2018_10_ottobre
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Ringraziamento o bestemmia?
L'albero si è schiantato a terra, investendo e distruggendo la panchina dove fino a un quarto d'ora prima erano seduti gli allenatori e i ragazzi (le "riserve" della squadra).
"Grazie a Dio!", hanno detto in tanti. "Sarebbe stata una tragedia: la Madonna ci ha protetto!".
Anche io ne sono felice... ma non posso eludere una questione: se diciamo che in questo caso c'è stato un benigno intervento divino, se le cose fossero andate diversamente (e così è capitato proprio in altre parti di Italia in questi giorni), per coerenza avremmo dovuto esclamare: "Dio non ci ha protetto". E di conseguenza domandarci: "Perché non l'ha fatto?". E i casi sarebbero: 1. è arrabbiato con noi; 2. noi non ce lo meritiamo; 3. non vuole agire; 4. non esiste.
E io a queste quattro bestemmie non credo. E quindi sto sobrio anche a fare uso di questo tipo di ringraziamenti.
don Chisciotte Mc - 181029
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"L’uomo che sposta una montagna comincia portando via piccole pietre".
Confucio
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Realtà o surrealtà? Questa foto rappresenta la realtà (è stata scattata da me mercoledì sera; non è photoshoppata!), ma quanta altra Realtà c'è dentro, sotto, sopra. Quante mille realtà, raccolte in una profonda Realtà!
don Chisciotte Mc
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Avvenire, 21 ottobre 2018
Staino saluta con un abbraccio: «Jesus» non merita il microscopio
Caro Direttore,
non te la prendere troppo: ci abbiamo provato. È stato bellissimo trovarmi sulle pagine del tuo giornale, in mezzo ai tanti articoli che ogni giorno ci parlano delle sofferenze del mondo, delle lotte degli umili contro l’infamia, lo sfruttamento e l’ingiustizia. Un giornale attento alle grida di dolore che si levano dalle parti più lontane e nascoste del mondo e che, per questo, troppo spesso vengono dimenticate.
Certo il mio Jesus non risponde completamente ai canoni tradizionali: suona il basso, legge “internazionale” e ha la mamma ancora giovane che forse vede su Netflix qualche serial di troppo, ma, nelle mie intenzioni, mantiene tutta la carica rivoluzionaria contenuta nel messaggio evangelico. Per questo mi piaceva, da non credente, essere al fianco di quel grande rinnovamento che osserviamo oggi nella chiesa cattolica guidata da Francesco. Non pensavo assolutamente che qualcuno potesse prenderla così male anche se so benissimo che la satira e il fumetto, con la loro ironica ambiguità, possono facilmente risultare poco comprensibili da chi, per età e formazione, non è abituato a frequentarli.
Le prime lettere e i primi messaggi arrivati anche a me non lasciavano promettere bene, ma speravo fossero sparute figure rancorose che si trovano sempre dentro ogni comunità. Uno di questi messaggi, nella sua cattiveria mi ha fatto anche sorridere: «aspetto il giorno», mi diceva, «di vederla bruciare nelle Fiamme dell’inferno accanto a quell’attorucolo che oggi siede sul seggio di San Pietro». Ovviamente non ho battuto ciglio e sono andato avanti sorretto dalla tua amicizia e dalla stima che mi hai sempre dimostrato.
Ma adesso è troppo. Adesso le voci dissonanti, a volte al limite della volgarità sono troppe ed investono, sfruttando strumentalmente il mio lavoro, la tua figura, il valore del giornale da te diretto, fino, oserei dire a colui che oggi guida il mondo cattolico. È chiaro che in questa situazione è ben difficile lavorare: prendere la matita in mano sapendo bene che qualunque cosa io disegni verrà passata sotto microscopio alla ricerca di punti o sfumature che possano esser letti come offensivi o blasfemi, fa sì che venga a mancare quella serenità di fondo che permette di far incontrare il sorriso fraterno laico con un sorriso fraterno cattolico.
