"Il “bello” dell'educazione è che essa gioca con elementi la cui risposta, essendo libera, è sempre in qualche modo imprevedibile. Di conseguenza gli itinerari non possono in nessun modo essere pensati come “tecniche di successo”. Può sembrare che io insista un po' troppo nel mettere in guardia contro questo meccanicismo educativo. Ma l'esperienza mi ha insegnato che esso è una delle più sottili e diffuse insidie dei nostri ambienti. La fiducia nei mezzi soprannaturali, nella parola di Dio, nei sacramenti e nelle tradizioni educative, nell'oratorio, ecc., viene talora vissuta come sicurezza umana, con conseguenti delusioni e anche prove di fede. Ma allora, perché Dio non ha operato come ci aspettavamo? Perché dopo tante prediche e comunioni questo ragazzo è finito così? I fallimenti educativi sono in certo senso provvidenziali, perché ci aiutano a entrare nel mondo dello spirito, che è mondo di libertà, e ci alleano con quel Dio che non strumentalizza né meccanicizza nessuno, che rispetta fino allo scrupolo la libertà del più piccolo dei suoi figli, contento di attrarre con la forza straordinaria del suo amore e della sua grazia".

 

Carlo Maria Martini, Itinerari educativi, n. 4


Auguri di BUON ONOMASTICO!
Un giorno di lavoro in cantiere: sposto per le giuste ore molte lastre di marmo destinate a un pavimento. Le scarico dal camion, le trasporto all'interno, mi passano per le mani molte volte. La polvere bianca, la sfarinatura del marmo, si assesta in tutti i solchi delle mani, nei pori, nelle scalfitture. A raschiarla sotto l'acqua la sera, resiste come un velo. Poi a casa mi cucino una seppia e il residuo del suo nero insegue il bianco, a ricalco, su tut­ta la superficie delle mani. Le risciacquo, ma non a fon­do, tanto non ho da fare baciamano. Siccome ho una te­sta che impasta sempre parole, penso che quel nero su bianco sopra mani mie, sia scrittura: che le cose intorno scrivano sopra di me e di tutti, e nessuno sa più leggere tutta la posta che ci arriva addosso, per esempio, le goc­ce di pioggia sopra un vetro. Neanche i bambini lo san­no fare. Forse sapeva Adamo, quando metteva i nomi a tutte le creature. Forse non li inventava, ma li leggeva scritti su di loro, nelle orme al suolo, nei voli in cielo. E se posso fare pagine da scrittore è perché io stesso sta­sera sono scritto da nero di seppia e polvere di marmo, su dorso e palmo di mano. Nel disparte di un tavolo da sparecchiare, nel fiato che esala cipolla, scrivo della ma­teria che mi ha scritto.



Erri De Luca, Alzaia, 67


"Dedicato ai folli, agli anticonformisti, ai ribelli, ai piantagrane,

a tutti coloro che vedono le cose in modo diverso.

Certo non amano le regole, specie i regolamenti,

e non hanno alcun rispetto per lo status quo.

Potete citarli, essere in disaccordo con loro; potete glorificarli o denigrarli,

ma non potrete mai ignorarli,

perché riescono a cambiare le cose, perché fanno progredire l'umanità.

E mentre qualcuno potrebbe definirli folli, noi ne vediamo il genio,

perché solo quelli che sono abbastanza folli da voler cambiare il mondo...

lo cambiano davvero!"

Kivuli project
 Se ci fosse stato GoogleEarth al tempo di Mosè,

forse avremmo potuto vedere così il passaggio del Mar Rosso!


L'idea di questo artista è proprio originale!

vedi qualche altro esempio:

Mir zainen do ("Noi siamo qui"): è un canto yiddish dei partigiani del ghetto di Vilna, in Lituania. Noi siamo qui: ci sono momenti in cui le fibre sfilacciate di un popolo si rianimano e nasce nella resistenza all'oppressione una nuova consistenza. Essa comincia sempre con una specie di "eccoci".


Abramo pronuncia il suo, quando Dio lo chiama per mandarlo a sacrificare suo figlio Isacco sul monte Moria. A Dio che lo chiama, risponde: hinnèni, ec­comi. Ridice ancora la sua ardita parola al figlio che gli rivolge la terribile domanda: "Dov'è l'agnello per l'olo­causto?". L'ultimo degli eccomi lo dirà a fiato corto quan­do l'angelo per due volte chiamerà il suo nome, per fer­margli la mano armata sulla gola del figlio. Non aveva mai detto questa parola prima della prova di obbedien­za richiesta da Dio e non la dirà più.

E buono a sapersi che anche Iod/Dio può dire il suo hinnèni alla creatura che lo chiama. Ce lo annuncia Isaia (58, 9): "Allora chiamerai e Iod risponderà. Strillerai e dirà: 'eccomi'". Eccomi è voce dei momenti di verità, quando si è chiamati a rispondere di sé. È il passo avan­ti, lo scatto che fa uscire dai ranghi e porta a uno sbara­glio. È la più bella parola che si possa pronunciare in quei momenti, un dichiararsi pronti, anche se non lo sì è af­fatto. Prima di usarla bisognerebbe allenarsi a pensarla più spesso.


Buona fortuna a chi dovrà pronunciare oggi il suo difficile "eccomi".

Erri De Luca, Alzaia, 40

«Talvolta un pensiero mi annebbia l'Io: sono pazzi gli altri, o sono pazzo io?»


