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Il concorso internazionale di fotografia naturalistica “Oasis Photocontest”, promosso dalla rivista Oasis. Sono state 10.721 le fotografie ammesse alla fase finale del premio, suddiviso in 10 sezioni, al quale hanno preso parte 821 fotografi provenienti da 28 paesi del mondo, tra cui l'Iran, il Vietnam e la Corea del Sud. Grande la partecipazione degli italiani al premio considerato l'Oscar della fotografia naturalistica, e numerose anche le posizioni occupate dai nostri fotografi in classifica. Le immagini più belle faranno parte di una mostra che nel corso del 2011 farà tappa nelle principali città italiane.
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E' difficile esprimere quale coscienza di Gesù acquista Pietro di fronte alla predizione della passione. Certamente vive una prova terribile sperimentando, in qualche modo, Gesù come ostacolo, come inciampo. Forse si sente deluso: «Ma come? Ho accolto subito la tua chiamata, lasciando il mio mestiere, le mie reti, ti ho seguito per aiutarti a compiere la tua opera, a instaurare il regno, mi hai detto che volevi edificare la tua chiesa su di me, abbiamo vissuto momenti intensi di amicizia, e ora, improvvisamente, annunci che sarai respinto, rinnegato, tradito, ucciso? perché?». (...) Pietro vacilla, sente che deve andare avanti, che deve tener duro, e però non sa in quale modo; vuole essere fedele, ma Gesù si comporta con lui tradendo apparentemente la sua vita, il disegno che gli aveva proposto. Insomma gli si presenta come ostacolo, come blocco, come mistero ben al di là delle sue aspettative, dei suoi sogni, delle sue speranze. Pietro l'ha preso in disparte per non far fare a Gesù una brutta figura davanti agli altri, e le sue parole di rimprovero erano dettate da amore, da amicizia. Perché, allora, l'ha chiamato «satana»? In realtà, Pietro deve compiere un salto di qualità, e tuttavia non trova ragioni logiche per affidarsi ancora al Maestro. Ciascuno di noi, prima o poi, deve vivere una prova analoga; sarà la prova sulla Chiesa, sulla comunità, sul popolo che ci è stato affidato; sarà la prova sulle vicende tristi e dolorose che affrontano le persone che amiamo. Tutte situazioni nelle quali non possiamo cavarcela con il solo strumento della evoluzione progressiva della conoscenza; occorre accettare la rottura, il superamento, il rivelarsi del mistero di Dio come totalmente diverso dal nostro modo di pensare: «Lungi da me, satana!, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Fino a quel momento la vita di Pietro procedeva abbastanza tranquillamente, il suo stare con Gesù non creava alcun problema, ma ora egli sperimenta la rottura, capisce che il suo amore per il Maestro deve essere purificato: è la prima grande prova del suo cammino e del suo attaccamento a Gesù. Non si allontana però e continua a seguire colui che l'ha chiamato quel giorno, lungo il lago di Galilea e che poi gli ha conferito la missione, la sua vera identità. Può essere utile rileggere la confessione di Pietro nel vangelo secondo Giovanni (6, 66-69).
Carlo Maria Martini, Le confessioni di Pietro, 54-57 passim
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Dai «Discorsi» di sant'Agostino, vescovo
(Disc. 295, 1-2. 4. 7-8; PL 38, 1348-1352)
Il Signore Gesù, come già sapete, scelse prima della passione i suoi discepoli, che chiamò apostoli. Tra costoro solamente Pietro ricevette l'incarico di impersonare quasi in tutti i luoghi l'intera Chiesa. Ed è stato in forza di questa personificazione di tutta la Chiesa che ha meritato di sentirsi dire da Cristo: «A te darò le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16, 19). Ma queste chiavi le ha ricevute non un uomo solo, ma l'intera Chiesa. Da questo fatto deriva la grandezza di Pietro, perché egli è la personificazione dell'universalità e dell'unità della Chiesa. «A te darò» quello che è stato affidato a tutti. E' ciò che intende dire Cristo. E perché sappiate che è stata la Chiesa a ricevere le chiavi del regno dei cieli, ponete attenzione a quello che il Signore dice in un'altra circostanza: «Ricevete lo Spirito Santo» e subito aggiunge: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20, 22-23).
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Sant'Ambrogio: eletto vescovo a 34 anni; muore a 57 anni.
San Carlo Borromeo: eletto vescovo a 26 anni; muore a 46 anni.
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L'uomo mite che spaventò i violenti: in libreria la storia del vescovo Romero
di Matteo Tonelli
"Vi sono storie che ti abbracciano così stretto che non riesci a dimenticarle". Storie che parlano di un uomo mite che spaventò i violenti. Che si fece rivoluzionario solo perché decise di stare con gli ultimi quando degli ultimi non importava niente a nessuno. Storie di un uomo che consacrò la sua vita alla religione e su un altare trovò la morte. La storia di Oscar Romero, l'arcivescovo salvadoregno freddato, il 24 marzo 1980, dai proiettili degli squadroni della morte a cui il regime lasciava mano libera. Ettore Masina consegna alle stampe la sua terza versione della biografia di Romero (la prima era uscita nel 1996). "L'arcivescovo deve morire" si intitola e racconta la storia di un uomo mite ma armato di una volontà ferrea. Che decise di condurre una lotta, solitaria, nella totale indifferenza prima e ostilità poi, delle alte gerarchie ecclesiastiche, silenti spettatrici delle atrocità commesse dall'allora governo salvadoregno. Romero, invece, dice no. Non resta indifferente davanti ai massacri del suo popolo, all'eliminazione di quei preti "scomodi" schierati con i deboli. Si schiera e incassa l'accusa di essere "comunista". Marchio con cui venivano bollati tutti coloro che, in quella parte di mondo negli anni 80, lottavano per migliori condizioni di vita e minori disuguaglianze: sindacalisti, oppositori politici, contadini, sacerdoti. Tutti accusati di simpatizzare per la guerriglia.
