, autenticità, verità. E all'ultimo Conclave v'erano autorevoli esponenti di tale tendenza. La seconda strada faceva propendere per una riaffermazione di una visione più da mondo Occidentale, eurocentrica, che vede in Roma, là dove Pietro e Paolo sono approdati e hanno annunciato Cristo, il fulcro generativo continuo del messaggio Evangelico. Con l'elezione di Joseph Ratzinger ha prevalso la seconda opzione. E la caratura teologica di Benedetto XVI costituiva un'indubbia garanzia per tutti gli orientamenti in campo. Ma è difficile e illusorio tenere fermo un corpo vivo. E la Chiesa non fa eccezione. Gli "scandali" di questi giorni, le polemiche attorno agli schieramenti, alle posizioni di prelati, sino alla richiesta dello stesso pontefice di un dossier chiarificatore sul cosiddetto "caso Boffo", possono essere letti in questa prospettiva. Lo scenario è di una Chiesa che si muove e in qualche caso si agita, magari scompostamente, in quanto è un organismo vivo. In discussione andrebbero posti semmai obiettivi e metodi messi in campo. Probabilmente, se qualcuno si è dato da fare per definire certi assetti di potere ai vertici vaticani e ha lavorato perché alcune poltrone saltassero e venissero attribuiti maggior peso ed incidenza ad alcuni uffici piuttosto che ad altri, è perché quel qualcuno guarda avanti, è preoccupato del futuro prossimo. Cerca, insomma, di precostituire situazioni e stabilizzare equilibri. Le organizzazioni complesse - e la Chiesa non sfugge alla regola - possono avere leader, forti personalità di riferimento, ma poi è la macchina che fa funzionare il sistema. E con gli ingranaggi e i centri decisionali di questo, anche guide autorevoli e carismatiche devono fare i conti. Lo sanno i governi con ministeri e burocrazie; lo sanno i papi, con congregazioni e uffici curiali. Lunga vita, ovviamente, a Benedetto XVI. Ma molti uomini di Chiesa stanno lavorando per la Chiesa che verrà. Credendo forse ciascuno (e speriamo davvero in buona fede) di garantire un avvenire più consono e non per perseguire - secondo l'ammonimento dello stesso papa dell'altro giorno - carriera e potere. Certo, v'è un'incognita per chi crede: si chiama Spirito Santo, che soffia dove, come e quando vuole. E in questa sua azione può scompigliare anche i giochi più raffinati e le alchimie meglio studiate. S'è visto con Giovanni XXIII e con Wojtyla. Ecco, questa variabile andrebbe maggiormente messa in conto da chi traccia organigrammi e cerca di far coincidere persone e poltrone. Se gli "scandali" servissero anche a tale presa di coscienza, ad una prova di umile ridimensionamento di appetiti e desideri sarebbe già un bel risultato.
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di Massimo Gramellini
Martina Maturana ha dodici anni, vive sull'isola di Robinson Crusoe, al largo della costa del Cile, e non dorme. Ha appena sentito tremare il materasso sotto la schiena. Una vibrazione l'ha svegliata, ma neanche troppo. Potrebbe tranquillamente girarsi dall'altra parte e ricominciare a dormire, come stanno facendo tutti gli altri seicento abitanti dell'isola di Juan Fernandez. Martina invece scende dal letto. Vuole capire. Scuote il padre poliziotto, rintanato sotto le coperte. «Cosa è stato, papà?», «Cosa è stato cosa? Niente, torna a letto». Lei ci va, ma non riesce a prendere sonno. Allora, in punta di piedi, raggiunge la finestra, guarda in basso e vede. Vede ondeggiare le barche nella baia, al chiaro di luna. E capisce. «Lo tsunami!». Si precipita in piazza e suona il gong. Adesso sono tutti svegli e corrono all'impazzata verso la cima dell'altura che domina l'isola. Appena in tempo: nel volgere di qualche minuto un'onda gigantesca sommerge la baia, inonda la piazza, distrugge il municipio e le case circostanti. La bambina che non voleva dormire ha salvato la vita di tutti coloro che non volevano svegliarsi.
Ricordiamoci di lei, ogni volta che ci rassegniamo alle spiegazioni rassicuranti e rimuoviamo la realtà per non essere costretti ad affrontarla. Martina incarna lo spirito di ogni essere umano, com'era al momento della nascita e come dovrebbe essere sempre e invece non è quasi mai: presente a se stesso, capace di meravigliarsi. In una parola: vivo.
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Al parco nei giorni di sole vestita a festa la gente cammina,
bambini che ridono forte, là in fondo gira la giostra.
I vecchi che siedono soli si addormentano a volte al calore del sole,
inizia a suonare la banda vecchie canzoni d'amore...
E passano giorni e stagioni, nel parco la gente cammina,
la banda continua a suonare, là in fondo gira la giostra.
Al parco nei giorni di sole vestita a festa la gente cammina,
inizia a suonare la banda, là in fondo gira la giostra.
I vecchi che dormono al sole, bambini che giocano e ridono forte,
la banda continua a suonare vecchie canzoni d'amore...
E passano giorni e stagioni, nel parco la gente cammina,
la banda continua a suonare, là in fondo gira la giostra.
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di Roberto Saviano
"La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. E questa disperazione avvolge il mio paese da molto tempo". È una riflessione che Corrado Alvaro, scrittore calabrese di San Luca, scrisse alla fine della sua vita. E io non ho paura a dirlo: è necessario che il nostro Paese chieda un aiuto. Lo dico e non temo che mi si punti il dito contro, per un'affermazione del genere. Chi pensa che questa sia un'esagerazione, sappia che l'Italia è un paese sotto assedio. In Calabria su 50 consiglieri regionali 35 sono stati inquisiti o condannati. E tutto accade nella più totale accondiscendenza. Nel silenzio. Quale altro paese lo ammetterebbe?
Quello che in altri Stati sarebbe considerato veleno, in Italia è pasto quotidiano: dai più piccoli Comuni sino alla gestione delle province e delle regioni, non c'è luogo in cui la corruzione non sia ritenuta cosa ovvia. L'ingiustizia ha ormai un sapore che non ci disgusta, non ci schifa, non ci stravolge lo stomaco, né l'orgoglio. Ma come è potuto accadere? Il solo dubbio che ogni sforzo sia inutile, che esprimere il proprio voto e quindi la propria opinione sia vano, toglie forza agli onesti. Annega, strozza e seppellisce il diritto. Il diritto che fonda le regole del vivere civile, ma anche il diritto che lo trascende: il diritto alla felicità. Il senso del "è tutto inutile" toglie speranza nel futuro, e ormai sono sempre di più coloro che abbandonano la propria terra per andare a vivere al Nord o in un altro paese. Lontano da questa vergogna.