Albert Einstein

SE QUESTO E' UN UOMO di Primo Levi

Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case;

Voi che trovate tornando la sera

Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce la pace

Che lotta per mezzo pane

Che muore per un sì e per un no

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d'inverno:

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole:

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli:

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri cari torcano il viso da voi.

  

Un anno fa cominciavo la convivenza con la mia "Lady". "First" non di fatto, ma di diritto.


Dopo "Vagabonda", ma nel cuore da sempre.


Ecco come la trovai:



La prima trasferta, per presentarla ai miei:



Le ho costruito una tettoia apposita,


e le ho fatto conoscere alcuni amici:



In dodici mesi abbiamo fatto 10.000 km, nella massima fedeltà reciproca:


grazie, First Lady!


Ma perché lasciarla sola e non pensare ad una sorellina?!


Ecco un "piccolo" sogno:


Festeggiando oggi il Patrono dei giornalisti,

san Francesco di Sales,

ripropongo un passaggio

del celebre "Io se fossi Dio" di Giorgio Gaber

(...)

Io se fossi Dio maledirei davvero i giornalisti e specialmente tutti

che certamente non sono brave persone e dove cogli, cogli sempre bene.

Compagni giornalisti avete troppa sete

e non sapete approfittare della libertà che avete avete ancora

la libertà di pensare

ma quello non lo fate e in cambio pretendete

la libertà di scrivere e di fotografare.

Immagini geniali e interessanti di presidenti solidali e di mamme piangenti.

E in questa Italia piena di sgomento come siete coraggiosi,

voi che vi buttate senza tremare un momento.

Cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti e si direbbe proprio compiaciuti.

Voi vi buttate sul disastro umano col gusto della lacrima in primo piano.

Sì, vabbe', lo ammetto la scomparsa dei fogli e della stampa sarebbe forse una follia

ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza non avrei certo la superstizione della democrazia.

Ma io non sono ancora del regno dei cieli sono troppo invischiato nei vostri sfaceli. (...)

La devozione è possibile in ogni vocazione e professione.

Nella creazione Dio comandò alle piante di produrre i loro frutti, ognuna “secondo la propria specie” (Gn 1, 11). Lo stesso comando rivolge ai cristiani, che sono le piante vive della sua Chiesa, perché producano frutti di devozione, ognuno secondo il suo stato e la sua condizione. La devozione deve essere praticata in modo diverso dal gentiluomo, dall'artigiano, dal domestico, dal principe, dalla vedova, dalla donna non sposata e da quella coniugata. Ciò non basta, bisogna anche accordare la pratica della devozione alle forze, agli impegni e ai doveri di ogni persona. Dimmi, Filotea, sarebbe conveniente se il vescovo volesse vivere in una solitudine simile a quella dei certosini? E se le donne sposate non volessero possedere nulla come i cappuccini? Se l'artigiano passasse tutto il giorno in chiesa come il religioso, e il religioso si esponesse a qualsiasi incontro per servire il prossimo come è dovere del vescovo? Questa devozione non sarebbe ridicola, disordinata e inammissibile? Questo errore si verifica tuttavia molto spesso. No, Filotea, la devozione non distrugge nulla quando è sincera, ma anzi perfeziona tutto e, quando contrasta con gli impegni di qualcuno, è senza dubbio falsa.

L'ape trae il miele dai fiori senza sciuparli, lasciandoli intatti e freschi come li ha trovati. La vera devozione fa ancora meglio, perché non solo non reca pregiudizio di alcun tipo di vocazione o di occupazione, ma al contrario vi aggiunge bellezza e prestigio.

Tutte le pietre preziose, gettate nel miele, diventano più splendenti, ognuna secondo il proprio colore, così ogni persona si perfeziona nella sua vocazione, se l'unisce alla devozione. La cura della famiglia è resa più leggera, l'amore fra marito e moglie più sincero, il servizio del principe più fedele, e tutte le altre occupazioni più soavi e amabili. E' un errore, anzi un'eresia, voler escludere l'esercizio della devozione dall'ambiente militare, dalla bottega degli artigiani, dalla corte dei principi, dalle case dei coniugati. E' vero, Filotea, che la devozione puramente contemplativa, monastica e religiosa, può essere vissuta solo in questi stati, ma oltre a questi tre tipi di devozione, ve ne sono molti altri capaci di rendere perfetti coloro che vivono in condizioni secolari. Perciò dovunque ci troviamo, possiamo e dobbiamo aspirare alla vita perfetta.


SAN FRANCESCO DI SALES, Introduzione alla vita devota, parte 1, cap. 3.


"Io sono tranquillo e sereno

come bimbo svezzato in braccio a sua madre,

come un bimbo svezzato è l'anima mia".

Salmo 131,2
"Prima ero ignorante, ma ora procedo verso un'altra forma di ignoranza consapevole.

Il solo fatto di voler fare un libro impedisce di scrivere come si dovrebbe".

