L'arte dimenticata di scrivere a mano

di Simona Marchetti - 25 giugno 2012

In tempi di tastiere e touchscreen, carta, penna e calamaio stanno diventando sempre più «old fashion», al punto che un adulto può passare in media anche 41 giorni senza scrivere qualcosa a mano. Un valore già di per sé impressionante, ma che per una persona su tre schizza addirittura a oltre sei mesi, se il messaggio in questione si intende scritto in una forma comprensibile al mondo. Già, perché per i due terzi dei 2mila partecipanti alla ricerca commissionata dal servizio di stampa online «Docmail», la scrittura a penna è spesso «solo per i loro occhi», nel senso che quegli scarabocchi non li capisce quasi nessuno a parte loro.

Non a caso, uno su sette ammette di vergognarsi dei messaggi scritti di proprio pugno, mentre quattro su dieci confessano di usare regolarmente dei programmi di scrittura intuitiva per l'ortografia e uno su quattro di ricorrere alle abbreviazioni, modello messaggini. Insomma, è finita la moda dei post-it appicciati ovunque per ricordarsi di fare qualcosa (del resto, c'è un'app anche per questo) o dei messaggi lasciati sul tavolo della cucina prima di andare al lavoro, magari per dire qualcosa di carino al partner: ora basta un sms e il gioco è fatto, con il risultato di rendere le future generazioni sempre più completamente dipendenti dalle tastiere.

Un pericolo di cui molti insegnanti sono già consapevoli, visto che sempre più spesso lamentano l'incapacità degli alunni di usare una penna o un pastello nel modo corretto, e che trova conferma anche nella stessa ricerca, con un intervistato su sei che ha definito “inutile” insegnare a scrivere ai bambini delle scuole. «E' davvero un peccato che la scrittura a mano sia così in declino




Il non expedit di don Milani

di Sandro Lagomarsini

Quarantacinque anni fa, il 15 febbraio 1966, don Lorenzo Milani veniva assolto dal Tribunale di Roma dall'accusa di apologia di reato. Al processo ero presente anch'io e la sentenza parve a me, come a molti altri, una pietra miliare nel rinnovamento civile e religioso dell'Italia. I documenti nati attorno alla vicenda processuale

Il dialogo con il cuore resiste al tempo

di Carlo Maria Martini

Desidero iniziare quest'ultima pagina della rubrica, affidatami ormai qualche anno fa, ringraziando tutti coloro che mi hanno scritto in questi anni. Ho ricevuto migliaia di lettere di affetto, di gratitudine, di stimolo, di critica.

Chiedo perdono a quelli a cui non sono riuscito a rispondere e a quelli che pur avendo ricevuto un cenno di riscontro lo hanno ritenuto poco o per nulla esaustivo.

Ringrazio il direttore del Corriere che mi ha concesso un lungo tempo di dialogo nonostante l'affievolirsi della voce.

Ringrazio pure tutti i suoi collaboratori.

Un grazie di cuore anche ai miei successori sulla Cattedra di Ambrogio per la pazienza dimostrata, nonostante il mio intervento mensile.

Ora viene il tempo in cui l'età e la malattia mi danno un chiaro segnale che è il momento di ritirarsi maggiormente dalle cose della terra per prepararsi al prossimo avvento del Regno.

Assicuro della mia preghiera per tutte le domande rimaste inevase. Possa essere Gesù a rispondere ai quesiti più profondi del cuore di ciascuno.

in “Corriere della Sera” del 24 giugno 2012



"Senza lo Spirito Santo

Dio è lontano,

il Cristo resta nel passato,

il Vangelo è lettera morta,

la Chiesa una semplice organizzazione,

l'autorità una dominazione.

la missione una propaganda,

il culto un'evocazione

e l'agire cristiano una morale da schiavi.

Ma in Lui:

il cosmo si solleva e geme nelle doglie del Regno,

il Cristo risuscitato è presente,

il Vangelo è potenza di vita,

la Chiesa significa comunione trinitaria,

l'autorità è servizio liberatore,

la missione è Pentecoste,

la liturgia è memoriale e anticipazione,

l'agire umano è deificato".

dal discorso del Metropolita Ignatios di Latakia

pronunciato al Consiglio Ecumenico delle Chiese,

a Uppsala nel 1968

Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell'Occidente è che perdono la salute per fare i soldi, e poi perdono i soldi per recuperare la salute.

Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere né il presente, né il futuro.

Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto.

Dalai Lama

Il coraggio di non tradire

Parlare e tacere due verbi per dire volontà e necessità di comunicare e, insieme, di essere attenti e discreti. Difficile resta distinguere quando occorre l'uno e quando l'altro. Talvolta costa parlare, altra tacere; può essere aggressivo sfogo parlare, vigliaccheria tacere; come può essere necessario il coraggio per parlare e una interiore forza per tacere. Per chi cerca di misurarsi con l'evangelo, quella resta la pietra di paragone per orientare il proprio comportamento e valutare quello altrui.

La ponderazione, la verifica delle conseguenze prevedibili di un'affermazione, l'attenzione agli ambiti in cui dire e al linguaggio da tenere non possono sempre indurre a rinviare o a soprassedere: sono tempi in cui negli ambienti cosiddetti cattolici troppo spesso si evita di parlare. Addirittura si teorizza che è meglio tacere per evitare polemiche, per non scontentare, non creare dissenso, non dispiacere a chi sta sopra. Non correre rischi di perdere privilegi o occasioni di carriera. Si dice che la chiesa sia una comunità e forse è un'utopia, ma almeno dovrebbe avere una dimensione comunitaria: e qualunque dimensione comunitaria è impossibile ove manchino dialogo e confronti franchi, che non devono significare conflitti, né, tantomeno, comportare lacerazioni.

L'invito del Gallo, ripetuto ogni mese dalla nostra testata, è proprio a un'allerta costante e al coraggio di non tradire. Non possiamo teorizzare di appartenere a un popolo sacerdotale, come chi frequenta la messa ripete ogni domenica, e tacere fingendo di credere che nella chiesa solo alcuni dirigenti abbiano diritto di parola e di rappresentare l'intero popolo in cammino nello spirito del Cristo. Non ignoriamo i rischi, compreso quello del fraintendimento e dell'emarginazione, ma il canto del gallo non può lasciarci indifferenti. Sempre naturalmente valutando le circostanze, pensando a lungo, motivando con rigore.

E con prudente discernimento dobbiamo riconoscere le ambiguità di chi pretende di parlare con autorità religiosa, di dare indirizzi canonici e non profetici, di chi intende dare ordini e non suggerimenti alle coscienze, imporre dottrine e non chinarsi alle sofferenze. Dobbiamo riconoscere i compromessi di chi per ragioni secolari e non evangeliche non denuncia la corruzione del potere, ma, compiaciuto e compiacente, siede al tavolo dei suoi esponenti per creare un consenso richiesto incambio di privilegi.

Si dovranno trovare le modalità e i canali più idonei, si dovrà scegliere dove il dissenso si esprime dicendo e dove tacendo, ma non è evangelico chiamarsi fuori quando il profeta chedenuncia la corruzione di Erode viene messo a tacere con la complicità dell'autorità religiosa che sta con il sovrano e non con il profeta.

Oggi profeti ne conosciamo pochi, la stessa parola fa scuotere il capo: corrotti e malavitosi ne conosciamo purtroppo molti e ne subiamo danni quotidiani in questo nostro paese portato ai margini della legalità fra applausi irresponsabili e indifferenze complici. Ma anche di voci oneste e corrette, uomini e donne, dentro e fuori la chiesa istituzionale, impegnati a ricostruire una civile decenza per fortuna ne conosciamo tutti: questi dobbiamo imparare a sostenere, fra questi vorremmo collocarci e con loro collaborare, questi vorremmo che ci fossero indicati dalle eminenze del magistero che con sconcerto vediamo invece banchettare con il potere cercando di nasconderne la corruzione e di garantirne la permanenza.

Editoriale in “Il Gallo” n° 2 del febbraio 2011

L'obbedienza - male interpretata - da tempo ormai può anche non essere una virtù.

don Chisciotte




Se il panino non è più globale

Alfredo Somoza per Esteri (Popolare Network) - 21 giugno 2012   



In tempi di crisi economica globale, mentre molti Stati cominciano ad arroccarsi e a ricreare barriere protezionistiche, e molti migranti tornano nei Paesi di origine, anche per il panino globale pare sia suonato l'allarme. La catena di fast food McDonald's, società-simbolo della globalizzazione alimentare, ha imboccato la strada della regionalizzazione dei suoi menu.