Io non voglio arrendermi a un'Italia così, a un'Italia che costringe i propri giovani ad andar via per vergogna e mancanza di speranza. Non voglio vivere in un paese che dovrebbe chiedere all'Osce, all'Onu, alla Comunità europea di inviare osservatori nei territori più difficili, durante le fasi ultime della campagna elettorale per garantire la regolarità di tutte le fasi del voto. Ci vorrebbe un controllo che qui non si riesce più a esercitare. (...) Non riusciamo a esercitare un controllo che costringa la politica italiana a guardarsi allo specchio veramente, perché lo specchio che usiamo riesce a riflettere solo gli strati più superficiali della realtà. (...)
A tutto questo non possiamo rimanere indifferenti e ci indigniamo perché facciamo delle valutazioni che vanno oltre il - o vengono prima del - diritto, valutazioni in merito all'opportunità politica e alla possibilità di votare per professionisti che non cambino bandiera a seconda di chi sta alla maggioranza e all'opposizione. Trasformarsi, riciclarsi, mantenere il proprio posto, l'antica prassi della politica italiana non è semplicemente una aberrazione. È ormai considerata un'abitudine, una specie di vizio, di eventualità che ogni elettore deve suo malgrado mettere in conto sperando di sbagliarsi. Sperando che questa volta non succeda. (...) Ma si possono barattare le proprie attese e i propri sogni per la leggerezza e per il cinismo di qualcun altro?
Oramai si parte dal presupposto che la politica non abbia un percorso, non abbia idee e progetti. Eppure la gente continua ad aspettarsi altro, continua a chiedere altro.
Dov'è finito l'orgoglio della missione politica? La responsabilità di parlare a nome di un elettorato? Dov'è finita la consapevolezza che le parole e le promesse sono responsabilità che ci si assume? E la consapevolezza che un partito, un gruppo politico, senza una linea precisa, non è niente? Eppure proprio questo è diventata, nella maggioranza dei casi, la politica italiana: niente, spillette colorate da appuntarsi al bavero del doppiopetto. Senza più credibilità. Contenitori vuoti da riempire con parole e a volte nemmeno più con quelle. A volte si è divenuti addirittura incapaci si servirsi delle parole.
Quando la politica diviene questo, le mafie hanno già vinto. Poiché nessuno più di loro riesce a dare certezze - certezza di un lavoro, di uno stipendio, di una sistemazione. Certezze che si pagano, è ovvio, con l'obbedienza al clan. È terribile, ma si tratta di avere a che fare con chi una risposta la fornisce. Con chi ti paga la mesata, l'avvocato. Non è questo il tempo per moralismi, poco importa se ci si deve sporcare le mani.
Solo quando la politica smetterà di somigliare al potere mafioso - meno crudele, certo, ma meno forte e solido - solo quando cesserà di essere identificato con favori, scambi, acquisti di voti, baratto di morale, solo allora sarà possibile dare un'alternativa vera e vincente. Anche nei paesi dominati dalle mafie è possibile essere un'alternativa. Lo sono già i commercianti che non si piegano, lo sono già quelli che resistono, ogni giorno.
Del resto, quello che più d'ogni altra cosa dobbiamo comprendere è che le mafie sono un problema internazionale e internazionalmente vanno contrastate. L'Italia non può farcela da sola. (...)
Dovrebbe essere normale sapere, in questo Paese, che votare non è inutile, che il voto non si regala per 50 euro, per un corso di formazione o per delle bollette pagate. Che la politica non è solo uno scambio di favori, una strada furba per ottenere qualcosa che senza pagare il potere sarebbe impossibile raggiungere. Che restare in Italia, vivere e partecipare è necessario. Che la felicità non è un sogno da bambini ma un orizzonte di diritto.
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Si ritorna a parlare di preti pedofili, con voci e accuse che si riferiscono insistentemente alla Germania e tentativi di coinvolgimento di persone vicine al Papa, e credo che anche la sociologia abbia molto da dire e che non debba tacere per il timore di scontentare qualcuno. La discussione attuale sui preti pedofili
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Giuseppe pensò: perché lui dice queste cose a me, che vede per la prima volta? È vero, talvolta persone del tutto estranee confidavano a lui le proprie angosce nascoste. Venivano per ordinare un aratro o un vomere, d'un tratto si sedevano e raccontavano le loro afflizioni. Chiedevano consiglio. A lui, che viveva nel silenzio e conosceva così poco la vita! Ma quelli erano gente semplice. Per loro il naggar rinomato per la sua bravura era un'autorità. Zaccaria però era un sacerdote, un uomo d'esperienza...
Con uno sforzo, come se cercasse di sollevare un grande peso, incominciò:
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"Quindi?"
"Ieri sera abbiamo fatto una seduta straordinaria. Non ne mancava neanche uno e abbiamo deciso di proporvi la carica di cappellano della sezione".
"Cioè?"
"Cioè voi, la domenica, dovreste venire a fare una Messa speciale per noi. Diciamo una Messa di Partito".
Don Camillo lo guardò.
"Io non faccio il barbiere" rispose. "Sono i barbieri che fanno il servizio a domicilio. Alla vostra Casa del Popolo io non ci metterò più piede vita natural durante".
"Non alla Casa del Popolo. Non si potrebbe neanche perché ci sarebbero delle interferenze politiche. Voi verreste qui: sotto queste tre tettoie ci stiamo tutti. Qui siamo in campo neutrale: la distanza da qui alla Casa del Popolo è uguale alla distanza da qui alla chiesa. Dio è dappertutto e quindi Lui resta dov'è e nessuno gli dà dei fastidi: ci muoviamo noi e ci incontriamo a metà strada. Gli uomini si muovono e il Padreterno sta fermo. Insomma: se la montagna non vuole andare a Maometto e Maometto non vuole andare alla montagna, Maometto e la montagna vanno tutt'e due all'Anonima e buonanotte ai suonatori".
Don Camillo si alzò.
"Ci penserò" disse andandosene.
Peppone rimase solo vicino al fuoco che ardeva sotto la tettoia della vecchia fabbrica abbandonata.
"Se il Padreterno non è un fazioso" pensò "deve capire che queste storie non le facciamo per lui".
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Spirito del Signore,
dono del Risorto agli apostoli del cenacolo,
gonfia di passione la vita dei tuoi presbiteri.
Riempi di amicizie discrete la loro solitudine.
Rendili innamorati della terra,
e capaci di misericordia per tutte le sue debolezze.
Confortali con la gratitudine della gente
e con l'olio della comunione fraterna.
Ristora la loro stanchezza,
perché non trovino appoggio più dolce
per il loro riposo se non sulla spalla del Maestro.
Liberali dalla paura di non farcela più.
Dai loro occhi partano inviti e sovrumane trasparenze.
Dal loro cuore si sprigioni audacia mista a tenerezza.