La repressione scatenata dall'allora presidente Carlos Humberto Romero è tremenda. Le violenze degli squadroni della morte senza controllo. Sparizioni, torture, processi sommari diventano "il pane quotidiano dei cristiani". Il cardinal Romero decide di non tacere e Masina racconta per intera questa ribellione che finisce nel mirino del regime. Proprio il vescovo che al momento della sua elezioni era definito "un buon conservatore" si ritrova addosso l'accusa di marxismo. Le gerarchie ecclesiastiche locali lo lasciano solo additandolo come "incitatore della lotta di classe e del socialismo". E il prelato, ricorda Masina, replica così: "E' uno scandalo che i cristiani di oggi critichino la Chiesa perché "pensa in favore dei poveri" e così facendo rischi di trasformarsi in comunista".
Lasciato solo Romero decide di far conoscere la situazione del suo Paese direttamente in Vaticano. Nell'agosto del 1979 vola a Roma e (tra molte difficoltà) riesce ad incontrare Giovanni Paolo II. Al papa polacco Romero racconte le violenze che funestano il Salvador, parla dell'assassinio del sacerdote Octavio Ortiz, delle sofferenze del suo popolo. Ma non serve. Wojtila resta freddo davanti a quel vescovo in odore di "comunismo". Quello stesso comunismo che il papa polacco osteggiava con forza. Al punto che lo strabismo del Vaticano tendeva a chiudere un occhio davanti "alle dittature di destra, che spesso esibivano un cerimonioso rispetto per la Chiesa cattolica" mostrandosi inflessibile davanti a quelle "comuniste che miravano a essere definitive e radicalmente anticristiane" scrive Masina
Romero, dunque, resta solo. Ma non si ferma. Ogni sua messa, ogni sua omelia vengono interpretate dal regime come un atto di sfida. Le gerarchie locali vedono in lui un pericoloso sostenitore della "teologia della liberazione". Lui, che negava di avere "la vocazione del martire" come tale finisce la sua vita. Ucciso mentre celebra la messa da un colpo di pistola da un uomo degli squadroni della morte del maggiore D'Aubuisson. E ancora sangue scorrerà il giorno dei funerali. Sangue impunito come quello di Romero.
E ancora oggi, a distanza di 31 anni dalla sua morte, la sua figura provoca imbarazzi in Vaticano. Non a caso la causa di canonizzazione è ancora ferma sul tavolo della Congregazione dei santi. Nel 1997 i vescovi latinoamericani (quelli della vecchia generazione sono morti ndr) hanno chiesto, senza esito, che la causa di Romero venisse istruita rapidamente. Nel suo pontificato Giovanni Paolo II ha proclamato più di milleottocento tra santi e beati. Non Romero però: anche se nel 2000 il defunto papa polacco inserì il vescovo salvadoregno tra "i nuovi martiri". E anche oggi c'è chi frena sostenendo che un santo non debba fomentare divisioni ma essere segno di unità. Un contrasto che interessa poco chi, come il popolo del Salvador, considerava Romero beato anche da vivo. E poco si cura delle rigide regole dei canonisti.
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Problemi tecnici col pc ci rendono difficoltoso pubblicare i post.
Ci scusiamo con i naviganti e confidiamo di tornare operativi prima possibile.
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Il 24 giugno di 30 anni fa la prima apparizione. Il racconto e le perplessità nella Chiesa
Quei dialoghi con la Madonna. Il dilemma di Medjugorje
di Vittorio Messori
(...) Fui tra i pochi che ebbero un privilegio invidiato poi dai milioni di pellegrini che seguirono (...): mi concessero di pormi in prima fila. (...) Trent'anni sono passati da quel giugno 1981 in cui tutto ebbe inizio, non sono più tornato in quei luoghi, ma non ho cessato di informarmi e, soprattutto, di imbattermi in chi vi era stato: gente di ogni età, condizione, livello culturale. Eppure protagonisti, tutti, di un'esperienza che considerano importante e non pochi addirittura decisiva. Ho visto vite cambiate, vocazioni religiose sbocciate, pratiche religiose riscoperte. Sulla «verità» di Medjugorje non si potrebbero avere dubbi, se le si applicasse il criterio enunciato da Gesù stesso: «Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo... Ogni albero si riconosce dal suo frutto...» (Lc 6,43). (...) Ma, per Medjugorje, è avvenuto il contrario che per Lourdes o per Fatima, dove la negazione è giunta da atei, laicisti, anticlericali. Qui, entrambi i due vescovi succedutisi alla guida della diocesi hanno assunto un atteggiamento sempre più negativo, sino a parlare di «una delle maggiori truffe nella storia della Chiesa». Altrove, poi, la difesa delle apparizioni ha caratterizzato i cattolici tradizionalisti, mentre quelli cosiddetti «aperti» esprimevano dubbi. Anche qui, le posizioni sono invertite: sono i seguaci di mons. Lefebvre che negano polemicamente che possa essere «vera» una Madonna nei cui messaggi ravvisano quelle che chiamano «deviazioni eretiche conciliari». Credenti pubblicano dossier dal titolo Medjugorje: è tutto vero. Ma altri credenti replicano con instant book: «Medjugorje: è tutto falso». Lo stesso episcopato è diviso: vi è il vescovo (magari il cardinale, come quello di Vienna) che si reca di persona in pellegrinaggio e chi fa rispettare puntigliosamente ai suoi preti il divieto di Roma di guidare ufficialmente dei gruppi. Per la Santa Sede, Medjugorje è un dilemma tormentoso. Da un lato si riconosce con gratitudine l'abbondanza dei frutti spirituali, dall'altro lato non si dimentica il vulnus al diritto canonico, con un tale movimento mondiale combattuto dagli ordinari del luogo, cui spetta il discernimento. Al punto in cui si è giunti, una sconfessione ufficiale della verità dei fatti da parte di Roma sarebbe una catastrofe sul piano pastorale. Ma catastrofico sarebbe anche il contrario: una smentita ufficiale, cioè, della posizione di due vescovi che negano senza esitazione la soprannaturalità e parlano non di miracoli, ma di truffe e inganni. Questo avrebbe effetti inediti e imprevedibili sul diritto ecclesiale. (...)
