Il mio sì

Io sono creato per fare e per essere qualcuno

per cui nessun altro è creato.

Io occupo un posto mio

nei consigli di Dio, nel mondo di Dio:

un posto da nessun altro occupato.

Poco importa che io sia ricco, povero

disprezzato o stimato dagli uomini:

Dio mi conosce e mi chiama per nome.

Egli mi ha affidato un lavoro

che non ha affidato a nessun altro.

Io ho la mia missione.

In qualche modo sono necessario ai suoi intenti

tanto necessario al posto mio

quanto un arcangelo al suo.

Egli non ha creato me inutilmente.

Io farò del bene, farò il suo lavoro.

Sarò un angelo di pace

un predicatore della verità


nel posto che egli mi ha assegnato

anche senza che io lo sappia,

purché io segua i suoi comandamenti

e lo serva nella mia vocazione.


card. John Henri Newman

 

Un complesso musicale di detenuti, ex-detenuti, non-detenuti.





«Milano, città che non ha spazio per i bambini»

di Silvia Vegetti Finzi, pedagogista, psicologa e scrittrice

Le città non sono mai state fatte a “misura di bambino”, ma negli ultimi anni sono diventate più inospitali che mai. Non mi riferisco tanto a problemi ambientali: smog sopra i limiti massimi, traffico caotico, servizi sociali insufficienti, costi delle abitazioni in costante levitazione. Penso piuttosto al rapporto adulti-bambini, all'indifferenza, alla solitudine, talora all'insofferenza che li circonda. Il primo posto nella graduatoria del malessere spetta indubbiamente ai piccoli Rom, bambini costretti a pellegrinare da un campo nomadi all'altro, luoghi equiparati dallo squallore e dal degrado. Ma poiché anche nella notte più nera brilla qualche luce, occorre segnalare l'impegno e il coraggio con cui gli insegnanti che li conoscono e li stimano si battono per la difesa dei loro diritti. Non vorrei inoltre dimenticare i bambini invisibili, quelli che, per essere figli di immigrati clandestini, legalmente "non esistono". E poi i bambini provenienti da Paesi lontani, da culture molto diverse dalle nostre, impegnati a integrarsi in una società dove i pregiudizi trovano spesso udienza e legittimazione. E ancora quelli che, appartenendo a famiglie particolarmente colpite dalla crisi economica, vivono nell'insicurezza e nella paura del domani. La maggioranza però non manca di niente perché, pur nelle ristrettezze, si cerca di dare tutto ai bambini, spesso troppo. Molti sono figli unici, circondati da genitori, zii, nonni, talora bisnonni. Hanno tutto il superfluo, ma manca l'essenziale: spazio e tempo per loro. La paura dell'estraneo, del maniaco, del traffico e dello smog hanno desertificato le nostre città. In compenso aumentano gli impegni organizzati: scuola a tempo pieno, corsi di nuoto, di ginnastica, di yoga, di pittura, di teatro... Nulla è lasciato alla spontaneità, al gioco, alla fantasia. Nella società delle assicurazioni, siamo incapaci di accettare qualche ragionevole rischio per cui i bambini crescono senza mettersi alla prova: non sanno arrampicarsi su un albero, saltare un fosso, lanciare un sasso. Questa è la prima generazione che non si è mai sbucciata le ginocchia. Guardati a vista dagli adulti, non conoscono le strategie della socializzazione, la gestione dei conflitti, l'elaborazione delle frustrazioni. Nonostante l'apparente appagamento, i loro più profondi desideri, considerati irrealizzabili, restano spesso inascoltati. Vorrebbero trascorrere più tempo a casa, in famiglia, con la mamma accanto, vorrebbero dei fratellini e infine spazi dove incontrare gli amici per giocare, bisticciare, annoiarsi. In compenso i genitori, che a torto o a ragione si sentono in colpa per il poco tempo che dedicano ai figli, cercano di rimediare colmandoli di oggetti. A Natale i bambini chiedono in media 4 regali, ne ricevono 11: 7 di troppo. Il superfluo non solo è inutile ma dannoso perché, saturando il desiderio, tacita la domanda, spegne l'attesa, devitalizza la tensione verso il futuro, rende apatici e indifferenti. Atteggiamenti che, maturati nell'infanzia, si ritrovano poi in molte, troppe adolescenze. Continuiamo a pensare che i ragazzi siano bramosi di oggetti e avidi di esperienze come negli anni '80, invece aumenta il numero di quelli che non chiedono niente. Chiusi in una disperazione silenziosa, trascurano gli studi, si allontanano dagli amici, non coltivano interessi. Il loro mondo è altrove: nello spazio virtuale di Internet dove navigano e naufragano in silenzio. La sfida è di riportarli tra noi perché, senza ricambio generazionale, le città del mondo invecchiano tristemente.
A Mariam piaceva ricevere visite alla kolba. L'arbab del villaggio con i suoi doni, Bibi jo con la sua anca dolorante e gli interminabili pettegolezzi e, naturalmente, il Mullah Fai-zullah. Ma non c'era nessuno - nessuno - che Mariam aspettasse con il desiderio che riservava a Jalil.

Incominciava a sentirsi agitata il martedì sera. Dormiva male, preoccupata che qualche complicazione negli affari impedisse a Jalil di venire il giovedì, nel qual caso lei avrebbe dovuto aspettare ancora un'intera settimana prima di vederlo. Il mercoledì continuava a girare attorno alla kolba, gettando distrattamente il mangime nella stia delle galline. Faceva passeggiate senza meta, cogliendo petali di fiore e dando manate alle zanzare che le pizzicavano le braccia. Infine, il giovedì, non poteva far altro che sedersi contro il muro, con gli occhi incollati al torrente, e aspettare. Se Jalil era in ritardo, a poco a poco si lasciava prendere dal panico. Sentiva le ginocchia piegarsi e doveva andare a stendersi.

Poi Nana la chiamava: «Eccolo, tuo padre. In tutto il suo splendore».

Mariam balzava in piedi quando lo scorgeva che saltava da una pietra all'altra del torrente, tutto sorrisi e agitar di braccia. Sapeva che Nana la osservava e valutava le sue reazioni, perciò si sforzava sempre di rimanere ferma sulla soglia, di aspettare, di non corrergli incontro, ma di restare a guardarlo mentre, pian piano, avanzava verso di lei. Si tratteneva e, pazientemente, lo osservava mentre si apriva la strada nell'erba alta, la giacca gettata sulla spalla, la cravatta rossa che svolazzava alla brezza.

Quando Jalil raggiungeva la radura, gettava la giacca sul tandur e apriva le braccia. Mariam partiva a passo lento, poi finalmente gli correva incontro e lui l'afferrava al volo sotto le ascelle e la gettava in alto. Mariam strillava.

Sospesa in aria, vedeva il viso di Jalil rivolto verso l'alto, il suo ampio sorriso sghembo, l'attaccatura a V dei capelli, la fossetta sul mento - un perfetto ricettacolo per la punta del suo mignolo - i denti, i più candidi in una città di molari guasti. Le piacevano i suoi baffi curati, e le piaceva che, indipendentemente dal tempo, indossasse sempre un elegante completo quando veniva in visita - marrone scuro, il suo colore preferito, con il triangolo bianco del fazzoletto nel taschino della giacca -, e anche i gemelli, e la cravatta, di solito rossa, che amava portare allentata. Mariam vedeva il proprio riflesso negli occhi castani di Jalil: i capelli al vento, il viso in fiamme per l'eccitazione e il cielo sullo sfondo. (...)

Quando veniva l'ora della partenza, Mariam rimaneva immobile sulla soglia e lo osservava attraversare la radura, svuotata al pensiero della settimana che, come un masso inamovibile, si frapponeva tra lei e la prossima visita del padre. Mariam tratteneva il fiato nel vederlo andar via. Teneva il respiro e, dentro di sé, contava i secondi. Si figurava che per ogni secondo in cui non respirava, Dio le avrebbe concesso un altro giorno con Jalil.


Khaled Hosseini, Mille splendidi soli, 30-31; 33-34

I cristiani e il peccato colonialista

di Vittorio Emanuele Parsi

Le stragi di cristiani avvenute in Nigeria tra Natale e Santo Stefano hanno evidentemente motivazioni riconducibili anche a dinamiche locali, ma allo stesso tempo si inseriscono in quella lunga scia di violenze anticristiane accoratamente denunciate dal Papa domenica scorsa. Dal Pakistan all'India, dall'Iraq all'Egitto, dal Sudan alla Nigeria, appunto, sembra che la tolleranza verso quelle che pure sono talora corposissime minoranze di antico insediamento sia sempre meno praticata. Sarebbe evidentemente sbagliato fare di ogni erba un fascio, eppure un elemento comune a queste esplosioni di selvaggia violenza, mi pare possa essere individuato: dovunque sono perseguitati, i cristiani vengono considerati cittadini di second'ordine, la cui piena e leale appartenenza alla comunità politica è continuamente messa in dubbio proprio a causa della loro adesione a una fede presentata come culturalmente aliena alla tradizione autenticamente «autoctona». E questo è vero anche laddove, come in Cina, la persecuzione non ha bisogno di ricorrere allo spargimento di sangue. La religione cristiana viene cioè strettamente associata all'Occidente e al suo predominio politico, più o meno prolungato e lontano: presentata, per alcuni forse vissuta, come la religione dei conquistatori. Una tale identificazione assoluta tra il cristianesimo e l'Occidente, è resa possibile attaccando il «punto debole» comune a tutte le grandi religioni, sempre alla ricerca di un difficile equilibrio tra i loro elementi propriamente teologici universalisti e il loro costrutto culturalmente e geograficamente determinato. Ed ecco allora che il cristianesimo, esattamente come l'islam, è ovviamente una religione universale, ma è stato culturalmente costruito da segni, categorie, concetti e parole occidentali (né più né meno di quanto l'islam sia stato edificato con «mattoni» culturali arabi). L'intreccio tra cristianità e cultura occidentale è quello che per quasi un decennio ha alimentato la polemica sulle «radici cristiane dell'Europa», tanto oggettivamente evidenti, a parere di chi scrive, quanto oggi è altrettanto oggettivamente problematico il rapporto tra l'Europa e le religioni. Se il messaggio teologico contenuto in religioni come il cristianesimo o l'islam è il vettore che rende queste ultime potenzialmente universali, il loro costrutto culturale è quello che ne provoca l'attrito, che ne indebolisce concretamente la capacità di diffusione. Così, a mano a mano che ci si allontana da quell'Occidente dove la «particolarità geografica» dei segni culturali di cui la religione cristiana è intessuta non risalta (perché si «confonde» con altri costrutti culturali), la concreta valenza universale dei suoi contenuti specificamente religiosi si attenua, rendendo più facile la collocazione del cristianesimo all'interno di quella cultura occidentale rifiutata programmaticamente come ultimo prodotto della dominazione coloniale. Non può sfuggire che, se la rivolta contro il retaggio coloniale occidentale che accomuna l'Asia all'Africa risale alla metà del secolo scorso, essa è rinfocolata e dirottata dall'uso politico della religione, che si traduce sempre e comunque nel piegare un messaggio universale al proprio contesto particolare. È ovvio che chi sceglie questa strada guarda per istinto e per calcolo politico alla dimensione culturale della religione altrui, per classificarla non solo come erronea ma come aliena alle tradizioni culturali autoctone. Se da un punto di vista occidentale può apparire un paradosso che società come le nostre, descritte o percepite come sempre più scristianizzate, si vedano ascrivere la religione cristiana come un proprio esclusivo prodotto culturale, dal punto di vista di chi rivendica un'autocollocazione esterna ai valori occidentali, l'operazione ha un suo senso politico, oltre ad avere una utilità non trascurabile per le classi dirigenti di quei Paesi, o per alcune frazioni di esse. Queste ultime infatti, alimentando la contrapposizione al «cristianesimo occidentale», possono più facilmente screditare i valori del rispetto dei diritti umani, della democrazia e della libertà, che vengono artatamente presentati come subdoli strumenti del predominio occidentale e possono invocare in nome di valori proposti come «indigeni, autoctoni o locali» una pretesa maggiore sintonia con i popoli che governano o aspirano a governare. E una simile tentazione si fa sempre più invitante via via che sembra palesarsi un declino della governance euro-americana sul sistema politico internazionale, che lascia intravedere la possibilità (incubo per alcuni, sogno per altri) di una sua progressiva de-occidentalizzazione.


in “La Stampa” del 28 dicembre 2010

Unire cielo e terra serve a ridare un senso al mondo

di Raimon Panikkar

Negli ultimi giorni Raimon Panikkar aveva sulla scrivania un saggio dal titolo «Religione e corpo», un contributo del 1996 per la «Revista de filosofía» di Barcellona. Stava elaborando tali pagine, non ancora tradotte in italiano, per le opere complete. Diamo un estratto di questo scritto a cui lavorava.