Dalle loro mani grondi il crisma su tutto ciò che accarezzano.
Fa' risplendere di gioia i loro corpi.
Rivestili di abiti nuziali.
E cingili con cinture di luce.
Perché, per essi e per tutti, lo Sposo non tarderà.
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«Un cuore veramente abitato dell'amore di Dio conosce una formidabile capacità di amicizia».
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Chi passare 4 ore davanti allo schermo tutti i giorni ha un rischio di morte prematura più alto del 46 per cento rispetto a chi guarda la tv per meno di due ore al giorno
Troppa tv fa male alla salute. O meglio: il problema non è tanto il vecchio caro schermo, ma le ore passate stando seduti davanti al televisore, ma anche davanti al computer o alla guida dell'auto. L'ennesima conferma che la vita sedentaria metta a rischio il cuore arriva da uno studio australiano pubblicato sulla rivista scientifica Circulation.
I ricercatori del Baker IDI Heart and Diabetes Institute di Victoria hanno seguito per circa 7 anni, dal 1999 fino al 2006, più di 8 mila persone, 3.846 uomini e 4.954 donne dai 25 anni in su, monitorandoli costantemente con varie visite ed esami. I volontari sono stati divisi in tre gruppi sulla base del numero di ore quotidiane trascorse davanti al televisore: meno di due ore al giorno, tra due e quattro, oltre le quattro ore. Durante i 7 anni, 284 persone del campione sono morte, 87 per malattie cardiovascolari. Prima, nessuno di loro aveva avuto problemi di cuore. Inoltre, secondo lo studio, per chi ha l'abitudine di passare almeno 4 ore davanti al teleschermo tutti i giorni, il rischio di morte prematura per qualsiasi causa, senza considerare altri fattori di rischio come fumo, obesità, colesterolo alto, è del 46 per cento in più rispetto a chi guarda la tv per meno di due ore al giorno; addirittura quasi raddoppia (80%) per problemi cardiovascolari. «Secondo i nostri calcoli - spiega uno degli autori dello studio,David Dunstan - ogni ora di sedentarietà aumenta i rischi di morte prematura dell'11%, e in particolare di morte per problemi cardiaci del 18%. I risultati dell'indagine suggeriscono quanto sia importante «interrompere» la vita sedentaria. Passiamo la nostra vita da una sedia all'altra, dal sedile della macchina alla scrivania dell'ufficio, alla poltrona di casa. Basterebbe alzarsi spesso, fare due passi o qualsiasi altra attività fisica per riattivare circolazione e metabolismo».
«Che la vita sedentaria favorisse le malattie cardiovascolari lo sapevamo da tempo
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di Enzo Bianchi, priore di Bose
«La costituzione sulla Rivelazione
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Con il voto consultivo l'ordinamento giuridico della Chiesa esprime invece, per principio, sia pure con
approssimazione ed efficacia diversa, la posizione di tutti gli altri fedeli (laici e chierici) chiamati strutturalmente a
contribuire alla formulazione del giudizio di fede di coloro che hanno la responsabilità di
esprimerlo come giudizio comune, vincolante per tutti [papa e collegio dei vescovi].
La differenza con l'istituto della teoria generale del
diritto è data dal fatto che nella Chiesa il voto consultivo non dovrebbe tradurre
(e di per sé non traduce) istituzionalmente una limitazione di potere, decisa da chi possiede il voto deliberativo, bensì
una necessità inerente alla dinamica della comunione. Ciò dipende dal fatto che la chiesa particolare (per fare un solo esempio) non
è costituita solo dal vescovo con il presbiterio, ma anche da una porzione di popolo di Dio.
Bisogna allora tener conto del fatto che il sacerdozio comune di tutti i fedeli
è primario rispetto a quello ministerialestyle="font-size: 13pt; color: black;">, nel senso che quest'ultimo esiste solo in funzione del primo, di cui perciò deve tener
conto nella formazione del proprio giudizio, secondo modalità consultative che possono storicamente cambiare style="font-size: 11pt; font-family: 'Calibri','sans-serif'; color: black;">II voto consultivo dei laici non può essere equivocato come fa A. Acerbi, L'ecclesiologia sottesa alle istituzioni ecclesiali post-conciliari,
in L'Ecclesiologia del Vaticano II, cit., 226-228, come semplice «aiuto» prestato ai ministri
ordinati. La funzione del sacerdozio comune e del «sensus fidei» non è quella di aiutare il sacerdozio
ministeriale, ma di esprimere la propria testimonianza e la propria opinione sulla fede e sulla disciplina ecclesiale]style="font-size: 13pt; color: black;">.
Il rapporto di immanenza alla porzione
di popolo di Dio, di cui è formata la chiesa particolare, è perciò costitutivo per style="">il processo dal quale deve nascere il giudizio dottrinale e disciplinare del vescovo. In esso devono confluire il
«sensus fidei» e i carismi di tutti i fedeli, il cui giudizio, se non è misurabile con i criteri matematici della maggioranza
numerica, non si costituisce neppure in quanto giudizio comune valido per tutti, finché il vescovo non pronuncia la sua testimonianza e la
sua parola.
Questo rapporto strutturale di
immanenza del vescovo alla sua chiesa particolare può essere espresso istituzionalmente con
l'istituto del voto consultivo, ma non coincide con esso, non solo perché esistono teoricamente e praticamente altre
possibilità per manifestarlo, ma soprattutto perché non rappresenta un compromesso tra una prassi style="">autoritaria ed una democratica, come
avviene negli ordinamenti giuridici statuali.
Pur assumendo significati diversi
(anche se rimane identico dal profilo formale), a seconda che sia esercitato dai presbiteri nei confronti del vescovo o dai laici nei confronti dei
presbiteri e del vescovo, il voto consultivo assume una forza vincolante che gli deriva dalla natura intrinseca della
comunione, determinata dal principio della immanenza reciproca degli elementi.
In quanto espressione giuridica possibile di una dinamica insita alla
natura costituzionale della Chiesa, il voto consultivo acquista una valenza non molto dissimile da quella del voto deliberativo,
sia perché esprime istituzionalmente un rapporto di
reciprocità necessaria, sia perché non esprime una posizione giuridica di potere, ma una testimonianza di fede, la cui forza
vincolante non può essere misurata e delimitata adeguatamente in termini giuridici. Infatti, la verità della fede può emergere con
evidenza intrinsecamente vincolante anche dalla testimonianza di un semplice fedele, di cui i pastori devono tener conto, a
meno di mancare in modo grave alla loro funzione ministeriale.
Eugenio Coreccostyle="font-size: 12pt; font-family: 'Calibri','sans-serif'; color: black;">, «Ontologia della sinodalità»,
in Antonio Autiero - Omar Carena (ed.), Pastor bonus in populo. Figura, ruolo e funzioni del
vescovo nella Chiesa,
Città Nuova, Roma 1990, 326-327.