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Il volto del potere
di Massimo Gramellini
Conoscere la faccia del Bisignani è un privilegio concesso a pochi. Quei dieci o undici milioni di italiani che gli hanno parlato al telefono non l'hanno mai visto di persona e i cittadini comuni che hanno appreso della sua esistenza solo in questi giorni continuano a vedere la stessa foto, quella con gli occhiali a goccia e il faccino stirato, scattata qualche secolo fa. Paradossale, vero? Il mondo non fa che dirci che esistiamo solo se siamo visibili, ma intanto i potenti veri non li conosce nessuno. Mai visto un banchiere sulle poltrone dei talk show, neanche in America. I burattinai mandano i pupazzi in tv ad agitarsi al posto loro. Forse temono che l'immagine rifratta in migliaia di schermi finisca per prosciugare l'anima. O più banalmente sentono che il potere si nutre di timore. E nulla toglie il timore quanto la familiarità. Appena un gradino al di sotto degli invisibili, stanno gli audio-potenti: quelli che non vanno in tv però le telefonano, incombendo con voce monologante sugli ospiti effigiati in studio. Scendendo di un gradino ulteriore, ecco il potente distaccato: si fa vedere, ma in collegamento da un'altra sede, ritratto sul maxischermo con le dimensioni di un poster di Mao. Comunque appare, quindi conta già poco. Chi invece non conta proprio niente sono gli habitué. Le marionette abbarbicate alle poltroncine, che si agitano per strappare un primo piano alla telecamera, bofonchiando il mantra «io non ti ho interrotto tu non mi interrompere». Il popolo senza speranza li disprezza e li vota. Il potere senza volto li disprezza e li usa.
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Weekend deleterio per gli adolescenti
Secondo uno studio europeo è nel fine settimana chei giovani oziano di più, complici televisione e computer
Gli adolescenti di oggi sono sempre più sedentari, ma è nel fine settimana che danno il peggio. Uno studio europeo, pubblicato sulla rivista Preventive Medicine, segnala in particolare che circa un terzo degli adolescenti guarda almeno due ore di televisione al giorno e che nei weekend si eccede anche del 60 per cento. E la vita sedentaria non giova di certo alla salute come ricorda un altro studio recente, pubblicato sulla rivista Medicine and Science in Sports and Exercise, dal quale è emersa una forte associazione tra le ore spese davanti allo schermo e la salute cardiometabolica. I nuovi dati sono stati raccolti nel più ampio studio europeo Helena. Gli autori, coordinati da Juan P. Rey-López dell'Università di Saragozza, hanno analizzato la prevalenza di comportamenti sedentari in più di 3.200 adolescenti di 10 città europee tra cui Atene, Roma, Stoccolma, Vienna e Saragozza. Ai giovani è stato chiesto di indicare il tempo dedicato quotidianamente a guardare la televisione, ai videogiochi, a navigare su internet nonché quello passato a fare i compiti. Non solo, gli esperti hanno valutato la disponibilità di pc, tv e console per i videogiochi nelle case e nelle camere da letto dei ragazzi. (...) I ricercatori hanno evidenziato anche delle differenze nelle attività sedentarie più gradite a maschi e femmine: studiare e navigare in rete sono risultati i passatempi principali delle fanciulle, mentre i ragazzi avrebbero una netta predilezione per i giochi elettronici.
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Dio ci induce in tentazione?
di Hervé Giraud
Nel Padre Nostro, ogni parola ha la sua importanza. Mentre la Conferenza episcopale francese lavora ad una nuova traduzione liturgica francofona della Bibbia, Mons. Giraud, vescovo di Soissons, ha voluto offrire ai lettori del suo blog
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Balena Bianca 2.0
di Roberto Beretta
Il problema vero è l'idea del gruppo di politici «di riferimento», cui rivolgersi quando c'è un provvedimento che sta particolarmente a cuore. Senza curarsi poi se su tutto il resto siano coerenti con il Vangelo
«Balena Bianca 2.0», o anche «Documento dei 100», oppure «Cosa Bianca». L'hanno chiamato in modi diversi, ma quasi tutti i giornali se ne sono occupati, dopo la disfatta elettorale alle amministrative che ha rimesso in gioco l'appoggio cattolico a Berlusconi. Si tratta di una sorta di «manifesto per il buongoverno» (...) che circolerebbe negli ambienti che contano nel cattolicesimo politico - compresi quindi quelli vaticani e della Cei - per chiamare a raccolta i credenti che militano nei più vari partiti politici, al fine di creare un'alleanza trasversale e - chissà - magari anche un nuovo «partito cattolico». Non sono d'accordo, e qui dico alcune delle mie ragioni. Anzitutto, è un'operazione quanto mai «pelosa» scaricare Berlusconi dopo una sconfitta (...), ma avendolo prima supportato tanto a lungo con un cinismo degno della peggior «real politik». Si ha l'impressione che - se (...) fosse ancora ben saldo in sella - i monsignori «che sanno come va il mondo» non si farebbero scrupolo nel sostenerlo ancora. Poi mi pare che l'idea della «lobby cattolica» sia un vecchio arnese quanto mai pericoloso, almeno in una società storicamente clericalizzata come l'italiana. Non vi è infatti chi non capisca che si troveranno decine di