Nel corso dei millenni l'uomo è stato attratto, spesso ossessionato e talvolta affascinato, da due forze che i mistici chiamerebbero trascendenza e immanenza, i poeti cielo e terra, i filosofi spirito e materia. L'uomo si è dibattuto tra questi due poli attribuendo di volta in volta più importanza all'uno o all'altro, disprezzando, trascurando o magari negando realtà all'uno dei due (la materia è male, il corpo è schiavitù, il tempo è illusione) oppure viceversa (il cielo non esiste, lo spirito è mera proiezione, l'eternità un sogno). La religione, intesa quale dimensione umana che potremmo chiamare religiosità, messa di fronte al problema del significato della vita ha oscillato tra questi due poli senza riuscire a dimenticare completamente l'altro. Carpe diem: la terra è troppo attraente per non godere dei suoi piaceri. Fuga mundi: il mondo è troppo fugace per riporvi la nostra fiducia. Non v'è dubbio, tuttavia, che molte delle principali religioni ai nostri giorni hanno decisamente spostato la bilancia verso il trascendente, lo spirituale, l'ultraterreno. «Come andare in cielo» è il compito della religione; «come vanno i cieli» è l'incombenza della scienza: è stata questa la materia di discussione tra uno scienziato (Galileo Galilei) e un teologo (Roberto Bellarmino). La dicotomia è stata letale per entrambi. La religione è bandita dagli affari umani e la scienza diventa una specialità astratta, avulsa dalla vita umana. La religione diventa un'ideologia e la scienza un'astrazione. In entrambi i casi il corpo è praticamente irrilevante. Compito della nostra generazione, se non vogliamo contribuire all'estinzione dell'homo sapiens, è di tornare a celebrare l'unione tra cielo e terra, quello hieros gamos o sacra unione di cui parlano tante tradizioni, non esclusa la cristiana. Lo studio delle tradizioni religiose dell'umanità ci mostra che «scienza» (per non usare altri termini) ha voluto dire qualcosa più che descrizione empirica di comportamenti «religiosi» e delle loro interpretazioni «scientifiche» e che religione non è riducibile a pratiche o credenze definite «religiose» dal punto di vista della razionalità intesa nel senso in cui l'ha interpretata il cosiddetto illuminismo. Dicendo «scienze» non vogliamo escludere alcuna forma di coscienza né di saggezza. Nel dire «religioni» non vogliamo cadere nel monopolio di questa parola da parte di istituzioni («religiose»); ci riferiamo invece a quel nucleo ultimo di ogni cultura, e anche di ogni vita umana, che si crede dia un certo senso alla vita. È molto significativo che la parola polisemica «religione» sia stata ritenuta poco meno che sconveniente in alcuni ambienti e che si sia voluto sostituirla con «spiritualità». Ciò però dimostra che l'allergia alla parola «religione» è solo superficiale, dato che la parola «spirito» potrebbe farci cadere a sua volta in un altro «ghetto» esclusivo degli «spiritualisti». Se si critica la religione in quanto oasi chiusa che esclude i cosiddetti non-credenti, la spiritualità a sua volta potrebbe essere intesa come la confederazione di religioni in antitesi a coloro che negano ciò che è spirituale. Sin dai tempi di Confucio si sa che esiste una politica delle parole.


in “Corriere della Sera” del 28 agosto 2010




Per una Chiesa «di strada»

di don Luigi Ciotti

Sono nato in Veneto, a Pieve di Cadore, provincia di Belluno, nelle Dolomiti. La mia famiglia si è trasferita a Torino negli anni Cinquanta. La nostra prima casa fu una delle baracche del cantiere dove lavorava mio papà, uno degli operai impegnati nella costruzione del Politecnico. La fatica del lasciare la propria terra, del trasferirsi in una grande città
Terra Santa, il muro e la culla

Natale 2010: intervista con il Custode padre Pierbattista Pizzaballa, tra l'aumento dei pellegrinaggi e l'incedere difficoltoso dei negoziati tra israeliani e palestinesi

a cura di Daniele Rocchi

La Terra Santa si prepara al Natale lasciandosi dietro un anno particolarmente intenso, in cui luci e ombre, speranze e illusioni, si sono alternate e intrecciate continuamente. Tra queste, il boom dei pellegrinaggi (a fine novembre erano più di tre milioni i visitatori giunti in Israele e sui Luoghi Santi, numero destinato a salire con il Natale), la ripresa dei negoziati diretti tra israeliani e palestinesi infrantisi contro l'espansione degli insediamenti ebraici, la celebrazione del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente e le attese future dei cattolici. Il tutto sullo sfondo delle violenze anticristiane, in particolare in Iraq ed Egitto, che preoccupano non poco Benedetto XVI che, nei suoi discorsi e non ultimo, nel messaggio per la Giornata mondiale della Pace, invoca il rispetto della minoranza cristiana - «nella situazione attuale la più oppressa e tormentata» - e della libertà religiosa, considerata «via per la pace». Alla vigilia del Natale ecco le riflessioni del Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa.

Dopo le tante violenze anticristiane che hanno scandito il 2010 che Natale sarà?

Ci lasciamo alle spalle un anno molto difficile. Ma purtroppo non è una novità. Forse quest'anno, più che nei precedenti, i numeri delle violenze sono stati impietosi ma se ne è anche parlato di più sui canali d'informazione. L'interesse dei media alle violenze anticristiane è stato un dato positivo ed ha riportato l'attenzione di molta parte dell'opinione pubblica su questa grave situazione. La persecuzione, di cui si è parlato anche nel Sinodo per il Medio Oriente, ci dice che la presenza cristiana in questa area è importante, delicata ma fragile e, quindi, esposta. Dobbiamo denunciarlo con forza muovendo i passi necessari perché tutto ciò finisca, e mantenendo viva l'attenzione attraverso i media. Ma la persecuzione ci ricorda anche che dopo 2000 anni non è cambiato molto: i cristiani restano una minoranza, sempre minacciata, ma nonostante tutto presente e ricca di fede.

Due mesi fa la chiusura del Sinodo per il Medio Oriente: un momento unico, storico per le Chiese mediorientali...

La comunità cristiana è ancora in fermento per il Sinodo e per ciò che questa assise ha prodotto in termini di Proposizioni finali. Le attese tra i fedeli sono molto forti. La speranza è che il Sinodo porti un nuovo spirito nella vita delle loro comunità. Per questo auspicano che i pastori, i vescovi, elaborino in maniera pratica le conclusioni emerse. Essi non vogliono far cadere questa opportunità che è stata l'Assemblea speciale dei vescovi. Il Natale sarà anche il momento per ringraziare per il dono del Sinodo e per ripartire a livello pastorale.

Questo Natale poteva essere ricordato come quello della riapertura dei negoziati diretti tra israeliani e palestinesi. Una speranza vana?

La situazione resta intricata. Ci sono tante iniziative, anche di alto livello, come la ripresa dei negoziati tra israeliani e palestinesi, voluti dal presidente Usa Barack Obama. Purtroppo non stanno dando i frutti che tutti auspicavano e non stanno aprendo particolari prospettive almeno nell'immediato futuro. Tuttavia la cosa importante del negoziato è il negoziato stesso che tiene vivo un canale di comunicazione e nell'opinione pubblica la consapevolezza che il dialogare è meglio che restare in silenzio.

Per recarsi a Betlemme, alla Natività, bisogna attraversare il muro di sicurezza israeliano. Potremo mai abituarci a questa realtà?

Difficile rispondere. Forse è meglio lasciare aperta la domanda e non abituarsi alla realtà di molte zone della Terra Santa che vedono il muro e la mangiatoia, l'una accanto all'altra. Betlemme ne è l'esempio più chiaro ed evidente. Nonostante i muri, e una situazione così intricata e difficile, Natale ci dice che l'opera di Dio prevale. Dobbiamo crederci e fidarci. Non saranno certo solo i nostri interventi a cambiare o liberare il mondo. Il Natale ci deve fare aprire gli occhi e la bocca di fronte al momento difficile di adesso, e con sano realismo, mantenere un atteggiamento di fiducia, senza portare rancore. Il primo passo della pace è credere che Dio può cambiare il cuore delle persone. (...)

Saranno state migliori delle attuali le condizioni sociali, culturali, religiose del tempo in cui è nato Gesù?

Credo di no.

Eppure il Figlio di Dio ha preso carne in quel corpo, in quel tempo, in quegli spazi, in quel popolo, in quella religione.

C'è speranza che continui a farlo anche oggi, anche domani!


don Chisciotte

Il nostro tempo per gli altri

di Enzo Bianchi

Arrivano le feste, ma con esse anche una domanda sempre più pertinente: siamo ancora capaci di fare festa? Riusciamo ancora a segnare un tempo come festivo, diverso dal feriale quotidiano? E, se e quando ci riusciamo, di cosa abbiamo bisogno per distinguerlo dalle ormai sempre più numerose occasioni che abbiamo per festeggiare, stimolati come siamo da un mercato che ci vuole sempre pronti a consumare tempo e denaro in beni fuori dall´ordinario? Finiamo per credere che ciò che caratterizza la festa debba essere l´eccesso, la ricchezza, il poter spendere per il superfluo, lo stordirci con lo stra-ordinario. In questo senso il Natale è divenuta la ricorrenza che più di altre mostra la contraddizione in cui ci troviamo e il conseguente paradosso di trovarci in ansia per la festa: siccome ha perso la preziosità che gli derivava del suo essere unica o quasi durante l´anno, ora sembra condannata a distinguersi dalle mille altre feste che ci siamo inventati attraverso un "di più" di tutto: più spese, più regali, più cibi, viaggi più lontani, adunate più affollate... Eppure, il cuore e la mente ci dicono che per noi la vera festa è fatta di altro, di cose che non si pesano in quantità ma in qualità, che non si misurano in estensione ma in profondità: incontri autentici, momenti di condivisione, equilibri di silenzi e parole, tempo offerto all´altro nella gratuità. Se siamo onesti con noi stessi, il regalo più gradito non è quello che ci sorprende di più per la sua stranezza o per il suo prezzo, bensì quello che più è capace di narrarci il sentimento di chi lo porge. Come non ricordare la povertà dei regali negli anni del dopoguerra o, ancora oggi, in tante famiglie in difficoltà economiche? Eppure bastava e basta così poco per far risplendere il dono più umile: era e rimane sufficiente che il gesto che lo offre sappia al contempo porgere il cuore di chi dona, sappia parlare al cuore di chi riceve. A Natale, infatti, non dovremmo sorprendere l´altro con l´ostentazione della ricchezza o della stravaganza, né stordirlo con l´eccesso, bensì stupirlo e confermarlo con l´amore, l´affetto, l´attenzione che non sempre nel quotidiano trovano il tempo e il modo di essere esplicitati. Il piatto più apprezzato a tavola, allora, non sarà quello più esotico o costoso, ma quello che meglio mostra che conosco i gusti di chi mi sta accanto, che so cosa lo rallegra, che cerco solo di dirgli "ti voglio bene". Del resto, il regalo che più rallegra ciascuno di noi, di qualunque età, non è mai l´ultima trovata di cui tutti parlano o l´ennesima novità straordinaria che nel giro di pochi mesi sarà superata, ma quel semplice oggetto che mi fa capire che chi lo ha scelto ha pensato proprio a me, ha saputo interpretare i miei desideri inespressi, mi ha letto nel cuore. Tutte cose, queste, che non si comprano in contanti né con carta di credito, anzi: sovente sono beni poveri, sobri, umili, "feriali", ma che si accendono di novità per la carica di umanità che sappiamo immettervi. E così, a loro volta accendono di semplicità la festa, fanno sentire che quel giorno è diverso, non perché così dice il calendario dei negozi, non perché lo abbiamo ricoperto d´oro, ma perché abbiamo saputo guardare noi stessi, gli altri, la realtà con occhio diverso, con uno sguardo predisposto a scorgere il bene nascosto in chi amiamo, perché abbiamo saputo essere autenticamente noi stessi, desiderosi di amare e di essere amati. Sì, Natale è davvero festa quando l´amore trova spazio e tempo per essere narrato, semplicemente.


in “la Repubblica” del 23 dicembre 2010

Il consumismo offende il senso del Natale.

No a ipocrisie e false promesse di felicità


del card. Carlo Maria Martini

Eminenza sono qui a domandarle una riflessione sul significato del Natale, oggi: che valore ha oggi questa scelta di fronte alle stortura della politica, alla crisi economica, alle violenze quotidiane, fisiche e psicologiche che i giornali rilanciano in un clima di complessiva angoscia. Le chiedo una parola di speranza, per i nostri figli soprattutto.


Paolo Verdi, Roma

Vorrei chiederle un messaggio di speranza per questo Natale, per me e per tutte le persone che, pur frequentando attivamente la Chiesa, si confrontano quotidianamente con la malattia delle persone care che ci vivono accanto (malate seppur giovani!).


Barbara Niccoli, Roma

Ho come una remora a parlare con Lei del Natale, eminenza carissima: sono credente, ho passato una lunga parte della mia vita in chiesa, sono stato anche volontario. Ho vissuto per mia moglie e per i miei figli, che ora ripagano e mi sono a loro volta vicini. La mia esistenza è un esempio di osservanza, anche altalenante, ma assidua: i peccati ci sono stati, come no, così come gli errori, anche grossolani e i momenti di cedimento. Nel complesso però non mi sento una persona malvagia. Il Natale è il momento più autentico in cui mi viene più facile riflettere, insieme alla mia famiglia, sui mali che mi hanno accompagnato e sui mali del mondo. Mi aiuti.


Andrea Filippazzi, Roma

Oggi il Natale ha quasi perduto il suo senso originario. Lo «celebrano» anche uomini di altre religioni. Perfino parecchi non credenti vivono in questo giorno una qualche forma di liturgia profana. Non v'è alcuno che rifiuti per Natale qualche dono o almeno una buona cena. Per questo non parlo volentieri del Natale. Da quando ho conosciuto un po' meglio la Sacra Scrittura, è la Pasqua che mi attrae e mi pone dinnanzi a un preciso programma di vita. Benché il Natale sia una splendida manifestazione della gloria di Dio in Cristo e del suo amore per noi, i discorsi che si fanno a partire dal Natale sanno spesso di buonismo e di speranza a buon mercato. Essi sono un segno di poca lealtà con se stessi e con gli altri. Infatti diciamo delle cose che non sono vere e a cui nessuno crede. Ci auguriamo a vicenda lunga vita, felicità, successo, ci facciamo doni che vogliono dire l'affetto che ci portiamo, ma per lo più sappiamo che non è così. La prima lettera espone bene questo stato di cose. Il Natale fa emergere le storture della politica, la gravissima crisi economica che stiamo attraversando, le violenze quotidiane fisiche e psicologiche. E si potrebbero aggiungere tante altre cose ancora. Molti uomini e donne attendono in questo giorno qualcosa, un evento o magari una persona che li tiri su, che restituisca loro l'ottimismo ingenuo che hanno irrevocabilmente perduto; qualcosa di nuovo e di grande, che potrebbe farli tornare indietro. Ma questa speranza è fallace, perché si basa solo sulle nostre forze e dimentica lo Spirito di Dio, il solo capace di aiutarci in maniera efficace. Dopo i giorni delle feste tutto ritorna più o meno come prima. È come un dirsi reciprocamente «ce la faremo», pur sapendo tutti che non è vero. Per vivere bene il Natale e ricavarne quel conforto che è giusto attendersi da questa festa, è necessario sforzarsi di capire ciò che viene detto nei Vangeli. In essi, soprattutto nel Vangelo secondo Luca, emerge un progetto di uomo che vive il dono di Dio nella meraviglia, nella gratitudine e nel distacco. Questo uomo nuovo può essere o un semplice come i pastori o uno studioso come i Magi. Tutti sono chiamati a partecipare all'esperienza dei pastori a cui fu detto: «Vi annunzio una grande gioia» (Lc 2,10). Chi partecipa di questa gioia, si difenderà da quel pericolo che è il Natale del consumismo, che ci impone di non sfigurare davanti ad amici e parenti con costosi regali. Pur avendo la coscienza che molte famiglie fanno fatica a far quadrare il bilancio del mese, si continua a spendere denaro pubblico e privato nella maniera più folle. Si tratta di una gioia semplice, intima, che può convivere anche con momenti di sofferenza e di strazio. Il bambino Gesù è l'immagine di questa fiducia e abbandono alla Provvidenza. Qui va ricordata la parola di Gesù: «chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,15). Se noi riusciamo ad affidarci alla Provvidenza di Dio, accettiamo ogni cosa con fiducia, perché fa parte del disegno del Padre. Il Natale guarda alla Pasqua e il presepio contiene allusioni alla morte e risurrezione di Gesù. Esse erano presenti nella riflessione dei Padri. Così, ad esempio, il tema del legno della croce veniva ricordato dalla culla di legno in cui giace Gesù. Le pecore offerte dai pastori ricordano l'agnello immolato. Anche la Madre che si curva sul Figlio ci richiama alla pietà di Maria che tiene tra le braccia il Figlio morto. La liturgia ambrosiana si esprime così: «L'Altissimo viene tra i piccoli, si china sui poveri e salva». Dunque, il senso del Natale ci riporta al centro della nostra redenzione e ci procura una gioia che non avrà mai fine. Un simile atteggiamento positivo può convivere anche con grandi dolori e penosi distacchi. So bene che questi sentimenti di dolore sono i segni di grandi ferite, che si riaprono soprattutto in questi giorni. Quando si vede a tavola un posto vuoto, riemerge il mistero del Crocefisso con le sue piaghe. Ci sarebbe ancora da trattare di come il presepio può essere contemplato anche da non credenti e da atei. Io penso che questo fascino derivi dall'atmosfera profondamente umana che in esso si respira. Una umanità che sa guardare anche al lato invisibile della realtà e si compendia nella preghiera «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama» . Buon Natale a tutti!


in “Corriere della Sera” del 23 dicembre 2010


Man mano che leggevo queste parole crescevano in me la sorpresa e la rabbia: come si può vendere l'anima (e altre parti del corpo) a prezzi così bassi (cioè per favorire il neo-liberismo)? E con l'anima si svendono il Natale, il Vangelo e un'intera tradizione di spiritualità ascetica. Ieri Socci andava in questa direzione, oggi Messori ribadisce... evviva il realismo, e Gesù Cristo e il cristianesimo dove vanno?! Forse a fare shopping! Ma non era il diavolo che vestiva Prada?!


