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Io penso che l'espressione richieda piuttosto, in primo luogo, una riflessione sull'umanissimo e realissimo atto del mangiare, sul senso simbolico e antropologico del mangiare. Come ha scritto Pierre Benoit: "Nell'eucaristia è il corpo stesso di Cristo che, nella sua pienezza di fonte di grazia, viene a noi; e non è attraverso un contatto più o meno superficiale ed effimero, ma attraverso il modo più intimo e duraturo possibile: l'assimilazione di un alimento" . Tra l'altro, il verbo greco usato qui da Giovanni per "mangiare" è trógo, che alcuni traducono letteralmente "masticare". Abbiamo cioè un riferimento all'attività di masticazione essenziale all'atto di mangiare e che implica la trasformazione del cibo (dunque del mondo) tramite la distruzione delle forme solide per renderle digeribili e assimilabili. Per questa via possiamo recuperare il realismo del testo giovanneo e renderlo eloquente oggi, reagendo anche a quella tendenza verificatasi nella tradizione cattolica che ha spiritualizzato il pane eucaristico riducendolo a esilissima ostia che non doveva essere masticata, toccata dai denti del comunicante e ricevuta sulle sue mani, e che ha tralasciato la comunione al calice, al bere quel vino, simbolo del sangue di Cristo, che Gesù, secondo le redazioni di Matteo e Marco dell'istituzione eucaristica, aveva chiesto che "tutti" bevessero (cf. Mt 26,27; Mc 14,23). Per l'uomo il mangiare è atto primordiale e riconoscimento iniziale del mondo. Il suo legame con la vita è essenziale da quando il bambino è feto nel ventre materno fino alla morte. L'atto di mangiare è rinvio all'attività culturale dell'uomo: implica il lavoro, la preparazione del cibo (dunque il piano della natura e della cultura), la socialità (nel raccogliere e preparare il cibo come nel consumarlo), la convivialità. Infatti, l'uomo mangia insieme con altri uomini e il mangiare è connesso a una tavola, luogo primordiale di creazione di rapporti. A tavola si condivide il cibo e si scambiano parole, sicché il mangiare implica anche la creazione culturale più straordinaria: il linguaggio. L'atto di mangiare investe la sfera affettiva ed emozionale dell'uomo ed è un simbolo antropologico che coglie l'uomo nelle sue profondità più intime e nascoste e lo situa nel legame con la terra, con il cosmo, con la polis, con la società, con il mondo. "Non esiste per l'uomo un assenso più totale a tutto ciò che lo circonda dell'atto di mangiare. E il modo umano di dire il proprio sì, perché è nello stesso tempo il sì del corpo e dell'anima... Ogni boccone di pane è in qualche modo un boccone di mondo che accettiamo di mangiare" . L'atto di mangiare rinvia l'uomo al suo essere corpo sia come bisogno, sia come legame con l'universo: mangiando, infatti, noi assimiliamo il mondo in noi e lo trasformiamo. Il mangiare inoltre ricorda all'uomo la sua caducità, il suo essere mortale: si mangia per vivere, ma il mangiare non riesce a farci sfuggire alla morte. Dicendo "chi mangia me" Gesù raggiunge dunque l'uomo nella sua dimensione corporea, nella sua quotidianità e nel suo bisogno universale, essenziale per vivere, che è il mangiare.
Luciano Manicardi, Il corpo, 58-61
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Calabria, spari contro auto di parroco antimafia
Alcuni colpi di fucile, caricato a pallettoni, sono stati esplosi a Gioiosa Jonica (Rc), contro la vettura di don Giuseppe Campisano, di 59 anni, parroco della chiesa di San Rocco. Sull'intimidazione, che si è verificata la scorsa notte, stanno svolgendo accertamenti i carabinieri della Compagnia di Roccella Ionica. L'autovettura era parcheggiata nei pressi della chiesa. L'episodio, sul quale indagano i Carabineiri, potrebbe essere legato ai festeggiamenti in onore di San Rocco, svoltisi domenica scorsa in occasione dei quali il vescovo di Locri, monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, era intervenuto per sottolineare il valore religioso e sacrale dell'appuntamento, che negli anni aveva acquisito un significato più laico e folcloristico. Don Campisano è noto per il suo impegno contro la criminalità organizzata, essendo anche vicino all'associazione Libera di don Luigi Ciotti. Anni fa aveva ricevuto minacce telefoniche accompagnate da lettere con proiettili.
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Il no di Alcide a Mussolini
«Caro don Giulio, ho ricevuto i secondi sigari in ottimo stato, mentre i primi, forse per la lunga odissea, erano spezzati: ma duplice è il mio obbligo di ringraziamento, per il donatore e lo speditore; voglia farsene caloroso interprete». Il "lei" era d'obbligo in questa lettera destinata nel 1929 al reverendo sacerdote, ma la formalità non cela la fraterna e schietta amicizia di Alcide De Gasperi verso il prete della propria terra, giornalista e politico. Una stima che fu sempre ricambiata da don Giulio Delugan (1891-1974), figura di spicco del mondo cattolico trentino, giornalista e animatore dell'Azione cattolica e dei circoli universitari nel periodo tra le due guerre e poi per il tempo record di 40 anni alla direzione del settimanale diocesano Vita Trentina. Il rapporto profondo fra questi «due spiriti liberi e forti», si era radicato fin dagli anni degli studi universitari e si è poi rivelato decisivo anche nelle scelte professionali e politiche di De Gasperi, come nelle posizioni dell'opinion leader della Chiesa trentina. Assume ora uno spessore particolare nella pubblicazione del carteggio fra i due nel trentennio 1928-1954 (...). Il titolo Fedeli a Dio e all'uomo si riferisce efficacemente alla tensione spirituale e alla coerenza morale dei due amici, accomunati in molte posizioni che affiorano nelle lettere: la diffidenza prima e l'avversione poi nei confronti dell'avanzata fascista, la condanna del regime comunista bolscevico, la difesa della libertà della stampa cattolica, la moralità nell'etica pubblica e politica, il riconoscimento dell'autonomia del Trentino Alto Adige in una prospettiva europea. Ma la consonanza fra i due nasceva dall'aver condiviso all'interno del Partito Popolare la fiducia in un'esperienza politica aconfessionale e indipendente dalla gerarchia ecclesiastica, nell'aver rifiutato qualsiasi compromesso con il fascismo. «Entrambi vissero profondamente l'inquietudine propria del loro tempo di fronte alla formula coniata sedici secoli prima dall'ignoto autore della Lettera a Diogneto sulla condizione del cristiano rispetto al mondo, visto come "straniero in patria"». (...) L'accorato scritto che De Gasperi aveva inviato ai colleghi collaboratori nel giorno in cui, costretto dal regime, si dimetteva dalla direzione del quotidiano Il nuovo Trentino: «Colleghi carissimi, lascio il giornale con indicibile strazio - attacca questa lettera, quasi un manifesto deontologico sempre valido - ma col proposito di rendere a questa che fu la mia e la nostra creatura un ultimo servizio. Per quanto tempo ormai fossi distratto da altre responsabilità, la mia passione era e rimaneva questo giornale, in cui sognavo di poter continuare con altre forme di diuturna battaglia (
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Chiesa di fede e di governo
di mons. Gianfranco Ravasi
Chiesa e Stato (o società): quante analisi e discussioni si sono avviluppate e ingarbugliate attorno a questo binomio. E i colori dei discorsi il più delle volte si sono fatti accesi e le tonalità squillanti. (...) C'è, poi, un altro equivoco da schiodare nell'opinione comune, ossia l'equazione d'identità Chiesa-Clero, con esiti spesso fieramente polemici (...) Ma che cos'è effettivamente la Chiesa, questa realtà così celebrata e contestata, considerata anche il nodo più aggrovigliato che l'ecumenismo tenta vanamente di dipanare? Se dovessimo cercare la risposta nella bibliografia anche solo post-conciliare, ci troveremmo immersi subito in una foresta dai mille sentieri, nella quale si muovono a fatica già i teologi e dalla quale fedeli e "laici" uscirebbero ben presto spossati. Certo, si potrebbe consegnare loro quella sorta di mappa chiara e ben definita che è il documento del Concilio Vaticano II sulla Chiesa, denominato dalle prime parole Lumen gentium. (...) Vorremmo indicare una via un po' più pianeggiante e breve. L'ha abbozzata in un volume ridotto ma succoso uno dei nostri migliori teologi contemporanei, Severino Dianich, docente emerito della facoltà di Teologia di Firenze, che ha sulle spalle una personale panoplia bibliografica poderosa, ma che qui ama indossare un'attrezzatura leggera quasi da viaggiatore. Sì, perché quello che egli propone è un viaggio, anzi, un'«esperienza» dal momento che presentare un tema della fede «non è mai un'operazione asettica, da svolgersi come si fosse col camice bianco in laboratorio». Alla radice della Chiesa c'è un dato originario. È «l'atto della comunicazione della fede da un credente a un'altra persona che l'accoglie e la fa sua», creando così una profonda comunione interpersonale; questo evento è «frutto di un disegno divino e della grazia di Dio che opera nella storia per attuarlo». In pratica, la Chiesa si rivela come il punto di incrocio fra l'orizzontalità dell'incontro tra persone nella fede e la verticalità del rivelarsi di Dio nella grazia. Si comprende, quindi, che la definizione della Chiesa come società è imperfetta: essa, certo, proprio perché comunità di uomini e donne inserite nelle coordinate spazio-temporali, insiste ed esiste nella storia e ha una dimensione "carnale"; ma al tempo stesso nel suo cuore intimo custodisce una realtà trascendente fatta appunto di grazia e di fede, senza la quale si sterilizzerebbe in una mera istituzione. La mappa ecclesiale che Dianich delinea è, perciò, ritmata costantemente su questi due livelli. Da un lato, c'è l'evento germinale che è dono divino e annuncio di fede. Esso vede in azione la gratuità e l'efficacia superiore del sacramento, che genera continuità, indefettibilità, verità. D'altro lato, questo evento si attua nel mondo, ha per attori non solo Dio, ma anche persone, apostoli, ministri, testimoni. La Chiesa, perciò, è dotata di una sua visibilità che si esprime nelle strutture e si espande nell'universalità (la «cattolicità»).È su questo secondo versante che si colloca appunto il nesso Chiesa-politica da cui siamo partiti. La stessa «incarnazione», anzi, il cuore del messaggio evangelico e del Regno di Dio, fondato sulla giustizia, sulla libertà, sulla dignità umana, sulla salvezza, non possono non avere ridondanze sociali. Se Dio e il suo Cristo sono il principio dell'umanità nella sua nobiltà nativa, «nessun uomo, nessuna forza nazionale o economica