In Italia e in Francia si erano già percepite le avvisaglie di quella che ormai è diventata una politica aziendale: i panini con lo speck dell'Alto Adige o gli hamburger con il camembert  erano già stati introdotti nel menu da un paio d'anni per arricchire l'offerta, insieme alle verdure e alle insalate per rendere il pasto più sano. La spiegazione ufficiale di questi cambiamenti fa riferimento alla volontà di rispondere all'atteggiamento negativo di una fetta crescente di mercato, che rimprovera la multinazionale  di omogeneizzare i gusti e imporre i suoi hamburger in stile americano a spese delle tradizioni gastronomiche locali e della salute dei clienti. Ma questa versione non dice tutto.



La costruzione del brand McDonald's, come quella di tanti altri marchi multinazionali, si è basata, più che sulla qualità del prodotto, sul messaggio che questo trasmetteva: mangia globale, diventa globale. Un concetto vincente soprattutto nel decennio dorato della globalizzazione, gli anni '90, quando tutto il mondo era convinto che l'apertura dell'economia mondiale fosse la risposta alla povertà, all'oppressione, al provincialismo. Scarpe firmate, vestiti firmati, cibi firmati, uguali e riconoscibili in qualsiasi Paese del pianeta, che contenevano anche un messaggio di grande fede nell'avvenire.



Poi, piano piano, si è cominciato a capire che cosa c'era dietro la promessa delle multinazionali. Siamo già nel nuovo secolo e si comincia a parlare di delocalizzazione, precariato, sfruttamento minorile, distruzione ambientale. Oggi, a distanza di 4 anni dall'inizio di una crisi economica che sta mettendo in discussione la natura stessa del capitalismo, i marchi globali, i consumi globali, non sono più un must da esibire, ma stanno scivolando velocemente, nell'immaginario collettivo, verso la categoria della paccottiglia.



Così com'era liberatorio per i giovani di Mosca, Pechino o Milano mangiare un hamburger sotto gli archi dorati del re dei fast food, oggi lo diventa il ritorno ai tacos messicani, alla pizza o al kebab. Alimenti poveri che raccontano però storie nelle quali la gente può continuare a identificarsi. Cibo che è cultura e non solo nutrimento. Cultura perché il cibo è frutto di millenni di sperimentazioni, di incroci, di trasformazioni, di storie familiari e collettive. Un cibo senza cultura, o anzi, appartenente a una cultura ben precisa che però si è voluta vendere come universale, non poteva che essere effimero, legato a un determinato momento politico e a una moda.



Le catene di fast food questo lo sanno e oggi, in nome della regionalizzazione dell'offerta, fanno marcia indietro, proponendo ingredienti che renderanno il loro cibo molto meno globale e molto più locale. Un cibo con cultura appunto, la fine della fiaba che raccontava che l'hamburger era sinonimo di libertà, il ritorno alla valorizzazione del territorio e dei suoi prodotti. Nel clima di negatività nel quale oggi siamo immersi, sicuramente una notizia positiva.

Insegnerai a volare, ma non voleranno il tuo volo.

Insegnerai a sognare, ma non sogneranno il tuo sogno.

Insegnerai a vivere ma non vivranno la tua vita.

Ma in ogni volo, in ogni sogno e in ogni vita,

rimarrà per sempre l'impronta dell'insegnamento ricevuto.

Madre Teresa di Calcutta

Innanzitutto [Gesù] il dottore della pace e maestro dell'unità non volle che la preghiera fosse esclusivamente individuale e privata, cioè egoistica, come quando uno prega soltanto per sé.

Non diciamo «Padre mio, che sei nei cieli», né: «Dammi oggi il mio pane», né ciascuno chiede che sia rimesso soltanto il suo debito, o implora per sé solo di non essere indotto in tentazione o di essere liberato dal male.

Per noi la preghiera è pubblica e universale, «quando preghiamo, non imploriamo per uno solo, ma per tutto il popolo, poiché tutto il popolo forma una cosa sola.

Il Dio della pace e maestro della concordia, che ha insegnato l'unità, volle che ciascuno pregasse per tutti, così come egli portò tutti nella persona di uno solo.

Dal trattato «Sul Padre nostro» di san Cipriano, vescovo e martire

(8-9; CSEL 3, 271-272)

Ritrovare la capacità di vergognarsi contro il cinismo del «così fan tutti».

Gabriella Turnaturi ripropone il «buon uso» di un sentimento quasi scomparso di fronte al dilagare del narcisismo generalizzato

di Maria Laura Rodotà

Prendi in mano Vergogna di Gabriella Turnaturi, edito da Feltrinelli, sottotitolo Metamorfosi di un'emozione. E pensi pigramente: «Perché mai dovrei leggermi un saggio? Sulla vergogna contemporanea c'è già tutto in un recente romanzetto». In Che la festa cominci di Niccolò Ammaniti, in cui si spiega che in Italia non c'è più da vergognarsi: c'è stato «lo sdoganamento della figura di merda». Poi cominci a leggere, e a pensare che motivi e momenti di vergogna si evolvono di continuo. Che proprio dalla vergogna si può ripartire. Che la battuta di Ammaniti è citata per analizzare i modi in cui episodi in altri tempi vergognosissimi possono diventare «sprazzi di splendore mediatico». In ogni caso, «perdere la faccia implica una perdita momentanea e parziale, un incidente di percorso». Ma i tempi stanno di nuovo cambiando, e della vergogna si può fare «buon uso». Con un certo sforzo, va da sé.



Turnaturi è una sociologa di lungo corso, docente a Bologna, con esperienze anglosassoni e occhio vigile-polemico sulla nostra società (il suo penultimo libro è Signore e signori d'Italia, una storia delle buone maniere). Stavolta viaggia nella progressiva deregulation del concetto di vergogna. Deregolata come l'economia, de-moralizzata come la politica, balcanizzata come la società in cui viviamo; che imita l'arte della spettacolarizzazione mediatica, televisiva, internettara. Analizza la vergogna attraverso tesi di sociologi, figuracce di leader, personaggi di romanzi, elucubrazioni di psicanalisti (certi excursus psicanalitici si possono saltare). Dedica molte pagine al catalizzatore della vergogna italiana degli ultimi anni, Silvio Berlusconi. Visto come un «grande prestigiatore della vergogna», che reagisce a ogni accusa invitando gli accusatori a vergognarsi; più che un'anomalia.



È casomai anomalo il comune sentire italiano. Quel «così fan tutti» (abusi edilizi, evasione fiscale, corruzione diffusa, familismo amorale) che «sottrae qualsiasi azione alla possibile riprovazione e mette in mora la vergogna». O meglio, la trasforma in «vergogna rimbalzata»: che «s'invoca su quelli che non assumono il “così fan tutti” come regola, che intralciano gli affari e le autorealizzazioni». E così «la vergogna ricade su quelli che oggi con disprezzo sono chiamati “i moralisti” e “gli scocciatori”». Di recente, gli scocciatori (più che i moralisti) sono in grande spolvero. Ma il loro agire non è ispirato a un'idea di vergogna vecchio stile. Perché «le attuali metamorfosi della vergogna si sviluppano in un contesto di narcisismo di massa, in cui l'altro esiste solo come e quando voglio io».