 

Christian Bobin, La luce del mondo, 156
Presentato il rapporto Unicef: un bambino su quattro è sottopeso

L'80% delle vittime in Africa subsahariana e Asia meridionale

Ventiseimila bimbi morti al giorno. E la metà dei decessi è per fame

 

ROMA - Ventiseimila ogni giorno, una strage continua: è questo il numero dei bambini che muoiono nel mondo prima di arrivare ai cinque anni d'età. E le cause sono facilmente prevenibili, dalle malattie infettive alla diarrea, dalla fame alle scarse condizioni igieniche. La fotografia illustrata oggi nell'ultimo rapporto dell'Unicef sulla condizione dell'infanzia presenta zone d'ombra soprattutto nell'Africa subsahariana e nell'Asia meridionale, dove si verificano l'80 per cento dei decessi infantili: percentuale lontana anni luce dalla condizione dei paesi occidentali. Il rapporto dell'agenzia Onu per i bambini è dedicato quest'anno al diritto alla salute, per "nascere e crescere sani" e traccia un quadro che lascia ancora molto a desiderare rispetto al quarto obiettivo di sviluppo del millennio, che prevede la riduzione di due terzi della mortalità infantile nel mondo entro il 2015. Passi avanti ne sono stati fatti, ricorda l'agenzia: nel 2006 per la prima volta le morti sono scese sotto quota 10 milioni, mentre nel 1960 erano bel il doppo, 20 milioni. Ma ancora 9.7 milioni di piccoli non sopravvivono a causa delle guerre, dei disastri naturali, dell'Aids, o ancora per le condizioni di miseria in cui sono costretti a vivere e per la mancanza di strutture medico-sanitarie adeguate. Un bambino su quattro nel mondo è sottopeso; percentuale che nei paesi meno sviluppati arriva ad uno ogni tre; cinque milioni di bambini sotto i cinque anni d'età muoiono di malnutrizione o fame. L'allarme dell'Unicef non risparmia poi le madri, la cui condizione non è certo incoraggante: mezzo milione di donne ogni anno muoiono per complicazioni di parto o di gravidanza. E il rischio aumenta per le più giovani: le ragazze sotto i 15 anni di età hanno cinque volte più possibilità di morire rispetto alle ventenni durante il parto. La maglia nera, sotto questo aspetto, tocca al Niger, dove le donne hanno una possibilità su sette di morire dando alla luce il proprio bambino; seguono Sierra Leone e Afghanistan (una su otto), mentre all'altro estremo della classifica ci sono l'Argentina (una possibilità su 530), la Tunisia (una su 500) e la Giordania (una su 450).

Fra i paesi in via di sviluppo le condizioni dei bambini, invece, sono nettamente migliorate a Cuba (sette morti ogni mille nati vivi), in Sri Lanka (13) e Siria (14). Va male invece in Sierra Leone (270), Angola (260) e Afghanistan (257), lontanissime dall'Occidente, in cui svettano Svezia e Singapore, al 189esimo posto nella classifica mondiale per la mortalità infantile che vede l'Italia al 175esimo posto. Ma di cosa muoiono i bambini? Complicazioni neo-natali (36 per cento), polmonite (19 per cento), diarrea (17 per cento), malaria (8 per cento), morbillo (4 per cento), Aids (3 per cento). La situazione non è identica fra i paesi in via di sviluppo: dove sono stati fatti interventi, i risultati si sono avuti. Paesi poveri con enormi difficoltà come Mozambico, Malawi, Eritrea ed Etiopia sono infatti riusciti a ridurre la mortalità dei più piccoli del 40 per cento dal 1990 ad oggi. E a fare la differenza sono spesso le piccole cose: misure salvavita semplici ed economicamente sostenibili come l'allattamento al seno esclusivo e le vaccinazioni, l'uso di zanzariere con insetticidi, gli integratori di vitamina A. Tutti questi accorgimenti hanno contribuito negli ultimi anni a ridurre il tasso dei decessi, sottolinea il direttore generale dell'Unicef, Ann M. Veneman. Con qualche investimento in più, di modesta entità, si potrebbe migliorare di molto: l'agenzia stima che un pacchetto minimo per l'Africa subsahariana porterebbe ad un calo del 30 per cento dei decessi fra i più piccoli, e del 15 per cento per le madri, con un costo di 2-3 dollari in più a persona rispetto ai programmi già adottati. Percentuali che salirebbero al 60 per cento per mamma e bambino con un investimento ulteriore di 12-15 dollari pro capite.

22 gennaio 2008

"Un sarto ebreo ricevette da un nobile della sua città l'incarico di cucire un raro capo di vestiario con un tessuto prezioso acquistato a Parigi. Il nobile raccomandò al sarto di realizzare un capolavoro. Il sarto sorrise e rispose che non c'era bisogno di incitamenti perché lui era il migliore della regione. Terminata l'opera portò il vestito dall'illustre cliente, ma ne ricevette in cambio solo ingiurie e accuse di aver rovinato il tessuto. Il sarto frastornato e avvilito andò a chiedere consiglio da reb Yerahmiel che gli disse pressappoco così: "Disfa tutte le cuciture del vestito e poi ricucile esattamente negli stessi punti di prima. Poi riportaglielo". Il sarto seguì lo strano consiglio e riportò il vestito al nobile. Con sua sorpresa il signore fu entusiasta del lavoro e aggiunse anche un premio al salario.Reb Yerahmiel gli spiegò poi: "La prima volta tu avevi cucito con arroganza e l'arroganza non ha grazia. Perciò sei stato respinto. La seconda volta hai cucito con umiltà e il vestito ha acquistato valore". È decisiva l'intenzione, più della perizia, l'ispirazione più della maestria, anche negli umili lavori. Nel libro delle sacre scritture Esodo/Nomi, Dio attraverso Mosè assegna all'eccellente artigiano Betzalèl l'esecuzione di molti lavori utili al culto. Ma prima: "Lo ha riempito, di vento di Elohìm: in sapienza, in intelligenza, in conoscenza e in ogni lavoro" (35,31). La sola abilità tecnica è sterile, vana.Per chi è abituato a considerare solo il prodotto finito e non il modo con cui lo si lavora, per chi giudica l'opera e non l'intenzione, questo racconto è invano".