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Sciopero contro il calcio
di Massimo Gramellini
E se invece dei calciatori scioperassimo noi? Se decidessimo di colpo e tutti insieme di diventare adulti, smettendo di delegare il nostro umore a bande di mercenari con procuratori al seguito? Per me è più facile, ho la squadra del cuore in serie B. Ma è come smettere di fumare: con un po' di sforzo possono farcela tutti. Il baraccone del calcio si regge su un incantesimo collettivo. Per rivivere le emozioni pure dell'infanzia, il tifoso finge di credere che quei ragazzotti con l'amata divisa indosso siano i suoi avatar. Trasferisce le sue rabbie e le sue speranze a giocatori che non le condividono: perché ignorano la storia del club e perché comunque non gliene importa niente. Sono lì per guadagnare. E per vincere. Ma vincere per se stessi e i propri compagni. Mica per noi. Credetemi, li ho conosciuti da vicino quando facevo il giornalista sportivo: nelle interviste ci incensano, ma in cuor loro ci considerano dei pirla. E hanno ragione. I calciatori sono una casta che ci sfrutta, esattamente come quell'altra. Il parallelo è impressionante: anche in politica deleghiamo a professionisti prezzolati la realizzazione dei nostri desideri, imprestando loro ansie di cambiamento che essi fingono di sottoscrivere nei comizi, per poi irriderle e svilirle nel chiuso degli spogliatoi (pardon, delle aule parlamentari). Mentre noi con la bava alla bocca ci dividiamo fra destra e sinistra, Inter e Milan, i nostri avatar vanno a cena insieme, badando ai loro interessi comuni. Il rimedio? Una cura choc: stadi vuoti, urne vuote. E' ora di ritirare le deleghe e di diventare tifosi di noi stessi.
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Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro.
E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te.
F. W. Nietzsche, da "Al di là del bene e del male"
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Come dev'essere il mondo, che il prodigo porta nella casa, perché venga consustanziato dalla grazia? Non contano le previsioni, come non conta la paura. La novità non la si deve descrivere né temere. Ciò che di questo mondo deve finire, che urge far finire, finirà, quando e come non importa. Importa non sgomentarci di nessun crollo. Domani c e ancora il sole. I giorni sono giorni, le stagioni stagioni
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Signore, noi non sappiamo parlare di te e le nostre parole sono sempre deboli, imprecise, approssimative. Tu solo sei la Parola, e ti chiediamo di essere Parola per ciascuno di noi. O Gesù, manifestati a noi come Parola di vita, affinché noi riconosciamo che tu sei il senso, il significato dell'esistenza, che tu ci doni la vocazione decisiva per il nostro cammino. Tu, che sei trasparenza del Padre, splendore e riverbero del Padre, fa' che contemplando il tuo volto di crocifisso risorto possiamo vedere il Padre; fa' che ascoltando te possiamo ascoltare il Padre, perché tu sei la Parola ultima, definitiva, nella quale c'è tutto ciò che l'uomo può desiderare. Manifestati a noi, Gesù, nella tua umanità e nella tua divinità. Concedici di cogliere in te l'Assoluto, il Perfetto, l'Eterno, l'Immenso, la Verità, l'Amore, la Giustizia, la somma di tutti i beni desiderabili, Colui a cui tendono le nostre speranze e da cui dipende tutta la nostra vita, ogni molecola del nostro corpo, ogni nostro pensiero, gesto, azione. Fa', Signore Gesù, Verbo di Dio fatto uomo, amico e fratello nostro, che in te ci si riveli il Dio Trinità, Colui che è tutto e che ha in mano la vita e la morte, il tempo e l'eternità, la gioia e il dolore, la notte e il giorno. Tu, Signore, sei lo scopo definitivo della nostra esistenza perché tu sei l'Amore.
C. M. Martini, Le confessioni di Pietro, 50-51
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Copia e incolla: idee in Comune
Le macchinette mangia lattine a Oslo, i chip conta-rifiuti di Leeuwarden in Olanda (tra l'altro la città natale di Mata Hari), gli orti urbani di Dakar, la rete dei centri civici di Saragozza, il tetto a giardino del comune di Chicago, l'ombrellone del viandante della Marina di Pisa. Sono solo alcuni esempi di buone pratiche di amministrazione pubblica che sono state messe in pratica in tutto il mondo. Da qui nasce lo spunto per l'iniziativa “Copia e incolla: idee in Comune" che l'assessora al Tempo libero, Chiara Bisconti, ha presentato oggi. Cioè: chiedere alle milanesi e ai milanesi in vacanza di segnalare iniziative simili (ma non solo: anche di cittadinanza partecipata, educazione civica, difesa dell'ambiente, creatività, uso del tempo libero) che scoprono nei loro itinerari turistici. “Noi siamo qua, a lavorare, come molti milanesi. Altri sono invece a godersi ferie meritate, in una situazione di svago e relax, uno stato mentale che favorisce spunti nuovi e idee originali", ha spiegato Bisconti. “Questa iniziativa vuol essere un ponte fra tutti noi. Uno stimolo alla creatività e allo spirito di osservazione. Il tutto all'insegna della partecipazione. In sostanza, invitiamo cittadine e cittadini a fare un'operazione di copia e incolla di buone pratiche. Ci aspettiamo tante idee creative, divertenti, semplici, efficaci. E, perché no, magari qualcuna di queste potrebbe pure trasformarsi in un provvedimento concreto da parte dell'amministrazione comunale, proprio come uno degli esempi citati qui all'inizio del comunicato. E' un metodo, quello della “best practice", che è comunemente adottato nelle grandi aziende private. Guarda caso, stiamo già facendo copia e incolla
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L'estate morale
di Massimo Gramellini
Dove sono finite le berluschine di Villa Certosa, le suffragette di Gheddafi, la casa di Montecarlo del cognato di Fini, il cognato di Fini medesimo? E le feste oltraggiose dei ricchi volgari, i dibattiti sul nulla pieno di vuoto, il cazzeggio elevato a nobile arte? Nell'estate del nostro scontento ci riscopriamo più sobri e più seri. E' impressionante come cambi in fretta l'umore di un popolo. Ancora l'estate scorsa ci distraevamo dalla crisi incombente con una dose massiccia di pettegolezzi sul Potere. E anche chi, a parole, si indignava per lo scadimento del dibattito pubblico non riusciva a sottrarsi alla tentazione di sbirciare dal buco della serratura. Ora la crisi ha rimesso tutte le cose al loro posto. Le scemenze, anche se politicamente o penalmente rilevanti, retrocedono al rango di scemenze. E i giornali e le chiacchiere da ombrellone si riempiono di numeri, di fatti, di cose concrete. Persino la paura ha cambiato segno: non più quella vaga, e agitata ad arte, di batteri killer o attentati terroristici in serie, ma il realistico spavento che attanaglia chi rischia di perdere un lavoro o un benessere lungamente sudato. Il processo di luglio a un giornale scandalistico inglese, reo di usare il gossip come strumento di lotta politica, è stato l'evento simbolico di questo mutamento di clima. L'anticipo di quanto sarebbe successo ad agosto con il crollo delle Borse, le fiamme nichiliste di Londra, la Manovra Succhiasoldi. La signora Realtà che invade il palinsesto delle nostre vite per ricordarci che la ricreazione è finita. Anche per i ricchi, che si vergognano a ostentare la loro ricchezza, chiamando pudore quella che per molti di loro è solo paura. E anche per la Casta: sempre più elevata a capro espiatorio dell'impotenza collettiva, però redenta almeno in parte dalla necessità di occuparsi finalmente di temi alti. Oggi non ci si divide più sul bunga bunga, ma sugli eurobond. E nessuna macchina del fango avrebbe più il potere di orientare l'opinione pubblica, interessata alle tasse e molto meno alle risse. Qualche bastiancontrario in malafede accuserà questo articolo di tessere l'elogio della crisi e il suo autore di rosibindismo: come osa esaltare gli effetti moralizzatori dell'impoverimento collettivo? Nessuna esaltazione. Sarebbe meraviglioso essere tutti benestanti, occupati e al tempo stesso evoluti ed equilibrati. Ma intanto è un fatto che in un'epoca che respinge i valori spirituali e trema di imbarazzo anche solo a parlarne, l'improvvisa disintegrazione delle certezze materiali stia producendo un riassestamento delle gerarchie interiori. L'amore recupera il posto che gli spetta: il primo. Mentre la terra trema sotto i nostri piedi, tutti hanno bisogno di certezze e i «ti amo» di questo ferragosto hanno un peso più forte del solito. Sono quasi un patto di sostegno reciproco. Chi credeva timidamente in qualcosa, una fede o un suo sogno profondo, ricomincia a farlo con la solennità dei momenti speciali. C'è la sensazione diffusa di essere usciti dalle pagine del gossip per piombare nella storia. Una gran brutta storia, per ora. Ma i cambi di stagione cominciano sempre così. Con un bisogno inaudito di serietà, che sta a noi non confondere con la sorella più bieca: la pesantezza.