Fanno così i Beppe Grillo e i ragazzi di Maria De Filippi. E lo facciamo noi quando parliamo al cellulare di cose personalissime in treno o al bar. Non ci vergogniamo più per comportamenti che infrangono regole sociali ormai debolissime. Sostiene Turnaturi: «La vergogna è un'emozione che prevede il comune, l'essere con. Ma che cosa ne è della vergogna nell'epoca dell'individualismo atomizzato che s'impone sulla comunità?». Continua a esistere, con altre cause: magari diventa «la vergogna di poter diventare un consumatore debole», causa perdita del lavoro e/o della capacità di acquisto. Turnaturi segnala «il nesso contemporaneo fra vergogna e depressione

La parola incompresa

di mons. Gianfranco Ravasi

La critica a un'informazione spesso approssimativa, superficiale, prevenuta e fin ostile per ragioni di principio, non deve quindi esimere la comunità ecclesiale da una ferma autocritica nei confronti dei propri limiti. Le evidenti incomprensioni che allignano nella società non devono produrre un rassegnato vittimismo e neppure un'altezzosa noncuranza del fenomeno. Anche se l'odierna esasperazione della comunicazione, la sua accelerazione ed estensione costituiscono una novità, nella sua sostanza, un fenomeno costante che risale alle origini stesse della cristianità. Quella che appare ai nostri occhi come la primavera della Chiesa (e che per molti versi lo era) fu una stagione tutt'altro che idilliaca, sottoposta a gelate, a tempeste, a devastazioni. E questo non solo a livello di vita ecclesiale: emblematiche sono le divisioni accese che frantumavano la Chiesa di Corinto, fieramente denunciate da san Paolo (1 Corinzi 1, 10-16).

La crisi si manifestava anche a livello di comunicazione, e l'apostolo lo conferma a più riprese puntando l'indice contro una serie di deviazioni dottrinali e morali che si ramificavano attraverso l'oralità, il medium allora dominante, «turbando e sovvertendo» (Galati 1, 7), «provocando divisioni e ostacoli contro l'insegnamento appreso» (Romani 16, 17), «incantando gli stolti» cristiani della Galazia (Galati 3, 1). Il fascino della stravaganza e dell'eccesso attirava già allora, al punto che san Paolo polemizza con alcune comunità cristiane nelle quali «ci si circonda di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole» (2 Timoteo 4, 34).

Anzi, la forza «performativa», cioè efficacemente incisiva, della comunicazione

La campagna dei Leoni:«Rispettare le regole»

L'iniziativa di un comitato civico - Adesivi gialli sui finestrini: «Guardatemi! Ho parcheggiato dove mi pareva, alla faccia vostra!»

I manifesti-adesivi sono appiccicati alle auto in divieto di sosta. Il testo è una (provocatoria) ammissione di colpa: «Guardatemi! Ho parcheggiato dove mi pareva, alla faccia vostra!». L'adesivo, va precisato, è plastificato e fatto in modo tale da potersi staccare facilmente, ma quando l'automobilista lo rimuove trova un secondo messaggio sul retro, che lo rimprovera per la sua maleducazione. La campagna di censura stradale e di sensibilizzazione al rispetto delle regole è stata lanciata da un gruppo di trentenni riuniti sotto la sigla «Lambs or lions», cioè «agnelli o leoni». Questo giovane comitato civico (www.lambsorlions.it, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., da qualche giorno, ruggisce: «Perché tutto cambi, i primi a cambiare dobbiamo essere noi stessi. Basta a chi non rispetta le regole. Basta a chi insegue i propri interessi e sacrifica quelli della comunità». Primo obiettivo: gli automobilisti milanesi indisciplinati.


Ci sono certi sguardi di donna che l'uomo amante non scambierebbe con l'intero possesso del corpo di lei.

Gabriele D'Annunzio



La festa della comunità cristiana



 


tratto da Jean Vanier, La comunità luogo del perdono e della festa, Jaca Book 1979, pp. 214 e 224


 


     La festa è come un segno di quell'aldilà che è il cielo. È il simbolo di quello a cui l'umanità aspira: un'esperienza di comu­nione.


     La festa esprime e rende presente in modo tangibile la finalità della comunità. È quindi un elemento essenziale della vita comuni­taria. Nella festa, le irritazioni nate dal quotidiano sono spazzate via: si dimenticano i piccoli litigi. L'aspetto estatico (l'estasi è «uscire da se stessi») della festa unifica i cuori; una corrente di vita passa. È un momento di meraviglia in cui la gioia del corpo e dei sensi è legata alla gioia dello spirito. È il momento più umano e anche il più divino della vita comunitaria. La liturgia della festa, armonizzando la musica, la danza, i canti con la luce, i frutti e i fiori della terra, è un momento in cui si comunica con Dio e fra di noi attraverso la pre­ghiera, l'azione di grazie, ma anche attraverso il buon cibo. Il pasto della festa è importante.


     E più il quotidiano è duro, fastidioso, e più i cuori hanno bisogno di questi momenti di celebrazione e di meraviglia. Hanno bisogno di questi tempi in cui tutti si riuniscono, rendono grazie, cantano, bal­lano, e in cui ci sono pasti speciali. Ogni comunità, come ogni popolo, ha la sua liturgia della festa.


 


     La festa è nutrimento, rinnovamento. Essa rende presente sim­bolicamente la finalità della comunità, e come tale stimola la speranza e dà una forza nuova per riprendere con più amore la vita quotidiana. La festa è un segno della resurrezione che ci dà la forza di portare la croce di ogni giorno. C'è un intimo legame fra la celebrazione e la croce. (





Francesco Guccini, Parole

album: Parnassius Guccinii (1994)



Parole, son parole, e quante mai ne ho adoperate

e quante ancora lette e poi sentite,

a raffica, trasmesse, a mano tesa, sussurrate,

sputate, a tanti giri, riverite,

adatte alla mattina, messe in abito da sera,

all' osteria citabili o a Cortina e o a Marghera.



Con gioia di parole ci riempiamo le mascelle

e in aria le facciamo rimbalzare

e se le cento usate sono in fondo sempre quelle

non è importante poi comunicare,

è come l' uomo solo che fischietta dal terrore

e vuole nel silenzio udire un suono, far rumore.



Mio caro amore, si è un po' come commessi viaggiatori

con campionari di parole e umori a ritmi di trecento e più al minuto;

amore muto, beati i letterari marinai, così sul taciturno e cerca guai,

così inventati e pieni di coraggio...



Io non son quei marinai, parole in rima ne ho già dette

e tante, strano, ma ne faccio dire

nostalgiche, incazzate, quanto basta maledette,

ironiche quel tanto per servire

a grattarsi un po' la rogna, soffocati dal collare

adatto per i cani o per la gogna del giullare.



Poi andare sopra un palco per compenso o l' emozione:

chi non ha mai sognato di provare?

Sia chi ha capito tutto e tutto sa per professione

ed ha un orgasmo a scrivere o a fischiare,

sia quelli che ti adorano fedeli, senza intoppi,

coi santi non si scherza, abbasso il Milan, viva Coppi!



Amore sappi, beato chi ha le musiche importanti,

le orchestre, luci e viole sviolinanti, non queste mie di fil di ferro e spago;

amore vago, mi tocca coi miei due giri costanti

fare il make-up a metonimie erranti: che gaffe proprio all'età della ragione...



E sì son tanti gli anni, ma se guardo ancora pochi,

Voltaire non ci ha insegnato ancora niente,

è questo quel periodo in cui i ruggiti si fan fiochi

oppure si ruggisce veramente

ed io del topo sovrastrutturale me ne frego;

chi sia Voltaire, mi dite? Va beh, dopo ve lo spiego.



E se pensate questi i vaniloqui di un anziano,

lo ammetto, ma mettiamoci d' accordo

conosco gente pìa, gente che sa guardar lontano

e alla maturità dicon sia sordo

perchè i rincoglioniti d' ogni parte odian parecchio

la libertà e la chiamano "vagiti", o "ostie" d'un vecchio.



Amore a specchio, è tanto bello urlare dagli schermi,

gettare a terra falsi pachidermi coprendo ad urla il vuoto ed il timore.

Qui sul mio onore, smetterei di giocar con le parole,

ma è un vizio antico e poi quando ci vuole per la battuta mi farei spellare...



E le chiacchiere son tante e se ne fan continuamente,

è tanto bello dar fiato alle trombe

o il vino o robe esotiche rimbomban nella mente,

esplodono parole come bombe,

pillacchere di fango, poesie dette sulla sedia,

ghirlande di semantica e gran tango dei mass-media.



Dibattito in diretta, miti, spot, ex-cineforum,

talk-show, magazine, trend, poi T.V. e radio,

telegiornale, spazi, nuovo, gadget, pista, quorum,

dietrismo, le tangenti, rock e stadio

deviati, bombe, agenti, buco e forza del destino,

scazzato, paranoia e gran minestra dello spino.



Amore fino, lo so che in questo modo cerco guai,

ma non sopporto questi parolai, non dire più che ci son dentro anch' io,

amore mio, se il gioco è essere furbo e intelligente

ti voglio presentare della gente e certamente presto capirai...