Per questo, caro Marco, è forse meglio chiudere qui o se vogliamo essere ottimisti, sospendere qui la nostra esperienza comune.
Un augurio di buon lavoro e un abbraccio forte a te e ai lettori che mi hanno seguito con affetto e curiosità fino a oggi,
Sergio Staino
https://www.avvenire.it/opinioni/Pagine/lettera-saluto
Caro Sergio,
quando abbiamo avviato questa collaborazione, giusto un anno fa, pensavo a tutto meno che a metterti in una condizione che ti avrebbe tolto serenità… E invece è andata in questo modo. Ti ringrazio per la tua schiettezza e il tuo rigore morale. E mi dispiace, mi dispiace davvero.
Così come mi dispiace che altre persone, turbate e in qualche caso eccitate anche solo dall’idea di un «ateo che disegna per “Avvenire”», abbiano perso la loro serenità fino a concepire e scrivere invettive come quella che citi. Anche passandosi parola. Terribile, ma purtroppo per me non sorprendente. Proprio come la lente da microscopio ostile che hai sentito addosso, soprattutto per dimostrare che “Staino deride Gesù”, sebbene il “tuo” Jesus abbia fatto e faccia pensare e sorridere in modo dolce o amaro sulla vita, sulle ingiustizie, sul prezzo dell’amore per la verità, sulle scelte dei potenti, e mai sia oggetto e vittima di sberleffo, come fu fin sulla croce… Sappi, però, che non somigliano, quelle parole arse e brucianti, ai pensieri e alle parole di tanti cattolici accanto ai quali io cammino dentro le pagine di questo giornale “uguale e speciale”, ma prima ancora, e ormai da una vita, nella Chiesa e sulle strade del mondo. Strade che non sono solo nostre e lungo le quali incontriamo e affianchiamo donne e uomini che vengono da altre direzioni, ma hanno voglia di parlare la stessa lingua, di riconoscere il bene, di capirsi e di appassionarsi insieme per l’umanità e soprattutto per i più poveri e i più piccoli. Ognuno porta la luce che ha, e accende quella che trova o che gli viene donata lungo il cammino. Tu sei così.
Grazie, caro Sergio, per le parole che riservi ai nostri lettori e al nostro lavoro. Grazie per la limpida preoccupazione per il nostro Papa. Grazie per il tuo abbraccio di saluto in forma di “striscia”. Lo ricambio con altrettanta forza, perché so che non resterai svenuto… Diranno che ora sei senza avvenire, ma non è vero.
Marco Tarquinio
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«[con la complicità di una canzone di Aznavour e di un calice di vino]
Da sempre c'è qualcuno/a dei miei amici/amiche che decide (o cui capita) di mettere al mondo un figlio/a.
Naturalmente ogni volta la notizia mi allieta. Poi tra me, in solitudine, penso che forse no, non è una cosa così lieta. Penso che occorre un certo grado di incoscienza per saturare ancora di più un pianeta già così saturo di umani e delle loro nefandezze.
Stasera, con le complicità di cui sopra, questo schema di pensiero si è rifatto vivo. Un po' si è incrinato e un po' si è chiarito. Conseguentemente mi sono detto che: 1) la mia coscienza di quell'incoscienza è data da una catena casuale di coscienze-incoscienze che ha prodotto anche me, dunque perché io sì e un altro no? 2) son certo (ho fede che) tutti gli amici "incoscienti" faranno sì che la loro incoscienza biologica si tramuti in maggior coscienza culturale; 3) ma soprattutto: la mia coscienza attuale viene comunque interpellata dalla coscienza potenziale di chi nascerà che mi chiederà conto del senso del mio ragionamento, e che potrà anche dirmi: "guarda che io sarò migliore di te". E forse potrà anche dimostrarmelo, e affondare i miei solidi argomenti anti-natalisti.