politici «cattolicissimi» disposti ad aderire finché fa loro comodo, come in una sorta di «massoneria bianca» cui ci si iscrive per barattare il proprio appoggio in cambio di altri sostegni (di voti, di carriera, di consorteria). (...) Ma è proprio questo che i Richelieu nostrani in porpora e filetti rossi non capiscono affatto. Vivono ancora nella logica democristiana, partitocratica: a loro interessa avere in mano un gruppo di politici «di riferimento», cui rivolgersi quando hanno un provvedimento che sta particolarmente a cuore. Non gliene importa troppo se poi costoro sono coerenti con il Vangelo (tanto siamo tutti peccatori!), se praticano un cristianesimo solo di facciata (il Signore è misericordioso!), se la deferenza è dovuta a motivi strumentali o addirittura «sporchi» (la politica, si sa, è l'arte della mediazione...), e così via. No. Dicono da anni che «ci vogliono più cristiani in politica» e una «nuova generazione di politici cattolici», ma non pensano a gente che agisca con dirittura di coscienza: preferiscono degli opportunisti che però garantiscono assoluta obbedienza al momento del voto. Sostengono che ci vuole più etica nella gestione del potere: ma poi, dal vescovo all'ultimo parroco, vanno a cercare il potente che garantisce loro il risultato voluto e al più presto (sempre «per il bene della Chiesa», beninteso...). Insomma, gli sponsor ecclesiastici della «Balena Bianca 2.0», in realtà, nei fatti della politica mostrano di non credere affatto a quanto annunciano dal pulpito: infatti vogliono «pesare», vogliono influire, alla fine vogliono vincere. E così facendo si mettono in vendita al più scaltro, o al più spregiudicato. Ben gli sta, il Vangelo li aveva avvertiti: i «figli delle tenebre» sono più furbi dei «figli della luce».
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E il monaco disse: meglio accompagnati che «soli»
di Enzo Bianchi
Evagrio Pontico, monaco del IV secolo, è una figura tra le più luminose in quel mosaico scintillante di fede e di vita cristiana che sono i padri del deserto. (...) Evagrio ci è noto soprattutto per gli abbondanti scritti che lui stesso ci ha lasciato e che fin da subito hanno conosciuto un'enorme diffusione e influenza sia nell'area mediorientale che nel mondo latino. (...) Il trattato su «gli otto spiriti della malvagità», uno dei primissimi testi ad aver analizzato finemente quelli che in occidente diventeranno noti come i vizi capitali. Se le sentenze
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La parte migliore del filmato è dall'ottavo minuto: a Benigni bastano pochi minuti per dire alla FIOM (alla FIOM!) delle cose di una profondità dirompente:
- "Quando lavoriamo modifichiamo noi stessi".
- "Una ricompensa che non è solo la paga... Una ricompensa misteriosa: conosciamo noi stessi".
- "Il lavoro non è una dolorosa necessità, ma un servizio divino".
- "Amare il nostro lavoro è una delle più grandi felicità della terra".
- "Che Dio vi benedica!".
Grande evangelizzatore!
don Chisciotte
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Amare il negativo
di fr. Carlo Carretto, Ogni giorno, 11 gennaio
L'amore, piombando sul mio fratello, ha il potere di rigenerarlo. L'amore crea nell'uomo l'ambiente divino della possibile trasformazione.
Sentendosi amato è sollecitato ad iniziare il cammino della salvezza. La sua povertà si arricchisce, la sua menzogna viene odiata, la sua impunità diventa nostalgia di purezza, la sua tenebra è invasa dalla luce.
Quando Gesù mi dice: «Ama il tuo nemico», mi dice un massimo delle possibilità e delle capacità di amare, ma nello stesso tempo mi dà il massimo della speranza di avere la pace in questo mondo. Assediando il nemico con l'amore e non con le armi facilito in lui ed in me la possibilità di veder spuntare i tempi in cui «il leone pascolerà con il capretto e un bambino metterà la mano nel nido d'aspide senza farsi male» (Is 11, 8).
Nel mio sforzo dilato il Regno promessoci ed entro nella mia eredità di pace.
Sì, amare il negativo dell'uomo. Amarlo nella certezza che domani prevarrà il positivo. Vista così la terra non mi fa più paura. Vista così la città, mi sento in cuore una gran voglia di azione e di speranza. Sì, amare il negativo dell'uomo, amare ciò che non c'è o non c'è ancora. I "senza speranza" della cristianità sono proprio coloro che vogliono vedere nell'uomo solo il positivo e che non danno al negativo alcun valore.
E per questo soffrono.
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«Dalla bocca dei bambini, Signore, ti sei fatto una lode». «Molti chiedono solo che la Chiesa sia sé stessa». «La Chiesa non può aver timore di apparire con cordialità verso gli altri nella vita pubblica. Ma è un fatto che il suo vero tesoro è il Vangelo letto in noi dallo Spirito Santo. Un tesoro di preghiera e di umiltà».
Intervista con il cardinale Carlo Maria Martini
di Gianni Valente
«Dapprima impariamo, poi insegniamo, poi ci ritiriamo e impariamo a tacere. E nella quarta fase, l'uomo impara a mendicare». Il proverbio indiano che ha voluto citare in uno dei suoi ultimi libri, per il cardinale Carlo Maria Martini rappresenta quasi una fotografia della sua lunga vita. (...)
Che cosa chiede, ora, nelle sue preghiere di mendicante?