Con infinita tristezza, don Chisciotte


Un buon cristiano non si vergogni del consumismo sotto le feste

di Redazione de "Il Giornale"

Lo scrittore Vittorio Messori: "Giusti i richiami alla sobrietà. Ma chi spende aiuta gli altri a mantenere il lavoro"

Pubblichiamo un intervento di Vittorio Messori tratto dal sito "La bussola quotidiana", curato da Andrea Tornielli.

di Vittorio Messori

C'è stato dibattito sul recente «Aperitivo» in cui prospettavo un indubbio problema: come conci­liare le tradizionali esortazioni, sotto Natale, alla sobrietà, all'au­sterità, alla essenzialità, con le esi­genze di quella economia da cui tutti dipendiamo e il cui problema è proprio stimolare la ripresa dei consumi, pena il crac dell'intero Occidente? I consueti appelli con­tro il consumismo non sono un boomerang proprio per i più debo­­li, il cui lavoro dipende dalla circo­lazione del denaro che permette alle aziende di vivere? Non nascondiamocelo: qui, per un cristiano c'è un problema serio che va affrontato, contemperan­do l­a doverosa spiritualità con l'al­trettanto doveroso realismo.

Se sto all'Italia, la sua sola possibi­lità di sopravvivere alla globalizzazione e alla conseguente invasione di manufatti a basso, o bassissimo, costo, è quella di coltivare «l'industria del lusso». Per evitare milioni di disoccupati dobbiamo fare appello alla nostra storia dal Rinascimento in poi e mettere sul mercato merci care ma belle e di grande qualità. Nato a Sassuolo, so che il «distretto della ceramica» (il più grande d'Europa, decine di migliaia di operai, per un terzo immigrati) è sopravvissuto ai prezzi stracciati delle piastrelle asiatiche producendone altre, quattro o cinque volte più care, ma di un gusto inimitabile. Il «distretto del tessile» di Biella contrasta il «pericolo giallo» con tessuti di altissima qualità, che solo i ricchi possono permettersi. Il «distretto dell'oreficeria», a Vicenza e a Valenza, lavora oro e pietre preziose in modo straordinario: e non sono certo cose per il «Quarto Stato». Dove mettere l'alta moda che, da sola, garantisce una notevole fetta delle esportazioni con confezioni di altissima qualità e, dunque, care se non carissime? E le scarpe? E i cosmetici? E le auto di gran lusso, Ferrari, Maserati, Lamborghini? Persino la nostra agricoltura vive inventandosi «nicchie » privilegiate contro l'invasione dei prodotti alimentari di massa che giungono da America e Asia: delicatesse, spesso, da buongustaio raffinato. L'enologia, poi, deve puntare su vini pregiati e su spumanti ancor più preziosi. Si potrebbe continuare, ricordando per esempio

Don Domenico Pezzini è stato riconosciuto colpevole di atti di pedofilia verso un minorenne ed è stato condannato a dieci anni di carcere.

Spero e prego che tutti i soggetti coinvolti nel giudizio abbiano agito in onestà e ricerca del vero e del giusto.

Aggiungo questa considerazione: confido che tutto il bene che anche questo sacerdote ha fatto (studi, scritti spirituali, accompagnamento di gruppi di omosessuali...) non venga svanito e sminuito, offuscato dalla scelta sbagliata per cui sarebbe stato condannato.


don Chisciotte
Buon lavoro

di Massimo Gramellini

Un artigiano veneto di quarant'anni, oppresso dai debiti, irrompe in una tabaccheria di Forte Marghera agitando la pistola. «Dammi i soldi!», intima al proprietario. Ma prima che l'altro possa aprire la cassa, il rapinatore scuote la testa: «Cosa sto facendo?». Esce dal negozio, monta in bicicletta e va a costituirsi al commissariato. Dove giustamente lo arrestano, perché così prevede la legge. Io, stupidamente, lo avrei un po' abbracciato. È che è raro trovare dei galantuomini, ma ancor più raro è trovare degli uomini: gente disposta a non prendere le distanze dai propri errori, persino quando, come in questo caso, sono stati soltanto abbozzati.

Più o meno alla stessa ora, in una scuola di Torino va in scena il classico spettacolo di Natale alla presenza delle famiglie. Ogni bambino sale sul palco ed esprime un desiderio per l'anno nuovo. Il primo dice: «Vorrei essere più bravo coi nonni». Il secondo: «Vorrei un certo videogioco». Il terzo: «Vorrei ci fosse ancora il lavoro per mamma e papà». Nella sala scende il gelo, la realtà è una pasta abrasiva e certe cose non si confessano neanche in tv. Un amico presente alla scena commenta: è un mondo al contrario, quello in cui sono i figli a desiderare un posto per i genitori, ma forse l'unica speranza che resta, a questo mondo, è proprio un bambino che al futuro non chiede un giocattolo ma un lavoro per mamma e papà.




Contro logica e rito dello spreco. Soprattutto nel tempo di Natale

Smettiamo di avanzare

Gente che di campagna e di cose da mangiare se ne intende dice che dal periodo pre-natalizio fino a dopo l'Epifania saranno buttate via cinquecentomila tonnellate di cibo, pari al 25 per cento di tutto quello che compriamo per mangiare nelle festività. Dunque ogni quattro cose che compriamo, una la compriamo senza necessità e senza utilità. Ma facciamo tutti così? Certamente no. C'è anche chi non riesce a comprarsi il necessario. Scrivo le righe che seguono con lo strazio nel cuore, e spero che chi legge capisca che non è per spirito di denigrazione della mia patria ma per amor di verità: eravamo abituati a vedere la gente che rovista nei cassonetti quando andavamo in visita nei paesi dell'Est, compresa la Russia, compresa la sua capitale Mosca; ora ci capita di assistere allo stesso spettacolo in casa nostra. (...)

Nelle nostre città succede che non tutto viene buttato dentro i cassonetti, molti rifiuti vengon lasciati nei dintorni. E c'è gente che di sera, sul tardi, col buio, fruga e raccoglie. Nei cassonetti intorno a ristoranti, bar, pizzerie, negozi di alimentari c'è anche cibo, mangiabilissimo. Più si consuma, più questo cibo buttato e mangiabile cresce. È questo che va a formare adesso, sotto le feste, quelle cinquecentomila tonnellate di spreco previste e descritte da Confederazione italiana agricoltori. Diminuire questo spreco è difficile, perché nel cibo la gente applica un motto che dice: «Se non ne avanza - non ce n'è abbastanza». Vale per il pane, il latte, la pasta, la carne. Sotto le feste vale per tutto: dolci, panettoni, spumante.

Dal dopoguerra s'è impiantato nell'animo degli italiani il bisogno di vedere che a tavola il cibo avanza: questo avanzo dà l'idea che la fame è vinta, la tavola piena di avanzi è felice, la tavola dove non avanza niente è triste. In questo modo si son superati i problemi del mangiar poco, ma son cominciati i problemi del mangiar troppo, e anche questi causano malesseri, malattie, decessi. Il mangiar troppo non risponde a una fame fisica, risponde a una fame psichica, e non è un problema dell'Occidente, ma dello sviluppo: i più spreconi sono gli Stati Uniti, segue la Svezia, ma subito dopo viene la Cina. Domanda: se comprar troppo è irresistibile, invece di buttar via non si potrebbe inventare (ogni quartiere per conto suo) un sistema di raccolta e ri-offerta? Se è festa, non si potrebbe far festa con tutti?


Ferdinando Camon

Tre nemici della verità

di don Remo Vanzetta

Sono arrabbiato. Anzi mi viene il voltastomaco e il giracanali, quando vedo la verità calpestata. Calpestare la verità è negare la realtà. Si confondono le ombre con la realtà (Platone). Principio della salvezza è riconoscere la realtà, anche quella negativa. Ma non accetto che il bianco sia nero e che il nero sia rosa e che gli asini volino. C'è la "verità" che stravolge la realtà, ecco l'inganno; quella che la nega, ecco il silenzio; quella che è costruita a tavolino, al computer, ecco la verità o la realtà virtuale, quella che mi fa arrabbiare di più. Mi rimane ancora un mistero perché tanta gente ci caschi. Non mi è sufficiente la spiegazione antica: "vulgus vult decipi" che significa "la gente vuole essere imbrogliata"; e nemmeno quella attuale: "i è tuti istessi". Ometto l'obiezione di indebita intromissione clericale nella politica. Mi si permetterà almeno di parlare dei comandamenti, dell'ottavo questa volta, che, guarda caso, ha una formulazione da tribunale: "Non dire falsa testimonianza!" (Già allora la verità condizionava la giustizia!). Ciò che mi ha convinto a rompere le esitazioni è stata la testimonianza di Franz Jaegerstaetter, obiettore di coscienza al nazismo fino al martirio. Il suo Vescovo cercò di dissuaderlo: "chi sei tu per stabilire se una guerra è giusta o se un'ideologia è aberrante?". Franz si trovò solo a difendere la propria coscienza, spalleggiato solo dalla moglie. Dopo sessant'anni, anche i vescovi gli hanno dato ragione, dichiarandolo beato. Non è che anche noi, dopo un ventennio, ci svegliamo e troviamo morta la democrazia e sepolta la costituzione e ci chiediamo, come i tedeschi: "Come è potuto accadere?" . Non vorrei che accadesse. E allora parlo. Un certo mormorio serpeggiante mi dice che non sono solo. Il primo nemico della verità e della realtà è l'inganno, detto volgarmente imbroglio. L'ha inventato già il serpente nell'Eden, il tentatore, l'ingannatore, l'illusionista, il trasformista. Il male si veste di bene e il bene viene banalizzato. Basta opporre la furbizia alla legalità, l'interesse al dovere; deviare l'attenzione dal problema principale a quello secondario; chiamare riforme i tagli di bilancio; inaugurare grandi opere e non concludere le piccole opere. Insomma scambiare lucciole per lanterne, i sogni per realtà. Il falso deve apparire vero, il male bene, l'ingiusto giusto, l'onestà è dabbenaggine. Trionfa la libertà e la furbizia: "ognuno la pensi e la faccia come vuole", basta farla franca. Il peccato c'è sempre stato, ma se ne è perduta la vergogna. Basta declassare i reati ed esaltare la furbizia. E così in questi trent'anni sono andati a fondo almeno tre comandamenti: il sesto, il settimo e l'ottavo. E con essi la morale e la giustizia: la bontà è diventata buonismo, la morale moralismo, la giustizia giustizialismo. A proposito di giustizia. Le mani pulite, nel giro di trent'anni, sono diventate mani sporche. Hai mai sentito parlare di garanzie per la parte lesa? Le garanzie e i garantisti sono tutti per l'imputato: tanto la parte lesa se non è morta, non ha voce né in capitolo né in tribunale; l'imputato è un perseguitato e il giudice un persecutore. E gli errori dei giudici? Non si considera che sbagliano più per difetto che per eccesso, basta guardare chi è in prigione. Per riformare la giustizia si prolungano i processi e si abbrevia la prescrizione. Ci salverà solo il coraggio della verità. E se questo coraggio ce l'avranno in tanti. L'arma principale dell'inganno è la pubblicità, che tra l'altro è la principale voce d'entrata per chi ce l'ha. La libertà di stampa è ridotta a libertà di propaganda, sempre per chi ce l'ha. La pubblicità non è più propaganda, ma "consiglio per gli acquisti'. Si sa che il consiglio è un ordine camuffato. Temo che buona parte della politica sia ridotta spesso a pubblicità e compra-vendita e ricatto. Il secondo nemico della verità e della realtà è il silenzio. Forse più devastante ancora dell'inganno. E' il potere delle tenebre. E' il segreto: di stato e istruttorio, industriale e bancario, diplomatico e pontificio... Sull'omertà, sull'indifferenza e sul silenzio prosperano le mafie e i poteri occulti. In tanti, per paura o per complicità, chiudono gli occhi, si turano gli orecchi, si tappano la lingua e siamo al silenzio mafioso. Il rimedio è ancora il coraggio della verità. Ho bisogno di verità perché ho bisogno di libertà. Ho bisogno di coraggio per essere vero, per essere libero. Purtroppo il coraggio uno non se lo può dare. E allora prego lo Spirito di verità che mi conduca alla verità tutta intera. Cerco amici della verità, cerco profeti. Purtroppo sono pochi i preti, ancor più rari i profeti. Prego il Signore, in questo Avvento, che ci mandi qualche profeta a svegliarci dal sonno.