Si tratta di fede, più che di logica. Almeno credo.
Ora però non so più che faccia farò, che emozioni proverò, quando qualcuno mi darà la lieta notizia.
Quella che Hanna Arendt esaltava come l'unica vera buona novella: "Un bambino è nato fra noi [...] Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare".
Magari qualcosa di nuovo».
Mario Domina, su FB, 20.10.2018
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Scuola di preghiera - 3 - adorazione:
scarica lo schema
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"Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto".
don Lorenzo Milani
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«Vorremmo, meditando su Maria Maddalena, essere introdotti dalla sua storia nel cuore di Dio, nel cuore di Gesù, perché se è là che ha il suo luogo, essa è il segno dell'eccesso cristiano, è il segno dell'andare al di là del limite, è il segno del superamento, è il segno di quella verità profonda che contempleremo più volte in questi giorni, cioè che non si raggiunge il vero equilibrio se non andando al di là, con qualche gesto coraggioso".
Carlo Maria Martini, Maria Maddalena, 18
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Maria di Nazareth
di Óscar Arnulfo Romero
«Avete soffocato l'afflato rivoluzionario di Maria di Nazareth, esaltandone il divino e mettendo da parte la sua umanità. Maria è donna, donna sola con un figlio, vedova in un tempo in cui la vedovanza era un abominio. Era un'ebrea in una terra oppressa dai Romani, rifugiata in Egitto per sfuggire alla persecuzione. Maria fu una profuga. Madre affannata, che spese la vita a seguire un Figlio che talvolta non capiva (Mc 3,21), un folle, suo figlio. Maria, donna libera, che segue per le vie della Palestina il figlio, viaggiatrice, teologa, scrutatrice. Maria donna dell'assemblea, che presiede la celebrazione della Pentecoste secondo i costumi del suo popolo. Statue e immaginette l'hanno legata, rappresentata in posa statica tra nubi e lune, lei che spese tutta la sua vita a camminare, il cui cuore non conobbe tregua. Donna dai sandali consunti per le passeggiate montane, per far visita alla sua parente, per annunciare. Ed è per questo che con tutto il cuore la chiamo "Madre!". Come la mia mamma era una lavoratrice instancabile e donna del popolo».
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Così san Paolo VI disse sì alla moschea di Roma - «La Chiesa non si abbassa a questi livelli», fu il commento del Pontefice bresciano di fronte a chi in Vaticano pretendeva reciprocità chiedendo che venissero costruite chiese in Arabia Saudita
di Andrea Tornielli, 13.10.2018
«Aveva un enorme rispetto per tutti i suoi interlocutori. Considerava che, certamente, la verità non è qualcosa di opinabile, però bisognava fare in modo che chiunque avesse la possibilità di esprimere la sua verità e il suo concetto di verità. Non a caso, quando si cercò di tirarlo in mezzo per ostacolare la creazione della moschea a Roma, la sua risposta fu proprio all’opposto. Disse: No, questo arricchirà il carattere di civiltà universale della nostra città, che certamente è la Roma “onde Cristo è romano”, ma è anche la Roma dove tutti devono avere la possibilità di parlare e di esprimersi».
La risposta di Papa Montini a quanti nella Curia romana lo pregavano di bloccare l’iniziativa in nome della mancata reciprocità, dicendogli: «A noi in quei Paesi non consentono di costruire neanche una cappellina o di esporre una croce, e dovremmo permettere che costruiscano una moschea sotto le finestre del Papa?». Paolo VI fu lapidario: «La Chiesa non si abbassa a questi livelli». Vale a dire: non è che il mancato rispetto della libertà religiosa da parte di certi Paesi può far sì che noi ci comportiamo allo stesso modo.
