Stupenda questa idea di costruire una chiesa con l'immagine di Gesù Crocifisso che abbraccia i presenti!
E pensare che più di dieci anni fa avevamo pensato qualcosa di simile per la ristrutturazione della cappella dell'oratorio!
don Chisciotte


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Puoi scaricare qui il testo
della meditazione biblica di ieri sera:
 
E' BELLO PER NOI
STARE IN DIALOGO CON DIO PADRE
 
a cura di Marco Paleari

Quando anche spazzatura e immondizie
possono rivelare il loro lato bello!

(foto scattata dal sottoscritto)

Puoi scaricare qui il testo
della meditazione biblica di venerdì scorso:

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Meditazione quaresimale

E' BELLO PER NOI
STARE IN DIALOGO CON DIO PADRE

a cura di Marco Paleari

venerdì 28 marzo
dalle ore 21
c/o chiesa di Lurago Marinone

«Se l'Italia è ancora tanto forte...»
di Roberto Beretta 
«I preti dell'Italia sono bravi. Se l'Italia ancora è tanto forte non è per noi vescovi, è per i parroci». Così "il solito" Papa Francesco, concludendo la settimana scorsa un incontro col clero romano. Credo che Bergoglio abbia sostanzialmente ragione: non perché tutti i preti siano bravi, e nemmeno perché tutti i vescovi siano cattivi (del resto le generalizzazioni sono assai poco cristiane), ma in quanto è esperienza comune del cristiano italiano medio aver conosciuto una "base" ecclesiale - comunque estesa si voglia considerare - composta solitamente di ottime persone, motivate, sacrificate, umili, impegnate e un "vertice" -­ pure esso esteso a piacere - che invece si prende un po' troppo sul serio e proprio per questo cade spesso nel ridicolo. La Chiesa d'Italia si regge così, sui tanti che sopportano qualunque cosa in nome della pazienza e del buon senso; ed è una reggenza "all'italiana", appunto, in quanto nella Penisola viene replicata in qualunque luogo si esplichi una gerarchia.
"Se è diventato vescovo (prete, cardinale), qualcosa di male l'ha fatto sicuramente": non ricordo quale ecclesiastico l'ha detto, ma una punta di verità l'aforisma - che peraltro potrebbe benissimo essere applicato anche a molti laici con funzioni direttive nella Chiesa - la contiene. Le modalità con cui si accede all'autorità ecclesiastica infatti, almeno in Italia, richiedono troppo spesso l'acquiescenza alle anti-virtù più caratteristiche del clericalismo: l'ambizione (quante volte papa Francesco ha deprecato il 

Uno studio dell’Università di Harvard ha recentemente dimostrato come una siesta di una trentina di minuti sia in grado di tagliare del 37 per cento i rischi di attacco cardiaco. Un ulteriore studio dell’Università di Dusseldorf, risalente al 2008, individuava le prodigiose proprietà della pennichella in termini di potenziamento della memoria e una ricerca della Nasa evidenzia come i piloti che fanno un riposino di 25 minuti (si spera con la sostituzione del co-pilota) siano il 35 per cento più pronti nei riflessi. Nel 2009 inoltre Kimberly Cote, della Brock University canadese, ha diretto uno studio che ha aggregato i risultati di precedenti ricerche, arrivando alla conclusione che poco è comunque meglio di niente e a volte basta anche una mini siesta per potenziare i tempi di reazione e regalare all’umore un raggio di sole. Infine i ricercatori del College of the Holy Cross del Massachusetts hanno voluto studiare il link tra profitto degli studenti e ore di sonno per scoprire che i migliori allievi fruivano quotidianamente e mediamente di una trentina di minuti di sonno in più. (continua - clicca qui)
 

 

 


«L’amore obbliga lo sposo-marito ad essere sollecito per il bene della sposa-moglie,
lo impegna a desiderarne la bellezza ed insieme a sentire questa bellezza e ad averne cura.
Si tratta qui anche della bellezza visibile, della bellezza fisica. (...)
L’amore fa dell’«io» altrui il proprio «io»: l’«io» della moglie, direi, diviene per amore l’«io» del marito.
Il corpo è espressione di quell’«io» e il fondamento della sua identità.
L’unione del marito e della moglie nell’amore si esprime anche attraverso il corpo».
Giovanni Paolo II, Uomo e donna li creò, 361