in “Vita trentina” del 19 dicembre 2010

Quando non c'è posto per il povero non c'è posto per Dio

di Maria Cristina Bartolomei

Tira un nuovo, forte vento nel nostro Paese e in Europa. Un vento originato da una tendenza a espellere. Per l'Italia, è un nuovo accento, rispetto alla tendenza che ha caratterizzato gli anni passati, e che si esprimeva in provvedimenti e comportamenti tesi piuttosto a impedire che persone diverse per etnia, cultura e religione si insediassero in modo stabile nel nostro Paese. Ora si arriva a espellere persone avviandole a un destino oscuro, di sevizie e di morte, verso Paesi che impediscono i controlli Onu. Oppure si "sgombrano" anche in pieno inverno insediamenti provvisori di esseri umani, inclusi bambini, talora cittadini italiani, senza offrire alcun tetto alternativo. Non importa dove vanno a finire. In generale, in Europa, le espulsioni stanno ora riguardando in modo specifico e concentrato i Rom. In altri Paesi, si tende a espellere i frontalieri, dopo decenni di pacifica convivenza. Ma questo fenomeno, drammatico ed eclatante, non è un caso isolato. Va compreso come conseguenza di alcuni atteggiamenti di fondo, che spingono anche ad altri comportamenti individuali e sociali e che possono dar origine a fatti sempre più gravi. Il buttar fuori, l'espellere sono indispensabili alla nostra vita fisica (a cominciare dal respiro) e per non farci soffocare dall'accumulo di cose. Queste ultime le buttiamo via non solo perché e quando sono rotte, usurate, inservibili. Ma più in generale: quando non corrispondono più a quel che siamo. Possono essere giocattoli o libri dell'infanzia, abiti passati di moda o non più adatti alla nostra età, taglia o scelte di vita (come s. Francesco si spogliò dei suoi abiti); oggetti di casa che corrispondono a fasi ormai superate o che si vuole allontanare. Quegli oggetti non vengono eliminati solo per motivi pratici, ma anche perché ci restituiscono un'immagine di noi stessi in cui non ci riconosciamo più. Per loro non c'è posto non solo nei nostri armadi, ma prima di tutto dentro di noi. Essi sono, in un certo senso, un attacco alla nostra identità, al «caro vecchio io», come formula il filosofo Kant, al quale siamo sopra ogni altra cosa attaccati. Qualcosa di simile si mostra nell'ondata espulsiva che attraversa l'Europa e il nostro Paese. Improvvisamente, stranieri, forestieri e anche ospiti radicati tra noi sono di troppo. Li si vuole buttar fuori, a cominciare dai più poveri e resi più indifesi dal non aver casa, patria in nessun luogo. Un drammatico contrasto per popoli che si pretendono cristiani, ma non riconoscono d'essere essi per primi «forestieri e ospiti» ( I Pt 1,17) su questa terra che è di Dio (Lev 25,23). Ci sono lingue in cui, per interrogarsi sulla salute, non si chiede: «Che cos'hai», ma: «Che cosa ti manca?». Un importante indizio che il disturbo non è in primo luogo qualcosa che si aggiunge negativamente dall'esterno, ma un sintomo che manca qualcosa all'interno del nostro organismo: difese immunitarie, produzione di sangue, capacità muscolare, ecc. ecc. E allora sorge spontanea la domanda: che cosa manca alla Francia, all'Italia, all'Europa e a ognuno di noi, così che non sappiamo accogliere, contenere, ma pensiamo di essere autorizzati e anzi obbligati per nostra legittima difesa a buttar fuori chi è di troppo tra noi, e che vediamo come nemico, parassita, insidia alla nostra identità (e benessere)? Una domanda che porta con sé la risposta. Ci manca la capacità di entrare in relazione, che è la base, l'ordito e la trama dell'esistere. Non riusciamo neppure a entrare in relazione corretta con il nostro ambiente, che rendiamo sempre più invivibile e pericoloso per noi stessi. Ma le relazioni più strette, basilari, personali e familiari, da cui nasciamo e in cui viviamo, se vissute bene, ci avviano alla relazione con ogni altro in cui ci viene incontro l'Altro per eccellenza, che è al tempo stesso «più interno del mio stesso intimo» (Agostino, Confessioni, III, 6.11). Tutti abbiamo bisogno di rinforzarci in questa capacità. La cosa grave è che oggi la sua mancanza non viene riconosciuta come tale, come una debolezza, fonte di gravissime colpe e drammi. Viene invece esaltata come forza. Forza di identità. Un nuovo, strampalato idolo cui ci prosterniamo, ignorando che l'identità è viva solo se cresce e cambia nelle relazioni, se è capace di variare, di trasformarsi: così diventa sempre di nuovo sé stessa. Altrimenti è una cosa morta. Nel racconto simbolico del Natale, un elemento importante è che «non c'era posto per loro nell'albergo» (Lc 2,7). Nella città per eccellenza - simbolo del tessuto delle strutture, istituzioni e identità umane, della nostra storia, coscienza, politica, religione - non ci sarà posto per Gesù, che sarà crocifisso al di fuori di essa. Quando nell'albergo del nostro cuore e della nostra società non c'è posto per il forestiero e il povero, non c'è posto per Dio. Questa "cifra" significa, anche per chi non crede, che non c'è posto per noi stessi, per la nostra vita autentica.

in “Jesus” n. 12 del dicembre 2010

Natale, simbolo “vertiginoso” per ciascuno

di Umberto Galimberti

Venire alla luce da una grotta, questo evento che il cristianesimo celebra il 25 dicembre, era già noto al mondo orientale e poi greco-romano, che in quella data festeggiava la nascita di Mitra, il Dio indoeuropeo della luce celeste, garante dei giuramenti, custode della verità, avversario della menzogna. Dall'oscurità della terra alla luminosità del cielo. Questo è il simbolo di Mitra e il simbolo di Gesù. Ma probabilmente è il simbolo di ogni uomo che per nascere deve "venire alla luce" da quel "fondo oscuro" che è il ventre della madre, l'antro dove siamo concepiti per una nascita, quella nascita che da sola non basta e che invoca una rinascita per trovare il suo senso. La festa di Mitra e di Gesù ribadisce questa vertigine simbolica dove ciascuno deve diventare antro di se stesso, grotta di generazione, notte buia che ha in vista il nuovo giorno, il dies natalis. I simboli martellano la nostra depressione, non ci lasciano nella serena amicizia che spesso intrecciamo con la rinuncia. I simboli ci costringono a vivere, organizzano feste gioiose per riportarci alla vita, quando la nostra partecipazione all'esistenza non ha più i toni forti dell'entusiasmo, o quelli seducenti della voluttà. I simboli sono una macchina collettiva di vita, a cui interessa solo la vita, la vita di tutti, la vita del gruppo, del genere, dell'umanità. Mitra, amico del Sole, è rappresentato dai bassorilievi come colui che inizia il Sole, inginocchiato davanti a lui, affinché apprenda il proprio corso e lo persegua con regolarità e senza sconvolgimenti. Gesù si congeda dal ciclo e dalla sua regolarità per annunciare un nuovo tempo: nuovi cieli e nuove terre. La storia ha un sussulto e si lacera in prima e dopo Cristo. Nel ciclo ogni epoca non ha una finalità, ma semplicemente una fine. A sancirla è la morte, il giudice implacabile che amministra il ciclo, non nel senso che lo destina a qualcosa, ma nel senso che lo ribadisce come eterno ritorno. Nel ciclo non c'è rimpianto e non c'è attesa. La trama che lo percorre non ha aspettative né pentimenti. La temporalità che esprime è la pura e semplice regolarità del ciclo, dove non c'è futuro che non sia la pura e semplice ripresa del passato che il presente ribadisce. Non c'è nulla da attendere se non ciò che deve ritornare. Questa è la scansione del tempo prima di Cristo. Dopo Cristo si fa strada una parola dirompente che spezza la ciclicità del tempo e la sua regolarità. È una parola che nella direzione dello spazio significa lontano e nella direzione del tempo significa ultimo. Il suo suono è eschaton, la forma superlativa di ek che significa "fuori". L'eschaton è dunque un tempo fuori portata, dove solo alla fine può apparire il Fine di tutto ciò che è accaduto nel tempo, che a questo punto cessa di essere puro divenire per tradursi in storia. Guardare il tempo come storia è possibile solo se già si è ospitati nella prospettiva escatologica, dove il primato del fine sulla fine irradia sul tempo la figura del senso. L'occidente è stato sedotto da questo nuovo modello di temporalità e, in versione cristiana, utopica o rivoluzionala, celebra nel Natale non il ritmo del ritorno, ma l'atmosfera della rinascita, l'entusiasmo di ciò che ancora è in grado di promettere il futuro: la promessa del tempo. Non guardiamo il Natale con occhi innocenti. Non nascondiamoci dietro lo sguardo dei bambini. Nel loro incanto sappiamo che c'è provvisorietà e un po' d'inganno. Una festa può essere così universale solo se raccoglie tutti i temi dell'uomo e non solo semplicità e innocenza.


in “Oreundici” del dicembre 2010

da Orme del sacro, 102-105

Muta ero io

Mi fa paura che non piangi, figlio.

Com'è che non hai pianto, figlio mio,

com'è che non hai pianto?

Non è che non puoi piangere,

non è che non potrai parlare?

Meglio sarebbe, saresti in salvo,

meglio sarebbe se fossi muto,

si dà troppa importanza alle parole

finisce che costringono all'esilio,

alla prigione o peggio
.

Ma no che non sei muto

e nemmeno stupito di star fuori di me.

Ma no che non sei muto

e nemmeno sfiorato dal mondo intorno a te.

Muta ero io davanti all'angelo,

muta ero io,

stupita io davanti all'angelo,

sfiorata io.

Figlio di un vento di parole addosso a me,

invece tu sarai un vaso di frasi.

Mi fa paura che non piangi, figlio.



Erri De Luca, In nome della madre, 79
Eritrea. La tragedia nel deserto del Sinai vista dagli occhi di un missionario

Hanno ucciso la speranza

Sedici anni non sono proprio come un batter di ciglia. Soprattutto quando questo tempo è passato in un altro Paese, l'Eritrea, dove ho vissuto la gioia della liberazione e la sofferenza di una guerra... continua. Un missionario non è un sociologo o un politologo, è semplicemente una persona che vive con la gente, con i giovani e i ragazzi, come sono stato chiamato a fare io, in Asmara. Se i primi anni, dopo il 1993, anno del referendum e della ufficiale “liberazione”, sono stati caratterizzati dalla gioia e dall'entusiasmo, ora si è passati ad una stagione che definirei “senza speranza”. Quello che a noi appare come emergenza, lì è quotidianità. Tuttora non riesco a capire come faccia una famiglia a vivere, senza lavoro, senza reddito, con tanti figli da mantenere. Eppure la disperazione di chi cerca di uccidersi per la povertà è rara; sono casi unici quelli dei ragazzi che abbiamo soccorso e alloggiato da noi perché la mamma, sordomuta, con l'affitto di casa sempre più alto da pagare e un marito senza lavoro e quattro figli da mantenere, ha cercato di togliersi la vita. Ciò che fa più stupore e che spaventa maggiormente è proprio la mancanza di speranza. Ne sono vittime, ad esempio, i giovani che
Lo schiaffo del somaro

di Massimo Gramellini

Noi adulti acculturati disprezziamo la rozzezza ruspante dei cine-panettoni e così a Natale andremo a vedere «La bellezza del somaro» di Sergio Castellitto, il primo cine-panettone progressista, che infatti non si svolge su una spiaggiona esotica ma in un casale toscano. Come il protagonista del film, noi amiamo il dialogo e l'integrazione fin dai tempi di Spencer Tracy, quindi se nostra figlia ci portasse a cena un fidanzatino di colore saremmo ben felici di accoglierlo. E qualora dovessimo scoprire che il suo fidanzatino non è il ragazzo di colore, ma un signore molto-molto anziano, deglutiremmo settecento volte e poi faremmo finta di niente. Perché abbiamo una reputazione da difendere e anche se la vecchiaia ci fa paura, sappiamo esorcizzarla senza bisogno di escort, con una robusta dose di buone letture e ipocrisia.

Noi non siamo più padri e madri, mestieri reazionari, ma fratelli e sorelle maggiori. Proprio come i genitori del film, che chiamano la figlia «cucciola» e le danno sempre ragione, facendola crescere in un ambiente nevrotico che ha abolito i riferimenti, le ringhiere. Siamo bambini invecchiati che hanno perso energia e passione. Siamo visceri e testa, ma poco cuore. Giustamente detestiamo la violenza, quella sui figli in particolare. Eppure, quando dopo un'ora e mezzo di progressismo il nostro avatar Castellitto, in un rigurgito di energia e passione, tira finalmente uno schiaffone a sua figlia... beh, è come quando Fantozzi stronca la Corazzata Potemkin: saltiamo in piedi ad applaudire e ci sentiamo molto meglio: noi, lui, ma soprattutto sua figlia.
Il senso della vita e la storia - La meraviglia di un incontro