Fu Papa Montini a dare un contributo decisivo nella tormentata e discussa redazione della Dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II, il documento che sancì un cambio significativo nell’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti delle altre religioni, con il passaggio dalla “tolleranza” al riconoscimento che la libertà religiosa è un diritto umano e nessun uomo può essere costretto a professare una religione o impedito a seguire il proprio credo.
Del resto proprio Papa Montini, pochi anni prima, in un discorso pronunciato di fronte a una delegazione di musulmani ugandesi durante il suo viaggio in Africa per rendere omaggio ai primi martiri cristiani africani uccisi alla fine dell'Ottocento dai re che professavano le religioni tribali, era arrivato a fare un paragone mai più ripetuto, associando al martirio anche dei credenti musulmani: «Noi siamo sicuri di essere in comunione con voi», disse rivolgendosi agli esponenti di fede islamica nella nunziatura di Kampala, «quando imploriamo l'Altissimo, di suscitare nel cuore di tutti i credenti dell'Africa il desiderio della riconciliazione, del perdono così spesso raccomandato nel Vangelo e nel Corano». Aggiunse: «E come non associare alla testimonianza di pietà e di fedeltà dei martiri cattolici e protestanti la memoria di quei confessori della fede musulmana, la cui storia ci ricorda che sono stati i primi, nel 1848, a pagare con la vita il rifiuto di trasgredire le prescrizioni della loro religione?». (...)
http://www.lastampa.it/2018/10/13/vaticaninsider/cos-san-paolo-vi-diede-disse-s-alla-moschea-di-roma-07kejU4fk8kjMVub5wSWHL/pagina.html
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"Qualsiasi cosa farò, non me lo impedisca. Anzi, mi aiuti". Stava per cominciare la messa quando Paolo VI prese da parte don Pasquale Macchi, il suo segretario, e gli disse queste precise parole. Macchi non capì.
Erano in Cappella Sistina, per una liturgia di ringraziamento a dieci anni dalla remissione delle scomuniche tra cattolici e ortodossi. Con loro c'era Melitone di Calcedonia, il vescovo inviato dal patriarca Dimitrios in sua rappresentanza.
Alla fine della celebrazione, Paolo VI si alzò e andò verso Melitone. Poi, improvvisamente, cadde in ginocchio davanti a lui. E nello stupore di alcuni, e nel gelo incredulo di altri, il papa di Roma, la Sua Santità ancora costretta dalla tradizione a troneggiare sulla sedia gestatoria tra i flabelli, in ginocchio baciò i piedi del confratello vescovo d'Oriente. Quattro secoli e mezzo prima, al Concilio di Firenze, era stato un altro papa, Eugenio IV, a pretendere lui, inutilmente, il bacio del piede dai patriarchi ortodossi.
Melitone uscì dalla Sistina profondamente commosso. Rientrando in Turchia, un giornalista constatò con lui che "solo un uomo veramente grande può umiliarsi così”. Melitone precisò: “Solo un santo”.
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Perchè lo odiano
di Raniero La Valle
(...) Perché vogliono distruggere papa Francesco fino a chiederne le dimissioni e a volere un nuovo Conclave? La cosa è diventata chiara all’apertura del Sinodo dei giovani. Dopo tanto parlare della crisi dei giovani, del loro sbandarsi senza la bussola di una vocazione, del loro aver perduto la fede, il papa nel discorso dall’altare all’apertura dell’assise ha chiesto loro di “non smettere di profetizzare”; ma perché questo avvenga, perché i giovani amplino i loro cuori alla dimensione del mondo, sono gli adulti o anziani, a cominciare dai vescovi, che devono cambiare, “allargare lo sguardo”. (...) Anziani e giovani, secondo il papa, devono sognare insieme, e noi anziani dobbiamo sperare facendoci carico insieme a loro di lottare contro ciò che impedisce alla loro vita di svilupparsi con dignità, e di lavorare per rovesciare le situazioni di precarietà di esclusione e di violenza alle quali sono esposti; e così si ispiri ai giovani “la visione di un futuro ricolmo della gioia del Vangelo” contro i profeti di calamità e di sventura.