Un sacco di piatti artistici,
divertenti e creativi!
http://www.visualfood-design.com/blog/pecora-di-cavolfiore/

 

Quaresima. È l'ora del risveglio 
di Enzo Bianchi 
(...) La prima funzione della quaresima è il risveglio della nostra coscienza: ciascuno di noi è un peccatore, cade ogni giorno in peccato e perciò deve confessarsi creatura fragile, sovente incapace di rispondere al Signore vivendo secondo la sua volontà. Il cristiano non può sentirsi giusto, non può ritenersi sano, altrimenti si impedisce l’incontro e la comunione con Gesù Cristo il Signore, venuto per i peccatori e per i malati, non per quanti si reputano non bisognosi di lui (continua - clicca qui)
 
 

Meditazione quaresimale

CHIAMATI INSIEME
PER SEGUIRE INSIEME GESU'

a cura di Marco Paleari

venerdì 21 marzo
dalle ore 21
c/o chiesa di Cirimido

 


Giuseppe, il santo delle partite Iva 
di Gianfranco Ravasi 
Ci soffermiamo su una sola parola: quella che nei vangeli definisce la professione di Giuseppe e dello stesso Gesù, prima del suo ministero biblico. Attorno a questa parola greca, téktôn, si è accesa una polemica tra chi vorrebbe continuare a classificare Gesù e la sua famiglia nella categoria della povertà e chi, invece, vorrebbe promuoverla al rango di media borghesia, soprattutto in vista dei vari tentativi di raccordare capitalismo «misericordioso» e cristianesimo.
Ora, è da notare che il primo a definire Gesù un téktôn (e spiegheremo ovviamente che cosa significhi) è Marco che, in occasione di una visita a Nazaret, osserva che i concittadini ironicamente si chiedono: «Non è egli il téktôn, il figlio di Maria?» (6,3). Matteo, che probabilmente si trova a disagio con questo sarcasmo e con questo titolo, riprende il racconto di Marco, ma con una curiosa variante: «Non è egli [Gesù] il figlio del téktôn? » (13,55). Com’è evidente, qui è Giuseppe ad essere iscritto a questa professione. Che la cosa non fosse molto esaltante è confermato anche da Luca che, molto più asetticamente, trasforma così la domanda: «Costui non è il figlio di Giuseppe?» (4,22).
A questo punto, per definire lo statuto sociale di Gesù e del suo padre ufficiale è necessario studiare non solo il vocabolo in questione, ma anche le coordinate socio-economiche della Palestina di quell’epoca. Il termine téktôn di per sé indica il falegname o il carpentiere, «colui che esercita il suo mestiere con un materiale duro che conserva la sua durezza durante la lavorazione, per esempio legno, pietra, corno, avorio», come scrive Richard A. Batey in un saggio scientifico sul vocabolo in questione (non sarebbe, allora, corretta la resa «fabbro»). Le antiche versioni siriaca e copta dei vangeli, i Padri greci della Chiesa, la tradizione popolare e iconografica, hanno optato per la traduzione «falegname».
Tuttavia non bisogna dimenticare che il legno

 


Dono, il disequilibrio che fa bene 
intervista a Roberto Repole - a cura di Laura Badaracchi 
In tempi di crisi economica e valoriale, chi regala qualcosa può essere mosso dal desiderio di essere ricambiato, materialmente o con favori. A seconda del retropensiero che lo precede, un dono può essere anche ostentazione di superiorità, tentativo di estorsione, esibizione di uno status sociale. Tutte situazioni che ne annullano l’autenticità. Perché «nessuno è così povero da non avere qualcosa da donare agli altri; ma nessuno, allo stesso tempo, è così ricco da non aver bisogno della gratuità e del dono di altri. Siamo sempre, simultaneamente, datori e riceventi ». Lo sottolinea don Roberto Repole, presidente dell’Associazione teologica italiana, nel volume «Dono», che suscita profonde riflessioni sulla condivisione empatica.
 