 Erri De Luca, Alzaia, 33

"Mademoiselle Rosée tace. Tace, da alcune settimane in modo eloquente. Tace rumorosamente. Tace, ecco la parola giusta: religiosamente. Mademoiselle Rosée è passata senza accorgersene dall'amore per monsieur Gomez all'amore per Dio. Tutto questo è avvenuto con estrema dolcezza. La bellezza dei tulipani gialli non è forse estranea a questo cambiamento. Dio e monsieur Gomez hanno un punto in comune: nessuno dei due risponde all'amore di mademoiselle Rosée - ma con Dio resta una piccola possibilità".

  

Christian Bobin, L'amore è una piccola cosa... con delle conseguenze meravigliose, 76
Ringraziando Daniele,

 sono venuto a conoscenza di questa efficace presentazione delle spese alimentari medie per famiglia, secondo le diverse zone del mondo.


 Complimenti chi ha posto in essere questa idea così semplice e chiara!


 http://www.fixingtheplanet.com/one-weeks-worth-food-around-our-planet


 


 



Questa foto è considerata tra le più belle dell'anno.



Se guardate attentamente, scoprirete che i cammelli - visti dall'alto - sono delle piccole linee chiare;

le sagome scure sono le ombre!!

 

Da una foto simile, si potrebbe risalire a una splendida teologia della Luce,

considerando con sapienza ciò che noi vediamo e ciò che c'è dentro e dietro.
"Un pericolo della cosiddetta questione sociale è quella di strapparla dalle sue radici cristiane. Ci troviamo qui davanti alla Chiesa di Gesù lavoratore, questo deve dirci qualcosa, deve offrirci delle risposte fondamentali. Una è questa: Gesù Figlio di Dio, incarnato, redentore di tutti gli uomini, per tanti anni della sua vita è stato un lavoratore. Il lavoro di Gesù operaio appartiene così all'opera della redenzione dell'uomo, della redenzione divina dell'uomo.

Carissimi fratelli e sorelle, possiamo dire che appartiene alla grande opera della redenzione dell'uomo anche il lavoro umano, qualunque esso sia. Ed è a questo titolo che parlo. Perché io non sono né imprenditore né sindacalista. Sono stato operaio, operaio per molti anni della mia vita, e porto nel cuore una grande stima per ogni lavoro umano, e soprattutto per il lavoro più umile, così come era umile quello di Gesù. Porto questo come iscritto nel mio cuore, nella mia “biografia”, ma se vi parlo vi parlo in nome di Gesù. È a questo titolo vero che io parlo. Gesù ha compiuto l'opera della redenzione dell'uomo, di tutti gli uomini, attraverso la croce, sì, ma anche attraverso il lavoro. E così il lavoro umano, il vostro lavoro, il lavoro con tutti i suoi problemi appartiene a questa grande, divina opera della redenzione. (...)

 Saluto ancora tutti. Il Papa è venuto per tutti, per ciascuno di voi senza distinzioni".


 dal saluto di Giovanni Paolo II


 a Porto Marghera, 17 giugno 1985

E speriamo che Cuffaro non dica che gli è capitato tutto ciò


perché è cattolico...

Ci lasciamo educare ancora dal Vangelo della Liturgia quotidiana

per dire parole sapienti circa gli eventi di questi giorni:


 


"Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati.

Non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori" (Mc 2, 16-17)
Democrazia minima

 


di Ilvio Diamanti

 