Ci sono, sai, nascosti dietro a pieghe di risate

che tiran giù i palazzi dei coglioni,

più sobri e più discreti e che fan meno puttanate

di me che scrivo in rima le canzoni,

i clown senza illusione, fucilati ad ogni muro,

se stan così le cose dei buffoni sia il futuro.



Son quelli che distinguono parole da parole

e sanno sceglier fra Mercuzio e Mina,

che fanno i giocolieri fra le verità e le mode,

i Franti che sghignazzano a dottrina

e irridono ai proverbi e berceran disincantati:

"Frà Mina e Frà Mercuzio son parole, e non son frati!"

«Non è segno di buona salute mentale essere ben adattati a una società malata».

Jiddu Krishnamurti (1895

Il perdono è rivoluzionario

di Laura Boella, docente di filosofia morale alla Università Statale di Milano

Il perdono rappresenta uno dei dilemmi più laceranti dell'etica contemporanea, ma è anche una delle figure morali che svolgono un ruolo, a volte contraddittorio, molto forte nella società e nella politica.

Il perdono oggi non viene evocato solo in relazione a offese, torti, malvagità individuali e private, ma spesso in relazione al male commesso in nome di un'idea di civiltà, di un'ideologia totalitaria, di una fede religiosa, di un progetto politico, e anche in sede legale e processuale, ogni volta che la trasgressione della norma ha un effetto destabilizzante sulla convivenza.

Sappiamo quanto le azioni umane e i loro “errori” mettano direttamente in questione la storia, la politica, la sopravvivenza e l'identità di individui e gruppi, la lacerazione e la ricomposizione del legame sociale. Non bisogna poi dimenticare che la questione del perdono si è posta con particolare forza dopo la Shoah, collegandosi strettamente all'imprescrittibilità del male. Dopo gli eventi che hanno segnato la storia del ‘900 non è pertanto più possibile pensare il perdono senza il concetto di imperdonabile. L'autentico significato del perdono deve in effetti districarsi dalle implicazioni molteplici e a tratti contraddittorie di una nozione drammaticamente intrappolata nelle maglie del rancore e dell'oblio, della brama di vendetta e della facile liquidazione o della rinuncia ai propri diritti.

Una nozione che, oltretutto, appare difficilmente isolabile da altri nuclei tematici, legati a concetti di ordine spirituale e religioso, quali l'espiazione, la redenzione, la remissione dei peccati, l'assoluzione, la pietà, l'amore del prossimo. Per fare qualche esempio: si perdona l'incoscienza (non sapeva quello che faceva) o la malvagità? L'azione o l'agente? Per ricostruire, ricominciare, comprendere, convertire o semplicemente per dimenticare? Il perdono presuppone una relazione con un altro oppure è l'affermazione della propria superiorità? Chi viene perdonato può anche non sentirsi destinatario di un atto di amore, bensì oggetto di invadenza, di intrusione nella sua coscienza, nel suo mondo affettivo. Nell'idea di perdono può essere infatti contenuto un giudizio di valore: colui che perdona si colloca dalla parte del bene, quindi al di sopra di colui che viene perdonato. Da questo punto di vista, il perdono può apparire un atto unilaterale, una concessione che annulla ogni scambio e comunicazione tra due soggetti.

A complicare le cose contribuisce l'urgenza dell'appello che il male morale continua a rivolgere all'azione: cosa fare per impedire altre sofferenze causate dalla malvagità? Qual è l'imperativo prioritario: la carità cristiana o la resistenza contro il male? Porgere l'altra guancia o ristabilire la giustizia violata?

Il perdono è sicuramente un concetto spiazzante, una sfida per il pensiero, il cui autentico significato deve essere riappreso. Ciò significa riprendere l'eredità della tradizione ebraico-cristiana, che ne costituisce la fonte, e riscoprirlo in condizioni nuove, quelle del mondo attuale che ne ha un gran bisogno. Non è certo un caso che i (rari) pensatori che nel ‘900 si sono occupati del perdono siano quelli a cui tutti riconoscono una spiccata sensibilità per i problemi del nostro tempo, e insieme il coraggio di affrontare le zone più rischiose dell'etica, senza cedere a nessuna scorciatoia moralistica. Penso in particolare a Hannah Arendt, a Vladimir Jankélévitch, a Emanuel Lévinas, a Paul Ricoeur, a Jacques Derrida. La loro vitale inquietudine ha accompagnato la consapevolezza che il perdono sia un tessuto fittissimo di conflitti e di paradossi che chiama radicalmente in causa la coscienza di ognuno e ne sconvolge le convinzioni più solide.

Fin dalla sua etimologia il perdono è attraversato dal contrasto tra la logica della pena e della riparazione propria della giustizia, e la logica della gratuità, dell'amore. Perdonare rimanda alla “rinuncia” (a un diritto o a un credito), allo scusare, e al tempo stesso si associa al dono - un dono in eccesso, il dono d'amore disinteressato delle chansons dei troubadours (ti amerò en perdos, in perdita, gratuitamente).

L'autentico significato del perdono può essere oggi affermato considerandolo una potenzialità dell'azione: esso rappresenta infatti l'altra faccia del rischio dell'agire, che salva la libertà umana in nome di una nuova forma di responsabilità. È impossibile revocare la storia, fare in modo che le azioni non siano accadute, ma si può continuare ad agire andando in un'altra direzione. L'essenza del perdono consiste nel restituire la capacità di agire a un soggetto che resterebbe inchiodato all'azione compiuta, se non gli si offrisse la possibilità di diventare qualcosa di diverso da ciò che ha fatto. Il perdono è dunque un dono, un dono di libertà, il dono del potere di ricominciare e insieme il tentativo di ricostruzione di una relazione interrotta in seguito a un'offesa. Come se si richiamasse in vita la possibilità di una libertà autenticamente umana, anche per chi ha sbagliato. È innegabile che si tratti di passaggi difficili tra agire, sentire e pensare, ma dotati di una grande forza etica: quella di assumersi il rischio, o meglio, di immaginare un futuro diverso da quello imposto dal passato.

in “l'Unità” del 22 maggio 2012

E il latino rinacque dal Vaticano II

di Filippo Rizzi - 30.05.2012

Cultore del latino ecclesiastico come di quello classico, soprattutto autorevole studioso di Sant'Ambrogio, nel lontano 1962 il cardinale Giovanni Coppa, divenuto anni dopo nunzio nella Repubblica Ceca, visse da testimone privilegiato l'inizio del Vaticano II portando la sua competenza di latinista: «La mia esperienza in quell'assise fu in verità molto limitata. Ero stato nominato esperto come latinista, ed era per me, allora molto giovane, una cosa esaltante poter entrare nella basilica Vaticana durante lo svolgimento dei lavori. Ancora oggi conservo la mia tessera di nomina a latinista al Concilio». Una passione per il latino nata alla Cattolica di Milano col professor Riposati e il dottor Dal Santo e poi maturata sotto la direzione del suo «maestro di sempre» monsignor Amleto Tondini: «Fu lui a tenere in me vivo l'amore per questa lingua e grazie a lui collaborai alla prestigiosa rivista Latinitas. E non posso dimenticare un altro latinista di rango della Santa Sede come monsignor Guglielmo Zannoni».

Fu proprio la conoscenza del latino a consentire al giovane don Giovanni Coppa, originario di Alba, la provvidenziale permanenza nella Città eterna: «Fui chiamato in segreteria di Stato da monsignor Angelo Dell'Acqua nel 1958. Nel 1952 ero entrato nella Cancelleria Apostolica, provenendo dalla Cattolica di Milano, dove, senza volerlo, mi ero fatto una fama di "latinista" per aver superato i tremendi esami scritti di latino già nel primo biennio. Monsignor Amleto Tondini, che era reggente della Cancelleria, cercava dei collaboratori per la redazione delle Bolle Pontificie, ed ebbe il mio nome da Agostino Saba, che insegnava nella stessa università. Rimasi in Cancelleria per oltre cinque anni. Una straordinaria fucina di lavoro, dove non c'era tempo di annoiarsi, perché, come dicevo scherzosamente agli amici intimi, ci si doveva occupare de omnibus rebus et de quibusdam aliis. E lì rimasi fino alla partenza per Praga».