«Ciò che nel donare si crea e si custodisce è il legame tra persone». La chiave di volta è proprio la reciprocità, contrapposta all’individualismo e a quella «logica del pareggio e dell’interesse» che ha generato la crisi di civiltà? 
«Sì, certamente. Una certa retorica sul dono (a volte anche cristiana) induce a pensare che esso ci sia solo nel più completo “dis-interesse”. Allo stesso modo, una certa speculazione filosofica rischia di essere troppo vittima del pensiero economico, quando ritiene in modo assoluto che nel dono non ci debba essere mai circolo. In realtà, quando doniamo un sorriso, del cibo, del tempo, abbiamo un chiaro interesse per l’altro in quanto persona capace a sua volta di donare. E non ogni circolo tra dare e ricevere è necessariamente inscrivibile nella logica economica. Anzi, il dono va realmente

Avevamo lasciato qualche mese fa
un salvatore della patria,
e subito ne abbiamo trovato un altro.
Siamo proprio fortunati, noi italiani.
don Chisciotte

Come Mosè, in cammino su una promessa 
di Enzo Bianchi 
Viandante è colui che va sulla via, su percorsi già tracciati, sui quali altri camminano e altri possono essere incontrati. Non sempre ha davanti a sé una meta precisa come il pellegrino, ma in questo suo andare è piuttosto un “mendicante”: di incontri, di sguardi, di senso, di verità. Desidera camminare su una via che attraversa la realtà della terra nella quotidianità del tempo: tempo e spazio sono infatti le dimensioni che segnano ogni esperienza umana e strutturano il nostro percorso nel cammino della vita, e il viandante dovrebbe saperli vivere pienamente. Da autentico mendicante non ha bagagli, ma si sa equipaggiato semplicemente di una bisaccia, in cui mette poche cose essenziali: un po’ di cibo, dell’acqua per dissetarsi, tutt’al più qualcosa per coprirsi dalla pioggia e dal freddo, anche di notte... e un libro, magari la bibbia, come il pellegrino russo.
L’invito al lettore di questa rubrica è di condividere con me la via e anche ciò che porto nella mia bisaccia: a volte pane profumato, a volte pane duro; a volte acqua fresca da assaporare, a volte acqua che ha perso la sua freschezza ma sa ancora dissetare… Così il nostro cammino diventa occasione di comunione, di incontro, di conoscenza, e dà la possibilità dell’avventura, dell’ospitalità cordiale, dell’amicizia.
Dalla mia bisaccia oggi estraggo un pensiero per me inquietante, che da sempre accompagna la mia vita di monaco e di cristiano. Perché il cristianesimo è così impossibile da vivere, così inefficace nel plasmare la storia degli uomini? Perché il Regno che Gesù annunciava come imminente non ha portato nessuna novità, se non – come diceva Ireneo di Lione – “l’unica novità che è Gesù Cristo”? Ho sempre vissuto una forte contraddizione nella 


«La bellezza è irradiazione, come una luce che non è ricevuta unicamente dall’esterno,
ma che promana dal corpo stesso.
Ciò che appare suggerisce un’altra dimensione, una profondità. (...)
Lo sguardo che parte dal cuore e va verso la persona
- è, per eccellenza, lo sguardo d’amore -
sa cogliere la bellezza propria di ciascun corpo, di ciascun volto».
Xavier Lacroix, Il corpo e lo spirito, 16