Adesso la mia è una mendicanza anche fisica, che mi costringe a chiedere l'aiuto di qualcuno, magari la notte. Questa è la prima povertà attraverso cui adesso mi fa passare il Signore, ma non è che mi costi tanto, perché così do occasione agli altri di compiere atti di carità. Poi adesso la mia preghiera è per la Chiesa di Milano, è una preghiera d'intercessione per tutte le realtà e le persone della diocesi, che raccomando una a una alla grazia di Dio. Per la Chiesa del mondo
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Cosa avviene su internet in 60 secondi
In un minuto inviate 168 milioni di mail, su YouTube inseriti 600 nuovi video
(...) Cosa succede in questo momento nel vorticoso mondo di internet? E proprio adesso, cosa fanno le milioni di persone collegate in rete? Go-Gulf.com ha cercato di dare una risposta a queste domande. (...) I numeri parlano da soli: è di oltre 168 milioni l'ammontare complessivo delle mail inviate mentre 6.600 sono le nuove foto caricate sul portale Flickr. Ogni 60 secondi i server di Google rispondono a 694.445 interrogazioni e su YouTube vengono immessi 600 nuovi video o, in altre parole, 25 ore totali di durata complessiva. I social network fanno la parte del leone: su Facebook vengono aggiornati 695 mila status e postati 510 mila commenti sulle bacheche dei propri amici; sul microblog di Twitter vengono creati 320 nuovi profili e generati 98 mila messaggini da 140 caratteri. In questo lasso di tempo viaggiano in rete più di 370 mila minuti di chiamate via Skype. Gli internauti non solo scaricano le applicazioni per l'iPhone (13 mila ogni 60 secondi), ma anche browser quali Firefox, oltre 1.700 al minuto. E poi ancora: nascono 60 nuovi blog; vengono scritti 1.500 post; registrati 70 nuovi domini. 60 secondi sono sufficienti per pubblicare 20 mila nuovi messaggi testuali sulla piattaforma Tumblr. Infine, nascono almeno cento nuovi account su LinkedIn e 40 nuove domande vengono poste sulla pagina di YahooAnswers.com.
Elmar Burchia
Infographic by- Shanghai Web Designers
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Viale del tremonti
di Massimo Gramellini
(...) Per scongiurare la malinconia che mi procurano le uscite di scena ritardate (ricordo Maradona in campo col panzone) ho aperto l'Antologia di Spoon River in cerca dei versi giusti. «Andatevene dalla stanza se perdete, andatevene quando il vostro tempo è finito. E' vile sedersi e brancicare le carte, e maledire le perdite con occhi cerchiati, piagnucolando per tentare ancora».
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Apprezzo molto il modo di comporre questo video: un lavoro fine - ma tutto sommato semplice - che accosta le parole ai fatti.
E questi smentiscono quelle.
Un ministro della Repubblica può arrivare a tanto, perdendo ulteriormente credibilità?
E in più: nemmeno l'umiltà di farsi curare da qualche esperto il testo e la costruzione del video.
Alla luce di questi video a confronto, chi sta facendo davvero "disinformazione"?
don Chisciotte
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L'attenzione “balla” da uno stimolo all'altro senza mai focalizzarsi
Il multitasking pare quasi obbligatorio, oggi. Un'occhiata allo smartphone per vedere se è arrivato un messaggio, il tablet a portata di mano per un giretto veloce su internet, il computer davanti agli occhi per lavorare come minimo su due o tre file contemporaneamente. L'attenzione saltella dall'uno all'altro, e per quanto possiamo essere convinti che questo non vada a scapito delle nostre performance, dovremo prima o poi ammettere che non è così. Perché il multitasking distrae, stando ai risultati di una ricerca pubblicata su Cyberpsychology, Behavior and Social Networking . Genitori e insegnanti di quindicenni o giù di lì diranno che si tratta della scoperta dell'acqua calda, ma al solito ci sono poche certezze in medicina finché non si fanno esperimenti precisi e specifici. A farli stavolta ci hanno pensato due docenti della Carroll School of Management di Boston, Adam Brasel e James Gips, che hanno usato telecamere speciali per registrare lo sguardo di alcuni volontari a cui è stata concessa mezz'ora d'uso contemporaneo di televisione e computer, in completa libertà. «Ci aspettavamo che l'utilizzo simultaneo di questi due mezzi portasse a una riduzione dell'attenzione, ma non credevamo fino a questo punto
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Secondo un sondaggio pubblicato da Le Figaro, il 65 per cento dei francesi ritiene che nel loro Paese si sia accentuata negli ultimi anni la mancanza di civismo, inteso in primo luogo come rispetto degli altri e delle norme che regolano la vita collettiva. Da italiani potremmo quasi interpretare un dato del genere in senso positivo, come una sollecitazione a non buttarci troppo giù alla luce appunto del vecchio adagio «mal comune mezzo gaudio». Tanto più che sullo stesso giornale Luc Ferry, filosofo ed ex ministro dell'Educazione, riconduce la maleducazione generalizzata e la mancanza di civismo a una causa di fondo - la «decostruzione dei valori tradizionali e dell'autorità in nome dell'individualismo» - che non è specificamente francese o italiana. In realtà, proprio di fronte a processi del genere, abbiamo tutti la sensazione che, se effettivamente non interessano solo l'Italia, è vero però che da noi spesso assumono forme più accentuate e gravi, come se i virus di certe malattie sociali nel nostro Paese trovassero un terreno particolarmente favorevole. È probabile, nel caso specifico, che questo avvenga perché in Italia il patrimonio di cultura civica non è mai stato abbondantissimo, anzitutto per i tempi e i modi in cui si è formato lo Stato nazionale, come hanno osservato uno stuolo di storici e politologi, ma come pensavano già gli uomini del Risorgimento (a cominciare da d'Azeglio e dalle sue famose osservazioni sulla necessità di «fare gli italiani»). E tuttavia, a quei fattori di predisposizione alla malattia tante volte evocati, ha finito con l'aggiungersene almeno un altro. Mi riferisco al fatto che da qualche anno la politica italiana sembra essere diventata essa stessa uno strumento di costante diseducazione civica. Vediamo infatti come quotidianamente la politica dia un pessimo spettacolo di sé, mettendo in scena (letteralmente, visto che ormai si svolge in gran parte nei salotti televisivi, le nuove Camere della nostra costituzione materiale) quella mancanza di rispetto dell'altro, quella lotta contro il «nemico», quella propensione a urlare più che a ragionare, che con la mancanza di civismo hanno evidentemente parecchio a che fare. E ci sono pochi dubbi sul fatto che il cattivo esempio fornito dai politici abbia conseguenze negative in una società democratica. (...)