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"Chi è sazio sta fermo. Chi ha fame non si ferma un attimo"
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Si chiama "reality", abilissima invenzione: ma è illusione, se si vuol esser benevoli, oppure inganno. Perché di reale, nella melensa schiera dei cosiddetti "giovani d'oggi" che da dieci anni il Grande fratello allinea con pervicace e fortunata finzione, non c'è nulla. E lo ha dimostrato la vittoria, nella decima edizione, (...) di quello che è stato definito "autentico", quel furbo Mauro Marin che si è ritagliato una parte di antagonista odioso e polemico per catturare attenzione e voti: maschera di quella nuova "commedia dell'arte" che pesca nell'improvvisazione ben congegnata da abili autori e nella verità finta recitata con astuzia.
Per venti settimane, dal 26 ottobre, i reclusi della "casa" hanno oziato con ambigua manifestazioni di affetto e clamorose risse, accoppiamenti spacciati per innamoramenti e volgarità esibite come espressioni di autenticità: creando uno spettacolo continuo che è riuscito a coinvolgere un gran numero di persone avidamente curiose di scoprire intimità segrete e sentimenti sinceri e ingenuamente convinte di rispecchiarsi in una umanità vera. C'è stato, dietro l'interminabile spettacolo di una triste reclusione volontaria, vissuta nella speranza della fama e del denaro facile, un piano assai complesso in cui ognuno dei partecipanti era spinto a manifestare istinti non frenati e pulsioni infantili, in una crudele operazione di scorticamento emotivo.
E non a caso gli eletti erano, ognuno per la sua parte, campioni di trasgressione o di eccesso: come se la normalità, quella che davvero rispecchia nel quotidiano la verità dell'esistenza, fosse bandita perché inutile. Privi di contatto con l'esterno se non pilotato, manovrati come burattini da una sorridente "direttrice", pronti a ogni esibizione che garantisse e soddisfacesse le curiosità più morbose (i letti-covile, i bagni palcoscenico, gli abbracci per nulla celati) i concorrenti hanno lottato gli uni contro gli altri in apparente e dichiarata amicizia, pronti tuttavia a sbranarsi con grevi insulti e becere risse. Sollecitando imbarazzanti guardonismi che hanno coinvolto anche i più giovani, le interminabili ore in cui nulla di utile o intelligente era consentito hanno fatto mostra di un vuoto esistenziale che corrispondeva a un vuoto mentale ancor più amaro.
E lo spettatore che è sfuggito al fascino del programma si è sentito urtato e spaesato di fronte a questa immagine beota di giovani inutili, sprecati in esibizioni plateali. Non per nulla, rivedendosi quando, usciti dalla casa, erano allineati in platea, molti di questi hanno manifestato essi stessi imbarazzo rivedendosi nei filmati quali erano all'interno della lussuosa prigione: in una resipiscenza che i volti rivelavano chiaramente. Dieci anni: quelli del primo anno sono già adulti, sono scomparsi dalla memoria, dovrebbero esser maturi, aver abbandonato le fatue illusioni di fama da balera e su rotocalchi pettegoli. Ma l'immagine di uno degli sconfitti, lunedì sera, che piangeva su se stesso mentre spegneva le luci della "casa" e dava addio ai suoi sogni di gloria, è il simbolo triste e insieme crudele di speranze ingannatrici, di sogni spenti perché nati nel vuoto.
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Ma i giudici non erano tutti di sinistra e tutti contro le leggi proposte dal governo?!
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di Enzo Bianchi
È tornato il tempo della quaresima, quaranta giorni che i cristiani dovrebbero vivere come 'tempo particolare', tempo favorevole, tempo di ritorno al Signore. (...) La conversione non è mai un evento avvenuto una volta per sempre, ma è un dinamismo che dobbiamo rinnovare a ogni età, in ogni stagione, ogni giorno della nostra esistenza. Sì, perché noi allentiamo le forze, ci stanchiamo, siamo preda dello smarrimento e della consapevolezza della nostra debolezza, siamo abitati da pulsioni che ci fanno cadere e contraddicono il nostro cammino verso il Signore. Non siamo capaci di vivere sempre un'esistenza pasquale: l'incostanza, l'abitudine, la routine ce lo impediscono.
Ecco allora il tempo propizio della quaresima, tempo di 'esercizi cristiani', tempo in cui intensifichiamo alcune azioni e riprendiamo alcuni atteggiamenti che, ripetuti con particolare attenzione e forza, ci permettono di sviluppare, confermare e accrescere le nostre risposte alle esigenze della sequela cristiana. È vero che la quaresima è, o meglio dovrebbe essere, vissuta dai cristiani, ma resto sempre convinto che ciò che è autenticamente cristiano è anche autenticamente umano e quindi riguarda tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro fede. A molti questa osservazione parrà strana, ma in realtà, proprio perché anche i non credenti hanno una vita interiore, sono capaci di una vita umanizzante e la cercano, anche a loro il tempo della quaresima può dire qualcosa.
A volte sono sorpreso di come ci si interessa e quasi si vorrebbe partecipare al ramadan dei musulmani, mentre non ci si interessa ma anzi si prova fastidio al solo sentir menzionare la quaresima dei cristiani. Dipende forse, anche in questo caso, dall'incapacità dei cristiani a comunicare il senso del loro vissuto di fede? Eppure le istanze che presiedono alla quaresima sono a servizio dell'uomo, sono un aiuto affinché l'uomo faccia della propria vita un'opera d'arte.
Molte volte su queste colonne ho meditato sulla quaresima, mettendo in evidenza innanzitutto le esigenze della preghiera e del digiuno, ma ora vorrei soffermarmi su altri 'esercizi', a cominciare da quello del ritorno all'essenziale nella vita umana: si tratta di ritrovare la libertà attraverso il distacco da molte cose che non solo non sono necessarie, ma anzi si rivelano ingombranti per la nostra vita, come l'edera che soffoca le piante o i licheni che sgretolano le rocce. La quaresima può essere un tempo eversivo in cui si semplifica la propria vita: in una società come la nostra, in cui prevale il culto dell'io, decentrarsi nel quotidiano dei rapporti con gli altri e con le cose, spogliarsi delle nostre maschere, rompere la crosta che chiude il nostro cuore è un esercizio di umanizzazione che nessuno dovrebbe rifiutare.