di p. Carlo Maria Martini

Tu quis es? Tu chi sei? È una domanda sull' identità di un'altra persona. Chi la pone sul serio, tuttavia, sperimenta in sé gli stessi interrogativi: Tu quis es? Chi pensi di essere? Quale definizione dai di te stesso? Da questa domanda si apre una via all'interiorità. Di fatto, noi vorremmo conoscere a fondo che cosa muove il nostro fratello o sorella ad agire in un certo modo. Questo rifluire della domanda su noi stessi ci coglie soprattutto quando interroghiamo le persone che ci sono care o con cui abbiamo una comunità di vita. Quando poi si tratta di qualcuno da cui dipende la nostra vita e il nostro futuro, questa ricerca può assumere anche un carattere drammatico. La Scrittura è particolarmente conscia di quanto questa domanda ci interpelli e ci mostra, in particolare nei Vangeli, esempi di questo cammino interiore che può anche giungere a una prova, come quella di Giacobbe con l'angelo (Gen 32) o l'agonia di Gesù nell'Orto degli Ulivi (Mc 14,32-42). Questo atteggiamento fondamentale di domanda si pone fin dagli inizi della predicazione di Gesù. Chi viene a contatto con il suo ministero si stupisce di come Egli possieda la forza del dire, connessa con il potere di fare miracoli. Il quarto Vangelo ha nella sua prima pagina la domanda «tu quis es?» posta a Giovanni il Battista. La sua risposta è molto chiara: «Egli confessò e non negò. Confessò: "Io non sono il Cristo". Allora gli chiesero: "Chi sei, dunque? Sei tu Elia?". "Non lo sono" disse. "Sei tu il profeta?". "No" rispose. Gli dissero allora: "Chi sei perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?"» (Gv 1,20-22). Occorreva una grande umiltà per rispondere così. Con questo il Vangelo di Giovanni ci fa comprendere come per conoscere il Cristo sia necessario anzitutto sapere chi non si è, ed essere molto sinceri sulle cose che non abbiamo. I primi che si pongono questa domanda rispetto a Gesù sono i due discepoli dello stesso Giovanni. Secondo il quarto Vangelo, non osano essere espliciti, ma chiedono timidamente: «Maestro, dove abiti?» e Gesù risponde con una proposta: «Venite e vedrete» (Gv 1,39). Dunque, per rispondere alla domanda «tu quis es?» occorre avere la capacità di ascoltare e comprendere il mondo della persona in questione. Natanaele poi viene colpito da grande stupore perché, incontrandolo, Gesù gli dice di averlo visto sotto il fico. A questo stupore Gesù risponde: «Vedrai cose più grandi di queste» (Gv 1,50). I capitoli terzo e quarto di Giovanni ci fanno comprendere che è attraverso dubbi e fatiche che si arriva a conoscere l'altro. Nel terzo Gesù cerca di chiarire le idee a un uomo fondamentalmente buono ma legato da difficoltà e fatiche. Di fronte alla Samaritana Egli afferma: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è che ti dice dammi da bere, tu avresti chiesto a lui e lui ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4,10). La donna, quindi, non è ancora giunta a riconoscere chi gli sta di fronte, ma arriverà alla conoscenza di Gesù evocando la questione messianica e sentendosi rispondere: il Messia «sono io che parlo con te». Nel capitolo quinto Gesù viene rimproverato dai giudei per aver compiuto un miracolo nel giorno di sabato, e le resistenze alla sua missione si fanno via via più forti. Chi vuole conoscere intimamente il mistero di Cristo deve pagare un duro prezzo. Da qui in avanti si ripeteranno queste auto-affermazioni di Gesù con l'uso di termini metaforici. Egli si presenta come luce del mondo che dona la luce della vita. In questi capitoli prevalgono le diatribe di coloro che non sono disposti ad accettare la sua testimonianza. Gesù guarisce il cieco nato e il quarto Vangelo ne trae occasione per esprimere tutte le difficoltà a riconoscere che Gesù sia il Messia. In seguito Egli paragona se stesso alla porta delle pecore e soprattutto al buon pastore. Finalmente Gesù si dichiara come la risurrezione e la vita (Gv 11,10-25). Intanto si sono già formati a proposito della sua persona due schieramenti opposti: quelli che gli credono e valutano positivamente i suoi gesti e, dall'altra parte, quelli che prendono scandalo dalle sue parole e dal suo modo di agire. Si vede di qui che nella formazione del giudizio su una persona vengono fuori molte ragioni emotive ed è quindi necessario un cuore puro. In conclusione, per rispondere al «tu quis es?» bisogna: primo, riconoscere coraggiosamente ciò che io non sono; secondo, incontrare l'altro nel suo ambiente e nella sua storia; terzo, avere il senso dello stupore, ossia la capacità di meravigliarsi che suscita la ricerca; quarto, essere disponibili ad andare oltre il visibile; quinto, accettare insieme anche il reale nelle sue manifestazioni meno appariscenti. Infine, per conoscere un'altra persona bisogna essere disposti a lasciarsi mangiare per dare vita e riceverla. La domanda «tu quis es?» coinvolge tutta la persona ed è una domanda primaria: conoscersi e conoscere significa lasciarsi attraversare e insieme condurre dall'altro.


in “Corriere della Sera” del 7 dicembre 2010




Il senso del traditore

di Ferdinando Camon

Mai come in questi giorni è risuonata, in tv e sui giornali, la parola «tradimento». Pare che molti nostri parlamentari siano traditori: traditore chi è passato adesso da sinistra a destra, chi è passato in precedenza da destra a sinistra, o da destra e sinistra al centro. «Tradimento» è un concetto polivalente. Fatalità, sul più diffuso quotidiano nazionale si leggeva proprio ieri la citazione di un generale tedesco, che alla fine della Seconda guerra mondiale ha dichiarato: «Non so chi vincerà la terza guerra mondiale, ma so chi la perderà: colui che si alleerà con l'Italia, perché l'Italia lo tradirà». Ecco, partirei da questo concetto: l'Italia, nella Seconda guerra mondiale, ha tradito la Germania. Contesto in toto questo giudizio. È un giudizio che va capovolto.

L'Italia è entrata in guerra (sbagliando, perché la guerra, quella guerra e tutte le guerre, sono, come qualcuno aveva pur detto, «un'inutile strage») insieme con un alleato, contro un nemico, per un traguardo. Pochi mesi dopo tutto era cambiato: alleato, nemici, traguardo. L'alleato aveva allargato a dismisura il fronte dei nemici, s'era fatto nemico tutto il mondo, anzi adesso aveva scoperto anche dei nemici interni da eliminare, i nemici di razza. La soluzione finale con la tecnica dello sterminio fu attuata nell'agosto del '40. La guerra era diventata una guerra contro l'umanità. Tra i tedeschi c'erano intellettuali che ragionavano (la Rosa Bianca ne era una piccola espressione) sulla liceità, per un tedesco, di augurarsi la sconfitta della Germania. Pareva loro che questo fosse l'unico modo perché la Germania sopravvivesse. C'era anche Thomas Mann fra questi. Si ponevano il problema di come salvare la Germania, come ridarle il diritto di sedere tra le nazioni civili d'Europa. Traditori o salvatori? In Italia poco dopo si porrà lo stesso problema. La scelta tra Resistenza e Salò era una scelta tra due opposti: chi era fedele all'Italia e chi la tradiva? Benedetto Croce dice che nel corpo della nazione italiana, nato liberale, il fascismo s'era infiltrato come una malattia, e che la fine del fascismo fu la fine di una malattia, diciamo pure una guarigione. Non so se si possa mantenere questa metafora, perché la malattia è sempre non-voluta, arriva come una disgrazia, mentre sul fascismo c'è chi pensa che avesse un vasto consenso popolare. Ma il concetto resta: se il fascismo era una dittatura, continuare a servirlo era una prova di fedeltà? E il distacco dal fascismo era un tradimento? o era un tradimento del male, quindi una fedeltà al bene?

Anche le associazioni criminose chiedono la fedeltà e accusano chi le abbandona di tradimento. Si chiamino mafia, camorra o 'ndrangheta, o siano associazioni terroristiche e si chiamino Brigate Rosse o Prima Linea, si attribuiscono un codice etico per cui chi le abbandona è un traditore, un super-traditore, che merita il titolo di «infame». Ora, uno che entra nella mafia, e fa quel che la mafia gli ordina, sequestra, strangola e seppellisce, comportandosi da uomo d'onore, poi entra in crisi, si pente e collabora con lo Stato, certamente in una fase della vita è un traditore, ma quando? Quando lavora per la mafia o quando lavora per lo Stato? Non c'è dubbio che tradisce quando lavora per la mafia, e quando passa allo Stato smette di tradire. «Infame» è il mafioso, non il collaborante. Non merita fedeltà se non il bene, non c'è fedeltà se non al bene. La fedeltà al male è sempre un tradimento.
Il muro tra politica e Paese

di Mario Calabresi

La politica chiusa nel Palazzo consuma la resa dei conti che aspetta da mesi: grida, si insulta, si conta e poi festeggia. Fuori la città brucia. Le porte del Palazzo vengono sprangate, a separare due mondi che sembrano vivere in galassie lontane anni luce.

Le colonne di fumo, le esplosioni, il clangore degli scontri, i sampietrini che volano, i caschi, le mazze, ci parlano naturalmente del passato, ci fanno pensare agli Anni Settanta, ma non è lì che dobbiamo andare per capire. Meglio guardare a Londra, ai ragazzi che assaltano le banche, che colpiscono l'auto di Carlo e Camilla, alla Grecia dei fuochi in piazza, a tutti i giovani fuori controllo che non hanno più nessun rapporto con i partiti e le loro mediazioni ma puntano allo sfascio, convinti di avere il diritto di sfogare in piazza la rabbia per una vita che si preannuncia precaria.

Le immagini di Roma fanno spavento e raccontano in modo esemplare la distanza tra una politica rinchiusa in se stessa, nei suoi riti più deteriori, e un Paese che sbanda, si incattivisce e non ha più né sogni né una direzione. I ragazzi che giocano alla guerra col casco, la benzina, il passamontagna e i bastoni non rappresentano certo gli italiani, ma la politica dovrebbe saper guardare oltre quei fuochi per vedere una maggioranza silenziosa e sfinita che non è più nemmeno capace di illudersi.

Invece la politica si blinda, si preoccupa di costruirsi una «zona rossa» per stare al sicuro, per lasciare fuori non solo i facinorosi ma tutti gli italiani, e poi dentro litiga, sbraita, eccita gli animi e non sembra in grado di produrre alcuna soluzione.

Il Paese sbanda perché da troppo tempo non è governato, perché nessuno si preoccupa di affrontare e contenere i massimalismi deliranti, di rassicurare chi ha paura del futuro e di bloccare la violenza che sta tornando a emergere. Non possiamo rischiare di perdere un'altra generazione, anche se parliamo di piccole frange, anche se non siamo al terrorismo e alle pistole. Il rumore degli scontri di ieri richiede un sussulto di dignità del governo e imporrebbe un cambio di linguaggio delle opposizioni: non si può salire sui tetti o chiamare "cilena" la polizia italiana senza preoccuparsi di fomentare le piazze. Il 14 dicembre è finalmente passato e Berlusconi è rimasto in sella, vincendo un'altra battaglia della sua guerra totale con Fini. Ma un governo che si salva per tre voti, conquistati nottetempo, ha poco da festeggiare: la sua unica preoccupazione oggi dovrebbe essere quella di riuscire a ritrovare la capacità di ascoltare il Paese e non quella di sopravvivere un giorno in più.
La montagna spopolata salvata dagli immigrati

Quando i primi arrivarono in paese, la notizia fece in un baleno il giro delle case e in molti pensarono “Mamma li turchi”. Come fossero riusciti a trovare la strada per la valle era un mistero per i montanari, che fino a quel momento avevano visto gli immigrati soltanto alla televisione. I primi tempi non furono facili e non mancarono occasioni di scontro con i nuovi venuti. Ora, però, dopo alcuni anni, non sono pochi coloro che pensano che proprio i “turchi” salveranno la comunità dall'estinzione e l'intera valle dallo spopolamento.

Quello dei migranti stranieri che scelgono di stabilirsi in piccoli centri delle Alpi italiane è un fenomeno ancora abbastanza recente, che sociologi e antropologi hanno appena cominciato ad indagare. Di certo rappresentano una piccola minoranza, appena qualche migliaio dei circa 5 milioni di immigrati residenti nel nostro Paese (secondo l'ultimo rapporto Caritas-Migrantes), ma il loro numero sta aumentando anche per effetto della crisi economica, che spinge tante famiglie a lasciare le città, dove il costo della vita è più alto, alla volta di realtà più piccole in periferia, dove i prezzi delle case e della vita in generale sono senz'altro più contenuti.

Un'indagine in profondità sulle comunità immigrate residenti in alcuni comuni montani delle Alpi piemontesi, intitolata appunto “Mamma li turchi” e pubblicata in italiano e occitano, è stata recentemente compiuta da Maurizio Dematteis (...). Naturalmente, la presenza di immigrati extracomunitari non è osservabile soltanto nelle vallate alpine occidentali del Piemonte, ma anche in quelle centrali a nord di Milano (Varesotto, Lecchese, Valtellina e Valchiavenna) e in quelle del Triveneto a nord est, nonchè sull'Appennino tosco-emiliano, dove si è stabilita da qualche anno una comunità bosniaca abbastanza folta, arrivata ai tempi della guerra dei Balcani.

«Quando le prime avanguardie giunsero nei paesi di montagna
«Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono» (Mt 21,34-35).

v. 34: "inviò i suoi servi". Invece di «servo», in greco c'è «schiavo». Lo schiavo è proprietà del suo signore. Schiavi sono i profeti, che appartengono a Dio, come Dio appartiene a loro (cf. Ct 2,16; 6,3; 7,11). Essere l'uno dell'altro per amore, è la vita stessa del Padre e del Figlio, e di chiunque ha il suo Spirito. I profeti vivono il medesimo dramma del loro Signore che li manda. Vedi in particolare Elia, Geremia e il Battista (cf. 16,14). Sono inviati ai fratelli come testimoni, martiri dell'amore che chiama a conversione.

Oltre l'istituzione del tempio e della monarchia, comune a tutti i popoli - il re rappresenta Dio in terra e il tempio gli garantisce la protezione di Dio - in Israele c'è un'anti-istituzione: il profetismo. Il profeta è contro ogni sacralizzazione e assolutizzazione del tempio e della legge, e, a maggior ragione, del re, che dovrebbe rispettarla. Egli è contro la violenza religiosa e politica: richiama alla fraternità, ricordando al re l'osservanza della legge, e agli osservanti della legge l'amore di Dio e del prossimo.

"per prenderne i frutti". Il Signore ha «fame» del frutto della vigna (21,18), come ha «bisogno» dell'asina (21,3). Egli desidera che l'uomo, suo figlio, si realizzi nell'amore e nella libertà di servire, come lui.

v. 35: "presi i suoi servi, ecc". È la sorte dei profeti (cf. 23,29-32): portando la mitezza del Padre, sono preda della violenza dei fratelli. Sono martiri, testimoni insieme del nostro male e del suo amore: sono i giusti, prefigurazione del Giusto, sul quale ricade l'ingiustizia (cf. Sap 2,12-20). Nelle loro ferite si spurga la virulenza della nostra cattiveria (cf. Is 53,1-12); nel loro silenzio si spegne la nostra menzogna. Chi opera il bene - può parere scandaloso - non resta mai impunito!