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mons. Tonino Bello, Parole d'amore
Spirito di Dio che agli inizi della creazione ti libravi sugli abissi dell'universo, e trasformavi in sorriso di bellezza il grande sbadiglio delle cose, scendi ancora sulla terra e donale il brivido dei cominciamenti. Questo mondo che invecchia, sfioralo con l'ala della tua gloria.
Dissipa le rughe. Fascia le ferite che l'egoismo sfrenato degli uomini ha tracciato sulla sua pelle. Mitiga con l'olio della tenerezza le arsure della sua crosta. Restituiscile il manto dell'antico splendore, che le nostre violenze le hanno strappato, e riversale sulle carni inaridite anfore di profumi.
Permea tutte le cose, e possiedine il cuore.
Facci percepire la tua dolente presenza nel gemito delle foreste divelte, nell'urlo dei mari inquinati, nel pianto dei torrenti inariditi, nella viscida desolazione delle spiagge di bitume.
Restituiscici al gaudio dei primordi. Riversati senza misura sulle nostre afflizioni.
Librati ancora sul nostro vecchio mondo in pericolo. E il deserto, finalmente, ridiventerà giardino, e nel giardino fiorirà l'albero della giustizia, e frutto della giustizia sarà la pace.
Spirito Santo che riempivi di luce i Profeti e accendevi parole di fuoco sulla loro bocca, torna a parlarci con accenti di speranza. Frantuma la corazza della nostra assuefazione all'esilio.
Ridestaci nel cuore nostalgie di patrie perdute.
Dissipa le nostre paure. Scuotici dall'omertà.
Liberaci dalla tristezza di non saperci più indignare per i soprusi consumati sui poveri.
E preservaci dalla tragedia di dover riconoscere che le prime officine della violenza e della ingiustizia sono ospitate nei nostri cuori.
Donaci la gioia di capire che tu non parli solo ai microfoni delle nostre Chiese.
Che nessuno può menar vanto di possederti. E che, se i semi del Verbo sono diffusi in tutte le aiuole, è anche vero che i tuoi gemiti si esprimono nelle lacrime dei maomettani e nelle verità dei buddisti, negli amori degli indù e nel sorriso degli idolatri, nelle parole buone dei pagani e nella rettitudine degli atei.
Spirito Santo che hai invaso l'anima di Maria per offrirci la prima campionatura di come un giorno avresti invaso la Chiesa e collocato nei suoi perimetri il tuo nuovo domicilio, rendici capaci di esultanza.
Donaci il gusto di sentirci "estroversi". Rivolti, cioè, verso il mondo, che non è una specie di chiesa mancata, ma l'oggetto ultimo di quell'incontenibile amore per il quale la Chiesa stessa è stata costituita.
Se dobbiamo attraversare i mari che ci distanziano dalle altre culture, soffia nelle vele perché,
sciolte le gomene che ci legano agli ormeggi del nostro piccolo mondo antico,
un più generoso impegno missionario ci solleciti a partire.
Se dobbiamo camminare sull'asciutto, mettici le ali ai piedi perché, come Maria, raggiungiamo in fretta la città. La città terrena. Che tu ami appassionatamente. Che non è il ripostiglio dei rifiuti, ma il partner con cui dobbiamo "agonizzare" perché giunga a compimento l'opera della Redenzione.
Spirito di Dio che presso le rive del giordano sei sceso con pienezza sul capo di Gesù e l'hai proclamato Messia, dilaga su questo corpo sacerdotale raccolto davanti a te.
Adornalo di una veste di Grazia. Consacralo con l'unzione, e invitalo a portare il lieto annunzio ai poveri,
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri,
e a promulgare l'anno di misericordia del Signore.
Se Gesù ha usato queste parole di Isaia per la sua autoproclamazione nella sinagoga di Nazareth e per la stesura del suo manifesto programmatico, vuole dire che anche la Chiesa oggi deve farsi solidale con i sofferenti, con i poveri, con gli oppressi, con i deboli, con gli affamati e con tutte le vittime della violenza.
Facci capire che i poveri sono i "punti di entrata" attraverso i quali tu, Spirito di Dio, irrompi in tutte le realtà umane e le ricrei. Preserva, perciò, la tua sposa dal sacrilegio di pensare che la scelta degli ultimi sia il sacrilegio di pensare che la scelta degli ultimi sia l'indulgenza alle mode di turno, e non invece la feritoia attraverso la quale la forza di Dio penetra nel mondo e comincia la sua opera di salvezza.
Spirito Santo dono del Cristo morente, fa' che la Chiesa dimostri di aver ereditato davvero. Trattienila ai piedi di tutte le croci. Quelle dei singoli e quelle dei popoli. Ispirale, parole e silenzi, perché sappia dare significato al dolore degli uomini. Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto
e ripeta con il salmo "le mie lacrime, Signore, nell'otre tuo raccogli".
Rendila protagonista infaticabile di deposizione del patibolo, perché i corpi schiodati dei sofferenti trovino pace sulle sue ginocchia di Madre. In quei momenti poni sulle sue labbra canzoni di speranza.