Inerente a questo, vi è anche un esercizio di autenticità, di verità su se stessi. Siamo in una società in cui conta ciò che si vede, ciò che appare, una società che guarda più agli obiettivi da perseguire che allo stile e ai mezzi impiegati per raggiungerli. Diventa allora necessario porsi una domanda: perché facciamo certe cose, soprattutto perché compiamo azioni ritenute buone? Per essere visti, per raccogliere consensi, per ricevere applausi? Per noi cristiani sovente in quaresima risuonano le parole di Gesù: «Il Padre vostro vede nel segreto... Non fate come quelli che ostentano comportamenti devoti... Non imitate gli ipocriti... Non chiedete agli altri ciò che voi non fate... Non imponete agli altri pesi che voi non muovete neppure con un dito...». Ma questi ammonimenti non riguardano forse tutti? Non sono parole ricche di insegnamento e di sapienza umana? (...)
Sì, il tempo della quaresima e le sue 'pratiche' non alzano un muro tra cristiani e non cristiani, ma anzi potrebbero offrire un invito a imboccare una direzione condivisa: conosco famiglie in cui solo uno dei coniugi è credente e praticante, ma in cui entrambi decidono di intraprendere insieme durante la quaresima alcuni 'esercizi' in vista dell'autenticità dei rapporti, della semplificazione della vita, dell'atteggiamento verso gli altri... Anche questa convergenza può contribuire a una umanizzazione personale e familiare, recando grande beneficio a tutti: occorre coraggio, certo, ma i credenti
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di Massimo Gramellini
A un anno e mezzo dalla morte del figlio Vito, ucciso dal crollo del soffitto del liceo Darwin di Rivoli, la signora Cinzia ha ingerito un tubetto di pillole nel tentativo di raggiungerlo. E' stata salvata dalla lavanda gastrica, e dall'altra figlia che l'ha trovata riversa sul letto come se dormisse. Gli stoici dicevano che il dolore è un'inadeguatezza alla situazione ed effettivamente è così. Siamo inadeguati a reggere l'evento più innaturale che esista: la morte di un figlio, che è morire in due rimanendo vivi, e rimanendolo in mezzo ad altre persone che soffriranno con noi solo per un po' - gli amici, il parentado - oppure per sempre, ma in modo diverso. Mi riferisco ai figli sopravvissuti, che si ritrovano senza un fratello e orfani di genitori che non saranno mai più quelli di prima.
Anche chi è assolutamente convinto che la vita abbia un senso ammutolisce di fronte al dolore di una madre o di un padre. E non può non interrogarsi sulla potenza selvaggia di quel legame di carne che ogni giorno, giustamente, viene messo in discussione dai conflitti generazionali. Tutti, almeno una volta, abbiamo pensato che i nostri genitori non ci amassero. Ma il gesto della signora Cinzia serve a ricordarci che il senso della vita è proprio lì, in quel legame fra chi crea e viene creato. In quell'amore assoluto che dà senza chiedere. Nel libro «Una madre lo sa» di Concita De Gregorio, un'ostetrica racconta che, appena nasce un bambino, le persone in attesa fuori dalla sala-parto le chiedono subito come sta il figlio. Solo una chiede prima come sta la mamma. Sua mamma.
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di don Luigi Ciotti
La Giornata della memoria e dell'impegno nel ricordo delle vittime delle mafie quest'anno fa tappa a Milano. La Milano degli affari e della finanza, cuore economico d'Italia, ma anche città ricca di fermenti culturali e sociali. Una città e una terra dove le espressioni di impegno non sono mai mancate, sostenute da quella concretezza, tenacia e generosità che appartengono al dna di molti lombardi e hanno alimentato testimonianze di coraggio e coscienza civile. Alla mente s'affaccia subito il volto di Giorgio Ambrosoli, che a Milano è vissuto ed è morto, ucciso da un sicario mafioso, nel 1979. Una morte tragica da eroe borghese, come in molti lo ricordano, toccata a chi eroe non si sentiva né ambiva a diventarlo. Più semplicemente, Ambrosoli era un cittadino consapevole delle proprie responsabilità, pronto a spendersi in prima persona a difesa dell'uguaglianza, della giustizia, della democrazia. Come lo erano i vigili del fuoco Carlo Lacatena, Stefano Picerno e Sergio Pasotto e il vigile urbano Alessandro Ferrari, uccisi nella strage mafiosa di via Palestro, il 27 luglio 1993, insieme a Driss Moussafir, cittadino immigrato dal Marocco, venuto in Italia nella speranza di trovare lavoro e dignità. Sono le speranze di vita e di giustizia che hanno animato tutte le vittime innocenti delle mafie, le speranze che indicano la strada di un impegno che deve affiancare il grande lavoro dei magistrati e delle forze di polizia, un impegno al tempo stesso educativo, sociale, culturale. Libera, le oltre 1500 realtà associate ed Avviso pubblico credono nei percorsi dentro e fuori dalla scuola, credono nella crescita della consapevolezza, nella forza degli strumenti culturali: il furto del bene pubblico avviene anche grazie al torpore di coscienze complici, accomodanti o rassegnate. Credono nel lavoro, in quei beni confiscati alle mafie che devono essere restituiti ad uso sociale, trasformati in cooperative agricole, in scuole, in asili nido, in ricoveri per anziani, in spazi pubblici dove la vita venga stimolata, valorizzata, accudita. Ma credono anche nella forza della testimonianza. È quella dei famigliari delle vittime, capaci di trasformare il dolore in impegno, di andare nelle carceri minorili per stimolare i giovani a una presa di coscienza, far crescere in loro la voglia di cambiamento e di riscatto. Milano non manca certo di risorse per accogliere e valorizzare questo fermento. Associazioni, gruppi di volontariato, amministratori onesti, esponenti del mondo della scuola, della cultura, del sindacato. Una Chiesa attenta alla storia delle persone e pronta, per voce del suo Vescovo, a denunciare la deriva dal sociale al «penale», richiamare una sicurezza che sappia coniugare regole e accoglienza. E con lei la voce di altre Chiese, ugualmente impegnate a saldare solidarietà e giustizia, dimensione spirituale e impegno civile. Come non manca, a Milano, la sensibilità inquieta della città aperta alla dimensione internazionale. Saranno numerose, il 20 marzo, le persone che arriveranno da paesi di tutta Europa e dall'America Latina: associazioni, famigliari delle vittime, giornalisti della carta stampata e delle televisioni per costruire «legami di legalità, legami di responsabilità », tema della Giornata. Perché quello delle mafie e dell'illegalità è un fenomeno che si è sviluppato di pari passo alla globalizzazione. Per sconfiggerlo dobbiamo allora imparare una lingua nuova, un «esperanto dei diritti». Una lingua che sappia superare i confini e gli interessi di parte per comunicare e alimentare un sempre maggiore desiderio di giustizia.