La permanenza effettiva del cardinale Coppa alle sessioni conciliari durò lo spazio di un mattino, o poco più, perché «monsignor Dell'Acqua si accorse delle mie assenze dall'ufficio e, giustamente, fece in modo di non lasciarmi mancare il lavoro in Segreteria di Stato




Un'esperienza vissuta: le assemblee domenicali della Parola

di Conférence Catholique des Baptisé-e-s Francophones

Ecco la relazione di un'esperienza attuata in una diocesi francese. Può dare delle idee a coloro che non accettano di restare privi di celebrazione la domenica, per mancanza di preti.



Questa domenica, la chiesa del paese è rimasta chiusa. Come le altre diciassette del settore. I parrocchiani sono nella diciottesima chiesa della parrocchia, quando ci sarà la messa per loro? È poco probabile. Il “car pooling” è un fiasco. Le persone anziane non lo accettano. E meno ci si riunisce, meno viene voglia di riunirsi. Le persone ormai vanno a messa solo quando “viene fatta” nel loro paese. Allora, dobbiamo accettare di lasciare le nostre chiese chiuse, inutili, e nel giro di poco tempo anche senza manutenzione? Non sarebbe più ragionevole, più conforme alla nostra tradizione (nei primi secoli, i fedeli si riunivano per cantare i salmi e per ascoltare la Parola, la messa è diventata abituale solo molto più tardi), proporre delle assemblee della parola che i parrocchiani stessi potrebbero organizzare, a condizione di essere preparati?

È bene riunirsi

È alla domenica, giorno della Resurrezione, centrato sul mistero pasquale, che i cristiani si riuniscono. Quindi, è in quel giorno che è opportuno prevedere una celebrazione della Parola. Il diritto canonico prevede la possibilità per i cristiani di riunirsi alla domenica in mancanza di un prete (Canone 1248 § 2).

D'altra parte, il Concilio Vaticano II afferma: “Cristo è... presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura (v. anche Dei Verbum 24). È presente infine quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro» (Mt 18,20) (Sacrosanctum Concilium n° 7). Essendo la domenica il giorno del Signore, i cristiani di un piccolo centro manifestano con la loro assemblea in una chiesa la visibilità e la realtà del Cristo risorto. Costruiscono il Corpo di Cristo. Questo è ben più della semplice devozione o meditazione personale!

Le assemblee della Parola

A molti preti sembra importante proporre delle assemblee domenicali della Parola nella loro parrocchia e preparare a questo scopo i fedeli. Così viene assicurata una vicinanza a Cristo e alla sua Chiesa a tutte e a tutti coloro che si riuniscono attorno alla sua Parola, nonché la visibilità di Cristo e nella Chiesa nei borghi. Dal punto di vista umano, i vantaggi sono numerosi. Permettono di lottare contro la passività, di responsabilizzare maggiormente i fedeli delle piccole comunità dei dintorni. Evitano di emarginare ulteriormente certi fedeli, i più poveri. Infine, anche se la messa alla televisione è di livello qualitativamente elevato, essa è destinata alle persone invalide, e non permette di costituire una vera comunità locale. Queste assemblee domenicali non sono delle “messe senza consacrazione”. Centrale lì è la Parola di Dio. Non sono messe di second'ordine. Non viene distribuita la comunione. Ma fanno ugualmente memoria della Pasqua di Cristo, del suo passaggio dalla morte alla resurrezione, fondamento della fede cristiana.

Concretamente

Le assemblee domenicali della Parola sono preparate in parrocchia almeno da alcuni rappresentanti di ogni comunità, anche di quella dove c'è la messa ogni domenica. Si svolgono alle 10h30 della domenica mattina, annunciate dal suono delle campane. Salvo la quarta domenica del mese, quando i fedeli sono invitati a riunirsi in parrocchia per l'eucaristia unica della domenica mattina nel capoluogo.

La struttura, il cui ordine può variare nei dettagli a seconda delle domeniche, comprende sempre i seguenti elementi:

- Un momento di accoglienza, scambio di notizie

- Recita comune del “Credo” all'inizio della celebrazione

- Letture del giorno con un breve commento e interventi tra ogni lettura, intervallate dal salmo

- Preghiera universale (con intenzioni locali alla fine)

- Il Padre Nostro

- La raccolta delle offerte

- Il gesto della pace

- Benedizione e invio

- Un momento di convivialità presso la chiesa

Il Libro della Parola “troneggia” davanti all'altare, al centro, nella navata centrale, su di un leggio, con il cero pasquale e dei fiori. I fedeli sono seduti in semicerchio attorno al Libro della Parola All'inizio della celebrazione, viene detto che colei o colui che presiede è incaricata/o dal parroco della parrocchia. In attesa delle attività di formazione previste dalla diocesi (!), sono i laici che già presiedono la preghiera dei funerali o che sono responsabili della comunità locale a guidare (presiedere) la preghiera.

L'ultima assemblea domenicale della Parola ha riunito più di sessanta persone. Alcuni membri di questa assemblea non vanno mai a messa alla domenica, anche quando “viene fatta” in paese; ma partecipano a queste assemblee che sono più alla portata del loro percorso attuale. I sindaci dei comuni dove si svolgono queste assemblee sono contenti della maggiore animazione procurata al piccolo borgo. Tanto più che si preoccupano della manutenzione e dell'abbellimento dell'edificio-chiesa.



Conclusione

L'esperienza comincia a portare frutti. Sono sempre più numerosi coloro che accettano l'idea di entrare in chiesa... E sono convinto che, col passare dei mesi, si creerà uno spirito nuovo, troveremo il “modo adatto” di vivere e pregare insieme nella nostra comunità locale.

in “www.baptisés.fr” del 15 maggio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)



La Messa parrocchiale.



Non una Messa pontificale, non una Messa in una basilica o in una abbazia benedettina, ma la più povera delle Messe, celebrata dal più povero dei sacerdoti.


La nostra chiesa è la più povera delle chiese.


Il vescovo non s'illuda se in visita pastorale la trova quasi bella. Siamo anche noi dei poveri uomini che, quando viene il superiore, danno un colore di festa anche agli stracci.


Ma non vergognamoci della povertà della nostra chiesa, che s'intona assai bene con la Messa e fa meno paurosa la nostra povertà.


 


Quale preparazione possiamo fare noi poveri parroci, alla nostra Messa parrocchiale della domenica?


La liturgia è un momento composto, dicono alcuni. Vorrei che qualche mio confratello di città venisse a celebrare da me la domenica. Dopo, potrebbe parlare con più competenza di «momento composto».


Dov'è il popolo? La chiesa è ancora vuota. O perché piove, o perché fa caldo, o perché gela: bisogna attendere, i nostri clienti non hanno fretta.


Andiamo in sacrestia. Il sacrista è sbadato: i chierichetti litigano per il primo posto, come gli apostoli...


Finalmente, ci si avvia all'altare. Il momento richiederebbe il massimo raccoglimento: ma come si fa a non dare uno sguardo alla navata per vedere se c'è gente e come sta?


Adesso salgo l'altare. Incomincia la Messa parrocchiale.


L'abbiamo tanto desiderata la nostra Messa domenicale!


Quella di ogni giorno è così sola...


La domenica invece è la nostra giornata. Non so immaginare un parroco che non aspetti la domenica, anche se faticosa. Alla domenica io mi sento veramente padre, non sono più il solitario del presbiterio. Il Signore, la domenica, mi dà una famiglia.


S'avvia il colloquio tra noi e il nostro popolo.


Esso continua gli incontri settimanali nel nostro studio, per le strade, per i campi.


Un parroco non deve aver fretta quando esce di casa. C'è il povero che ha bisogno del nostro saluto: il bambino di una carezza: la mamma di un conforto... che può essere solo una richiesta: «E il vostro figliolo ha scritto?».


Se non è preparato così, il nostro colloquio domenicale ai piedi dell'altare rimane qualcosa di troppo freddo, di troppo... liturgico. E la gente non capisce, perché la gente non può capire un sacerdote che, invece di distaccarsi soltanto «ab homine iniquo et doloso», si è distaccato dall'uomo che fatica, tribola e soffre.


Più che delle pretese verso la nostra gente, dobbiamo riconoscere che abbiamo dei torti: e il primo è appunto questo, di aver avuto una settimana troppo comoda, mentre loro hanno lavorato da tirarsi il collo.