Noi, invece di ascoltare la voce dei profeti, tagliamo loro la gola.


p. Silvano Fausti, Una comunità legge il vangelo di Matteo, 428

Occidente e Islam: dare spazio all'arte contro i pregiudizi

di Paolo Branca

Le testimonianze dell'influsso che la grande cultura araba e islamica ha avuto in Italia persistono, ma un poco sottotraccia: sparse qua e là in tutto il Paese, spesso non adeguatamente riconosciute e valorizzate. Nel 1993 a Venezia si è tenuta una grande esposizione, composta da pezzi provenienti da tutta Italia, a dimostrazione di come, in particolare in epoca medievale e rinascimentale, i contatti con quel mondo fossero usuali in tutte le corti. In questi mesi a Milano è in mostra una corposa collezione privata kuwaitiana. Il Museo di arte orientale a Torino ha recentemente dedicato un settore all'arte islamica ed esibisce diverse opere di pregio (bronzi, ceramiche, opere calligrafiche), per quanto l'attenzione sia rivolta preminentemente all'Estremo Oriente. Tuttavia nel nostro Paese non abbiamo una singola raccolta di cospicue dimensioni: nulla di seppur lontanamente paragonabile a quelle presenti al Louvre, o al British Museum o al Pergamon Museum di Berlino. Eppure in un'epoca in cui giungono molti immigrati dalle regioni islamiche, costituire momenti culturali che ne rievochino la storia potrebbe essere un importante strumento per promuovere il dialogo. Proprio per favorire la reciproca comprensione tra le tre religioni monoteiste alcuni anni fa è stato costituito un Museo a Bertinoro per iniziativa della diocesi di Forlì, cui ho partecipato per la parte islamica, mentre la parte ebraica è stata curata da Mauro Perani, dell'università di Bologna. È nato come evoluzione dell'idea iniziale, di raccogliere ed esporre gli arredi sacri della diocesi; la scelta è poi ricaduta sul dialogo interreligioso, e si è rivelata vincente: il museo è visitato da migliaia e migliaia di persone ogni anno, soprattutto scolaresche, e ha una forte rilevanza sul piano educativo. Quel museo riflette un dato di fatto che purtroppo tendiamo a dimenticare: tutta l'area mediterranea costituisce un'unica koinè culturale, articolata ma indissolubilmente intrecciata. Le tracce degli antichi scambi sono conservati nelle lingue parlate ed è importante portarli alla coscienza delle persone: si pensi a quanti termini italiani hanno origine araba (algebra, algoritmo, alchimia...) a dimostrazione di un influsso culturale sostanziale... e lo stesso vale anche per i Paesi dell'altra sponda. Per esempio, nella prima sura del Corano si dice: «Guidaci sulla via retta»: chi, tra i tanti che con assiduità la recitano, sa che sirat (via) deriva dal latino strata? E gli straccivendoli egiziani che per le vie del Cairo gridano 'bicchia' sanno di usare un vocabolo appreso dagli italiani che praticavano lì quel mestiere ('robavecchia')? Diversa la situazione nella multietnica società statunitense dove vi sono vari centri culturali rivolti al dialogo, favoriti anche dalla coscienza che quello è un Paese di immigrati. Per esempio l'Arab American Museum di Detroit racconta con dovizia di testimonianze (dalle opere d'arte islamica alla valigia dell'esule) la storia dei lavoratori che affluivano all'industria dell'auto. Questo è importante, perché tra le culture vi sia una integrazione e non una assimilazione della più debole nella più forte, come purtroppo avviene ora qui, dove gli immigrati non sono in grado di trasmettere la loro cultura di origine, semplicemente perché neanche loro la conoscono veramente. Né le moschee sono in grado di sopperire, poiché non ne hanno le energie: al proposito ricordo solo un'esposizione curata da Gabriele Mandel alcuni anni fa nella moschea di Segrate, che rievocava il contributo dei grandipensatori arabi alla cultura universale. È un tipo di iniziativa che andrebbe ripreso: perché con i nuovi immigrati si sviluppi un dialogo basato sulla consapevolezza e il rispetto, e non prono al pregiudizio.


in “Avvenire” del 12 dicembre 2010

Addio alla penna: gli Hemingway in erba scrivono con il cellulare

È nato il sito per comporre e scambiare romanzi, racconti, poesie. Via telefono o computer

Un nuovo sito online di scrittura creativa per giovanissimi aspiranti Hemingway che possono esprimersi usando sia il computer sia il cellulare, collaborando con altri “scrittori” in erba, in uno scambio continuo di feedback letterari. Si chiama Figment.com ed ha debuttato lunedì grazie a due ex giornalisti americani, Jacob Lewis e Dana Goodyear, decisi a dare ai teenager col pallino per la letteratura un microfono con cui poter scrivere racconti, romanzi e poesie.

L'idea dietro al sito viene da molto lontano. O meglio dal Giappone, il primo a lanciare il cosiddetto “romanzo da telefonino cellulare”, un trend che l'America ha scoperto nel 2008. Proprio nel dicembre di quell'anno Dana Goodyear scrisse sul New Yorker un lungo e lettissimo articolo sul “primo genere letterario ad emergere dall'era della telefonia mobile”. Quello creato dalle ragazzine nipponiche che passano tutto il loro tempo a comporre fiction via cellulari. In un'America dove anche l'industria del libro è in crisi, soppiantata dagli ebook, Figment.com ha immediatamente attirato l'attenzione degli editori, sempre più interessati alla fascia di lettori under-19, considerati i veri artefici dietro best-seller quali la serie Twilight di Stephenie Meyer, per non parlare poi del filone romantico-paranormale che ormai imperversa in entrambe le sponde dell'Atlantico. «Contiamo di superare presto un milione di utenti», teorizza Lewis, «e di fornire anche alle case editrici un'occasione unica per promuovere i loro libri ma soprattutto per scoprire i nuovi, grandi talenti letterari di domani».

Alessandra Farkas

Un'Italia meno diseguale, sogno per il Natale che viene

di Giannino Piana

L'Italia è oggi il Paese dell'Ocse con il tasso più alto di disuguaglianza sociale. A partire dai primi anni Novanta del secolo scorso, si è infatti innescato un processo di profondo cambiamento dei rapporti industriali e dei parametri di retribuzione, con la tendenza a premiare i livelli più alti e a penalizzare quelli più bassi. Il fallimento dei regimi comunisti, con la conseguente rivincita di una forma di capitalismo selvaggio dove a contare è soltanto il profitto privato, e la perdita di potere del sindacato non potevano che ripercuotersi negativamente sugli strati più deboli della popolazione, accentuando il divario tra ricchi e poveri. La situazione si è fatta sempre più grave e carica di incognite. La crisi economico-finanziaria che stiamo attraversando, destinata a un ulteriore incremento della disoccupazione - l'ufficio studi della Confidustria, che non può essere accusato di previsioni apocalittiche, ha di recente ipotizzato la perdita nei prossimi mesi di altri 250 mila posti di lavoro - e le misure assunte dal Governo, soprattutto attraverso la Finanziaria di Tremonti, le quali prevedono la decurtazione o il blocco degli stipendi di intere categorie del "pubblico" non certo privilegiate, oltre all'inevitabile innalzamento del costo di alcuni servizi a seguito dei tagli alle Regioni e agli enti locali, lasciano chiaramente intravedere l'acutizzarsi delle disparità, con il pericolo che si alimenti una forte conflittualità sociale, la quale non può che avere pesanti ricadute negative anche sul terreno economico. (...) D'altra parte, a esasperare gli animi e ad alimentare la tensione contribuisce, in misura determinante, il confronto tra le prebende sempre più elevate dei manager privati e pubblici e il conseguente tenore di vita da essi praticato - l'escalation che si è verificata in questi ultimi anni è di proporzioni gigantesche con una esponenzialità geometrica - e la situazione di difficoltà di un numero sempre più esteso di lavoratori dipendenti che non riescono a far fronte con i loro salari alle esigenze della propria famiglia. (...) Le stesse forze politiche e sociali più sensibili non sembrano, d'altronde, reagire in termini adeguati a questa situazione di intollerabile ingiustizia, che non ha peraltro nemmeno contribuito a rendere più competitiva l'economia italiana. La gravità del momento implica che si esca rapidamente da questo stato di pesante sperequazione sociale. Che si riporti al centro della vita collettiva - come vuole la nostra Carta costituzionale - il lavoro e i fondamentali diritti a esso connessi, impegnandosi a creare le premesse per la promozione di una società più giusta e più solidale. È questa, d'altronde, anche la grande lezione che si ricava dal messaggio evangelico. La beatitudine della "povertà", con la quale si apre il discorso della montagna (Mt 5,1-12), è invito a fare propria una forma di sobrietà nell'uso dei beni economici che, oltre a contribuire al miglioramento della qualità della vita personale grazie a un'attenzione privilegiata ai beni immateriali e relazionali, è destinata a produrre una più equa distribuzione della ricchezza. La pace, che il Natale ormai vicino offre a tutti gli «uomini di buona volontà», è anche frutto dell'impegno a creare condizioni di maggiore giustizia sociale. A questo impegno siamo tutti chiamati, credenti e non. Con la certezza che la nascita di un mondo più umano arricchisce la vita di tutti e concorre, per chi crede, a consolidare la presenza nella storia del regno del Signore.


in “Jesus” n. 12 del dicembre 2010

«L'anima di una persona è nascosta nel suo sguardo,

per questo abbiamo paura di farci guardare negli occhi».



Jim Morrison

 




L'amore non si arresta davanti all'impossibile, non si attenua di fronte alle difficoltà. L'amore, se non raggiunge quel che brama, uccide l'amante; e perciò va dove è attratto, non dove dovrebbe. L'amore genera il desiderio, aumenta d'ardore e l'ardore tende al vietato. E che più? L'amore non può trattenersi dal vedere ciò che ama; per questo tutti i santi stimarono ben poco ciò che avevano ottenuto, se non arrivavano a vedere Dio. Perciò l'amore che brama vedere Dio, benché non abbia discrezione, ha tuttavia ardore di pietà. Perciò Mosè arriva a dire: Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, fammi vedere il tuo volto (cfr. Es 33,13). Per questo anche il salmista dice: Mostrami il tuo volto (cfr. Sal 79,4). Gli stessi pagani infatti hanno plasmato gli idoli, per poter vedere con gli occhi, nelle loro stesse aberrazioni, quel che adoravano.


Dai «Discorsi» di san Pietro Crisòlogo, vescovo

(Disc. 147; PL 52, 594-595)

«Ne deriva la necessità di considerare il rapporto effettivo di un pastore con una comunità, come una delle condizioni essenziali che legittimano la sua posizione particolare nella chiesa. Le condizioni formali della validità della sua ordinazione e della legittimità della sua missione hanno senso in quanto informano una certa materia, cioè l'effettiva operosità carismatica del pastore nella comunione della sua chiesa. Il titolo della legittimità della missione condiziona l'esercizio del sacramento validamente ricevuto, perché intende garantirgli un legame di comunione con un'istanza superiore, quella gerarchica. Ma ugualmente gli dovrebbe essere garantito il legame di comunione con l'istanza inferiore, quella comunitaria. Come la mancanza di comunione di un prete con il suo vescovo non invalida il sacramento, così la mancanza di comunione di un pastore con la sua comunità e la dissoluzione di fatto dei suoi rapporti pastorali non cancellano in lui il carattere ricevuto con l'imposizione delle mani. Però, come il primo titolo di legittimità condiziona la sua posizione nella chiesa, così anche il secondo la dovrebbe condizionare. Un pastore di chiesa non può essere imposto perennemente ad una comunità, anche se di fatto non vuole o non riesce a stare in essa come principio della sua comunione, semplicemente perché è stato validamente ordinato e perché di quel compito, che non attua, è stato legittimamente investito».


Severino Dianich, Teologia del ministero ordinato. Una interpretazione ecclesiologica, 281

A misura di bambino

di Lietta Tornabuoni

Eduardo De Filippo diceva: «Mi rimbambinisco continuamente». Allora era uno scherzo. Adesso sembra una realtà: tutto risulta a misura di bambino. Il Natale non poi così imminente c'entra, si capisce. La pubblicità si colma di fuochi artificiali, bambini buoni che cantano buone cose, neve, albero (presepio, mai), panettoni intaccati da morso infantile, pandori coccolati da imprenditore demente.

Alle televisioni (prima rete Rai, prima serata) fanno «Cenerentola» o «Biancaneve» di Disney; per settimane e settimane vecchie canzoni d'amore vengono cantate da bambini sorvegliati da tata Clerici; si esibiscono cose da mangiare, soprannominate «eccellenze italiane» anche quando si tratta d'un pomodoro o d'un bicchiere di vino, pigne o noci dorate e argentate «low cost» per ornare l'albero o la tavola. In politica, Berlusconi annuncia, come se il Paese fosse di sua proprietà e come se non esistessero leggi né Parlamento ma soltanto monarchie ereditarie o l'imperatore folle delle favole: «Quando deciderò sceglierò io il mio successore». Al cinema escono film melensi, brutta comicità, cartoni animati, avventure e giochi elettronici, tutto ciò che tiene lontano chi abbia più di tredici anni. Si allineano i dolci: non torte golose e lussuose ma caramelle, merendine, torroncini, cioccolatini, cosette così.

Si capisce che Natale è una festa d'infanzia. Prima domanda: perché il comune adulto deve sentirvisi un intruso? Seconda domanda: perché dare inizio ai festeggiamenti con tale anticipo che il 18 dicembre già non se ne può più, stremati come siamo dai preparativi? Terza domanda: perché il nostro mondo dove ne succedono d'ogni genere, dove le fiabe nere per adulti raccontate ogni giorno da tutte le televisioni sono quelle di Yara e di Sarah, deve fingersi puerile, sagomato a misura di bambino? Quarta domanda: si potrebbe farla finita?
Quando medito la Bibbia non riesco mai a liberarmi dal suo schema fondamentale anche perché sento che è lo stesso schema attraverso il quale è passata e passa la mia vita. L'Egitto come luogo della schiavitù, l'esodo della liberazione attraverso il deserto, l'entrata nella terra promessa e la sua successiva conquista, la costituzione del regno in Gerusalemme, le nuove infedeltà a JHWH e la conseguente punizione con l'esilio a Babilonia, il ritorno del piccolo resto di Israele e l'inizio dei tempi nuovi con la venuta di Cristo.

E se la Chiesa, che è il nuovo Israele, non fosse sullo stesso cammino? Non percorresse le stesse tappe nella sua storia?

Forse che non ha vissuto il suo esodo ed il suo deserto?

Forse che non ha conquistato la nuova Gerusalemme: Roma?

Forse che non ha compiuto, a volte, gli stessi peccati di eccessiva sicurezza in se stessa, di ricerca di potenza, di oblio dei poveri, e della rude vita missionaria?

Forse che, pur in buona fede, non si è adagiata nella valutazione eccessiva del visibile, dello sfarzo?

Può darsi.

E potrebbe anche darsi che sia giunto il momento del nuovo esodo, come dice Osea: «Laggiù in Egitto tornerai, Israele» (11,5).

Non so.

Per intanto sicurezza e splendore vengono meno e neppure occorre parlare di deportazione in Babilonia dato che è la stessa Babilonia che si è trasferita nelle nostre città cristiane.

Noi cristiani d'ora innanzi dovremo considerarci non ancora nella terra definitiva, deportati idealmente nella Babilonia moderna, ridotti a piccole minoranze ma testimoni dell'Invisibile, non più padroni ma ospiti tra le genti, e recando con noi un messaggio che ha il potere di salvare tutti ed una speranza che è la sola speranza.


fr. Carlo Carretto, Ogni giorno, 7 gennaio

La cultura occidentale, pur divenendo mondiale, si è talmente estenuata, talmente isolata dalle profondità che non può più esser la forza che illuminerà questa grande esplosione di vita. Oggi essa oscilla tra la quintessenza speculativa e il caos e solo un cristianesimo rinnovato potrà aprire le vie della bellezza. La bellezza è un nome divino, forse il più dimenticato e, sulla creazione, l'impronta del Bene-amato: «Ponimi come un suggello sul tuo cuore, sul tuo braccio, perché l'amore è forte come la morte... Le grandi acque non potranno spegnerlo né i fiumi sommergerlo» (Ct 3,6).