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di Franco Garelli
Nonostante la «tolleranza zero» di Benedetto XVI sulla pedofilia del clero cattolico o la sua denuncia del carrierismo privo di scrupoli che starebbe contagiando gli ambienti ecclesiali, il vento «anti-romano» soffia con sempre maggior forza. Lo sconcerto è diffuso sia nel mondo laico che tra i cattolici impegnati, di fronte alla sequenza di notizie che vedono figure religiose e ambienti ecclesiali coinvolti in scandali e casi di corruzione. (...) Vicende come queste non fanno certamente bene né alla Chiesa né alla più ampia società. In Italia, la gente comune è già nauseata (anche se il disgusto non sembra avere conseguenze nella cabina elettorale) da forze politiche che passano sopra le regole democratiche e che nella realizzazione delle opere pubbliche di fatto si affidano a faccendieri senza scrupoli e affini alla corruzione. Figurarsi cosa pensa di una Chiesa che in varie circostanze risulta invischiata in queste zone d'ombra, che la confermano nell'idea che essa «predica bene e razzola male», stando ai casi di suoi ministri impegolati in scandali di varia natura. Anche la Chiesa non è risparmiata dalla crisi che oggi investe tutte le istituzioni, capace di vanificare il suo motto antico «extra ecclesiam nulla salus». Ciò che sta avvenendo in Germania è a questo livello emblematico. (...) Tuttavia, l'opinione pubblica è in gran subbuglio e si sta diffondendo un sentimento anti-vaticano (di cui si fanno portatori sia il mondo laico, ma anche alcune realtà ecclesiali) per il preteso monopolio della Chiesa cattolica sulle questioni dell'etica sessuale e familiare. Perché il Vaticano e i vescovi si ergono a baluardo di una rigidità morale che non sono in grado di far rispettare nemmeno dentro il loro recinto? Perché questa istituzione religiosa non è disposta a rivedere alcune sue norme che rendono infelici le persone e producono molti danni? Ovviamente si tratta di interrogativi anche rivolti al Papa tedesco, che pure si dà un gran da fare per ripulire gli ambienti ecclesiali della gramigna che contamina il grano e per ribadire la maledizione biblica per cui meglio sarebbe che «chi fa violenza ai piccoli e agli indifesi non fosse mai nato».
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di Maria Cristina Bartolomei
La decisione della Rai di escludere da Sanremo un cantante che aveva palesato d'aver fatto uso di cocaina, è diventata un ‘caso'. Lasciano esterrefatti le tesi emerse nel dibattito: «È stato ipocrita non ammetterlo, quando si sa che tanti, anche parlamentari, si drogano»; «avrebbero dovuto ammetterlo, perché è stato onesto a dichiararlo»: dunque basta esibire le trasgressioni per essere a posto, e un comportamento condannabile (o illegale) cessa d'essere tale se sono in molti, e soprattutto ‘persone importanti', a cedervi. Ma sbalordisce anche chi ha salutato l'esclusione come messaggio di intransigenza morale, senza dir nulla dell'imperversare di trasmissioni che, a diverso titolo, sono eticamente gravemente censurabili. Ciò è indizio di come oggi nel nostro Paese vi sia acuto bisogno di etica, intesa come riconoscimento del legame con l'altro, come rispetto e responsabilità nei suoi confronti; di educazione alla legalità; del richiamo alla osservanza della legge come regola della convivenza sociale, a cominciare dalla legge costitutiva di una comunità politica, ossia la Costituzione; di cura della giustizia e del bene, di lotta all'ingiustizia e al male; di come ci sia bisogno di coscienze cristiane deste e pronte a discernere nelle concrete circostanze storiche dove passa il confine, e che, accogliendo l'invito evangelico (cfr. Luca 12,56), rischino di giudicare da sé il tempo e quel che è giusto. Le autorità ecclesiastiche cattoliche hanno negli ultimi anni alzato sempre più spesso la voce su temi etici, per la verità soprattutto bioetici e legati all'etica sessuale e familiare. Hanno certo richiamato anche ad altre importantissime tematiche (solidarietà, accoglienza, etica del lavoro e dell'economia, legalità), ma in termini meno ultimativi, favorendo la percezione che l'etica si identifichi e forse si esaurisca in determinati ambiti. In ogni caso, dichiarando apertamente di voler compensare la caduta dei valori e a ciò chiamata anche da “laici”, sempre più la Chiesa ha messo in risalto un suo messaggio etico, col pericolo di indurre l'idea che esso sia il cuore del suo annuncio e della sua missione, che l'Evangelo coincida con esso. L'etica, come insopprimibile appello della coscienza che ci chiama “fuori di noi” verso l'altro; la legge e il diritto, come orizzonte inscindibile dall'umano, sono ineludibili e indispensabili. Ma
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Ho molto apprezzato e proposto i bellissimi video della Dove per la promozione dell'autostima (vedi la nostra sezione Video della pubblicità), ma non posso nascondermi che ogni multinazionale può essere implicata in processi di non rispetto della persona. In questo video, Greenpeace mette in guardia l'industria, facendo il verso ad uno dei filmati proposti da Dove.
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Due boss politici locali ispirano le bande di ragazzi che si danno la caccia
Nigeria, il massacro infinito tra cristiani e musulmani
di Guido Rampoldi
Per ammazzare con quella frenesia dovevano avere nella testa molto koskovo, il gin locale, piuttosto che le incitazioni allo sterminio rivolte al suo popolo dal Dio dell'Antico Testamento: "Uccidi uomini e donne, bambini e neonati". Ma hanno macellato i musulmani del villaggio proprio in quel modo. E quando adesso ascolti i ragazzini raccontarti come i cristiani adempivano con i machete al comandamento del Signore degli Eserciti - "Voi inseguirete i vostri nemici ed essi cadranno davanti a voi trafitti dalla spada" - , quando ti rendi conto che tra le rovine bruciate l'unico edificio intatto è il tempio dei pentecostali, devi domandarti se chi ha ordinato questa strage non legga la Bibbia esattamente come, nel campo avverso, alcuni islamisti leggono il Corano. E cioè come una teologia del terrorismo particolarmente utile per annientare gruppi umani rivali, depredare, sottomettere, e poi spacciare quei crimini per eroici atti di fede.
Lo scontro antico che dall'Africa alle Molucche sta ritrovando nelle religioni pretesti, ispirazioni e complici, in Nigeria centrale obbedisce ad una simmetria radicale: musulmani e cristiani fanno fuori interi villaggi. (...)
Questi conflitti non potrebbero ricorrere alla maschera della religione se i cleri si opponessero. In questa regione, un frangiflutti di etnie e credi, hanno formato un comitato inter-religioso che si riunisce nella città di Jos per prevenire tensioni. I partecipanti si conoscono dal tempo delle elementari ma, mi confida uno di loro, dubitano tutti nello stesso modo della sincerità di quel che viene detto. E con ragione: infatti gli uni e gli altri mantengono un omertoso riserbo sulle malefatte delle bande giovanili cristiane e musulmane. Queste gang sono ispirate da due politici rivali, eminenze dello stesso partito (...) Si può assolvere la loro fuga, non il silenzio dei religiosi musulmani e cristiani. Con l'unica eccezione di monsignor John Onayekam, l'arcivescovo cattolico, pastori evangelici e mullah tacciono oppure si nascondono dietro dichiarazioni vaghe. Fingono di non sapere. (...)