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Il nuovo giorno
di Madeleine Delbrêl
Inizia un altro giorno.
Gesù vuol viverlo in me. Lui non si è isolato.
Ha camminato in mezzo agli uomini.
Con me cammina tra gli uomini d'oggi.
Incontrerà
ciascuno di quelli che entreranno nella mia casa,
ciascuno di quelli che incrocerò per la strada,
altri ricchi come quelli del suo tempo, altri poveri,
altri eruditi e altri ignoranti,
altri bimbi e altri vegliardi,
altri santi e altri peccatori,
altri sani e altri infermi.
Tutti saranno quelli che egli è venuto a cercare.
Ciascuno, colui che è venuto a salvare.
A coloro che mi parleranno, egli avrà qualche cosa
da dire.
A coloro che verranno meno, egli avrà qualche cosa
da dare.
Ciascuno esisterà per lui come se fosse il solo.
Nel rumore egli avrà il suo silenzio da vivere.
Nel tumulto, la sua pace da portare.
Gesù, in tutto, non ha cessato di essere il Figlio.
Vuole in me rimanere legato al Padre.
Dolcemente legato,
ogni secondo,
sospeso su ciascun secondo,
come un sughero sull'acqua.
Dolce come un agnello
di fronte a ogni volontà del Padre.
Tutto sarà permesso in questo giorno che viene,
tutto sarà permesso ed esigerà che io dica il mio sì.
Il mondo dove Lui mi lascia per esservi con me
non può impedirmi di essere con Dio;
come un bimbo portato sulle braccia della madre
non è meno con lei per il fatto che lei cammina tra la folla.
Gesù, dappertutto, non ha cessato d'essere inviato.
Noi non possiamo esimerci d'essere, in ogni istante, gl'inviati di Dio nel mondo.
Gesù in noi, non cessa di essere inviato,
durante questo giorno che inizia,
a tutta l'umanità, del nostro tempo, di ogni tempo,
della mia città e del mondo.
Attraverso i fratelli più vicini ch'egli ci farà
servire amare salvare,
le onde della sua carità giungeranno sino in capo al mondo,
andranno sino alla fine dei tempi.
Benedetto questo nuovo giorno che è Natale per la terra,
poiché in me Gesù vuole viverlo ancora.
Tratto da Madeleine Delbrêl, Il piccolo monaco, 1990
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La Vergine col bambino, ambasciatrice del dialogo interreligioso
di Hendro Munsterman
Quest'anno, il 15 agosto cade a metà del ramadan. Tradizionalmente, due settimane prima di questa festa cristiana che celebra l'Assunzione della Vergine Maria, i copti d'Egitto digiunano. Capita che ai fedeli cristiani si uniscano dei giovani musulmani. Perché Maria, che ha un ruolo importante nella Bibbia e nel cristianesimo, è altrettanto importante nel Corano e nell'islam. È proprio per questa ragione che nel 2010, il Libano aveva decretato che il 25 marzo, festa dell'Annunciazione, fosse giorno festivo per celebrare il legame tra le due religioni. Per i cristiani, la presenza di Maria (Miryam) nel testo coranico è spesso una sorpresa. Vi si trovano dei paralleli più o meno diretti con il testo biblico, l'Annunciazione, ad esempio. Ma vi si trovano anche delle informazioni non-bibliche. Sono informazioni che possono essere ispirate dai vangeli apocrifi (Proto-vangelo di Giacomo, Pseudo-Matteo, ecc.) e, soprattutto, da discussioni tra ebrei e cristiani dell'epoca, o tra diverse sette cristiane (nestoriani, monofisiti, giacobini, ecc.). Le somiglianze sono a volte sorprendenti: nel Corano, Miryam è lodata come “pura”, ed è chiamata “colei che è rimasta vergine”, “colei che è rimasta fedele a Dio”, “la madre verginale di Isa”. Ma vi si trovano anche delle differenze come il bel racconto della nascita miracolosa di suo figlio Isa (Gesù). Infatti, nella sura 19 che porta il nome di “Sura Miryam” la nascita ha luogo sotto una palma mentre Miryam è sola. Giuseppe non appare nel racconto; mentre i testi biblici gli danno un posto, anche se molto discreto, nel Corano non è citato, dando l'impressione che si tratti di una famiglia mono-parentale. La differenza maggiore tra Miryam e Maria è legata a quella tra Isa e Gesù. Nella Bibbia, come nella teologia cristiana, tutto ciò che i cristiani affermano a proposito di Maria ha una ragione e una funzione cristologica. È Gesù di Nazareth, confessato come Cristo e Figlio di Dio, che è al centro dell'attenzione. La Bibbia parla quindi spesso della “madre di Gesù” o di “sua madre”: Maria è presentata attraverso suo figlio. Nel Corano, le cose non possono essere così: Isa è un profeta, certo, anche molto grande, ma non “Figlio di Dio”, “Verbo fatto carne”, “Messia”. Miryam quindi non è “la madre del mio Signore” come la chiama Elisabetta nel vangelo secondo Luca. Ha un'identità più autonoma rispetto a suo figlio; il Corano non la chiama “la madre di Isa”, ma al contrario, per 22 volte, Isa viene chiamato “il figlio di Maria”. Una sorta di femminismo ante litteram, dato che sappiamo che allora c'era l'abitudine di definire l'identità di un ragazzo a partire dal padre. Ci si può anche stupire di una doppia sproporzione nel parallelo: mentre il Corano dà molte più informazioni della Bibbia sulla vita di Maria, la venerazione della madre di Isa è rimasta molto più discreta del culto mariano sviluppato nel cristianesimo. Per i musulmani, Miryam è certo vergine e madre, ma soprattutto è aya, segno di Allah, una parola utilizzata nella tradizione dell'islam per designare le meraviglie della creazione. Considerate come segni che invitano a credere, tali meraviglie non sono di solito degli esseri umani. Salvo Miryam che, sottomettendosi alla volontà di Dio, è diventata un esempio per tutti i musulmani. Dal tempo degli hadith, esiste un dibattito all'interno dell'islam su Miryam: è la più perfetta musulmana tra le donne? Si trova in concorrenza con la figlia del profeta Maometto, Fatima, che del resto ha dato il suo nome alla cittadina del Portogallo conosciuta per essere uno dei santuari mariani cattolici più visitati dopo gli avvenimenti del 1917. Alla fine, Fatima è la più venerata nell'islam: viene chiamata “madre dei dolori”, “la pura”, “Donna del popolo del cielo” e anche “La Maria più grande” - titoli che hanno delle risonanze con quelli che i cattolici dedicano a Maria. Cristiani e musulmani vedono quindi in Maria un esempio femminile di fede, così come per entrambe le tradizioni Abramo è un esempio di fede al maschile. Ma per i cristiani, essa è più di questo: la sua partecipazione all'incarnazione ha trovato la sua espressione teologica nel titolo di theotòkos, “colei che ha generato Dio” (mal tradotto in occidente con “Madre di Dio”). Questo evento essenziale delle fede cristiana costituisce senza dubbio la ragione dell'importanza maggiore della venerazione di Maria nel cristianesimo rispetto a quella nell'islam. C'è un altro parallelo tra le due tradizioni riguardanti Maria. A lungo, e troppo spesso ancora, cristiani e musulmani hanno (volontariamente) ignorato un elemento chiave dell'identità di Miryam/Maria: il fatto che era ebrea! È vero che nell'antica letteratura rabbinica si trovano alcuni rari passi più o meno diffamatori su Maria (“questa donna si è allontanata da suo marito”), senza dubbio nutriti dalle polemiche ebraico-cristiane. Più recentemente, alcuni pensatori ebrei hanno cercato di dare un posto a Maria/Miryam. Ad esempio, David Flusser vede nella Mater dolorosa la rappresentante di tutte le donne ebree che hanno dovuto vedere i loro figli soffrire e morire durante le persecuzioni. Oggi, Miryam/Maria è un ponte tra cristiani e musulmani, e noi non possiamo più ignorare che prima di “appartenerci”, il suo posto era in seno al popolo ebraico a cui Dio si è rivelato per primo.