Ancora una volta dunque il papa annuncia la gioia, come nell’ “Evangelii gaudium”, nella “Veritatis gaudium”, la “Misericordiae vultus”, la “Laudato sì”, la “Gaudete et exsultate”, l’ “Amoris laetitia”.
Gli avversari non vogliono la gioia, sono intenti ad infliggere dolore: senza dolore il potere non regge, le guerre non si possono fare, i poveri non possono essere esclusi, i naufraghi non possono essere fatti affondare, i porti non si possono chiudere, l’economia non può uccidere, le armi non si possono vendere. Il dolore ci vuole, l’amore deve produrre tormento e non gioia, la massa dannata deve essere soggiogata con la legge e ricattata con la “morte seconda”, la perfetta letizia predicata dal Francesco di Assisi deve essere spregiata come una bambinata buonista. (...)
Per questo motivo oggi viviamo nella contraddizione - e in gran parte è una nuova contraddizione – di una Chiesa ed un papa che militano per la gioia, e un’antichiesa e un mondo che lottano per il dolore. (...) Da qui nasce la nostra sofferenza di oggi, che potremmo chiamare una sofferenza messianica, perché si fa carico del futuro quando ne va dell’avverarsi o del fallire della promessa di salvezza che dai tempi antichi fino ad oggi ha accompagnato e lenito l’arduo cammino dell’umanità.
in “www.chiesadituttichiesadeipoveri.it” del 5 ottobre 2018
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Banale. La realtà non è mai qualcosa di scontato
di Nunzio Galantino
Dal francese ban - è il proclama emanato del signore feudale - si passa a banal con riferimento a qualcosa che si estende a tutto il villaggio, divenendo proprietà comune. Nell’antichità feudale, infatti, un luogo, un edificio, uno strumento era ritenuto “banale” se il suo uso era permesso alla comunità. Si spiega così la corrispondenza che si è stabilita tra banale e (di uso) comune. Solo più tardi si è ritenuto banale tutto ciò che manca di originalità e, quindi, col significato di ovvio, prevedibile e, per certi versi, inutile.
Insomma, dal significato oggettivo e neutro che definiva banale tutto ciò che era comune, si è passato, con il tempo, ad attribuire al termine banale un senso dispregiativo per indicare, come si diceva, una realtà priva di eccezionalità e già abbondantemente nota. In questo senso, un discorso senza alcuna novità è banale, un romanzo che non evoca suggestioni nuove è banale, un’opera d’arte che non suscita emozioni forti è banale.
In realtà, il più delle volte la vita è fatta di sentimenti, esperienze e incontri che non provocano emozioni forti e, anzi, possono rendere particolarmente faticosa la vita. Eppure, non necessariamente sentimenti diffusi ed esperienze comuni sono privi di significato. Come non sono mai banali – solo perché sempre attesi e prevedibili - certi tramonti, certi panorami, certi profumi, certe relazioni. (...)
Siamo sicuri che si vive bene solo quando la vita è fatta di esperienze estreme, di incontri imprevedibili, di vacanze sbalorditive, di spettacoli mozzafiato? Oppure, una vita degna di questo nome può essere fatta anche di una prevedibilità che non è frutto della mancanza di iniziativa ed è fatta di accoglienza per tutto ciò che, pur ripetendosi, domanda passione sempre nuova e partecipazione piena?