E donale di non arrossire mai della Croce, ma di guardare ad essa come all'antenna della sua nave,
le cui vele tu colmi di brezza e spingi con fiducia lontano.
Spirito di Pentecoste ridestaci all'antico mandato di profeti, dissigilla le nostre labbra, contratte dalle prudenze carnali. Introduci nelle nostre vene il rigetto per ogni compromesso. E donaci la nausea di lusingare i detentori del potere per trarne vantaggio.
Trattienici dalle ambiguità. Facci la grazia del voltastomaco per i nostri peccati. Poni il tuo marchio di origine controllata sulle nostre testimonianze.
E facci aborrire dalle parole, quando esse non trovino puntuale verifica nei fatti.
Spalanca i cancelletti dei nostri cenacoli. Aiutaci a vedere i riverberi delle tue fiamme nei processi di purificazione che avvengono in tutti gli angoli della terra. Aprici a fiducie ecumeniche. E in ogni uomo di buona volontà facci scorgere le orme del tuo passaggio.
Spirito del Signore dono del Risorto agli apostoli del cenacolo,
gonfia di passione la vita dei tuoi presbiteri. Riempi di amicizie discrete la loro solitudine. Rendili innamorati della terra, e capaci di misericordia per tutte le sue debolezze. Confortali con la gratitudine della gente e con l'olio della comunione fraterna. Ristora la loro stanchezza, perché non trovino appoggio più dolce per il loro riposo se non sulla spalla del Maestro. Liberali dalla paura di non farcela più. Dai loro occhi partano inviti a sovrumane trasparenze. Dal loro cuore si sprigioni audacia mista a tenerezza. Dalle loro mani grondi il crisma su tutto ciò che accarezzano. Fa' risplendere di gioia i loro corpi. Rivestili di abiti nuziali. E cingili con cinture di luce.
Perché, per essi e per tutti, lo sposo non tarderà.
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di don Giancarlo Perego, direttore generale Migrantes
Il Papa incontra i rom in Vaticano, alla vigilia della Pentecoste. È un incontro storico. Mentre oggi cresce anche nell'opinione pubblica la marginalizzazione sociale di questo popolo, ancora non riconosciuto tra le minoranze linguistiche in diversi Paesi europei compreso il nostro, il Papa apre le braccia a una rappresentanza di almeno 1.400 persone rom, ma anche sinti, caminanti e di altre tradizioni, provenienti da dieci regioni e da una cinquantina di città italiane. (...) Il cosiddetto popolo 'nomade'
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Auguri e preghiere per i bambini, i ragazzi, gli animatori e gli adulti che vivranno l'esperienza dell'Oratorio Estivo!
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Tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell'Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».
Da duemila anni sappiamo che lo Spirito fa parlare tutte le lingue.
Dalla notte dei tempi sappiamo che gli abitanti di Babele presumevano orgogliosamente di arrivare ad essere come dio perché avevano una lingua sola (Genesi 11,1-9).
Dalla fondazione della Chiesa annunciamo che lo Spirito rende capaci gli apostoli di parlare le lingue dei popoli (si badi bene: non sono i popoli che imparano la lingua degli apostoli).
Allo Spirito piace così e suscita così e insegna così e si diffonde così.
Eppure alcuni figli della Chiesa nata dalle lingue pensano sia meglio il latino per lodare questo Signore.
Mah!
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(Disc. 8, 1-3; PL 65, 743-744)
L'unità della Chiesa parla in tutte le lingue
Gli apostoli hanno parlato in tutte le lingue. Così certamente Dio volle allora manifestare la presenza dello Spirito Santo, in modo che colui che l'avesse ricevuto, potesse parlare in tutte le lingue. Bisogna infatti comprendere bene, fratelli carissimi, che è proprio grazie allo Spirito santo che la carità di Dio si trova nei nostri cuori. E poiché la carità doveva radunare la Chiesa di Dio da ogni parte del mondo, un solo uomo, ricevendo lo Spirito Santo, poté allora parlare tutte le lingue. Così ora la Chiesa, radunata per opera dello Spirito Santo, esprime la sua unità in tutte le lingue. Perciò se qualcuno dirà a uno di noi: Hai ricevuto lo Spirito Santo, per quale motivo non parli in tutte le lingue? Devi rispondere: Certo che parlo in tutte le lingue, infatti sono inserito in quel corpo di Cristo cioè nella Chiesa, che parla tutte le lingue. Che cosa altro in realtà volle significare Dio per mezzo della presenza dello Spirito Santo, se non che la sua Chiesa avrebbe parlato in tutte le lingue? Si compì in questo modo ciò che il Signore aveva promesso: Nessuno mette vino nuovo in otri vecchi, ma si mette vino nuovo in otri nuovi e così ambedue si conservano (cfr. Lc 5, 37-38). Perciò quando si udì parlare in tutte le lingue, alcuni a ragione andavano dicendo: «Costoro si sono ubriacati di mosto» (At 2, 13). Infatti erano diventati otri nuovi rinnovati dalla grazia della santità, in modo che ripieni di vino nuovo, cioè dello Spirito Santo, parlando tutte le lingue, erano ferventi, e rappresentavano con quel miracolo evidentissimo che la Chiesa sarebbe diventata cattolica per mezzo delle lingue di tutti i popoli.