Si odono ancora, distintamente, gli echi delle polemiche sollevate dalla rinuncia di Papa Benedetto XVI a proporre la sua lezione magistrale all'Università "la Sapienza" di Roma. Preoccupato dalla lettera dei 67 professori che avevano espresso, a tale proposito, il loro dissenso. E dalle manifestazioni annunciate da alcuni circoli di studenti, anch'essi apertamente contrari all'arrivo del Papa. Anche se, probabilmente, oltre alla preoccupazione è subentrata l'irritazione per il mancato senso di ospitalità (non si invita qualcuno a casa propria, come ha fatto il Rettore, per poi comunicargli che i figli lo accoglieranno, all'ingresso, per fischiarlo). Senza trascurare la volontà del Vaticano di far passare la religione civile fondata sulla "ragione" dalla parte del "torto". Rovesciando sui "militanti laici" la critica di intolleranza che, da qualche tempo, accompagna il rinnovato protagonismo della Chiesa sulla scena pubblica. Le polemiche dei giorni seguenti (che proseguono ancora) si sono concentrate, soprattutto, sul concetto di laicità, di libertà, pluralismo. In particolare, è stata criticata - giustamente, a nostro avviso - l'azione volta a impedire la lezione di Joseph Ratzinger. Pontefice, ma anche eminente filosofo e teologo: sarebbe stato di casa all'Università. Per contro, altre voci, più circoscritte, hanno insistito sull'inopportunità che l'autorità più rappresentativa della Chiesa aprisse le lezioni di un centro di cultura pubblica e "laica", qual è la più grande università italiana. Noi, tuttavia, vorremmo spostare l'attenzione dalla luna al dito che la indica. In altri termini, intendiamo soffermarci su un aspetto laterale, rispetto a questa discussione. E, tuttavia, sintomatico del male che affligge il nostro (povero) Paese; e indebolisce la nostra democrazia. Ci riferiamo alla sproporzione delle forze in campo. 67 professori esprimono il loro dissenso verso una iniziativa dell'Università in cui insegnano. Insieme ad altri 2000 docenti. Affiancati da circa 300 studenti, che manifestano la loro protesta. E la rilanciano giovedì scorso, quando avviene l'inaugurazione. Senza il Papa, ma di fronte al sindaco Veltroni e al ministro Mussi. Studenti molto diversi da quelli del mitico '68. Definiti e auto-definiti "autonomi", non perché si ispirino ai collettivi e ai movimenti "rivoluzionari" degli anni Settanta, ma perché dichiaratamente estranei e antagonisti rispetto ai soggetti politici attuali. "Antipolitici", per usare le categorie del nostro tempo. Ripetiamo un'altra volta: 300 studenti. Trecento: in una Università dove gli iscritti sono circa 140 mila. Il nostro appunto (e disappunto) è riassunto da questi numeri. Una iniziativa di grande rilievo pubblico e di grande importanza simbolica si è, infatti, incagliata sul dissenso espresso dal 2,8 % dei professori e dallo 0,2 % degli studenti. Tanta sproporzione suggerisce una considerazione inquietante. La nostra democrazia non è più in grado di sopportare neppure una frazione di conflitto e di opposizione così ridotta. L'opposizione di alcuni professori di Università. Ambiente dove è, quantomeno, normale che vengano espresse distinzioni, differenze; talora "eresie" culturali. La sfida irrequieta e "maleducata" di un drappello di giovani studenti. Ai quali, per età e condizione, va comunque concessa la possibilità anche di sbagliare in proprio. Hanno di fronte una vita per sbagliare con la testa degli altri. Una democrazia incapace di "tollerare" il dissenso (anche quando esprime posizioni "poco tolleranti"), neppure se è così minuscolo, ci appare seriamente malata. Tanto più se, poi, cede. Se non è in grado, comunque, di garantire il rispetto delle scelte assunte dagli organi di governo legittimi; condivise dalla stragrande maggioranza della società. La colpa non è del 2 % degli intellettuali che si oppone, né dello 0,2 % della popolazione che manifesta. E' delle istituzioni, delle autorità che si arrendono loro. Una democrazia che, come in troppe, altre, precedenti occasioni, si piega di fronte a pressioni minime. E non sopporta il minimo dissenso. E' una democrazia minima.



(18 gennaio 2008)


 


Tanto per non dimenticare chi è che getta benzina sul fuoco


 



CARAGNA NO (Maghini)



caragna no, càr el me fioeu /so ben che 'sto mond làder

l'è no el dipint d'on quader

perciò, ti, caragna no



caragna no, càr el me fioeu / t'el disi anmò: caragna no

so ben che in 'sto mond nègher

gh'è poc de sta su allégher / perciò, ti, caragna no



gh'è no lavorà, ma se g'hoo de faa?

foo domà quel che pòdi, / son't minga el Berlusconi

perciò, ti, caragna no



riconossi che in quel moment chi /

gh'è propi nient de riid

ma quand te penset che gh'è in gir / chi sta semper pèg de ti

Sic et non - da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Sic et non ("Sì e no") è un opera minore di Pietro Abelardo (1079-1142), in cui il filosofo rilevava coraggiosamente che la Sacra Scrittura e l'insegnamento dei Padri della Chiesa contenevano in più punti affermazioni contraddittorie, che venivano messe a confronto.

Il libello, scritto dopo il concilio di Soissons (aprile 1121), è diviso in tre parti: nella prima ("Prologo") vengono enunciati i criteri che permettono di conciliare tra loro le apparenti contraddizioni rilevate (perlopiù ciò viene imputato ai molteplici significati di una stessa parola); nella seconda (il cuore dell'opera, più volte rimaneggiato e citato da Abelardo stesso) sono raccolte le citazioni dalle Sacre Scritture e dai detti dei padri della Chiesa; nella terza invece vi sono citazioni dalle Retractationes di Sant'Agostino.

"Qual è quindi il servizio possibile dei superiori? La comunione più profonda fra i membri, non limitando il servizio dell'autorità al 'mero compito di coordinare le iniziative dei membri', ma di 'costruire assieme ai fratelli e sorelle delle 'comunità fraterne nelle quali si cerchi Dio e lo si ami sopra ogni cosa' (Codice Diritto Canonico, can. 619)" [pag. 127].

  "Servo è la parola che traduce il termine greco che significa anche 'schiavo'. Indica qui non tanto uno che non è libero, piuttosto uno che sa chi è il suo padrone, perché appartenere significa avere una identità, quella del padrone. Appartenere al Signore è una dignità, perché il lavorare per Lui ci fa fare il suo stesso lavoro: Lui seminatore ci fa arare, Lui pastore ci fa pascolare, Lui servo, ci fa servire, Lui risorto ci fa risorgere. Dal desiderio di essere simile al Signore proviene il fondamento della vita cristiana e della vita religiosa strutturata sui voti: l'obbedienza è il servizio di un servo chiamato ad essere simile al suo Signore obbediente e glorioso. Il superiore è un servo che ha cura della vigna del Signore, simbolo del popolo eletto, ha cura dei fratelli pascolando la comunità. Quale merito può vantare questo servo per un simile servizio? Quale ricompensa può desiderare? Non gli appartengono né la vigna, né i fratelli. Tutto è del Padre che associa il Figlio alla sua volontà di salvezza, e chiama gli uomini ad entrare nella logica dell'amore che salva. Si può così capire meglio il significato di "servo inutile". La parola greca suggerisce un senso più complesso di quello che evoca l'italiano. In greco 'inutile' significa 'senza utile', cioè senza profitto, senza guadagno. Il significato teologico che emerge è ricco: chi va a servizio nella vigna del Signore avendo cura dei propri fratelli non va in cerca di nessun guadagno [pag. 131]".