in “www.temoignagechretien.fr” dell'11 agosto 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
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Gli operatori umanitari rendono il mondo migliore
Kristalina Georgieva, Commissaria europea per la Cooperazione internazionale, gli aiuti umanitari e la risposta alle crisi
Un giorno per ringraziare coloro che aiutano i più bisognosi. (...) La Giornata mondiale umanitaria, celebrata oggi, rappresenta un'opportunità per esprimere il nostro apprezzamento e gratitudine per le donne e gli uomini che lavorano in condizioni difficili e, talvolta, pericolose e che dedicano il loro lavoro e le loro vite al servizio dell'umanità. Nel fare ciò, sono spesso più esposti addirittura dei «caschi blu» dell'Onu in quanto non portano armi ma affrontano esattamente gli stessi pericoli. Solo nel 2010 si sono verificati 129 attacchi alla sicurezza degli operatori umanitari; 69 di essi sono rimasti uccisi, 86 feriti e 87 sequestrati. Loro sono anche le persone che rischiano le loro vite in Somalia. In Doolow ho avuto la possibilità di incontrarne alcuni. Tra loro anche Maurice Kiboye, programme manager per Coopi, partner umanitario dell'Unione europea. Lui mi parlava delle persone disperate che contavano sulla sua équipe per la loro sopravvivenza e che non avevano paura davanti alla carestia o agli assalti delle bande armate. Mi anche spiegato che lui poteva svolgere il proprio lavoro perché era sicuro che la comunità locale lo avrebbe protetto, se necessario - «noi siamo qui per loro e loro sono qui per noi». Queste sue parole contengono infatti il messaggio che la Giornata mondiale umanitaria vuole trasmettere: «Persone che aiutano le persone». Più di un miliardo di persone nel mondo vivono in condizioni di assoluta povertà. Loro sono le vittime più vulnerabili di conflitti e disastri. I cambiamenti climatici e la crescita demografica rendono le loro vite ancora più difficili e il compito di coloro che prestano assistenza ancora più pressante. Esso può essere eseguito grazie all'impegno di operatori come Maurice e il suo team in Somalia. Il loro lavoro è uno dei più pericolosi ma, al tempo stesso, uno dei più valorosi. Infatti, gli operatori umanitari sono umili ma le loro conquiste no. E' grazie a loro che la Commissione europea è riuscita l'anno scorso a migliorare le condizioni di 140 milioni di bisognosi in tutto il mondo. Agli operatori umanitari e ai cittadini europei che aiutano ad assicurare i fondi per il loro lavoro dobbiamo un'enorme gratitudine. Grazie di cuore!
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Le nostre idee invecchiano con noi e questo è il motivo per cui non ce ne accorgiamo e poi rimaniamo stipiti quando spiriti più giovani non se n'entusiasmano, a loro volta, al pari di noi.
Henri De Lubac, Nuovi paradossi, 1964
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La strage di innocenti nel Corno d'Africa
di Joaquín Navarro Valls
Ormai da alcuni giorni, ben oltre le questioni europee dei mercati finanziari, tutto il mondo è stato sconvolto dalla grande carestia che sta attraversando il Corno d'Africa. (...) Dato che la catastrofe appare incontenibile, è essenziale non liberarsi la coscienza troppo alla svelta, cercando, piuttosto, di avviare una seria riflessione sul significato d'insieme che una sciagura umanitaria di questo tipo dovrebbe avere sulla nostra condotta di vita. Intanto, guardando dietro i numeri e le cifre per vedere la dura realtà che si nasconde. La tendenza psicologica istintiva, invero, è commuoversi per il vicino di casa che è improvvisamente mancato o il malcapitato che ha un incidente sotto i nostri occhi, lasciando sullo sfondo, come se si trattasse di un'innocua finzione, situazioni che sembrano non riguardarci soltanto perché sono lontane geograficamente. Anzi, il peso senza spettacolarità di questo disastro richiede un'azione diretta, magari silenziosa, da parte di tutti. Sì, perché questi milioni di persone prive del minimo indispensabile contraddicono duramente lo sfarzo consumistico di idolatrare le risorse che hanno le società opulente. Ed è perciò inevitabile sentirsi direttamente interpellati nel proprio amor di sé, e, cosa che conta ancora di più, nel tipo di logica utilizzata personalmente per regolare l'economia. In linea teorica tutti i grandi Paesi hanno la buona intenzione di rivolgersi con umanità verso la miseria. Ma poi devono resistere, per non dire soccombere, davanti al proprio debito pubblico, davanti al credito maturato verso gli Stati, oppure davanti alla crisi del sistema bancario e della finanza globale che obbligano all'oculatezza nei risparmi. Tutti fattori di grande importanza, dal punto di vista della considerazione macroeconomica e monetaristica, ma assolutamente marginali se paragonati al valore incommensurabile che ha la vita anche solo di una persona costretta a morire di fame. Nel modo comune di parlare si dice che, di fronte a certi obiettivi, «non si deve guardare in faccia a nessuno». Ora, purtroppo, la reazione che provoca lo sguardo disgraziato di un innocente involontariamente condannato a perire di stenti è o quello di «guardare in faccia qualcuno», oppure distrarsi senza umanità in "qualcosa" che non vale niente di niente. Si può decidere, però, pacificamente di disinteressarsi ai bisogni dell'altro solo fin quando questi non sono essenziali per la sua sopravvivenza. Dopodiché, la distrazione diventa omissione, l'ignoranza disprezzo e la parsimonia cinica crudeltà. Certo, nessuno ha in mano le ricette per combattere drammi universali di questa entità. Ma ognuno potrebbe affrontare il proprio individualismo di petto, rendendo socialmente indispensabile un generoso impegno economico per arginare diseguaglianze insopportabili. La soluzione, mi sembra, è contenuta in una frase: sperperare l'inutile per far sopravvivere l'utile. E prendo quest'espressione da La Pira, scritta quaranta anni fa. Ma Ghandi aveva anche scritto qualcosa di simile. Non è importante sapere quali saranno le ripercussioni nei bilanci pubblici, e neanche quali effetti deriveranno per i risparmi di domani. Audacemente e con intelligenza è primario impegnarsi subito a salvare la pelle di coloro che sono ancora in vita. Anche perché, nonostante gli accurati studi dei premi nobel sul Prodotto Interno Lordo, né l'Europa né l'America hanno sciolto la crisi, mentre la salvezza anche di una sola persona è un capitale economico, produttivo e umano di evidente valore oggettivo, oltretutto a portata di mano. La vicenda del Corno d'Africa ci offre, insomma, un'occasione di riflessione sul male dell'Occidente, che è, alla fine, riassumibile in una sola e unica parola: egoismo. Quando saremo pronti a spenderci per le altrui difficoltà, allora avremo imboccato la strada risanatrice per conquistare quei mercati che non possono nascere senza che esistano prima delle persone vive, in grado di svilupparsi, crescere e prosperare.
in “la Repubblica” del 9 agosto 2011
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Santa Chiesa, è inutile gridare, inutile far concorrenza allo spettacolo. Tu hai di meglio a disposizione: un rifugio per tanti uomini perduti nella fiera gigantesca, un segreto da sussurrare: la Sua parola e i sacramenti. Quanto basta a rinnovare la terra per l'eternità".
Jean Sullivan, Paradoxe et scandale, Paris 1962, 245
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Maria vive con attenzione. Attenzione è un atteggiamento amico verso gli altri, è la prontezza a cogliere segni attorno a sé; a scuotersi dall'ovvio, dal risaputo, dal senso del dovere imposto; a passare dal particolare all'universale, dal personale al comunitario; a sentire gli altri come persone che danno respiro al cuore; forse il contrario dell'amore non è l'odio, ma l'indifferenza e la disattenzione che fanno sì che l'altro neppure esista per te. Il contrario della comunione è la distrazione.
Maria appare nel Vangelo di Giovanni come una presenza amicale, attenta a che non cessi il canto e non si spenga la danza alla festa dei poveri, perché non si spenga la certezza che « amico » è un nome di Dio. L'amicizia, anche in Dio, è un cuore che parte in pellegrinaggio verso qualcuno; ristoro del cuore, come dice Abramo ai suoi tre visitatori (Gen 18,5).
Ermes Ronchi, Le case di Maria, 100
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Un po' di più di una semplice foto e qualcosa in meno di un video, così la fotografa di moda newyorkese Jamie Beck e il grafico Kevin Burg definiscono la serie di immagini in movimento "Cinemagraphs". A metà tra la gif animata e il fermo immagine cinematografico queste fotografie nascondono piccoli dettagli dinamici al loro interno: che sia un colpo di vento che muove i capelli o un taxi che si riflette sulla vetrina di un bar, i "cinemagraphs" sono un omaggio fotografico al movimento.