Sono in debito verso la mia gente, oltre che verso il Signore, la Madonna e i Santi, e domando perdono anche a loro... «et vobis, fratres».


Perdono di non averli sempre capiti, perdono di non averli sempre trattati con bontà, perdono di non aver sofferto come essi soffrivano...


Ho bisogno di essere perdonato anche dal mio popolo per poter salire l'altare con minor confusione.


«Kyrie, eleison; Christe, eleison...».


Sulla nostra solidale povertà, la misericordia del Signore stende immediatamente le sue braccia.


 


«Dominus vobiscum».


È il primo saluto domenicale alla nostra gente, in compenso dei saluti mancati, o sgarbati, o frettolosi, con cui abbiamo risposto durante la settimana.


Non sono un liturgista e dico cose sciocche: ma io vorrei un «Dominus vobiscum» largo, a braccia piene, così che tutti vedano la nostra cordialità espansiva, che non lascia fuori nessuno.


Pio XII, quando benediceva, aveva il segreto di questa paterna vastità: e tutti ne sentivano il fascino, come dell'abbraccio di Cristo in croce.


La stoltezza di un tal gesto non la può capire uno che non ha il cuore su tutte le strade.


E nel salutare, non abbassiamo gli occhi. Guardiamo in faccia i nostri figlioli. Come salutare senza guardare? È vero: gli occhi sono la porta del male, ma sono pure la porta del bene, per dove passa la pietà. Non ci dobbiamo preoccupare del male quando stiamo facendo il bene.


Forse, ci rattristeremo vedendo che là, in fondo la chiesa, i giovani discorrono invece di pregare, che i fanciulli sono irrequieti nei loro banchi.


Io ho gusti strani: mi piacciono le chiese vive, un po' mosse. Penso che anche il Signore non ne sia malcontento. Non ch'egli li approvi - neanch'io, del resto, li approvo - ma son fatti così e nessuno ha loro insegnato con bontà come bisogna stare davanti al Signore. E poi, sono tanto stanchi, hanno lavorato tanto e possono starci alla buona al cospetto di Dio.


 


«Oremus».


Comincio a pregare. Per tutti.


Non so il vero significato della parola «colletta». Lo penso alla mia maniera: raccogliere e far propria, in nome di Cristo, l'incomprimibile voce di tanti poveri cuori che non sanno parlare. Il parroco coordina questo dolore muto, queste incomposte fatiche, queste segrete rivolte e le esprime davanti al Signore con la sua voce. Gliele dà. Con tali sentimenti è naturale che l'«oremus» venga detto o salmodiato meno sgarbatamente. Ci vuole una mano lieve e un tono dolce per chi soffre.


 


Il Vangelo.


Non vi siete mai chiesti perché nella Messa nulla è lasciato al nostro arbitrio, all'infuori dei nomi del «memento»? Tutto è fisso, ogni capriccio è impedito. Nella Messa il sacerdote non è un inventore, ma un ripetitore.


Gesù ordina agli apostoli: «Andate e dite». Il Vangelo è appunto una continua ripetizione di «dite».


Devo quindi leggere la Messa e il Vangelo com'è. Anche il Vangelo detto alla balaustra o sul pulpito. Quando predico alla mia povera gente sono il ripetitore della parola di un altro: devo ripetere quel che Gesù ha detto: non il mio Vangelo ma il Vangelo di Gesù.


Una delle tentazioni più forti di un parroco alla Messa domenicale è di leggere, invece del Vangelo secondo Matteo, Marco, Luca, Giovanni, il Vangelo «secondo il parroco». Con ciò non intendo dire che io non debba mettere nel Vangelo la mia anima, il mio cuore, ma semplicemente che con la scusa del Vangelo, io non posso presentare alla mia gente, che è la «plebs sancta», i miei sfoghi, le mie rampogne. Se gli altri saranno giudicati sul secondo comandamento «Non nominare il nome di Dio invano», noi saremo giudicati sul Vangelo, poiché anche il Vangelo è uno dei nomi di Dio e il più bello.


Il Vangelo è la «buona novella», la parola che libera, che solleva: non la parola che opprime.


Povera la nostra gente, già tanto oppressa e insultata e maltrattata lungo la settimana! Un po' da tutti: dal padrone, dall'impiegato, dal gerarca.


Facciamo che alla Messa essa senta che il parroco non è un padrone. Il Signore è venuto tra i suoi come un servitore: gli apostoli sdegnarono di fare da padroni. Erano uomini liberi e quindi rispettosi della libertà e della dignità degli altri, specialmente degli «ultimi» che nella casa del Padre sono i «primi».


Facciamo da padroni noi preti quando chiediamo alla nostra gente una perfezione che non può raggiungere, una generosità che noi stessi non sentiamo, un distacco che non trova aiuto nel nostro esempio. Il Vangelo, prima di predicarlo, bisogna farlo passare attraverso la nostra povertà, allora la nostra voce avrà un tono diverso.


 


Offertorio.


Forse anche da voi c'è la bella abitudine, alla mietitura e alla vendemmia, di far portare dai bambini spighe e grappoli per l'offerta all'altare.


Vedo la mia chiesa come un campo di grano o dei filari che salgono verso l'altare.


Proprio il pane ed il vino che tengo in mano in questo momento sono il frutto della terra lavorata dal mio popolo: la sua fatica che sta per essere riposata in un misterioso incontro col Signore. Io ho in mano tutta la fatica della mia povera gente che sale verso un incontro di grazia. Il primo incontro, tra l'uomo che lavora e Dio che benedice, è avvenuto sul campo. Sull'altare, attraverso il mistero della transustanziazione si completa l'incontro nella presenza sacramentale.


Mi piace, a volte, guardare la Messa sotto aspetti «non contemplati».


La patena non pesa, eppure, nella Messa solenne, il diacono ci aiuta a sorreggerla. Sulla patena c'è il nostro pane, la fatica e la sofferenza di tutto un popolo.


Ormai sapete che amo i gesti larghi, che sono i veri gesti sacerdotali.


Io ho bisogno di una famiglia. La domenica, la voglio tutta presente all'altare: voglio che sappia che questa è la sua Messa. Voglio tutti presenti: vicini e lontani, perduti e ritrovati.


Mi chino sul pane e il vino che m'hanno posto tra le mani e ripeto le parole divine. Per queste parole ripetute tremando dal più povero dei preti nella più povera delle chiese, Cristo prende posto tra la mia gente e con la sua presenza cambia volto ad ognuno.


Dilato nuovamente le braccia, di più, sempre di più. Non siamo più orfani: c'è il Fratello, il Maestro, il Pastore. Non sono più solo all'altare, c'è Cristo con me. E se c'è lui, che è la Vita, posso chiamare anche i morti e fare della mia piccola chiesa una chiesa senza termine nello spazio e nel tempo, e rivolgermi al Padre che è nei cieli con confidenza nuova e sicura: «Padre nostro».


Sto sospeso un attimo con il frammento del Pane sull'orlo del Calice. L'odio, nel mondo, è tanto: ma l'amore è più grande. «Agnello di Dio che togli i peccati del mondo donaci la pace». Un'altra volta vince l'Amore che si lascia spezzare. In pace anche con me. Eccolo, viene in me.


 


La comunione.


La comunione è il momento più caro, più impegnativo.


Alla Messa parrocchiale nessun fedele prende la comunione[1]. È troppo tardi. Io solo ricevo Cristo e lo ricevo per tutti.


Per me, la Messa durante la quale non scendo dall'altare per fare la comunione a qualcuno, è la Messa più impegnativa. Ricevo e porto Cristo per tutti quelli che non lo ricevono e non lo portano: divento responsabile nella mia comunione di tutti coloro che non hanno potuto comunicarsi.


Se durante la settimana i miei parrocchiani verranno a chiedermi esempio, conforto, carità e mi troveranno vuoto, essi potranno chiedermi: «Che ne hai fatto del Cristo che è venuto in te sotto i nostri occhi?».


Mezzogiorno è suonato: la gente brontola se non finisco presto: i fanciulli sono stanchi.


Comincio a coprire il calice in fretta...


 


«Ite, missa est».


Son parole che il parroco, la domenica, dice col cuore grosso.


Li avevo appena ritrovati e debbo subito congedarli. Li guardo partire. Sono come uccelli migratori: hanno bisogno di andare.