 "Il servizio del superiore è quindi la comunione fraterna, affinché la persona si realizzi ad immagine di Dio nella relazione con gli altri. In altre parole: il ruolo del superiore è 'consolidare la comunione fraterna'. L'autorità ha il compito primario di costruire assieme ai fratelli e alle sorelle delle 'comunità fraterne nelle quali si cerchi Dio e lo si ami sopra ogni cosa' [pag. 145]".

 "Un superiore saggio diffida della fidura affascinante che emerge dal ritratto degli adulatori. Gli dovrebbe bastare di essere servo che sa vincere la tentazione del potere, nascosta a volte anche nel 'sottile godimento di essere sempre sovraccarico di lavoro' ma nascosta anche dietro l'illusione ricorrente di pensare di essere in fondo più intelligente e più bravo degli altri, illusione che favorisce l'emergere di giudizi negativi sugli altri, maldicenze su alcuni, adulazioni nei confronti di altri, illusione che ha la sua radice in una fiducia cieca in se stesso e in una insicurezza altrettanto cieca che divide il mondo in due categorie di persone, i buoni e i cattivi che si riducono in adulatores et detractores? La comunità è impoverita dalla sterilità della rivalità fra quelli che sono per il superiore e quelli che sono contro di lui. Quando il superiore cambia, non cambia niente nella comunità, le divisioni rimangono le stesse. Questo veleno, come il demonio più potente, non viene sradicato se non con la preghiera e il digiuno [pag. 151]".

  Michelina Tenace, Custodi della sapienza. Il servizio dei superiori, Lipa
"Fantasie. Le orecchie pos­sono mordere? La strana domanda scat­ta davanti al quadro di Victor Brauner, logo a Vercelli della mostra «Peggy Gug­genheim e l'immagine surreale». Due fauci ferine si sporgono da un volto u­mano al posto delle orecchie. Viva l'a­scolto mite".

 


 

 


Dino Basili, Tagliacorto, Avvenire 16.01.08

So­no tormentato dal dubbio che non sempre i superiori abbiano meditato questa parabola (dei "due figli", Mt 21, 28-32) e ne abbiano quin­di tratto le rigorose conclusioni. Così rischiano di prendere qualche abbaglio allorché si tratta di scopri­re quali siano i figli veramente obbedienti.


Cortigiano non vuol dire collaboratore.


Adulare non è sinonimo di amare.


Dire «sì» non equivale a «fare».


Chi «si fa avanti» precipitosamente, quasi sem­pre scantona poi, non appena si trova fuori portata dalla vista del superiore.


Chi ha il «sì facile» sovente ha «l'impegno dif­ficile».


Il sorriso cerimonioso si accompagna inevitabil­mente al mugugno.


Gli specialisti dell'inchino - colonna vertebrale ad angolo retto - trovano una insormontabile difficoltà a piegare la schiena quando si tratta di afferrare la zap­pa e lavorare sul serio.


Quelli che si trovano immancabilmente in prima fila nelle parate ufficiali, finiscono volentieri nelle re­trovie (pantofole e poltrona) quando il calendario se­gna i grigi giorni feriali.


Certi «ribelli» sono i figli più appassionati della Casa. Il loro, sovente, è un amore deluso. Se sono «ribelli», può darsi che qualcuno li abbia feriti. «Se sono ribelli è, forse, perché sono fedeli a valori di­menticati» (Sulivan).


Certe «teste calde» hanno il solo torto di non saper adoperare la parola come turibolo. In realtà, un superiore intelligente sa di poter contare su di lo­ro. A occhi chiusi.


Possono avere qualche «parola sbagliata». Ma le azioni sono quelle giuste.


 


A.Pronzato, Vangeli scomodi, 353-354



A proposito dell'atteggiamento di alcuni cristiani


nella questione delle critiche alla visita del Papa a "La Sapienza".





Dal cap. 9 (versetti 51-56) del Vangelo secondo Luca:


Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme e mandò avanti dei messaggeri. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui. Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi? ”. Ma Gesù si voltò e li rimproverò. E si avviarono verso un altro villaggio.

Ignazio "presupponeva l'indifferenza" nei suoi re­ligiosi, ossia supponeva che avessero raggiunto la li­bertà interiore come frutto degli esercizi spirituali; prima di proporre una missione, "verificava l'inclinazione" direttamente o indirettamente, per poter "te­ner conto delle disposizioni", perché contava sulla persona più che sull'idea del progetto; tuttavia, rac­conta Gonçalves da Câmara, Ignazio manifestava di apprezzare molto la disposizione del religioso che "quanto a inclinazione diceva di voler non averne af­fatto", perché la totale libertà è garanzia di obbe­dienza vera, dal momento che allora si può cercare in tutto di fare soltanto la volontà di Dio.