Quando il gregge si trasforma in branco di lupi, spesso i pastori lo assecondano. Gli trovano giustificazioni. E si tappano le orecchie per non udire le grida degli scannati. C'è anche un clero che si oppone e reagisce, non di rado in solitudine. Ma la tendenza generale oggi non sembra quella. Lì dove musulmani e cristiani coabitano da secoli, lo spirito del tempo sembra semmai soffiare nelle vele della religiosità più aspra, più sanguigna, più militante. Come altrove in Asia e in Africa, anche in Nigeria ne profitta tanto l'estremismo islamico quanto il cristianesimo dei pentecostali, un credo che ha conosciuto un boom spettacolare nell'ultimo secolo, al punto che oggi rappresenterebbe, per numero di fedeli, la seconda fede cristiana dopo il cattolicesimo. Qui noti anche come formidabili guaritori di indemoniati, i pastori pentecostali hanno una predisposizione per la prima linea, non a caso la loro casa madre è nella tumultuosa città di Jos, e una venerazione per la Parola sacra, nella quale non è difficile imbattersi nel Dio degli Eserciti, quello che non fa sconti. L'estremismo islamico lo frequenta da tempo, e infatti neppure in Nigeria distingue tra adulti e bambini quando massacra.
Musulmani o cristiani, gli assassini e i mandanti delle stragi occorse a Jos nel 2001, 2004, 2008 e nel gennaio 2010, sono tutti liberi. La polizia non li cerca. I suoi posti di blocco all'ingresso di Jos, una dozzina, la settimana scorsa sembravano soprattutto un'occasione offerta agli ufficiali per depredare automobilisti. Non era difficile immaginare che gli sterminatori sarebbero presto tornati a sacrificare villaggi al loro dio.
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Il grazie al Signore per il suo disegno sulla vocazione e la missione delle donna nel mondo, diventa anche un concreto e diretto grazie alle donne, a ciascuna donna, per ciò che essa rappresenta nella vita dell'umanità.
Grazie a te, donna-madre, che ti fai grembo dell'essere umano nella gioia e nel travaglio di un'esperienza unica, che ti rende sorriso di Dio per il bimbo che viene alla luce, ti fa guida dei suoi primi passi, sostegno della sua crescita, punto di riferimento nel successivo cammino della vita.
Grazie a te, donna-sposa, che unisci irrevocabilmente il tuo destino a quello di un uomo, in un rapporto di reciproco dono, a servizio della comunione e della vita.
Grazie a te, donna-figlia e donna-sorella, che porti nel nucleo familiare e poi nel complesso della vita sociale le ricchezze della tua sensibilità, della tua intuizione, della tua generosità e della tua costanza.
Grazie a te, donna-lavoratrice, impegnata in tutti gli ambiti della vita sociale, economica, culturale, artistica, politica, per l'indispensabile contributo che dai all'elaborazione di una cultura capace di coniugare ragione e sentimento, ad una concezione della vita sempre aperta al senso del «mistero», alla edificazione di strutture economiche e politiche più ricche di umanità.
Grazie a te, donna-consacrata, che sull'esempio della più grande delle donne, la Madre di Cristo, Verbo incarnato, ti apri con docilità e fedeltà all'amore di Dio, aiutando la Chiesa e l'intera umanità a vivere nei confronti di Dio una risposta « sponsale », che esprime meravigliosamente la comunione che Egli vuole stabilire con la sua creatura.
Grazie a te, donna, per il fatto stesso che sei donna! Con la percezione che è propria della tua femminilità tu arricchisci la comprensione del mondo e contribuisci alla piena verità dei rapporti umani.
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di Massimo Gramellini
Il sindaco di Venezia ha vietato lo svolgimento di una fiera del sesso nella sua città. La decisione, che non risparmierà al democratico Cacciari la patente di bacchettone, offre lo spunto per riflettere sulla moralità dei costumi in questa buffa era bipolare. Si tratti di adulteri o di tangenti, destra e sinistra fanno più o meno le stesse cose. La riprova è che, appena uno dei due schieramenti finisce sotto i riflettori per qualche storia di donne e di mazzette, invece di difendersi rinfaccia all'altro di non essergli da meno. E in quella girandola di accuse reciproche si esaurisce anche l'indignazione del Paese, perché non è mai lo scandalo a scandalizzare gli italiani, ma l'uso politico che l'avversario ne fa.
Appurato che destra e sinistra fanno più o meno le stesse cose, e che chi pensa il contrario o è in malafede o è un illuso, bisogna però riconoscere che le fanno in modo diverso. Con più o meno vergogna. Il vero bipolarismo non è fra onesti e disonesti, né fra gentiluomini e libertini, ma fra ipocriti e spudorati. Per una di quelle ironie che rendono irresistibile la storia, la sinistra che da giovane combatté contro il perbenismo dei padri si ritrova a mettere in pratica da anziana quei «si fa ma non si dice», e «si fa ma non ci si fa vedere» che costituivano l'ossatura della vecchia e pudica borghesia. Ad avere ereditato la spudoratezza gagliarda della gioventù sessantottina sembra essere stata invece la destra, che ostenta i propri vizi con orgogliosa sfrontatezza, quasi non fossero una necessità ma una virtù.
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Sarà banale, ma spero che - qualora mi arrivasse una multa per eccesso di velocità - ci sia un decreto che interpreti a mio favore quel limite!
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Chissà se in NOVE anni le ferite di chi le ha prese si sono cicatrizzate.
Io credo che i segni restino, sulla pelle, nelle ossa, nel cuore.
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Ci sono due modi di vivere la tua vita:
una è pensare che niente è un miracolo;
l'altra è pensare che ogni cosa è un miracolo.
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di Jean-Paul Willaime, sociologo delle religioni, direttore all'École pratique des hautes études
Quasi quattro francesi su dieci (il 37%) dichiarano oggi di possedere una Bibbia, ma solo il 26% la legge, secondo un sondaggio realizzato da Ipsos su un campione di 1017 persone per L'Alliance biblique française, che organizza una grande esposizione dedicata alla Bibbia, patrimonio dell'umanità all'Unesco.