«Ite». Li accompagno col mio cuore facendomi prestare, con un gesto che misuro sulla grande croce che domina l'altare, la benedizione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo per essere con loro ovunque la vita li porti.


Quando sono in sacrestia, sento che la mia spirituale paternità ha avuto nella Messa parrocchiale il suo vertice e la sua più alta gioia, e mi dispongo, con fiducia, alla fatica settimanale aspettando la nuova domenica: il ritorno.


don Primo Mazzolari, La parrocchia, 99-107







[1] Chi è abituato alle celebrazioni eucaristiche postconciliari troverà strana tale affermazione, che però corrisponde al vero. Soprattutto nelle messe solenni non si distribuiva l'eucaristia dopo che il prete si era comu­nicato, per evitare di allungare ulteriormente la cerimonia. In alcuni luo­ghi vi era la prassi di distribuire la comunione al termine della messa a quanti lo desideravano, permettendo agli altri di uscire dalla chiesa.



Nessuno di noi si "merita" i doni di Dio,

ma ci sono dei cristiani e delle porzioni di Chiesa

che se li meritano ancor meno.

don Chisciotte

Un prete deve essere contemporaneamente piccolo e grande,

nobile di spirito come di sangue reale,

semplice e naturale come ceppo di contadino,

una sorgente di santificazione,

un peccatore che Dio ha perdonato,

un servitore per i timidi e i deboli,

che non s'abbassa davanti ai potenti, ma si curva davanti ai poveri,

discepolo del suo Signore,

capo del suo gregge,

un mendicante dalle mani largamente aperte,

una madre per confortare i malati,

con la saggezza dell'età e la fiducia d'un bambino,

teso verso l'alto, i piedi a terra,

fatto per la gioia, esperto del soffrire,

lontano da ogni invidia,

lungimirante,

che parla con franchezza,

un amico della pace, un nemico dell'inerzia,

fedele per sempre.


anonimo medievale


Ecco come li presenta il sito del seminario diocesano.

Si cerca un uomo

Si cerca per la Chiesa un uomo

senza paura del domani,

senza paura dell'oggi,

senza complessi del passato.

  Si cerca per la Chiesa un uomo,

  che non abbia paura di cambiare,

  che non cambi per cambiare,

  che non parli per parlare.

Si cerca per la Chiesa un uomo

capace di vivere insieme agli altri,

di lavorare insieme,

di piangere insieme,

di ridere insieme,

di amare insieme,

di sognare insieme.

  Si cerca per la Chiesa un uomo

  capace di perdere senza sentirsi distrutto,

  di mettersi in dubbio senza perdere la fede,

  di portare la pace dove c'è inquietudine

  e l'inquietudine dove c'è pace.

Si cerca per la Chiesa un uomo

che abbia nostalgia di Dio,

che abbia nostalgia della Chiesa,

nostalgia della gente,

nostalgia della povertà di Gesù,

nostalgia dell'obbedienza di Gesù.

  Si cerca per la Chiesa un uomo

  che non confonda la preghiera

  con le parole dette d'abitudine,

  la spiritualità col sentimentalismo,

  la chiamata con l'interesse,

  il servizio con la sistemazione.

Si cerca per la Chiesa un uomo

capace di morire per lei,

ma ancora di più

capace di vivere per la Chiesa,

un uomo capace di diventare ministro di Cristo,

profeta di Dio,

un uomo che parli con la sua vita.

  Si cerca per la Chiesa un uomo.


don Primo Mazzolari





Gracias a la vida


Gracias a la vida, que me ha dado tanto

Me dió dos luceros, que cuando los abro

Perfecto distingo, lo negro del blanco

Y en el alto cielo, su fondo estrellado

Y en las multitudes, el hombre que yo amo

Gracias a la vida, que me ha dado tanto

Me ha dado el oído, que en todo su ancho

Graba noche y día, grillos y canarios

Martillos, turbinas, ladridos, chubascos

Y la voz tan tierna, de mi bien amado

Gracias a la vida, que me ha dado tanto

Me ha dado el sonido, y el abecedario

Con el las palabras, que pienso y declaro

Madre, amigo, hermano y luz alumbrando

La ruta del alma del que estoy amando

Gracias a la vida, que me ha dado tanto

Me ha dado la marcha, de mis pies cansados

Con ellos anduve, ciudades y charcos

Playas y desiertos, montañas y llanos

Y la casa tuya, tu calle y tu patio

Gracias a la vida, que me ha dado tanto

Me dió el corazón, que agita su marco

Cuando miro el fruto del cerebro humano

Cuando miro el bueno tan lejos del malo

Cuando miro el fondo de tus ojos claros

Gracias a la vida, que me ha dado tanto

Me ha dado la risa y me ha dado el llanto

Así yo distingo dicha de quebranto

Los dos materiales que forman mi canto

Y el canto de ustedes, que es el mismo canto

Y el canto de todos, que es mi propio canto

Y el canto de ustedes, que es mi propio canto”.



Grazie alla vita




Grazie alla vita che mi ha dato tanto,

mi ha dato due stelle che quando le apro

perfetti distinguo il nero dal bianco,

e nell'alto cielo il suo sfondo stellato,

e tra le moltitudini l'uomo che amo.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,

mi ha dato l'ascolto che in tutta la sua apertura

cattura notte e giorno grilli e canarini,

martelli turbine latrati burrasche

e la voce tanto tenera di chi sto amando.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,

mi ha dato il suono e l'abbecedario

con lui le parole che penso e dico,

madre, amico, fratello luce illuminante,

la strada dell'anima di chi sto amando.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,

mi ha dato la marcia dei miei piedi stanchi,

con loro andai per città e pozzanghere,

spiagge e deserti, montagne e piani

e la casa tua, la tua strada, il cortile.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,

mi ha dato il cuore che agita il suo confine

quando guardo il frutto del cervello umano,

quando guardo il bene così lontano dal male,

quando guardo il fondo dei tuoi occhi chiari.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,

mi ha dato il riso e mi ha dato il pianto,

così distinguo gioia e dolore

i due materiali che formano il mio canto

e il canto degli altri che è lo stesso canto

e il canto di tutti che è il mio proprio canto.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto”.

Dai "Discorsi" di san Pietro Crisologo, vescovo

Vi prego per la misericordia di Dio (cfr. Rm 12, 1). E' Paolo che chiede, anzi è Dio per mezzo di Paolo che chiede, perché vuole essere più amato che temuto. Dio chiede perché vuol essere non tanto Signore, quanto il Padre. Il Signore chiede per misericordia, per non punire nel rigore. Ascoltate il Signore che chiede: vedete, vedete in me il vostro corpo, le vostre membra, il vostro cuore, le vostre ossa, il vostro sangue. E se temete ciò che è di Dio, perché non amate almeno ciò che è vostro? Se rifuggite dal padrone, perché non ricorrete al congiunto? Ma forse vi copre di confusione la gravità della passione che mi avete inflitto. Non abbiate timore. Questa croce non è un pungiglione per me, ma per la morte. Questi chiodi non mi procurano tanto dolore, quanto imprimono più profondamente in me l'amore verso di voi. Queste ferite non mi fanno gemere, ma piuttosto introducono voi nel mio interno. Il mio corpo disteso anziché accrescere la pena, allarga gli spazi del cuore per accogliervi. Il mio sangue non è perduto per me, ma è donato in riscatto per voi. Venite, dunque, ritornate. Sperimentate almeno la mia tenerezza paterna, che ricambia il male col bene, le ingiurie con l'amore, ferite tanto grandi con una carità così immensa.

Ma ascoltiamo adesso l'Apostolo: "Vi esorto", dice, "ad offrire i vostri corpi" (Rm 12, 1). L'Apostolo così vede tutti gli uomini innalzati alla dignità sacerdotale per offrire i propri corpi come sacrificio vivente. O immensa dignità del sacerdozio cristiano! L'uomo è divenuto vittima e sacerdote per se stesso. L'uomo non cerca fuori di sé ciò che deve immolare a Dio, ma porta con sé e in sé ciò che sacrifica a Dio per sé. La vittima permane, senza mutarsi, e rimane uguale a se stesso il sacerdote, poiché la vittima viene immolata ma vive, e il sacerdote non può dare la morte a chi compie il sacrificio. Mirabile sacrificio, quello dove si offre il corpo senza ferimento del corpo e il sangue senza versamento di sangue.