Di ciò che è “banale” - nel senso di “comune” - sono fatte le nostre giornate e i nostri incontri quotidiani. È una banalità che dà la sicurezza di appartenere a una comunità, quella umana, capace di restituire la quiete e la fiducia necessarie per esplorare strade inedite perché «l’apparizione della banalità è spesso utile nella vita, perché serve a rallentare delle corde troppo tese e fa ritornare in sé chi si era abbandonato a sentimenti troppo fiduciosi» (I. Turgenev).
in “Il sole 24 Ore” del 19 agosto 2018
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«Ecce Homo! Così il corpo interroga il cristiano»
di Enzo Bianchi
In Gesù Cristo Dio ha vissuto l’esperienza dell’umano dal di dentro, facendo avvenire in sé l’alterità dell’uomo. Scrive Ippolito di Roma: «Noi sappiamo che il Verbo si è fatto uomo, della nostra stessa pasta (uomo come noi siamo uomini!)». Gesù di Nazaret ha narrato, spiegato, visibilizzato Dio nello spazio dell’umano: «Ecce homo! Ecco l’uomo!» (Gv 19,5). Ha dato sensi umani a Dio consentendo a Dio di fare esperienza del mondo e dell’alterità umana e al mondo e all’uomo di fare esperienza dell’alterità di Dio.
La corporeità è il luogo essenziale di questa narrazione che rende l’umanità di Gesù di Nazaret sacramento primordiale di Dio. Il linguaggio di Gesù e, in particolare, la parola, ma poi i sensi, le emozioni, i gesti, gli abbracci e gli sguardi, le parole intrise di tenerezza e le invettive profetiche, le pazienti istruzioni e i ruvidi rimproveri ai
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Un fratello ritrovato è un arricchimento per tutta la comunità
di Marcello Semeraro, vescovo di Albano
“Possiamo scegliere di vivere in una comunità perché è dinamica, calorosa e irradiante. È là che siamo felici. Ma se sopraggiunge una crisi che comporta tensione e agitazione, cominciamo a dubitare della saggezza della nostra scelta. Non bisogna cercare la comunità ideale. Noi scegliamo sempre i nostri amici, ma non scegliamo i nostri fratelli e le nostre sorelle: ci sono dati. È lo stesso in comunità”. Le parole sono di Jean Vanier, fondatore di una comunità di accoglienza per persone con disabilità; si trovano scritte in un suo libro intitolato "La comunità. Luogo del perdono e della festa".
Sono parole e titolo in grado d’aiutarci a entrare nel cuore della pagina evangelica di questa Domenica (Matteo 18, 15-20). Comincia, difatti, con la parola fratello e con l’ipotesi di un dissenso.
Fra due cristiani? Nella stessa comunità? Importa relativamente, perché il tutto è comunque sigillato fra due segni contrapposti. All’inizio c’è il richiamo di una contesa (“Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te”); al termine, invece, un modello di unione fra i discepoli di Gesù (“Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”). Cosa e come scegliere? Vivere nella Chiesa non è stare in una comunità modello, ma avere Gesù come
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Mancano preti e il funerale diventa fai-da-te
di Paolo Rodari
Quella che sembrava essere solo un’ipotesi per il futuro è divenuta realtà. La diocesi di Bolzano-Bressanone permetterà di qui in avanti che a officiare i funerali siano non soltanto preti e diaconi, ma anche uomini e donne debitamente preparati. Come la vicina Austria che da tempo ha adottato questa modalità, così si farà in Italia, in una delle diocesi del Paese più dinamiche sul piano pastorale.
Ciò che ha suggerito al vescovo Ivo Muser l’idea è stata la necessità. E cioè la scarsità di clero presente nella stessa diocesi. E, insieme, la consapevolezza che le esequie sono da tempo compito di tutta la comunità, non soltanto del prete: comportano la preparazione, la vicinanza alla famiglia, l’aiuto all’elaborazione del lutto, un coinvolgimento insomma di più soggetti.
I numeri nella diocesi parlano chiaro: entro vent’anni i sacerdoti scenderanno da 177 a 50. Spiega Reinhard Demetz, direttore dell’Ufficio pastorale della diocesi: solo tre sono i seminaristi in tutta la diocesi (due altoatesini e uno dell’Est Europa), le unità pastorali passeranno presto da 71 a 32, i preti vivranno un sovraccarico pastorale. È inevitabile che «la responsabilità operativa delle parrocchie passi gradualmente ai laici».