Via il rosso, talare da missionario
di Luigi Accattoli
Ha semplificato le vesti e i paramenti delle celebrazioni; indossa una talare (tonaca) bianca come farebbe un domenicano o un missionario in Africa, porta la croce pettorale e l’anello di quand’era cardinale.
Per la messa di Lampedusa (8 luglio) gli avevano preparato un altare e una croce con il legno recuperato dai barconi naufragati e pareva trovarsi a suo agio meglio che in San Pietro.
Andando a celebrare a fine agosto nella chiesa di Sant’Agostino, in Roma, fu visto scendere dall’auto con la mitria sotto il braccio, la stessa di quando visitava le periferie di Buenos Aires.
Ha tolto dalle vesti papali la mozzetta (mantellina) rossa, il rocchetto (sopravveste merlettata che arriva a mezza gamba) e lo stolone delle attività di protocollo.
Non calza le scarpe rosse tipiche dei Papi. Usa le stesse scarpe nere con lacci con le quali è arrivato a Roma per il conclave.
Non ha mai usato il «saturno» e il «camauro», cioè i copricapi tradizionali già semiabbandonati ma che Benedetto aveva ripreso alcune volte.
Nelle giornate fredde di questo inverno è uscito sulla piazza con un cappotto bianco e si è protetto il collo con una sciarpa bianca, ma non ha mai usato il mantello rosso che piaceva a Papa Wojtyla.
Il desiderio di semplificazione di Francesco riduce tutto al bianco, essendo bianche le due uniche aggiunte alla veste che ha mantenuto, cioè la fascia pettorale e lo zucchetto.
Anche Benedetto lasciando il Papato aveva smesso la mozzetta rossa, le scarpe rosse, il rocchetto, lo stolone, mantenendo la sola talare bianca ed ecco che i due papi appaiono quasi identici quando li vediamo inginocchiati l’uno accanto all’altro, fatti simili da scelte individuali che vengono a costituire una gara di spoliazione.
in “Corriere della Sera” del 9 marzo 2014

Vi ricodate questa immagine?


Il papa a Lampedusa teneva in mano una croce fatta coi legni dei barconi dei migranti.
Qui un articolo spiega l'originaria iniziativa:


http://www.casadellospiritoedellearti.org/2-novembre-2013-una-croce-e-una-preghiera-per-le-vittime-di-lampedusa/

Oggi me ne hanno regalata una!!! GRAZIE!!

 


«Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati» (Mt 5,4).
Signore Gesù,
mi fido se Tu mi dici che saranno consolati.
E mi tengo in bocca e nel cuore questa Tua dichiarazione:
«Saranno consolati».
don Chisciotte

Una fede resiliente
di Angelo Reginato 
L’esperienza della salvezza, narrata nelle Scritture, parla il duplice linguaggio dell’iniziativa divina e della risposta umana; ma entrambi prendono forme differenti, a volte opposte.
Normalmente, i nostri occhi sono attratti dalle azioni spettacolari di Dio e dalle risposte eroiche degli esseri umani. Impegnati insieme a far fronte al male che abita la terra, i due protagonisti della storia biblica sono mossi da una fede che resiste al negativo e lotta affinché si affermi il Regno di Dio. Certo, «il futuro del mondo non nasce da un parto verginale della storia» (J. Moltmann); il Regno è di Dio, e non un prodotto umano. Ma se, in un modo o in un altro, siamo parte del gioco, allora la fede non sarà un acquiescente stare al mondo bensì conversione personale e trasformazione storica. Il linguaggio militante è comune a tradizionalisti e innovatori, a spiritualisti e politicizzati. Cambia il teatro della battaglia, ma non la chiamata alle armi.
In questo orizzonte, la parola «resistenza» costituisce un vocabolo-chiave. Che, tuttavia, muta di significato lungo il corso della storia. Ai nostri orecchi, sta perlopiù a indicare l’atteggiamento di chi difende a spada tratta una posizione, i cosiddetti «duri e puri», che non scendono a compromessi. Suggerisce, cioè, una battaglia combattuta sul piano dei princìpi, dove i fronti di lotta sono ben delineati e le scelte da compiere si presentano nella forma dell’alternativa secca: o resisti o ti vendi al nemico. L’imprinting biblico di una fede «resistente» è evidente, fin dalla scena iniziale, quando Dio e Mosè si oppongono al Faraone.
Ma la Scrittura accosta all’epica della resistenza l’arguzia della resilienza. Quest’ultima sta a indicare la capacità di far fronte a urti improvvisi, senza spezzarsi; di reagire alle tragedie della vita, senza farsene travolgere. Essa si differenzia dalla classica resistenza perché batte strade più ordinarie, si avvale di mezzi quotidiani. Inoltre, si muove sul terreno altrui, senza 


"Il miglior momento di tacere
è quando ti sembra addirittura di esplodere
se non parli".