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Emergenze umanitarie, la Chiesa è in prima fila
di Gianni Gennari
Atroci notizie dall'Africa, e ripetute. La gente muore di sete e di fame in tutta la zona del Corno d'Africa, Etiopia, Eritrea, Somalia, Sud Sudan e dintorni vastissimi. (...) Negli ultimi anni le vittime dei naufragi nel Mediterraneo sono circa 29.000
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L'Africa derubata, i comboniani denunciano
In occasione dell'incontro a Gerusalemme di noi vescovi missionari comboniani, provenienti dall'America Latina (3) e dall'Africa (9), presenti anche il Padre Generale e la Madre Generale dei due Istituti Comboniani, avvertiamo forte l'esigenza di lanciare un appello a favore dell'Africa. Ci sembra che l'Africa, al di là delle sue potenzialità e dell'immensità delle sue risorse naturali, rimane ancora il continente dove guerre, violenze, prepotenze, povertà e malattie sono all'ordine del giorno e continuano a creare situazioni crescenti di ingiustizia e di miseria sempre più drammatiche, anche confrontate con il resto del mondo. Numerosi problemi interni di sottosviluppo sono diventati in gran parte il destino sinistro esclusivo dell'Africa: mal governo, assenza dello stato di diritto, conflitti e violenze sotto tutte le loro forme, debole livello del tasso di scolarizzazione, forte mortalità infantile, malattie endemiche, come la malaria e il Hiv/AIDS, dilapidazione delle risorse, povertà in cui vive la maggior parte della popolazione e drammatica situazione dei rifugiati e degli sfollati. Tuttavia, oggi l'Africa è diventata nuovamente un continente bramato e disputato tra le grandi potenze mondiali, comprese anche le multinazionali. Uno solo è l'obiettivo: saccheggiare sistematicamente le risorse naturali delle sue foreste, del suo sottosuolo, così ricco in petrolio, diamanti, uranio, oro, coltan, ecc., impadronendosi di tutta la gamma delle diverse materie prime con l'avvallo delle autorità locali, disposte a svendere i loro diversi paesi, in contraccambio di tornaconti personali, etnici o di partito. Costatiamo ultimamente, e con sgomento, un equivoco fabbricato ad arte: l'implementazione dei cosiddetti «progetti modello», propagandati come mezzi per utilizzare le nuove risorse scoperte e per dare il via ad un rinnovato sviluppo, invece di contribuire al beneficio della popolazione, ne aumentano la povertà materiale, etica e sociale. Nessuno può chiudere gli occhi su ciò che sta avvenendo sul terreno. Tutto è basato sulla menzogna. Sistematica è la mancanza di informazioni su quanto avviene nel settore estrattivo e dell'approvvigionamento delle risorse. Sconcertante è il disprezzo per le condizioni di vita sempre peggiori delle popolazioni che sono presenti sul luogo. Arroganti e violente sono le espropriazioni selvagge di terre, a scapito specialmente dei più poveri come i contadini. Numerosi pure sono i conflitti fondiari e sociali con frequente perdita di vite umane. Graduale è la sparizione dei valori della solidarietà a vantaggio di un profitto individuale, sfrenato e senza regole. Impressionante è l'aumento della corruzione a tutti i livelli, tale da intaccare e stravolgere la mentalità della gente. Il degrado insomma non è solo sociale ma etico e morale: prostituzione, soprattutto tra i giovani, in preoccupante aumento; situazione di estrema debolezza della famiglia minata da casi d'infedeltà sempre più frequenti a causa del facile denaro; abbandono da parte del marito dei suoi impegni familiari a scapito della donna lasciata sola; conflitto di competenza tra i genitori e dimissione dai loro impegni familiari ed educativi ecc. Le nuove ricchezze dunque, invece di contribuire alla lotta contro la povertà, sono servite e servono apertamente al degrado, alla sperequazione, alla compera delle armi, alimentando così conflitti interminabili. Al posto di essere una benedizione, esse sono divenute disgraziatamente una maledizione per la maggior parte della popolazione. L'Africa ha dunque bisogno di essere aiutata a incominciare finalmente, dopo tanti anni d'ingiustizie e di sfruttamento, a poter utilizzare tutte queste sue ricchezze che gli appartengono, per se stessa, per i suoi figli e le sue figlie. Con energia profetica bisogna ritrovare e proporre ai grandi della terra la strada dell'uomo e di un'economia per l'uomo, che rispetti la sua dignità e la sua libertà di autodeterminazione. In una situazione del genere, come vescovi missionari comboniani, eredi della sensibilità del Comboni «per i più poveri e abbandonati», sentiamo che la Chiesa non può tacere, ma deve parlare. In nome di Gesù di Nazareth, che in questa terra della Palestina ha predicato l'amore per gli ultimi, anche a lei compete il diritto di domandarsi e domandare: «A chi appartengono le risorse naturali dell'Africa?» Per noi vescovi non c'è dubbio che le risorse naturali appartengono all'insieme delle popolazioni africane. Un intervento quindi della Chiesa s'impone. «L'Africa si è già messa in moto e la Chiesa si muove con Lei offrendole la luce del Vangelo. Le acque possono essere burrascose, ma con lo sguardo puntato su Cristo Signore arriveremo al sicuro porto della giustizia e della pace» (Messaggio conclusivo del II° Sinodo africano, n° 42). Mentre aspettiamo con fiducia il messaggio all'Africa e al mondo del nostro pastore, il Papa Benedetto XVI, facciamo nostro l'appello dei Vescovi, riuniti al Sinodo per l'Africa in ottobre del 2009: «Ai grandi poteri di questo mondo rivolgiamo una supplica: trattate l'Africa con rispetto e dignità» (id., n° 32).
i Vescovi Comboniani
in “Nigrizia” (www.comboniani.org) del 31 luglio 2011
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Quei cinquantenni in bicicletta con il vizio assurdo del doping. Gli sforzi (immotivati) per gare amatoriali e imprese da raccontare
I piccoli si dopano? Qualcuno potrebbe dire: be', imitano i grandi. Ma c'è una misura extra di tristezza (...) Esaltati. Aggettivo impeccabile: solo l'esaltazione, infatti, può portare ad assumere sostanze proibite in una gara per dilettanti che non assegna premi in denaro (i vincitori tornano a casa con mele e speck). Ma forse è bene approfittare dell'occasione, e spostare lo sguardo dalla patologia alla fisiologia. Anche qui, infatti, qualche preoccupazione è d'obbligo. Sono reduce da dieci giorni di spostamenti continui tra le montagne del Trentino e dell'Alto Adige: ogni due tornanti, due ciclisti non più giovani, stravolti dalla fatica. Passo Gardena, passo Pordoi, passo Sella: in alto le Dolomiti sfavillano, esuberanti di bellezza; ma loro hanno occhi solo per l'asfalto. L'ammirazione, in questi casi, si mescola con la preoccupazione. Lo sforzo appare eccessivo e rischioso. Diciamolo: immotivato. Eppure sono tanti, sempre di più. Alzi la mano chi non ha un amico cinquantenne preso da improvvisa, matta e disperata passione per la bicicletta, pronto a sfidare sciatica, buon senso e moglie per un'impresa da raccontare. La nuova mezza età non conosce vie di mezzo. È come se volessimo prendere per la coda la giovinezza che fugge; e per raggiungerla corressimo come non abbiamo mai fatto - neppure da giovani. Il ciclismo non è l'unico sfogo: i cinquantenni italiani, altrettanto spesso, diventano gourmet, giardinieri e golfisti. Attività insidiose per la bilancia, le ortensie e il portafoglio. Il ciclismo in dosi massicce mette a rischio le coronarie. I lutti, in questi mesi, si succedono, e noi veniamo a conoscenza solo dei casi e dei nomi più noti. Lo sport - tutto - è meraviglioso, e l'attività fisica ci regala serenità: le endorfine conoscono il loro mestiere. Lo sforzo eccessivo e ossessivo ha invece qualcosa di nevrotico. Mi è capitato di osservare alcuni di questi atleti maturi e di trovarli robotici, mentre narrano o preparano le proprie imprese: come se fossero schiavi, e non signori, della propria passione. Certo: la maggioranza - crediamo, speriamo - non è disposta ad assumere sostanze proibite per quello che resta - comunque - un passatempo. Ma si sa: nelle cose umane, l'ossessione è inversamente proporzionale alla cautela. (...) Ricordino, i coetanei ciclossessivi: ci sono anche le mountain-bike elettriche e le lunghe passeggiate con un libro in tasca. Due cose - credetemi - che danno grandi soddisfazioni.