Se vi è una parola che ritorna spesso nella bibbia per evocare Dio, essa è propria quella di «gloria» - kàbód - non è un'immagine, ma quel grande irraggiare in cui si diffonde la vita stessa di Dio. Non esiste nulla salvo l'uomo, che non renda spontaneamente gloria, attraverso il suo essere, il suo ordine, la sua bellezza: del Padre, attraverso il Verbo, nello Spirito, di cui si potrebbe dire che è lo Spirito della Bellezza. Dio è il «Padre delle luci»: nella sua radice è luce su ogni cosa. Il Verbo costituisce il «limite» che fa sorgere dall'inafferrabile «materia» l'ordine del sensibile. Lo Spirito Santo, «donatore di vita», fa maturare ogni cosa.

Prima bellezza, paradisiaca, è quella dell'origine, dell'arkhê riflessa ancora dalle cose, il volto di un bimbo, lo splendore vitale degli esseri giovani. Ma l'uomo ha interrotto la circolazione della gloria, occultato l'essere eucaristico della creazione. La luce ci è divenuta estranea, le cose hanno ormai un aspetto di tenebra e di orrore, gli elementi massacrano gli innocenti. Scopriamo sempre più, attraverso tanti aspetti dell'arte contemporanea, che «abbiamo il potere di scatenare le immagini più atroci, i mostri ossessivi della carneficina e della fornicazione» (Pierre Emmanuel, Le monde est interieur). Mostri di magica bellezza perché, per riprendere un'osservazione dell'Areopagita, fanno della stessa sete dell'assoluto la forza tirannica del male. L'uomo si rivela come rischio di Dio e cancrena dell'essere in queste immagini che in definitiva spargono solo la «tristezza per la morte».

Seconda bellezza, è la nostalgia violenta dell'angelo decaduto, a sinistra del Cristo su un mosaico di Ravenna. Ecco perché la bellezza di cui dobbiamo testimoniare, che ritrova l'innocenza della prima, ma attraverso l'inevitabile prova della seconda, può essere solo quella della croce, inseparabilmente croce di sangue e croce di luce. La Pasqua inaugura «il vangelo della gloria del Cristo, che è l'immagine di Dio». La gloria irraggia ormai da un volto «reso perfetto dalla sofferenza». Una preghiera della funzione bizantina implora: «Cristo, luce vera che illumini e santifichi ogni uomo che viene al mondo, fai che la luce del tuo volto sia per noi un segno, affinché in essa ci sia dato di vedere l'inaccessibile luce».

La bellezza del Figlio, dice san Cirillo, si è «maturata nel tempo» perché noi si possa essere «condotti per mano verso la bellezza di colui che la genera» (PG, LXVIII, 1034). È la bellezza maturata nel tempo dell'incarnazione e della passione, bellezza di un viso insanguinato e resuscitato, vincitore della morte, ma attraverso la morte stessa. È la bellezza di colui che è sceso volontariamente nell'inferno, in modo che in lui il «colmo dell'umiliazione» si identifichi al colmo dell'amore. Bellezza segreta, che solo la libertà personale dell'amore può decifrare. Attraverso le lacrime del «rovesciamento della coscienza», l'Uomo di dolore, privo di bellezza secondo questo mondo, si rivela come il trasfigurato. La croce pasquale, in cui la ricerca negativa è sommersa dall'affermazione dell'amore, ci apre «la fiamma delle cose», l'icona del volto. Il cristianesimo è la religione dei volti e solo il volto di Dio nell'uomo ci permette di decifrare il volto di ogni uomo di Dio, di decifrare, nella comunione dei santi, l'enigma dei volti che circondano l'uomo contemporaneo.

Oggi, la testimonianza del Cristo nello Spirito non può più fare a meno di questa terza bellezza. Né la bellezza di Dio senza l'uomo, è un fuoco divorante, e Mosè, per aver intravisto Dio «di spalle» doveva coprire il suo volto; né la bellezza può fare a meno dell'uomo senza Dio, questa via negativa che si rinchiude su se stessa, trasforma la mancanza di conoscenza in assenza e l'istinto assoluto in appetito di distruzione; ma la bellezza di Emanuele-Dio con noi, e dello Spirito Santo-noi con Dio.


Olivier Clément, Riflessioni sull'uomo, 124-126

Dal «Trattato sulla penitenza»

di sant'Ambrogio

Possa tu degnarti, Signore, di venire a questa mia tomba, di lavarmi con le tue lacrime, poiché nei miei occhi inariditi non ne ho tante da poter lavare le mie colpe! Se piangerai per me, sarò salvo. Se sarò degno delle tue lacrime, cancellerò il fetore di tutti i miei peccati. Se sarò degno che tu pianga qualche istante per me, mi chiamerai dalla tomba di questo corpo e dirai: «Vieni fuori» perché i miei pensieri non restino nello spazio ristretto (Gv 11,43) di questo corpo, ma escano incontro a Cristo e vivano alla luce, perché non pensi alle opere delle tenebre, ma alle opere della luce. Chi pensa al peccato, cerca di chiudersi nella propria coscienza.

Chiama dunque fuori il tuo servo. Quantunque, stretto nei vincoli dei miei peccati, io abbia avvinti i piedi legate le mani e sia ormai sepolto nei miei pensieri e nelle «opere morte» (Eb 9, 14), alla tua chiamata uscirò libero e diventerò «uno dei commensali» (Gv 12,2) nel tuo convito. E la tua casa si riempirà di prezioso profumo, se custodirai quello che ti sei degnato di redimere. Si dirà infatti: «Ecco quello che non è stato allevato in grembo alla Chiesa, non è stato domato fin da ragazzo, ma è stato trascinato a forza dai tribunali, strappato dalle vanità di questo mondo; quello che, abituato un tempo alla voce del banditore, si è avvezzato al cantico del salmista, rimane nell'episcopato non per suo merito, ma per grazia di Cristo e siede tra i convitati della mensa celeste!».

Conserva, Signore, la tua grazia, custodisci il dono che mi hai fatto nonostante le mie repulse. Io sapevo infatti che non ero degno d'essere chiamato vescovo, perché mi ero dato a questo mondo. Ma per la tua grazia sono ciò che sono, e sono senz'altro l'infimo tra tutti i vescovi e il meno meritevole (cfr. 1 Cor 15,9-10); tuttavia, siccome anch'io ho affrontato qualche fatica per la tua santa Chiesa, proteggine il risultato.

Non permettere che si perda, ora che è vescovo, colui che, quand'era perduto, hai chiamato all'episcopato, e concedimi anzitutto di essere capace di condividere con intima partecipazione il dolore dei peccatori. Questa infatti, è la virtù più alta, perché sta scritto: «E non ti rallegrerai  sui figli di Giuda nel giorno della loro rovina e non farai grandi discorsi nel giorno della loro tribolazione » (Abd 12).

Anzi, ogni volta che si tratta del peccato di uno che è caduto, concedimi di provarne compassione e di non rimbrottarlo altezzosamente, ma di gemere e piangere, così che mentre piango su un altro, io pianga su me stesso.
«Siamo ridotti in catene». L'ultimo urlo degli eritrei

Il rumore arriva sordo alla cornetta del telefono. «Senti le catene? Ci hanno legato, come gli schiavi». La voce della ragazza eritrea, sequestrata in mezzo al deserto insieme ad altri 250 africani di varie nazionalità, arriva da uno dei due accampamenti scelti dai trafficanti di uomini per nascondere la loro vergogna: centinaia di uomini e donne africane, provenienti anche dall'Etiopia, dal Sudan e dalla Somalia, sono da settimane nelle mani di una banda senza scrupoli.

Sognavano di arrivare in Occidente, invece sono in una delle tanti prigioni improvvisate nascoste intorno al Sinai. Sei di loro sono stati uccisi all'inizio di questa settimana, molti vengono torturati quotidianamente e sono in condizioni drammatiche. «Ora devo lasciarti, ricordati di mandare i soldi», è la frase più ricorrente che usano per troncare qualsiasi conversazione e "rassicurare" i loro aguzzini. Dall'altra parte del telefono, ci sono famiglie, soprattutto svizzere e svedesi, a cui viene chiesto un contributo economico. «Fai in fretta, altrimenti mi tolgono un rene». Sono i soldi del riscatto, l'unica cosa che interessa ai trafficanti di uomini del ventunesimo secolo: scovare chi, tra questa povera gente, ha parenti in Europa e con loro alzare la posta della liberazione. In Libia era di 2mila dollari mentre adesso, sulle alture del Sinai, il prezzo della libertà vale quattro volte tanto.

«Hanno fiutato l'affare

"Chi sogna di giorno conosce molte cose

che sfuggono a chi sogna solo di notte".



Edgar Allan Poe
Meglio clienti che parenti

di Marco Belpoliti

Ho compiuto gli anni. Indovinate chi ha mi ha fatto gli auguri per primo? Mia moglie? Le miei figlie? I miei amici? I parenti? No. La mia banca, il concessionario dell'automobile e il sito straniero dove compro libri. Una e-mail trovata al mattino, appena aperto il computer, che era già lì dalla mezzanotte, e poi due sms, appena riacceso il cellulare, hanno celebrato il mio genetliaco.

Essere clienti è più forte che essere parenti? Probabilmente sì. Oggi sono in tanti a possedere i miei dati anagrafici: il mio datore di lavoro, i committenti, il commercialista, il fisco; ma anche i fornitori degli apparecchi che uso, dal contattore elettrico a quello del gas, dal telefono al provider di internet; poi: il Comune, l'Asl, il medico di base, la farmacia (tutti dotati di computer); e tutti quelli che mi fanno fatture per il loro lavoro; e ancora: le varie assicurazioni che ho dovuto sottoscrivere. Inoltre, possiedono anche i miei dati tutti i siti che chiedono un'iscrizione per fare acquisti, gli stessi che possiedono un mare d'informazioni su di me: gusti, viaggi, preferenze, passioni, bizzarrie, amicizie, parentele, ecc. (e probabilmente le hanno già vendute varie volte). Da qualche tempo, mi sono accorto che, per quanto faccia una vita mondana assai limitata, per il solo fatto che appartengo a un'istituzione pubblica - l'università -, che partecipo a convegni e presentazioni di libri, si possono seguire le mie mosse sul web: sapere dove sono e cosa faccio in un determinato giorno. Per non dire poi del mio gestore telefonico, del telefono cellulare, che sa sempre dove mi trovo.

Sono perfettamente identificabile. Per cui gli auguri via e-mail e sms dei miei fornitori sono solo la punta dell'iceberg della vita sotto verifica che noi tutti conduciamo. Un filosofo, Giorgio Agamben, ci ricorda in Che cos'è un dispositivo? (Nottetempo) che viviamo sotto il controllo di «dispositivi». Le società contemporanee si presentono sotto forma di corpi attraversati da enormi processi di desogettivazione; ovvero, processi che tolgono ai soggetti la loro forma e identità peculiare, li spersonalizzano; diventiamo sigle e numeri. Per questo il potere nelle sue varie forme - politica, sociale, economica, militare, poliziesca, ecc. - ha sempre più bisogno di identificarci. Di sapere chi siamo e cosa stiamo facendo. In tanti ci fanno, e ci faranno, sempre più gli auguri. Ci controllano anche con felici ricorrenze.




Le fatiche del timido Geremia

di mons. Gianfranco Ravasi

L'anno prima della sua morte, avvenuta nel 1994, ricevetti a sorpresa una sua lettera attraverso la sua traduttrice italiana: Jan Dobraczynski, uno dei più popolari scrittori polacchi (...) Io mi ero accostato a lui da liceale, quando mi erano state regalate le sue Lettere di Nicodemo, pubblicate dalla Morcelliana nel 1959, forse la sua opera più nota, la cui tesi teologica centrale era in queste righe: «Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi, per toccare il fondo, come ci gettiamo nell'acqua, certi che essa si aprirà sotto di noi. Non ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima credere per poterle capire?». Credere per comprendere, dunque, e non viceversa. Quando egli mi scriveva nel 1993, l'astro di questo scrittore cattolico - che aveva combattuto nella famosa insurrezione di Varsavia ed era stato relegato nei lager nazisti e che poi aveva girato per l'Europa, conoscendo Papini, Ungaretti, Mauriac e Cesbron - si era di molto appannato agli occhi del mondo ecclesiale polacco. Egli, infatti, più per spirito di pacificazione che per ragioni politiche, aveva deciso di aderire al movimento cattolico-progressista Pax in dialogo col regime comunista, divenendo anche deputato della Dieta polacca. Questo gli aveva alienato le simpatie della Chiesa. Tuttavia, Dobraczynski non aveva cessato di scrivere sino alla fine della vita, nonostante una grave affezione oftalmica (...). Ora, l'editore italiano che in passato ha tradotto non poche sue opere, ripropone un altro dei suoi romanzi biblici più significativi, pubblicato nel 1948 col titolo originario un po' enfatico Wybrancy Gwiazd, ossia "prescelti dalle stelle", mentre la prima versione italiana (Sei, Torino 1961) aveva optato per il più immediato L'uomo di Anathoth. Sì, perché protagonista è il profeta Geremia, nato appunto in un villaggio a sei chilometri a nord-est di Gerusalemme, Anatot. Là «nell'armo decimoterzo del re Giosia», cioè nel 626 a.C., questo giovane impacciato e timido era stato chiamato da Dio a essere il suo portavoce, ossia il suo profeta, proprio in una delle fasi più tragiche della storia d'Israele, quella che sarebbe approdata al crollo della nazione, alla distruzione di Gerusalemme e del suo tempio e all'avvio degli Ebrei verso l'esilio «lungo i fiumi di Babilonia». Quel giovane inesperto, provinciale, sentimentale, patriottico sarebbe stato scaraventato nel groviglio degli intrighi politici degli ultimi re di Giuda, sarebbe stato arrestato e sbeffeggiato, avrebbe assistito alla tragedia nazionale e alla fine sarebbe stato costretto all'esilio in Egitto contro la sua stessa volontà, nella più totale solitudine umana (Dio gli aveva imposto un celibato dal significato emblematico) e nello stesso silenzio di Dio. Di tutta questa vicenda, piena di colpi di scena, rimane la testimonianza nel libro che reca il suo nome, il libro più lungo dell'Antico Testamento (...), ma anche il j più complesso nella sua redazione, dato che - accanto alla voce diretta dello stesso profeta coi suoi oracoli - si hanno tante presenze indirette, come quella del suo fedele segretario Baruk. Si comprende, così, la ragione per cui questo personaggio dall'esistenza drammatica (si legga, ad esempio, il terribile passo del cap. 20 in cui maledice il giorno della sua stessa nascita) abbia affascinato non pochi scrittori e naturalmente anche Dobraczynski che lo colloca al centro di quello scontro planetario che allora era in corso tra le due superpotenze, Babilonia e l'Egitto, avente come linea di frontiera e area-cuscinetto proprio la terra di Israele che non si rassegnava a essere una semplice pedina, scatenando così reazioni e ritorsioni. Davanti ai due imperatori si erge allora proprio lui, l'ex-ragazzo timido di Anatot, che riesce a fermare per ben due volte il decreto di eliminazione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor, re di Babilonia, ma che non è in grado di tenere a bada i suoi connazionali, un popolo ribelle, ostinato superbo, quel regno di Giuda che precipiterà verso il baratro preannunciato dal profeta inascoltato. Scriveva il romanziere polacco nella nota introduttiva a questo ritratto libero ma potente di Geremia: «Ho voluto far rivivere la figura di un uomo che, schiacciato da una missione superiore alle sue forze, la portò fedelmente a termine in mezzo a un'umanità sorda e cieca al suo immenso dolore». Lo scrittore s'era preoccupato di documentarsi storicamente ed esegeticamente sia pure nei limiti della sua preparazione, sulla scia, ad esempio, dell'infaticabile Thomas Mann col suo Giuseppe l'egiziano, che però alla fine si rivela più indipendente dalla matrice biblica originaria. Il risultato ottenuto dallo scrittore polacco è coinvolgente e il percorso di lettura è attraente fino all'ultima scena grandiosa, ove l'uomo di Anatot si leva davanti all'«interminabile colonna di deportati, carichi sulle spalle del triste fardello dell'esiliato, che si trascinano attraverso il deserto... con un lamento che sale verso il cielo pieno di nubi indifferenti: l'eterno pianto del dolore umano» (...).