"Vi esorto per la misericordia di Dio ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente". Fratelli, questo sacrificio è modellato su quello di Cristo e risponde al disegno che egli si prefisse, perché, per dare vita al mondo, egli immolò e rese vivo il suo corpo; e davvero egli fece il suo corpo ostia viva perché, ucciso, esso vive. In questa vittima, dunque, è corrisposto alla morte il suo prezzo. Ma la vittima rimane, la vittima vive e la morte è punita.

Da qui viene che i martiri nascono quando muoiono, cominciano a vivere con la fine, vivono quando sono uccisi, brillano nel cielo essi che sulla terra erano creduti estinti.

Vi prego, dice, fratelli, per la misericordia di Dio, di offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo (cfr. Rm 12, 1). Questo è quanto il profeta ha predetto: Non hai voluto sacrificio né offerta, ma mi hai dato un corpo (cfr. Salmo 39, 7 volg.). Sii, o uomo, sii sacrificio e sacerdote di Dio; non perdere ciò che la divina volontà ti ha dato e concesso. Rivesti la stola della santità. Cingi la fascia della castità. Cristo sia la protezione del tuo capo. La croce permanga a difesa della tua fronte. Accosta al tuo petto il sacramento della scienza divina. Fa' salire sempre l'incenso della preghiera, come odore soave. Afferra la spada dello spirito, fa' del tuo cuore un altare, e così presenta con ferma fiducia il tuo corpo quale vittima a Dio. Dio cerca la fede, non la morte. Ha sete della tua preghiera, non del tuo sangue. Viene placato dalla volontà, non dalla morte.


(Disc. 108; PL 52, 499-500)

La macchina del tempo

di Massimo Gramellini - 5.6.2012

Erano da poco passate le otto di sera quando mi sono appisolato davanti al televisore mentre il direttore del Tg1 intervistava il segretario di Stato vaticano. Nell'appisolarmi ho sognato. E nel sognare ho rivisto il me stesso bambino addormentarsi davanti a un televisore in bianco e nero mentre il direttore del telegiornale intervistava il segretario di Stato vaticano. Che modi avevano allora, i direttori del telegiornale. Diritti e compunti sulla sedia come dinanzi al prete del loro matrimonio. E poi quelle domande felpate con la risposta già incorporata. E la faccia: protesa ad annuire in sincrono con l'intero corpo e paralizzata in una smorfia ineffabile di beatitudine. Anche i segretari di Stato vaticani erano ben strani, a quei tempi. Tradivano la scarsa conoscenza del mezzo televisivo e il loro eloquio curiale scorreva distante dalla realtà, caldo e inafferrabile come sciolina nelle orecchie: «La trasparenza è un fatto di solidarietà









Daniele Silvestri

Precario è il mondo



Mi sono rotto, io mi sono rotto,

non ho più voglia di abitare lo Stivaletto

non ha più senso rimanere grazie di tutto

aspetto ancora fine mese poi mi dimetto

Tanto il mio lavoro è inutile, diciamo futile

essenzialmente rimovibile, sostituibile, regolarmente ricattabile

il mio lavoro è bello come un calcio all'inguine dato da un toro

il mio lavoro è roba piccola fatta di plastica

che piano piano mi modifica, mi ruba l'anima

dice ?il lavoro rende nobili? non so può darsi,

sicuramente rende liberi di suicidarsi

e io mi sono rotto, io mi sono rotto,

non ho più voglia di abitare lo Stivaletto

non ha più senso rimanere grazie di tutto

aspetto ancora fine mese poi mi dimetto



Precario il mondo precario il mondo

flessibile la terra che sto pestando

atipica la notte che sta arrivando volatile la polvere che si sta alzando

Precario il mondo precario il mondo

non è perenne il ghiaccio che si sta sciogliendo, non è perenne l'aria e si sta esaurendo

e d'indeterminato c'è solo il Quando



Precario il mondo si finchè è normale

ma sembra ancora più precario questo stivale

che sta affondando dentro un cumulo di porcheria

e quelli che l'hanno capito vedi vanno via

e invece tu non l'hai capito, non l'hai capito

e stringi i denti dietro un tavolo dentro a un uffficio

senza nemmeno avere il tempo di guardare fuori

così non vedi che già cambiano tutti i colori

e intorno a te la gente si agita si muove sempre

qualcuno grida è una protesta che nessuno sente

non c'è un futuro da difendere solo il presente

e anche di quello di salvabile c'è poco o niente

amore mio non ci resisto, io non ci resisto

vorrei convincerti a raggiungermi ma non insisto

tu riesci ancora a non vedere solo il lato brutto

io invece ho smesso devo andare, grazie di tutto.



Precario il mondo precario il mondo

flessibile la terra che sto pestando

atipica la notte che sta arrivando volatile la polvere che si sta alzando

Precario il mondo precario il mondo

non è perenne il ghiaccio e si sta sciogliendo, non è perenne l'aria e si sta esaurendo

e d'indeterminato c'è solo il Quando



E allora il tempo si fermerà, improvvisamente e chi si stava amando potrà

amarsi per sempre

E allora il tempo si fermerà, improvvisamente e chi si stava odiando dovrà

odiarsi per sempre



Precario il mondo precario il mondo

flessibile la terra che sto pestando

atipica la notte che sta arrivando volatile la polvere che si sta alzando

Precario il mondo precario il mondo

non è perenne il ghiaccio e si sta sciogliendo, e non è perenne l'aria e si sta esaurendo

e d'indeterminato c'è solo il Quando

L'uomo è divenuto "immagine e somiglianza" di Dio non soltanto attraverso la propria umanità, ma anche attraverso la comunione delle persone, che l'uomo e la donna formano sin dall'inizio. La funzione dell'immagine è quella di rispecchiare colui che è il modello, riprodurre il proprio prototipo. L'uomo diventa immagine di Dio non tanto nel momento della solitudine quanto nel momento della comunione. Egli, infatti, è, fin "da principio" non soltanto immagine in cui si rispecchia la solitudine di una Persona che regge il mondo, ma anche, ed essenzialmente, immagine di una imperscrutabile divina comunione di Persone.

Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull'amore umano, 59

 Auguri a tutti gli italiani... e a tutti quelli che vivono sul territorio nazionale!

Sulla capacità di credere si gioca il futuro dell'umanità

di Enzo Bianchi

Dovremmo chiederci quanto dell'attuale difficoltà a credere non dipenda da un clima di progressiva sfiducia negli altri, nella situazione sociale ed economica, nel futuro stesso. Fede, infatti, è mettere fiducia, fidarsi, è un'attitudine complessiva della persona: per questo le difficoltà a credere si radicano nel profondo, nelle difficoltà stesse del mestiere di vivere. La fede, il credere è una realtà antropologica fondamentale, costitutiva dell'esistenza umana, come la ragione e il linguaggio: è un atto della libertà dell'essere umano, tanto che possiamo affermare che non ci può essere umanizzazione autentica senza fede. In altre parole, non si può essere uomini senza credere, perché credere è il modo di vivere la relazione con gli altri; e non è possibile nessun cammino di umanizzazione senza gli altri, perché vivere è sempre vivere con e attraverso l'altro. Come sarebbe possibile vivere senza fidarsi di qualcuno? A differenza degli animali, noi usciamo incompiuti dall'utero materno e per crescere come persone, per acquisire una soggettività abbiamo bisogno di qualcuno in cui mettere fede-fiducia. Anzi, fin dalla sua vita intrauterina il nascituro mette fiducia in sua madre, crede in lei quando essa per lui è ancora nient'altro che una matrice; fin dal seno di sua madre egli crede alla vita di cui si sente vivere, crede alla madre che lo porta in grembo, è come abitato da una promessa, quella di poter accedere a una vita in pienezza. Tutto questo, certamente, non nell'ordine dell'intelligenza

 

Avendo creduto di capire che probabilmente il Vaticano II avrebbe permesso il matrimonio ai preti, un parroco di campagna, povero in canna, che da gran tempo e senza esito cercava una perpetua per la parrocchia, si decise a mettere ques'annuncio su un giornale locale: «Prete di campagna cerca perpetua. Modesto onorario, ma eventuale possibilità di matrimonio