Beppe Severgnini
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I numeri possono raccontare una storia molto più drammaticamente di una qualsivoglia lunga esposizione di fatti. Nel 1946, i cristiani della Palestina, allora sotto mandato britannico, ammontavano al 22% della popolazione della zona. Oggi, essi costituiscono solo il 2% delle persone che vivono in Israele e nelle zone controllate dall'Autorità palestinese. La scomparsa di questa comunità cristiana, che risale al tempo degli Apostoli, è ora una possibilità che può diventare reale. L'esodo dei cristiani è motivato dalla lotta che essi debbono combattere per vivere sia in un mondo musulmano sempre più fondamentalista all'interno delle zone controllate dall'Autorità palestinese, sia in Israele dove, alla stregua degli arabi, essi sperimentano le stesse restrizioni negli spostamenti, dei loro vicini musulmani. (...) L'arcivescovo di Westminster, Vincent Nichols, e quello di Canterbury, Rowan Williams, hanno radunato esperti di tutto il mondo per un seminario presso il Lambeth Palace per discutere sulla situazione dei cristiani in Terra Santa. Testimonianze di chi si è trasferito dalla Terra Santa hanno evidenziato la lotta che i cristiani devono affrontare per educare i propri figli, trovare una casa e far fronte alle gravi restrizioni nei loro spostamenti: quest'ultimo problema ostacola enormemente la pratica della loro fede. Innumerevoli politici hanno cercato una soluzione alla crisi in Medio Oriente, dove un'intera generazione di musulmani, cristiani ed ebrei è cresciuta in mezzo a violenza, diffidenza e odio. Questo seminario è stato incentrato sul costo umano di quel conflitto politico, e sul prezzo pagato soprattutto da parte dei cristiani. Come ha detto il card. Jean-Louis Tauran - presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e là presente in rappresentanza del Papa - esiste il concreto pericolo che il cristianesimo diventi una parte di un “parco a tema” di carattere culturale piuttosto che costituire una testimonianza vivente proprio nella terra in cui Cristo è vissuto, morto e risorto. E' evidente che i cristiani di Terra Santa hanno bisogno della solidarietà di quanti in altre realtà condividono la stessa fede, ma hanno bisogno di qualcosa di più di un vago senso di angoscia nei confronti della loro sfortunata condizione. La solidarietà, come espresso anche dalla Dottrina Sociale della Chiesa, richiede invece determinazione, dedizione e comprensione. Gli organizzatori del seminario si trovano ora di fronte alla necessità di costruire sulla base di ciò che hanno iniziato, impegnandosi tra l'altro nella sensibilizzazione degli altri cristiani riguardo alla situazione in Terra Santa, e nell'avvio di progetti concreti, come ad esempio raccolte di fondi che potranno aiutare le aziende e fornire di case la regione. Questo approccio pastorale deve anche essere accompagnato dall'azione dei responsabili delle chiese e di altre istituzioni per ricordare loro che i cristiani di Terra Santa non sono una minoranza che può essere dimenticata, ma un gruppo di persone che hanno una dignità propria e che meritano di godere di diritti e libertà. La strategia per raggiungere ciò richiederà un'azione diplomatica abile se le chiese vorranno altresì continuare a mantenere un dialogo costruttivo con i musulmani e gli ebrei, nonostante i rilievi critici riguardo al trattamento dei cristiani. (...) Gli arcivescovi Nichols e Williams sono entrambi sostenitori di tutta una serie di attività ed hanno influente autorevolezza per la realizzazione di questa impresa. I loro sforzi potrebbero rivelarsi fruttuosi per tutte le persone coinvolte, e non solo in Terra Santa.
in “The Tablet” del 23 luglio 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)
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Tutto sarà salvato se sapete amare.
Non un giorno, di passaggio, ma intensamente,
per lungo tempo e per tutti i giorni, sempre.
Non scorraggiatevi, non rinunciate, non desistete,
non ascoltate i vili che, per tradire più comodamente il loro dovere , vi diranno:
«Non serve a nulla».
Ridete in faccia agli scettici, ai prudenti, ai maligni,
a coloro che vanno in pensione sin da quando sono ancora in fasce.
Applaudite o denunciate, ammirate o indignatevi,
ma non siate neutrali, indifferenti, passivi, rassegnati.
Fate della vostra vita qualche cosa che vale.
Tutto l'amore seminato, presto o tardi, fiorirà...
Raoul Follereau
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Quant'è bello essere anziani: il top della felicità a 85 anni
di Enrico Franceschini
Il massimo della felicità? Dai settant'anni in su. Con il picco assoluto che si raggiunge, per l'esattezza, intorno all'ottantacinquesimo compleanno. Prima bisogna arrivarci, naturalmente. E, in secondo luogo, occorre arrivarci bene, sia come salute fisica che come situazione economica e affettiva. Ma nuovi studi in materia smentiscono l'opinione diffusa che la vecchiaia sia un'età triste e priva di stimoli: al contrario, rivelano ricerche su larga scala condotte in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, gli anni dopo la pensione possono risultare pieni di gratificazioni e soddisfazione, anche se in parte di tipo diverso dalle aspettative che uno aveva da giovane. Lo afferma per esempio un nuovo libro, You're looking very well, di Lewis Wolpert, professore emerito di biologia alla University College London. "Dai miei dati emerge che le persone tendono ad essere relativamente felici negli anni dell'adolescenza e della giovinezza, ma questa sensazione declina progressivamente fino alla mezza età, probabilmente in connessione con le responsabilità che vengono dal mettere su famiglia e dalla carriera", afferma lo studioso. "Ma poi, a partire all'incirca dai 45-50 anni, la gente tende a essere più ottimista e contenta, raggiungendo un massimo di serenità e pienezza nella tarda settantina o alla soglia degli ottant'anni". Una recente ricerca, basata su un campione di 34 mila persone e pubblicata dalla National Academy of Sciences, indica che in generale il godimento della vita tende a calare lentamente durante l'età adulta. Tuttavia intorno ai cinquant'anni il fenomeno si inverte, con una sensazione di crescente benessere per il resto della vita che raggiunge il massimo all'età di 85 anni. "Dobbiamo ricordare che le persone che oggi consideriamo anziane, diciamo coloro dai 65 anni ai 70 e oltre, sono assai diverse dagli anziani di una volta", osserva in proposito Andrew Stephens, docente di psicologia alla University College London. "Hanno più opportunità di un tempo, si prendono più cura della propria salute, conducono vite più attive. Ovviamente, una buona salute e un buon livello economico sono molto importanti per potere avere un'anzianità felice, insieme a relazioni affettive intense e sincere". Uno studio effettuato in Inghilterra su 10 mila uomini e donne conferma ciò che appare scontato: le persone con un buon reddito in età avanzata soffrono meno di depressione, hanno maggiori soddsfazioni e una migliore qualità della vita, sicché è chiaro che la sicurezza economica, insieme alla salute fisica, è un requisito essenziale per poter affermare che a 70-80 anni si può essere più felici che a 35 o 40. Si tratta anche, sostengono i ricercatori, di un diverso tipo di felicità: non si hanno più preoccupazioni o responsabilità dirette per i figli, non si pensa più alla carriera e si hanno minori aspettative. "Sono divorziata e per lungo tempo per me la felicità consisteva nel potermi risposare", racconta Maggie Atksinon, 71 anni, al Sunday Times, che ha dedicato un ampio servizio al tema. "Ma non mi sono mai più risposata. E adesso non è più un obiettivo o un desiderio. La felicità ora per me non è un matrimonio o una macchina più grande o un lavoro più prestigioso, bensì qualcosa che ha più a che fare con il controllare il mio destino e accettare chi sono".
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Laici teologi, una porta ancora stretta nella Chiesa
di Isabelle de Gaulmyn
Può un laico pretendere di fare teologia? Porre così la domanda sembra aberrante al giorno d'oggi. Ma non è passato molto tempo da quando, nel 1953, padre Yves-Marie Congar riteneva che “i laici non faranno mai teologia come i preti (poiché) la teologia propriamente detta è per eccellenza un sapere di chierici, e perfino di preti”. Ma, dopo, c'è stato il Concilio Vaticano II, che ha fatto sorgere l'idea che la teologia potesse essere il fatto del “popolo di Dio”, cioè di tutti. Tuttavia, ancora nel 2010, la cosa non è così evidente. Perché, anche se la possibilità teorica esiste, diventare teologo per un laico assomiglia spesso ad un percorso ad ostacoli, e in generale nella Chiesa è ancora poco riconosciuto. Certo, esistono dei corsi di formazione in alcuni istituti per dei catechisti, o dei responsabili di pastorali diverse. Ma l'insegnamento teologico nel senso universitario, cioè conoscenza delle Scritture, della Tradizione, accesso alle fonti e riflessione critica, è ancora poco aperto ai laici. (...) Fare teologia non significa quindi fare un tipo di studi coronato da una laurea statale. E gli sbocchi sono rari (...). Eppure, ogni anno, [anche in Francia] dei laici tentano l'avventura della teologia. Uno dei percorsi più importanti è stato creato dall'institut catholique di Parigi 40 anni fa, sulla scia del Concilio, dedicato specificamente alle persone che lavorano, il ciclo C: sette, presto otto anni di corsi serali. L'università di Strasburgo (concordataria) propone l'equivalente per corrispondenza. L'università di Tolosa offre anche un settore per i laici. Esistono anche altri percorsi, sostenuti dall'institut catholique di Parigi, a Rouen e a Clermont. Chi sono questi laici? (...) La prima constatazione è che ci sono tanti uomini quante donne, e con una piramide delle età piuttosto giovane: il 70% ha tra i 30 e i 60 anni. Una proporzione poco abituale, sottolineano i due sociologi che hanno fatto l'inchiesta, Jean-François Barbier-Bouvet ed Eric Vinson, in una Chiesa in cui i “militanti” sono piuttosto anziani e di sesso femminile. Perché fanno teologia? Non prima di tutto per motivi di ordine del “servizio”, per la Chiesa o per dei movimenti. Seguono questo insegnamento innanzitutto per se stessi: per acquisire una migliore comprensione della propria fede (l'85%) e per una ricerca di arricchimento spirituale (il 70%). Per quanto riguarda il desiderio di assumere delle responsabilità nella Chiesa (o svolgervi dei compiti con maggiore competenza), solo l'8% lo adduce come motivazione. Del resto, solo il 16% degli ex studenti del ciclo C vede nella formazione in teologia di un numero maggiore di laici la soluzione di una condivisione più corretta ed efficace delle responsabilità nella Chiesa: come se, da subito, presentissero che, in quanto laici, le loro competenze in teologia sarebbero poco riconosciute. Tuttavia sono molti (il 60%) quelli che, una volta fatti questi studi, si impegnano nella Chiesa. Con una differenza che mette ben in luce l'ampiezza dei compiti svolti oggi dai laici: dall'animazione di corsi di formazione di ogni genere, alla preparazione al matrimonio, all'accompagnamento dei funerali, all'accompagnamento spirituale, alla partecipazione al consiglio pastorale della parrocchia, alla redazione di giornali, alle cappellanie di prigioni, di ospedali... Ma non sono per niente soddisfatti del mondo in cui la Chiesa trae profitto dalle loro conoscenze: il 29% ritiene che esse non vengano affatto o non vengano veramente utilizzate, e il 42% che vengano utilizzate soltanto poco, che è un riflesso senza dubbio di una Chiesa ancora abbastanza clericale nei suo modi di funzionamento. In compenso, questi studi hanno, in maniera inattesa, delle ricadute reali per la loro vita sociale. In fondo, riassume Jean-François Barbier-Bouvet, “le loro conoscenze sembrano loro talvolta sottoutilizzate nel mondo religioso rispetto a ciò che speravano, e utilizzabili invece nella società civile più di quanto immaginassero”. Dopo tutto, non si realizza in questo modo l'intuizione profonda del Vaticano II? Come sottolinea Brigitte Cholvy, teologa che dirige il ciclo C, “i tempi moderni hanno visto svilupparsi una teologia di seminario, preoccupata della formazione di un clero competente. È possibile che oggi sia necessaria una teologia laica, non tanto una teologia per dei laici e fatta da laici, ma una teologia del mondo, la cui sfida sarebbe, in una cristianità secolarizzata, che quest'ultimo venga sperimentato laicamente e pensato teologicamente”.