in “Il Sole 24 Ore” del 18 luglio 2010

Gli italiani non sanno più sognare

di Massimo Gramellini

Sulla relazione annuale del Censis aleggia lo spirito di Jung. Giusto così: questa crisi non è materia per economisti, ma per psicanalisti. L'Italia, sostiene il sempre immaginifico De Rita, affonda perché non sa più desiderare. In realtà molti di noi hanno ancora dei sogni. Quello che manca è l'ossigeno per raccontarli, persino a se stessi. A forza di scattare a vuoto, la molla si è inceppata. Il futuro non è un'opportunità e nemmeno una minaccia.

Semplicemente non esiste. Il futuro è la rata mensile del mutuo o il bilancio trimestrale dell'imprenditore: nessuno ha la forza di guardare più in là e si vive in un presente perenne e sfocato, attanagliati dallo sgomento di non farcela. Sulle macerie della guerra, l'inconscio dei nonni riusciva a progettare cattedrali di benessere: quegli uomini avevano visto abbastanza da vicino la morte per immaginare la vita. Sulle macerie morali del turbo-consumismo, la cui crescita dopata ha ucciso i desideri (di fronte a tremila corsi di laurea o tremila canali televisivi l'impulso è di spegnere tutto), l'inconscio dei nipoti sembra paralizzato da un eccesso apparente di libertà e dall'assenza di punti di riferimento. Anche la delega al leader salvifico, di qualsiasi colore, ha fatto il suo tempo.

Bisogna cavarsela da soli e siamo diventati troppo egoisti per ricordarci come si fa. Orfani di padre, cioè dell'autorità che trae origine dall'autorevolezza e consente ai figli di avventurarsi in territori inesplorati, sapendo di poter contare all'occorrenza su una robusta ringhiera. E con una classe dirigente specializzata nel dare cattivo esempio, priva del titolo morale per imporre regole che è la prima a non rispettare. Come si evince da quanto detto fin qui, la fotografia del Censis è decisamente beneaugurante. Almeno per chi è convinto che non ci si possa aspettare il riscatto sociale da teorie economiche e ideologie politiche, ma solo dall'urgenza di tante rivoluzioni individuali che riescano a connettersi fra loro, creando una vera comunità. Darsi una disciplina esistenziale, fissare dei traguardi e poi mettersi in marcia senza vittimismi, perché i «se» sono la patente dei falliti, mentre nella vita si diventa grandi «nonostante». E che Jung ce la mandi buona.



«Il n'y a pas de plus grande joie

que de connaître quelqu'un qui voit le même monde que nous.

C'est comme apprendre que l'on n'était pas fou».




«Non c'è gioia più grande

che conoscere qualcuno che vede lo stesso mondo che vediamo noi.

E' come capire che non siamo pazzi».


Christian Bobin, La dame blanche, 108

Vi resterà il profumo dei miei tigli

Colloquio con Enzo Bianchi a cura di Elena Loewenthal

ELENA LOEWENTHAL. «Ogni cosa alla sua stagione è un titolo forte, pregnante. Non porta il verbo avere che nell'ebraico della Bibbia non esiste
L'antropologo: entrare in conflitto con il loro narcisismo li porta a emarginarsi

I ragazzi e la paura di non piacere. Se la bruttezza diventa malattia

Adolescenti in crisi: «Oggi le amicizie dipendono dall'aspetto»

«C'è uno specie di orco dentro di me che sa sempre cosa vuole e non è mai contento, è insaziabile...». Filippo, 17 anni, soffre di dismorfofobia: «È la paura di essere brutto, di esporsi allo sguardo degli altri come se ci si trovasse sempre in un tribunale», spiega l'antropologo Marino Niola. È la malattia generata dalla società dei consumi e dell'immagine. «Chi non ha la fortuna di nascere bello o almeno di sentirsi in pace con il proprio narcisismo, ha il diritto/dovere di fare qualcosa per migliorarsi» continua lo studioso. «Una volta si chiamava costruzione di sé ed era un lungo, faticoso processo di crescita personale. Oggi si chiama più materialisticamente "ricostruzione". E i sacerdoti di questa transustanziazione del corpo in immagine sono i chirurghi estetici». Lo dicono i dati della Società italiana di chirurgia plastica, ricostruttiva ed estetica: in Italia c'è un intervento ogni due minuti circa (297mila nel 2009). «Ci si rifà il seno, poi i glutei, alla ricerca di una perfettibilità che diventa l'obiettivo», dice la psicologa Anna Salvo, alla quale Filippo si è rivolto per curare la sua anima malata di inadeguatezza. «Mettere sotto processo il proprio corpo e avere paura di essere sgradevoli, non accettati, è tipico dell'adolescenza, si tratta del rapporto profondo tra sé e il proprio corpo - prosegue - Ma l'imperativo di bellezza che si è imposto nella nostra cultura lo rende più complesso. Il dovere categorico di essere belli tende a trasferire tutto sul piano reale "... e allora userò tutti i mezzi a mia disposizione per cercare di somigliare a quell'immagine ideale con cui la società mi martella"».

Gli adolescenti sono più esposti alla malattia della bruttezza, ma in una società colpita dalla sindrome da adolescenza protratta, la dismorfofobia si diffonde, tanto da far lanciare al chirurgo plastico Roy De Vita l'invettiva contro i mascheroni: «Mi fa impressione vedere certe donne rifatte che sembrano sorelle. Mi fa senso l'omologazione dei labbroni a canotto e gli zigomi in cui quasi si legge la marca delle protesi, come quelli di Nina Senicar». Nina incarna la bellezza contemporanea, all'ora di cena appare in uno spot. «La bellezza è sintonizzata sui modelli esaltati dalla tv, una bomba che gasa il cervello - osserva Oliviero Toscani -. Belli per l'immaginario collettivo sono i Corona, le veline. Chiunque non sia omologato a quei canoni si sente tagliato fuori dall'amore degli altri ed escluso dal successo, sempre più identificabile con l'idea astratta di bellezza. Non solo sei brutto, sei sfigato». «Sfigato» è il marchio indelebile che relega l'orco all'emarginazione. «Il brutto in volto ma simpatico si salva. Il grasso no. Se poi sei grasso e sotto il metro e settanta, e pure vestito male, non hai speranza», conferma Marco Virtuani, 17enne studente al liceo Carducci di Milano. «Si creano i gruppi in base all'aspetto fisico!», aggiunge Pietro Rebosio, 17 anni, liceo scientifico Cremona, t-shirt aderente che esalta i bicipiti costruiti con 10 ore di palestra e 2 ore di corsa a settimana. «Si parla tanto di discriminazione dei gay ma loro sono ammirati e spesso corteggiati anche dalle ragazze per l'aspetto curato, così come i ragazzi dalla pelle nera, preferiti a noi soprattutto se con tartaruga in vista», continua Marco. «Io da adolescente potevo essere brutto, oggi non si può essere brutti senza scompensi, perché la cultura decide la modalità di socializzazione - ha detto in più occasioni il filosofo Umberto Galimberti -. I modelli culturali di bellezza determinano la possibilità che abbiamo di comunicare in termini di accettazione o rifiuto».

«Per inseguire l'ideale di bellezza si fanno di tutto - prosegue Toscani -: piercing, tatuaggi, naso, seni, con madri consenzienti perché vogliono farli diventare quello che a loro non è riuscito. È il dilemma della generazione John Lennon: ha inventato il giovanilismo e ucciso la vecchiaia. Le femministe potevano esprimersi nella loro bruttezza. Oggi no. Si vive in uno stato di paura di non essere accettati e questa ricerca del consenso anche estetico porta dritti alla mediocrità». Il corpo è diventato il nuovo status symbol scrive l'Herald Tribune, che etichetta questo scorcio di secolo come la mass-medicalizzazione della bellezza. «Ma questo è già un corpo alienato, guardato come altro da sé - conclude Galimberti -. Ci porta a credere che la bellezza esteriore sia più importante del carattere. Siamo indotti a percepirci con gli occhi degli altri». Simili a prodotti di consumo.


Maria Teresa Veneziani

Roma guardi e agisca. Respinga l'ingiustizia

Fermatela

Li stanno uccidendo a tre a tre, con l'inesorabile ferocia di chi non considera uomo un uomo d'Eritrea. Accade di là dal mare, in un deserto d'Egitto. E tocca a eritrei che vengono dalla Libia, e questo non sfida solo la nostra umanità, ma anche quel che resta della nostra memoria storica d'italiani. L'Italia, però, non guarda e non agisce. Non guarda la nostra tv, che pure sa essere spasmodicamente curiosa e attenta di morte. Non guarda, o guarda poco, il mondo dei giornali. Non guardano i grandi della politica europea, anche quando
Ci vorrebbero molti buoni preti, non per predicare (li accoglierebbero come nei villaggi bretoni accoglierebbero dei turchi che andassero a predicare Maometto, e anche peggio), ma per prendere contatto, farsi amare, ispirare stima, fiducia, amicizia, rendere possibile un avvicinamento, dissodare la terra prima di seminare.



L'amore consiste non nel sentire che si ama, ma nel voler amare; quando si vuol amare, si ama; quando si vuol amare sopra ogni cosa, si ama sopra ogni cosa. Se accade che si soccomba a una tentazione, è perché l'amore è troppo debole, non perché esso non c'è: bisogna piangere, come san Pietro, pentirsi, come san Pietro, umiliarsi, come lui, ma sempre come lui dire tre volte: «Io ti amo, io ti amo, tu sai che malgrado le mie debolezze e i miei peccati io ti amo». L'amore che Gesù ha per noi, egli ce l'ha dimostrato abbastanza perché noi possiamo crederci senza sentirlo; sentire che noi l'amiamo e ch'egli ci ama, sarebbe il paradiso; il paradiso, salvo rari momenti e rare eccezioni, non è per quaggiù. Narriamoci spesso la duplice storia delle grazie che Dio ci ha fatto personalmente dopo la nostra nascita, e delle nostre infedeltà; vi troveremo - soprattutto noi che abbiamo vissuto per molto tempo lontani da Dio - le prove più sicure e più commoventi del suo amore per noi, come anche, purtroppo, le prove sì numerose della nostra miseria. C'è motivo per immergerci in una fiducia senza limiti del suo amore (egli ci ama perché è buono, non perché noi siamo buoni, le madri non amano forse i loro figli traviati?) e motivo per sprofondarci nell'umiltà e nella diffidenza verso di noi.


beato Charles De Foucauld, dal deserto algerino

«L'altra sera, al bar, ho incocciato il giovane viceparroco. Eravamo tra amici e lui non ha potuto sottrarsi. A un certo punto, però, si è defilato con un pretesto: "È tardi, scusate, ma bisogna che vada perché devo ancora mettere a punto l'omelia per domani" (lui non si sognerebbe mai di dire "predica", cosa d'altri tempi, e nemmeno "sermone", che puzzerebbe di protestantesimo: lui dice "omelia" con il tono di uno che sale in cattedra perché ha i titoli e comincia a rifilarci una lezione che sa tanto di diligente compito scolastico ricavato dai suoi "maestri di riferimento").

Gli ho proposto: "Se vuole, Le possiamo dare una mano noi, reverendo..." (gli do sempre del reverendo perché so che non gradisce, i giovani gli dicono semplicemente "don", oppure lo indicano come "il don", e a me pare di sentire il suono chioccio di una campana fessa; e poi lo interpello con il "Lei", per sottolineare la distanza; col parroco invece uso il "Lei" confidenziale, non so se mi spiego; mia moglie dice che sono un mostro di perfidia...).

Ho insistito: "Si sieda qui, per favore, e cominciamo subito..."

Ha tagliato corto: "Lei ha sempre voglia di scherzare anche sulle cose importanti..." (si difende immancabilmente così tutte le volte che si ritrova spiazzato dalle mie richieste). Non riesce a capire che io ho l'abitudine di scherzare solo quando ho delle cose piuttosto serie da dire. Diversamente, non mi permetterei. In realtà, non scherzavo affatto. Da tempo, infatti, sostengo - ahimè inutilmente - che la predica domenicale dovrebbe essere preparata con l'apporto decisivo dei laici (donne comprese, naturalmente). Il prete consulti pure i suoi volumi di esegesi e i commentari di tutti i calibri (so che ce ne sono parecchi in circolazione). La Parola di Dio va trattata con tutti i riguardi e chiarita a dovere, "inserita nel suo contesto" (come lui usa precisare). Lo riconosco: ci sono "problemi di linguaggio che non si possono eludere" (altra sua espressione caratteristica). Tuttavia anche noi abbiamo la nostra da dire, col linguaggio della vita pratica. Potremmo offrirgli spunti preziosi, suggerimenti, sottoporgli problemi concreti da affrontare, per evitare che la lezione teorica passi sulle nostre teste senza nemmeno sfiorarci».


Alessandro Pronzato, La predica prova della fede, 28-29