«L'uomo fa fronte alla situazione di prova
con la perseveranza, la perduranza, la resistenza, la custodia della Parola.
Mentre la prova tende a far tornare indietro, induce a perdersi d'animo,
l'atteggiamento direttamente contrastante non è necessariamente quello della vittoria immediata,
ma del resistere, del rimanere fermo, saldo.
L'evangelista Giovanni usa un verbo molto semplice: ménein,
che indica qualcosa di simile.
«Se rimanete in me - dice Gesù - e le mie parole rimangono in voi,
chiedete quel che volete e vi sarà dato» (Gv 15,1).
Il "rimanere in Gesù" è il modo per opporsi alla prova».
Carlo Maria Martini, Avete perseverato con me nelle mie prove, 14
«Non ti chiedo miracoli o visioni,
ma la forza di affrontare il quotidiano.
Preservami dal timore di poter perdere qualcosa della vita.
Non darmi ciò che desidero ma ciò di cui ho bisogno.
Insegnami l'arte dei piccoli passi».
 
Antoine de Saint-Exupèry, Il Piccolo Principe

«Ho parole straniere in punta di lingua.
Un nodo stretto allo stomaco.
Se non ti parlo è perché ti ho detto più di quanto saprei dirti.
Con fili di silenzio ti ho disegnato:
il lungo travaglio della mente che ti partorisce ogni quando mi manchi.
Ti fai sospiro e tormento.
Per troppe braccia allungate invano.
Troppi occhi lanciati all'orizzonte del tuo divenir sostanza ad ogni costo».
Anileda Xeka


Elogio della frugalità
di Paolo Legrenzi
(...) Quando si parla di frugalità, di che cosa stiamo esattamente parlando?
1. La frugalità non è la povertà. È una scelta, non una costrizione. Se si sembra frugali perché si è poveri, in realtà non si è frugali. Oggi, in Italia i poveri sono circa cinque milioni. Si tratta di persone che l’Istat, nel suo rapporto, classifica come «poveri assoluti». Si potrebbe pensare che, in una società ricca, gli «assolutamente poveri» diminuiscano. E invece aumentano. Dal 5,7 per cento delle famiglie assolutamente povere del 2011 siamo passati all’8 per cento delle famiglie del 2012.
2. La frugalità non è neppure l’avarizia. L’avarizia, come la povertà, non è una vera e propria scelta: alla povertà siamo costretti dalle circostanze esterne, all’avarizia dalle nostre ossessioni mentali. Da questo punto di vista il prototipo dell’avarizia è la figura tragica di Mazzarò, il protagonista della novella La roba di Giovanni Verga (1883). Vi si narra di Mazzarò che, partendo da zero, col passare del tempo, accumula una fortuna appropriandosi delle terre di un barone: «Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba alla sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la piaggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule — egli solo non si logorava pensando alla sua roba [...] quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba». Mazzarò diventa vecchio. Pensa che sia «un’ingiustizia di Dio» dover lasciare la roba dopo essersi logorata la vita per accumularla: «Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: — Roba mia, vientene con me!». Non sempre l’avarizia è un’ossessione che arriva a coinvolgere l’aldilà, più spesso è una passione terrena, solitaria e triste. Comunque è ben lontana dalla frugalità, almeno nelle forme in cui l’avarizia si manifestava ai tempi di Verga.
3. La frugalità non è nemmeno una decisione di risparmio. A questo proposito, vorrei raccontare quella che credevo fosse una semplice leggenda familiare, tramandata da 


Grazie a tutti i "donatori"!

Stiamo facendo qualcosa che sembra impossibile,
ma in realtà è possibilissimo...
anzi doveroso!
don Chisciotte

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