Il fatto che i tre quarti dei francesi non leggano mai la Bibbia non stupisce vista la secolarizzazione della popolazione francese. Oggi, la metà di coloro che hanno meno di 25 anni dichiara di non avere religione. Questo sondaggio conferma un certo distacco dalla religione. Però sono più numerosi i giovani che non gli ultrasessantenni che ritengono che la Bibbia sia un riferimento culturale nella società francese. Il che conferma i risultati di un'inchiesta che avevamo condotto presso i giovani tra i 14 e i 16 anni: per loro, è un dato acquisito che le religioni facciano parte della nostra cultura e della nostra storia, che ci si debba interessare delle religioni e trovare delle chiavi di intelligibilità, indipendentemente dall'appartenenza o meno ad una qualsiasi religione. Pur essendo per la maggior parte esterni all'ambito religioso istituzionalizzato, i giovani hanno una maggiore libertà nei confronti della Bibbia, e anche un rapporto più libero nei confronti del religioso rispetto alle persone meno giovani.
Anche le cifre minoritarie sono interessanti: tra i francesi che si dichiarano senza religione, l'11% dice di leggere la Bibbia, e il 31% dei non credente dichiara di trovarvi un interesse religioso o spirituale. Il che mostra che l'interesse per la Bibbia va oltre l'appartenenza ad una Chiesa o a una sinagoga e corrobora la constatazione che oggi dire di essere senza religione non significa non avere interesse spirituale. Ma globalmente questo sondaggio mostra che è ancora difficile in Francia ammettere che avere interesse per la Bibbia non è in contraddizione con la laicità, e che la si può considerare come un testo letterario, storico o anche religioso senza essere necessariamente credenti.
All'inverso, in una società in cui l'impegno è una scelta volontaria, un'opzione personale, in cui l'appartenenza ad una religione diventa una forma di “sottocultura minoritaria”, coloro che vi si riconoscono sono più conseguenti nel loro impegno. Ad esempio, è molto interessante constatare che la maggioranza dei cattolici praticanti frequenta il testo biblico. La proporzione delle persone che possiedono una Bibbia e che la leggono è perfino aumentata. Quindi aumenta lo scarto tra coloro che sono molto impegnati e coloro che sono totalmente indifferenti a qualsiasi cultura religiosa. Questo divario è una delle componenti della configurazione attuale del paesaggio religioso.
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Una storia da cioccolatai. L'espressione dovrebbe indicare una questioncella, una vicenda da poco. E invece si trattò di una guerra che per un paio di secoli turbò le coscienze di molti cristiani e impegnò seriamente le migliori intelligenze teologiche. La domanda cui rispondere era: si può bere la cioccolata in quaresima? Alla dimenticata ma interessantissima
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È come un giogo di due fedeli che condividono una sola speranza, un comune desiderio, un'unica norma di vita, una medesima servitù. Entrambi fratelli, entrambi compagni di servizio; nessuna differenza nello spirito e nella carne, piuttosto veramente «due esseri in una sola carne» (cfr. Gn 2,24). Dove una è la carne, è uno anche lo spirito: insieme pregano, insieme si amano, insieme trascorrono i tempi di digiuno, insegnandosi l'un l'altro, l'un l'altro esortandosi, l'un l'altro offrendosi sostegno.
Entrambi ugualmente stanno nella Chiesa di Dio, ugualmente nel divino banchetto, ugualmente nelle angustie, nelle persecuzioni, nei momenti di sollievo.
Nessuno dei due nasconde qualcosa all'altro, nessuno evita l'altro, nessuno gli è molesto. Spontaneamente, se infermo, è visitato, se povero, soccorso. Le elemosine si fanno senza costrizione, i sacrifici senza difficoltà, la diligenza quotidiana si esercita senza impaccio, il segno di croce non è furtivo, il ringraziamento non è timoroso, la benedizione non è silenziosa. Tra i due risuonano salmi e inni, e reciprocamente fanno a gara per vedere chi canti meglio per il suo Signore. Cristo vedendo e udendo questo, si rallegra. A questi manda la sua pace. Dove ci sono due, anch'egli è presente, dove egli è presente, non si trova nessun malvagio. Questi sono i precetti che la voce dell'Apostolo ci ha lasciato ben comprensibili nella loro concisione. Se sarà necessario, richiamali alla tua mente.
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Negli Usa le mogli ricche e colte salveranno gli uomini
Nei prossimi anni le donne sono destinate a guadagnare più dei loro mariti
Per la prima volta nella storia, gli uomini americani tra i 30 e i 40 anni hanno più probabilità di sposare donne più istruite e in molti casi meglio pagate di loro, che non donne meno istruite e anche meno pagate. Lo afferma il Pew Research Center di Filadelfia, rilevando che in America oltre una moglie su cinque guadagna più del marito e che questa tendenza emersa negli ultimi decenni è destinata a rafforzarsi. Una previsione confortata dal censimento, secondo cui in ben dieci dei quindici settori lavorativi che si espanderanno di più nel futuro le donne sono già i due terzi delle maestranze. E avallata dai dati della crisi economica del 2008 e 2009: ogni quattro nuovi disoccupati tre erano uomini. E' una rivoluzione sociale, dice il Pew Research Center, che cambierà i rapporti coniugali, ed è dovuta al fatto che i laureati alle università, a cui vanno i migliori impieghi, sono ormai in maggioranza donne, il 57% contro il 43% nel 2008. L'istituto nota che nel 1970 il 28 per cento delle mogli aveva un titolo di studio inferiore al marito e il 20 per cento uno superiore, ma che dal 2007 le percentuali si sono capovolte. Sempre nel 1970 inoltre i mariti con mogli meglio pagate di loro erano il 4 per cento, nel 2007 il 22 per cento. Una volta erano rari i casi come quelli di Meg Whitman, l'ex presidente della E bay, e Carly Fiorina, l'ex presidente della Hewlett Packard, donne di affari che guadagnavano più del consorte, ma adesso sono abbastanza comuni. A sentire Paul Fucito, portavoce del Pew Research Center, la moglie colta e ricca sarà la salvezza del maschio Usa. Il maschio, spiega Fucito, ha più bisogno del matrimonio della donna per la propria stabilità fisica, mentale ed economica. Lo dimostrano due dati: l'uomo sposato gode di salute migliore e vive più a lungo di quello celibe; e dal ‘70 al 2007 ha visto aumentare del 60 per cento il proprio stipendio contro il 16 per cento del single. Ma le donne di successo, con una carriera brillante, lamentano che gli uomini si spaventino all'idea di unirsi a loro. Dichiara Syreeta McFeddan, una agente immobiliare di 35 anni: «Il mio ex boy friend mi ammoniva che nessuno vuole sposare una donna troppo potente e indipendente». Il monito non è a prova di bomba: in America cominciano a esserci mariti che fanno la casalinga, badando ai figli e lavorando solo part time, perché la moglie guadagna molto di più. Ma non sarà facile alle donne infrangere il mito dell'uomo “bread winner”, che porta il pane a casa, a cui soprattutto i neri e gli ispano americani, il 30 per cento della popolazione, sembrano legati. Con esso sparirebbe il senso di superiorità del maschio.
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"Ci sono uomini che usano le parole all'unico scopo di nascondere i loro pensieri".
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