in “La Croix” del 19 marzo 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
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Narrare la verità è resistere
di Mariapia Veladiano
Il silenzio pettegolo, rintronante, maldicente dell'uomo sul mondo ferito e offeso è un abisso nel quale precipita l'umanità che soffre e insieme quella che tace. Una morte anticipata che gli uni subiscono e gli altri agiscono con la complicità di un affanno distratto e maldestro che vorrebbe fatali le ingiustizie. E con il favoreggiamento di un uso scellerato delle parole che ne sevizia il significato fino a costringerlo all'apostasia. Per cui il rischio meravigliosamente umano della libertà diventa la caricatura occhiuta della sicurezza. E il bene che tutti abbraccia diventa il chiodo che crocifigge il nemico. Il silenzio dell'uomo sul male. Mi riguarda o non mi riguarda il male che non è il mio? Se non mi sfiora, se non lo faccio, se non lo vedo
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Mi sembra utile partire da una delle numerose icone della Chiesa d'Oriente che rappresentano la scena della Trasfigurazione. È l'icona di Teofane il Greco che risale al XV secolo ed è chiamata «Trasfigurazione di Novgorod». È molto bella. In alto si vedono tre figure: Gesù completamente bianco come la luce, sfolgorante come il sole, alla sua destra e alla sua sinistra Mosè ed Elia. Si trovano su tre picchi rocciosi, dove è difficile rimanere, a dire che lo stare sulla montagna non è un adagiarsi sull'erba, bensì un resistere su picchi di roccia dura e arida; comporta quindi una fatica, un rischio, richiede coraggio ed equilibrio. E' pure significativo guardare i tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni. Colpisce che, oltre ad essere spauriti e intimiditi di fronte alla luce abbacinante di Gesù, sono addirittura sconvolti. Uno è precipitato all'indietro, rovesciato con la testa all'ingiù, e si copre la faccia con le mani. Sembra dirci: non capisco niente, è troppo per me, non mi raccapezzo, non riesco a guardare la gloria di Gesù. Probabilmente è l'apostolo Giacomo. In mezzo sta un altro, forse Pietro, che è invece piuttosto pensoso e si copre la bocca con la mano. Non guarda Gesù, ma riflette tra sé e sé: non so che cosa sta accadendo, il Signore mi sopravvaluta, mi chiama al di là di ciò che posso comprendere. E quindi pieno di timore, pieno di paura. Mentre il terzo discepolo, Giovanni, ha più coraggio nel guardare Gesù, pur essendo ancora timoroso. E' inginocchiato, riverente, ma con la mano sembra esprimere al Signore il desiderio di entrare nella sua luce. Mi ha colpito il fatto che gli iconografi consideravano questa esperienza sublime e sconvolgente nello stesso tempo. E io penso che la resistenza dei tre discepoli fosse dovuta alle tentazioni della montagna, e insieme alle tentazioni e ai peccati della pianura. Si sentivano, in altre parole, attratti dalla carnalità, dalla mondanità; sono l'immagine di noi che, quando cerchiamo di entrare nella preghiera, ci accorgiamo della nostra povertà, carnalità e mondanità e abbiamo bisogno della grazia di Dio per essere purificati e illuminati. Chiediamo allora al Signore di farci conoscere questi vizi della pianura, che sono dentro la nostra psiche e rendono prigioniero il nostro cuore, impedendoci anche soltanto di iniziare la salita sul Tabor. Quand'anche non fossimo coscienti di peccato grave, saremmo sempre sotto la schiavitù e la pesantezza di tali difetti. Guardiamoli perciò in faccia con molto coraggio.
Carlo Maria Martini, La trasformazione di Cristo e del cristiano alla luce del Tabor, 58-60.
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Quei «primitivi» dei miei adolescenti
di Gilberto Borghi
Nel secondo quadrimestre della quarta dedico un modulo a vedere, con gli studenti, alcuni "decaloghi" di piccole o grandi religioni mondiali. L'intenzione dichiarata e reale sarebbe quella di mostrare come alcune regole morali sono trasversali a quasi tutte le religioni prese in esame e questo forse vuol dire che queste regole appartengono alla natura umana in quanto tale, prima ancora di qualsiasi traduzione religiosa-culturale possibile. Ovviamente gli studenti trovano modo di sorridere su alcune regole che a noi sembrano strane, come il divieto per i buddhisti di dormire su letti sontuosi e di bere sostanze inebrianti ("non sanno cosa si perdono" - dice Elisa), o quello dei testimoni di Geova di portare la barba, o ancora l'invito confuciano ad amare la propria scuola (non vi dico gli improperi!!). Ma in genere questo permette loro anche di "annusare" le differenze tra varie impostazioni etiche, e per rovescio di poter valutare diversamente la propria cultura di appartenenza. Quest'anno ho fatto un aggiunta. Me l'aveva suggerita un frate domenicano mio amico. Sono andato su internet e ho scovato un po' di materiale. Mi sono documentato ho messo giù una scheda e dopo tutto questo "ambaradan" sono andato in classe. "Questa è una religione primitiva, ancora oggi sopravvissuta nell'estremo sud america". "Ma le pare prof. che si possa imparare qualcosa dai primitivi?" L'ipertecnologico Andrea ovviamente non può ammettere che dietro di lui esista una storia che può dirgli qualcosa. Ma io silenziosamente ho iniziato a leggere il testo delle regole della Religione Yàmana, che vengono ancora oggi consegnate agli e alle adolescenti, durante il rito di passaggio all'età adulta. E più io leggevo e più il silenzio aumentava. La prima regola che li ha colpiti è stata questa "Quando ritorni da caccia dividi le prede con tutto il villaggio. La tua famiglia dovrà essere l'ultima a spartirsi le prede". "Beh non è giusto, se io ho faticato a caccia, perché devo dividere quello che ho preso con chi non ha fatto niente stando a casa" (sempre Andrea!). "Però se il giorno dopo tu non prendi nulla e vale la regola che si deve dividere tu mangi lo stesso anche senza aver cacciato - suggerisce Antonella - e magari in questo modo la volta dopo sei più contento anche tu di dare le tue cose a chi non ha cacciato niente". E la seconda che li ha colpiti suona così: "Non rubare. Rubare non ti causa vantaggio. Se hai bisogno di qualcosa chiedila e usala, poi restituiscila, ma non rubare. Se rubi sarai espulso dalla comunità". "Ma non è giusto, allora possedere delle cose non serve a nulla, meglio non comprare nulla e usare quelle degli altri!" (Maddalena). "Si ma allora nessuno comprerebbe nulla e qualcuno che vuole vivere bene si darebbe una mossa e comprerebbe quello che gli serve, usandolo solo per sé. Così gli altri sarebbero costretti a fare altrettanto". "Perfetto Cristina - le dico io -, ma non ti pare che stai descrivendo la situazione nostra dove la proprietà privata implica sempre anche l'uso privato dei beni? In questa religione invece la proprietà è privata ma l'uso è condiviso". Alla fine abbiamo cercato di trovare un senso di fondo a queste regole e ci siamo accorti che in questa religione l'idea della sopravvivenza individuale è strettamente legata a quella degli altri, perché vivono in una condizione geografica difficile come quella della Terra del Fuoco. E allora mi è venuto in mente un gioco mentale: "Ok, proviamo a pensare come sarebbe se queste regole fossero "globalizzate". In fondo anche noi viviamo in un mondo che ha, forse anche per colpa nostra, condizioni di sopravivenza umana sempre più difficili. Come sarebbe se queste regole fossero condivise da tutti?". "Beh ad esempio mia madre da quando c'è la crisi si è messa d'accordo con la sua amica vicina di casa, che lavora a 100 metri da dove lavora lei, e hanno deciso di usare solo una macchina a turno per andare a lavorare invece che due - continua Gianluca -. Mi sembra davvero stupido consumare benzina quando si può risparmiare e magari fare due chiacchiere con una amica che altrimenti vedresti meno". "Prof. mio cugino che vive a Parigi - dice Antonella - ha ristrutturato casa e insieme ad altri sei condomini ha deciso di comprare una lavatrice condominiale, risparmiando così un sacco di soldi e di energia". E questi adolescenti sarebbero quelli primitivi, senza cultura, apatici, sprecati. Se avessimo il coraggio di lasciargli lo spazio che si meritano...