Sul settimanale diocesano Il Segno del 17 novembre scorso si racconta di un incontro formativo presso lo Studio teologico di Bressanone in cui i laici e i parroci interessati all’iniziativa potranno essere ragguagliati su ogni dettaglio inerente il rito. E non è escluso che presto possa nascere anche un corso che prevede 16 giorni di formazione distribuiti nell’arco di alcune settimane.
I laici che guideranno le liturgie funebri non frequenteranno il corso di loro iniziativa. Dovranno essere segnalati dai parroci e inviati dalle loro comunità parrocchiali. E non saranno soli, perché il corso prevede anche la partecipazione attiva dei parroci e, come momento formativo, anche dei diaconi permanenti (che già possono celebrare i funerali).
Spiega Demetz che la selezione dei candidati sarà severa perché «si tratta di un ambito pastorale molto importante e molto delicato… un compito che deve essere assunto con grande responsabilità e consapevolezza». Sui candidati c’è anche un identikit: età minima 25 anni, esperienza in campo liturgico, vita di fede, capacità di lavorare in rete, capacità comunicativa, salute psichica e maturità affettiva e, naturalmente, nessun impedimento canonico.
in “la Repubblica” del 15 dicembre 2017
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Confronto. Se vissuto con lealtà aiuta a crescere
di Nunzio Galantino
Parola derivata dal latino medioevale "confrontare" (mettere di fronte, paragonare) - composta da "cum" (insieme) e "frons-tis" (fronte) - è l’atto del mettere di fronte due o più persone/eventi/cose per stabilirne somiglianze o diversità. Oppure per stabilire la superiorità di un elemento su un altro. (...)
Il ricorso alla parola "confronto" nel Diritto penale porta a vedervi un porre, una di fronte all’altra, ragioni e circostanze che contribuiscono a definire il grado di responsabilità, formulare un giudizio, superare un conflitto e ri/stabilire un diritto.
Così inteso, il confronto presenta per lo più grandi difficoltà. Chi si predispone al confronto, infatti, lo farebbe per difendere la propria tesi piuttosto che per trovare un’intesa. Lo fa per rimarcare la verità della propria posizione e l’inconsistenza delle ragioni altrui. È per questo che alla parola e all’esperienza del confronto si accompagna, di norma, il disagio, la paura e lo stress. L'avversario provoca invece sospetto e quindi il bisogno di anticipare ed attaccare per rendere innocue le provocazioni.
Tutto sarebbe meno complicato se l’altro venisse percepito come compagno di strada o come concorrente e non solo e sempre come un avversario; il compagno di strada stimola a muoversi nella direzione giusta ed il concorrente spinge a dare il meglio di sé per il raggiungimento di un obiettivo. Il confronto vissuto con lealtà e senza furbizie, nella complementarità dei ruoli e nella differenza di vedute, fa sempre crescere. Infatti, «Se due individui sono sempre d’accordo su tutto – ha scritto Freud - vi posso assicurare che uno dei due pensa per entrambi».
Purtroppo, al confronto spesso faticoso viene preferita una convivenza di facciata. Il confronto franco infatti è ritenuto pratica pericolosa, quasi una lotta che suppone sempre un vinto e un vincitore. Ma è così solo quando manca la capacità di ascolto, l’interesse per le parole e le opinioni degli altri; quando manca un buon livello di sicurezza e di autostima. Sono tutti deficit, questi, che impediscono la presa in carico delle opinioni altrui.
Al confronto ci si educa e si educa. (...)
in “Il Sole 24 Ore” del 30 settembre 2018
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"Che cos'è il Cielo? Dove si trova? Il Cielo non si trova né sopra né sotto, né a destra né a sinistra: il Cielo è esattamente nel centro del petto dell'uomo che ha fede!".
Salvador Dalì