Racconta an­cora Gonçalves che, una volta attribuita la missione, Ignazio poteva anche firmare in bianco fogli che sa­rebbero serviti a compiere bene un mandato, fidan­dosi totalmente della libertà e della creatività del reli­gioso in missione. (...)

II modo di governare di Ignazio, "gentile e autore­vole" insieme, ha un segreto: prima di tutto, Ignazio dedicava tempo e attenzione alla cosa in questione prima di decidere; secondo, pregava molto a questo proposito e riceveva luce da Dio; terzo, non decideva nulla di preciso prima di aver ascoltato il parere di chi se ne intendeva, interrogando ognuno su molte cose, tranne su quelle di cui lui stesso aveva piena conoscenza.

Il superiore deve dare una reale attenzio­ne ai suoi religiosi nel discernimento e avere fiducia in coloro che avranno libertà di iniziativa nella mis­sione. Lo Spirito Santo parla attraverso le persone, gli eventi, i pensieri, i sentimenti, per cui rispettare l'originalità di uno, le idee di un altro, le tendenze di un altro non è accondiscendere, ma riconoscere l'a­zione dello Spirito Santo in loro e favorire il di più di un servizio, non il minus. Spirituale è quindi il gover­no dove il superiore è un "esperto" dello Spirito Santo di cui egli è come il "portavoce", o il contem­platore.

Non sorprende quindi che il principio del gover­no per sant'Ignazio sia la docilità allo Spirito Santo. Essa spiega insieme la sua esigenza e la sua capacità di rispettare i sudditi. Senza la prassi del discerni­mento degli spiriti, una tale esigenza e una tale lar­ghezza rischierebbero di degenerare in autoritarismo o in lassismo. Il discernimento degli spiriti d'altronde non è possibile senza un'intensa vita di preghiera, di conoscenza della Parola di Dio. Il discernimento non è autentico senza la purificazione dell'ascesi che per­mette alla carità di risplendere. (...)



Il modo di comprendere il governo - e quindi l'obbedienza - è costitutivo del carisma e del cammi­no di formazione che una comunità propone ai suoi membri. Per questo è pericoloso prendere un aspetto di una tradizione spirituale e, sic et sempliciter, appli­carlo ad un'altra.

Se i concetti di "governo", di superiore, di obbe­dienza vengono estrapolati dal contesto di una spiri­tualità complessa, si favoriscono le aberrazioni e gli abusi. Come l'abuso di chi ha l'autorità e richiama i suoi sudditi all'obbedienza cieca di sant'Ignazio senza averne il genio mistico e la carità, senza cioè assi­curare una formazione adeguata che verifichi il grado di adesione a Cristo della persona, senza che sia ga­rantita, insieme alla prassi dell'obbedienza, la pre­ghiera personale, l'autentica pratica del discernimen­to, lo stesso zelo per la carità fraterna e l'aspirazione all'umiltà perfetta. Vi è una sottomissione che fa del religioso un mercenario o un fariseo, un ateo sterile.

L'obbedienza, invece, deve portare alla contemplazione di Dio.



Michelina Tenace, Custodi della sapienza. Il servizio dei superiori, 51-55

La CASA della VECCHIA ZIA


Come immaginiamo, come presentiamo la Casa del Padre?


Il modello, sovente, è dato da certe case antiche, aristocratiche. Dentro, tutta roba di classe. Mobilio artistico. Tappeti persiani. Vasellame cinese. Quadri d'autore. Ritratti (tanti, troppi), cimeli, medaglie di antenati. Museo. Archivio. Vi si conservano, gelosamente, le glorie del passato.


In certe stanze è vietato rigorosamente l'ingres­so. Da un'altra parte non si può andare perché è stata data la cera sul pavimento. Finestre chiuse. Imposte chiuse. Perché il sole potrebbe rovinare i delicati tendaggi. Aria che sa di muffa, di chiuso, di antichità. Non si respira. Pare di soffocare. Cartelli da tutte le parti: non toccare, non entra­re, proibito far questo, vietato far quell'altro, atten­ti alle scarpe sporche

"Lungo il cammino verso la saggezza, il primo passo è il silenzio;

il secondo, ascoltare;

il terzo, ricordare;

il quarto, praticare;

il quinto, insegnare agli altri".

 


 

Così si esprimeva nel secolo XI

Salomon ben Jehudah ibn Gabirol,

noto presso i latini col nome di Avicebron.

LA CLINTON E TUTTI GLI ALTRI

Hillary e l'effetto lacrime in politica

Nel XXI secolo gli occhi lucidi sembrano essere diventati l'elemento fondante della nuova comunicazione politica


 Piangere o non piangere: dopo la rimonta bagnata di lacrime di Hillary Clinton, è la questione più affascinante per gli uomini e le donne di potere anni Duemila. Che in questo momento, dagli Stati Uniti all'India all'Italia, si stanno interrogando se hanno pianto abbastanza nella loro vita pubblica e politica. Sì, perché quello che era stato bandito come un vizio da femminucce per tutto il Novecento, e che era stato poi sdoganato timidamente da qualche politico più fricchettone solo negli anni Novanta, sembra diventato elemento fondante della nuova comunicazione politica molto spettacolare del nostro tempo, in cui il leader deve mettere in gioco tutto se stesso, la sua immagine, il suo corpo, i sentimenti.