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"Ama il prossimo tuo come te stesso", scoprirai lo straniero che è in te...
di Giuseppe Cantarano
Gesù si presenta con il volto dello straniero, del dissimile. Si rivela nel volto dell'Altro. Nel volto del prossimo. Come tale chiede di essere riconosciuto e amato e che, in Lui come Altro, come prossimo, siano riconosciuti e amati tutti gli uomini. Quandolo informano che sua madre e i suoi fratelli sono fuori e in disparte e cercano di parlargli, Gesù risponde: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi, stendendo la mano verso i suoi discepoli, dice: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella, madre» (Matteo, 12, 46-50). E ancora: «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni» (ivi, 5, 44 ss.). Soltanto nella Paternità celeste, infatti, possiamo riconoscere i nostri nemici come fratelli, l'Altro come il nostro prossimo. (...) Illuminante in questo senso la parabola del Buon Samaritano (Luca, 25-37), dell'uomo che sulla strada da Gerusalemme a Gerico viene assalito dai briganti e abbandonato, come morto, ai bordi della strada. (...). Soltanto un Samaritano, un «eretico» che non appartiene alla comunità solidale di Israele, uno «straniero» che dovrebbe vedere a sua volta nella vittima dei briganti un estraneo, un altro da sé si ferma e gli presta aiuto. (...). Nel momento in cui il mio cuore patisce della sofferenza dell'altro, io divento non solo suo prossimo, suo fratello. (
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Un premio alla suora eroina di Haiti
di Emilia De Biasi
Voglio ricordare che la Camera ospita da molti anni il Premio Langer, un premio che è occasione di ricordo della straordinaria e profetica figura di Alexander Langer, uomo dai pensieri lunghi, politico del tutto particolare, mai soddisfatto del risultato raggiunto, perennemente alla ricerca del senso dell'agire politico e sociale, profeta di quel mondo grande e terribile disegnato dalla globalizzazione. A noi interessa mettere in luce anche quest'anno il tema dei diritti umani nel mondo. E ancora una volta segnalare che il simbolo di questo cammino così impervio è una donna, Dadoue Printemps, in un paese martoriato dalla negazione dei diritti fondamentali e dalle catastrofi, ultima quella del terremoto. Parlo di Haiti. Jean, Martine e Silius sono lavoratori della terra, e mi piace sottolineare che il premio vada nelle loro mani, che quotidianamente sperimentano la durezza delle stagioni, la lotta contro i grandi latifondisti per l'autonomia del loro lavoro e del loro popolo, l'incessante opera per l'acqua, l'energia elettrica, la riforestazione. E per i diritti i fondamentali: la salute e l'istruzione, per le donne unica strada di liberazione dalla sopraffazione maschile. Ci sono persone nel mondo che non urlano, ma costruiscono. Dadoue è stata una di quelle eroine silenziose e operose, tenaci fino alla morte. Una suora teresiana che abbandona le sue sicurezze e si dedica agli ultimi. E che per questo viene uccisa, nel 2010, vicino ad una bidonville, si dice per rapina. Alex Langer avrebbe apprezzato la scelta, lui così attento ai più poveri, ai diseredati. Grazie al lavoro di Dadoue i contadini hanno imparato a difendersi, a rimanere nella loro terra, a non fuggire verso il destino di povertà urbana, hanno trovato la strada per l'accesso ai diritti. Le donne si sono organizzate per il microcredito, raggiungendo quell'autonomia economica che è poi autonomia del progetto di vita, hanno studiato, hanno diffuso l'importanza delle norme igieniche, in un paese tormentato da Aids e colera. Credo che le immagini del terremoto che scorrono nella nostra mente siano poca cosa rispetto ad una realtà ben più drammatica. Ricordare le ancora troppo recenti stagioni della dittatura, le torture, ci dice quanto sia stretto il legame fra ambiente, sviluppo e democrazia, e quanto sia indispensabile, urgente la definizione di istituzioni sovranazionali per tutelare diritti, cibo, acqua, libertà. È un impegno che la politica deve saper prendere se vuole assolvere al compito di costruzione di un mondo più umano, più giusto. Noi che viviamo nel mondo di una politica piccola e asfittica oggi impariamo da Dadoue e dal pensiero di Alex Langer la grande lezione che sta nella capacità di guardare dietro di noi, verso gli ultimi, perché solo così sapremo guardare in alto e riconoscerci, fino in fondo, fratelli e sorelle delle tante Dadoue.
in “l'Unità” del 6 luglio 2011
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Guerre dimenticate? Dimenticate la guerra!
di don Nandino Capovilla, Coordinatore nazionale di Pax Christi
Si è fatto coraggio. Ha cambiato il tono della voce. E dopo una lunga pausa ha scandito forte al microfono: «Credo sia arrivato il momento. Forse la nostra presenza in Afghanistan va rivista. Certamente va rivista». E un boato di applausi ha riempito la grande chiesa di Ancona. Questo particolare lo ricordano perfettamente tutte le migliaia di persone con cui abbiamo camminato la sera del 31 dicembre scorso per ricordare al Paese e alla comunità ecclesiale che la pace esige di essere continuamente rimessa in “marcia”, per scuotere il nostro torpore di cittadini e di cristiani che dimenticano troppo facilmente tanto l'art.11 della Costituzione quanto il Vangelo della pace. Ma la “colpa” di mons. Giancarlo Bregantini, criticato appena le agenzie hanno battuto la notizia, era evidente: si era dimenticato che certi discorsi è meglio non tirarli fuori, meglio non immischiarsi nella politica e nelle strategie della politica estera. Insomma, faccia il vescovo e lasci stare la guerra. Che si tratti di quella in Afghanistan o in Libia poco importa. È una triste necessità che non si deve discutere, sembrano suggerirci le inesistenti colonne degli editoriali dei nostri media, che per scelta precisa “dimenticano” i conflitti armati. Questo verbo dovreste ricordarvelo. Lo usavamo tutti per riferirci alle guerre africane, definite appunto «dimenticate», che è più facile cioè ridurre a «endemici scontri etnici» piuttosto che indagare per capire, col rischio di scoprirci anche noi corresponsabili. Il disappunto insomma è per chi si ostina, come faceva imprudentemente Giovanni Paolo II, ad usare la parola guerra per condannarla «senza se e senza ma», invece di dilettarsi piacevolmente sul positivo «costruire la pace». Il rammarico di tanta parte del nostro ceto politico, di destra e purtroppo anche di sinistra, è proprio per questa insistenza di alcuni incalliti pacifisti
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Nel Nuovo Testamento ci sono segni probanti per far giungere definitivamente gli uomini alla consapevolezza che dietro all'opera umana si trova l'azione di Dio. Egli la benedice se è buona, se ne distoglie se è cattiva. Qual è, dunque, la conseguenza pratica? Dobbiamo contare di più sul nostro lavoro, o pregare Dio perché ci aiuti miracolosamente? il difetto di questa domanda sta nell'aut-aut. Nella realtà non c'è nessun aut-aut. Sant'Ignazio di Loyola lo espresse con un bell'aforisma: "Lavorate come se tutto dipendesse solo da voi, ma pregate come se tutto dipendesse solo da Dio". Perché è tutto è un dono di Dio, e Lui non umilia l'uomo come un'elemosina: è il dono di un padre che lavora per i suoi figli.
p. Thomas Spidlik, Sentire Dio nella brezza del mattino, 140
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''We miss you'', la natura ci chiama: il corto pluripremiato
"Siamo tre studenti di cinematografia a quali non importava della natura. Questo è il nostro modo per fare qualcosa". Si presentano così Hanna Maria Heidrich, Cornell Adams e Danell Fortson, tre allievi della Filmacademy Baden-WÜrttemberg. Hanno deciso di usare il loro talento per diffondere un messaggio "green", sul rispetto della natura e dell'ambiente. "We miss you", il loro cortometraggio girato a Francoforte, ha riscosso svariati riconoscimenti e premi nei festival di tutto il mondo.