Attenzione, però, non si tratta della lagna mediatica, di avere il pianto in tasca pronto per ogni occasione: la questione del potere delle lacrime è molto più sofisticata e funziona a certe condizioni, come ha dimostrato Hillary Clinton che con le sue lacrime una tantum, ma umane, molto umane, ha ribaltato di colpo l'immagine di politica superefficiente ma fredda come una lama d'acciaio, gettando nello sconforto l'intero staff dello sfidante Obama, convinto che era molto più facile prima, quando si trattava di andare contro un robot e non contro una donna che


Lo stesso tema nel portale d'ingresso di Notre-Dame de Paris.

 



Ammiriamo la dolce maestà dell'Arcangelo, rispetto all'inutile sforzo del nerboruto demonio.





Dal timpano all'ingresso della Cattedrale di San Lazzaro a Autun.

 


La pesa delle anime, al momento del Giudizio Finale. La bilancia pesa irrimediabilmente dalla parte dell'arcangelo Gabriele, malgrado gli sforzi indescrivibili di un grande diavolo scheletrico che vorrebbe far pendere il piatto dalla sua parte.
I bambini sono gente di viaggio, anime di grandi spostamenti. Quando vengono a questo mondo, non hanno né vestiti, né pa­role, né denaro, non posseggono nessun altro bene che il bisogno, la fame, le lacrime e il sorriso. Le persone che li accolgono, che danno loro asilo per venti, trent'anni, per tutta la vita, le persone che dicono al bambino: entra, fa' come se fossi a casa tua, posa il tuo sorriso in un angolo, ci terrà compagnia, già ci rischiara un po', queste persone, albergatrici dell'infanzia, noi li chiamiamo genitori. I bambini rimangono dove la porta si apre. Giocano fuori nel cortile, rientrano alla sera, abitano là per anni e per anni, con la loro anima inafferrabile, è come se fos­sero sempre di passaggio. I bambini sono degli stra­nieri che vivono presso i genitori.

 

Christian Bobin, Consumazione. Un temporale, Servitium, 59-60.
Cenni della vita del vescovo Francesco Saverio Van Thuan, morto nel 2002, in alcune frasi autobiogra­fiche pronunciate durante gli Esercizi Spirituali che tenne al papa Giovanni Paolo II nel 2000. Esercizi che parla­vano della speranza e della testimonianza di questo vescovo che venne arrestato a Saigon nel 1975 e che passò tredici anni in prigione prima di esse­re liberato.


 


"Oggi, al momento della chiusura degli Esercizi Spirituali sono profondamente commosso.

Esattamente ventiquattro anni fa, il 18 marzo 1976, vigilia della festa di San Giuseppe, fui prelevato dalla resi­denza coatta a Cay-vong per essere sottoposto a duro isolamento nella prigione di Phu-Khanh.

Ventiquattro anni fa non avrei mai immaginato che un giorno, proprio in quella data avrei concluso la predicazione degli Esercizi in Vaticano. Ventiquattro anni fa celebravo la S. Messa con tre gocce di vino nel palmo della mano, non mi sarei mai aspet­tato che il Santo Padre oggi mi offrisse un calice dorato. Ventiquattro anni fa non avrei mai pensato che oggi, festa di San Giuseppe del Duemila, il mio successore consacrasse proprio nel posto in cui sono vissuto in resi­denza coatta la più bella chiesa dedicata a San Giuseppe in Vietnam".

Abbiamo celebrato la nascita di Gesù: una sola è la cosa necessaria: scegliamo quella, soprattutto mostriamo che questa scelta è sincera e coerente.

Un gior­no mentre stavo preparando il pranzo, sentii squillare il telefono delle mie guardie: "Forse questa telefonata è per me! E ' vero: oggi è il 21 novembre Festa della presentazione di Maria al tempio". Poco dopo una delle guardie viene da me e mi dice: "Dopo pranzo si vesta bene. Andrà a vedere il capo". In quel pomeriggio ho incontrato il Ministro degli Interni. "Lei ha un desiderio da esprimere?". "Sì, Signor Ministro, voglio la libertà". "Quando?". "Oggi". Il Ministro mi guardò sor­preso; gli spiego: "Sono stato troppo a lungo in prigione. Sotto tre pontefi­ci: Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II. E inoltre sono passati quattro segretari del partito comu­nista sovietico: Breznev, Andropov, Cernenko, Gorbaciov".

E voltandosi verso il suo segre­tario, il Ministro disse: "Forse è bene esaudire il suo desiderio".

"Con Gesù Cristo la benedizione di Abramo si è estesa a tutti i popoli, alla Chiesa universale come nuovo Israele che accoglie nel suo seno l'intera umanità. Anche oggi, tuttavia, resta in molti sensi vero quanto diceva il profeta: "nebbia fitta avvolge le nazioni" e la nostra storia. Non si può dire infatti che la globalizzazione sia sinonimo di ordine mondiale, tutt'altro. I conflitti per la supremazia economica e l'accaparramento delle risorse energetiche, idriche e delle materie prime rendono difficile il lavoro di quanti, ad ogni livello, si sforzano di costruire un mondo giusto e solidale. C'è bisogno di una speranza più grande, che permetta di preferire il bene comune di tutti al lusso di pochi e alla miseria di molti. "Questa grande speranza può essere solo Dio

"Denken ist Danken", "pensare è ringraziare".

Martin Heidegger

"Il contrasto tra estate e inverno era più netto... così come quello tra la luce e il buio, tra il silenzio ed il rumore. La città moderna non conosce più il buio assoluto e il silenzio assoluto, l'effetto di un singolo lumicino o di una singola voce lontana".


J. Huizinga, L'autunno del medioevo