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di Vittorio Cristelli
Il fenomeno è nuovo e nello stesso tempo molto pervasivo. Sto parlando della nuova comunicazione che avviene attraverso il computer. L'hanno chiamata rete, cyberspazio e blogosfera, che, attraverso agganci molteplici, permette a milioni di persone, soprattutto giovani, di dialogare con migliaia di altri uomini e donne oltre qualsiasi confine. Lo si sapeva che sono tanti i cybernauti che appunto “navigano”, come si dice, on-line. E tra loro ci sono anche preti con migliaia di interlocutori. Ma il fenomeno veniva considerato alla stregua di variazione sul tema delle divagazioni, una specie di nuova mèta che si aggiunge alle tante altre per passare il tempo libero. Ha incominciato però a fare notizia quando sulle onde dello spazio si sono formati movimenti che poi sono scesi anche in piazza. La grande, mondiale sorpresa è stata la “rivoluzione dei gelsomini”, un movimento insurrezionale che ha percorso e sta percorrendo tutto il Nord Africa, dall'Egitto alla Libia, passando per la Tunisia. Popoli interi che chiedono libertà e democrazia, senza specifici leader, ma collegati attraverso Internet. In spazi più circoscritti, ma in maniera non meno efficace è avvenuto anche in Italia con le donne del “Se non ora quando?”, scese in piazza a chiedere più dignità. Con i “grillini”. E certamente questo dialogo è intercorso anche alle spalle delle ultime elezioni amministrative con relative sorprese. Se ne è accorta anche la Chiesa italiana che, il 2 maggio scorso, promotori il Consiglio delle Comunicazioni Sociali e quello della Cultura, hanno indetto a Roma un incontro-dibattito con 150 bloggers, selezionati tra i tantissimi che vi aspiravano. Si è parlato appunto di “blogosfera” come ambito da scoprire e soprattutto da non ignorare per una possibile cyberpastorale. A parte le voci dei resistenti al nuovo e dei sospettosi, che pur ci sono state, altre voci hanno visto nella nuova agorà dello spazio opportunità di annuncio evangelico e di dialogo. Mons. Celli, presidente del Consiglio delle comunicazioni sociali, ha segnalato nella blogosfera la matrice di nuove culture. Il gesuita p. Antonio Spadaro ha rivelato di aver già aperto un suo blog di “cyberteologia”. P. Roderick Von-hoegen, pure gesuita, ricordando che gli apostoli erano pescatori, ha detto che per pescare ci vuole l'esca giusta e per i giovani d'oggi l'esca giusta è la Rete. Ma il più articolato è stato l'intervento di p. Federico Lombardi, direttore di Radio Vaticana e della Sala Stampa vaticana. Per p. Lombardi la blogosfera sospinge i credenti di oggi a rilanciare il tema dell'opinione pubblica nella Chiesa, che il Concilio aveva sollecitato ma poi è stato rimesso nel cassetto. Già, perché nella Chiesa ha diritto di svilupparsi anche l'opinione pubblica. Pio XII già nei primi anni '50 diceva, ad un congresso internazionale di giornalisti cattolici: “La Chiesa è un corpo vivente e qualcosa mancherebbe alla sua vita se le facesse difetto l'opinione pubblica, mancanza questa il cui demerito ricadrebbe sui fedeli e sui pastori”. Già, ricordate il vecchio “sensus Ecclesiae”? Quel sentire comune che credeva nell'Immacolata concezione di Maria e nella sua Assunzione al cielo, anni e secoli prima che fossero proclamati i rispettivi dogmi?! P. Lombardi ha auspicato anche che dell'opinione pubblica sulla rete avvenga un feedback, vale a dire una segnalazione all'autorità ecclesiastica, non perché ne derivino interventi di blocco, ma perché ci sia un vero dialogo con il “basso” dell'opinione pubblica. Certo, è da dire che Internet è un mezzo e come tale ambiguo come tutti i mezzi. Dipende da come si usa. (...)
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di Giannino Piana, docente di teologia morale
In una recente classifica stilata dal Living Placet Report del Wwf, nella quale si rileva che se tutti vivessero come gli europei ci vorrebbero almeno due pianeti a disposizione, l'Italia risulta tra i Paesi più spreconi del mondo. Gli italiani sono infatti i primi e i più grandi consumatori di energia in casa, con valori che raggiungono quasi il doppio della media europea. A spiegare questo boom dei consumi è il dilagare di una mentalità che ha le sue radici nel sistema economico dominante - un sistema caratterizzato dalla creazione di prodotti "usa e getta" - e che si traduce in un costume largamente diffuso nei vari ambiti della vita. Il consumo non è infatti soltanto il valore per eccellenza della odierna società del benessere o dell'opulenza - solo se si consuma in modo sempre più intenso è possibile mantenere alti i livelli della produttività - ma è divenuto una sorta di status symbol, che contraddistingue i comportamenti delle persone, e un classificatore della gerarchia sociale: se non si cambiano infatti con grande frequenza vestiti, arredi, automobili e prodotti tecnologici, come cellulari, computer e televisori, si corre il rischio di essere tagliati fuori dall'area di quelli che contano. Questa situazione si è fatta tuttavia, negli ultimi decenni, sempre più insostenibile per il nostro pianeta. La graduale diminuzione delle energie tradizionali (e la difficoltà a sostituirle con altre) e il fenomeno dell'inquinamento ambientale, che coinvolge i beni fondamentali per la vita, come l'aria, l'acqua e la terra, costituiscono un campanello di allarme che va assolutamente ascoltato. La necessità di arrestare un processo che ha già prodotto conseguenze pesantemente negative, ma che rischia di mettere soprattutto a grave repentaglio la possibilità di sopravvivenza delle generazioni future, è ormai avvertita a livello di coscienza collettiva; ma questo raramente si accompagna all'assunzione di decisioni efficaci, che segnino una vera inversione di marcia. Non sembrano infatti emergere vere alternative all'attuale sistema, che continua a perseguire le finalità di sempre. La situazione creatasi a seguito della crisi economico-finanziaria odierna - situazione che costringe a rivedere radicalmente i parametri ai quali si è fatto finora riferimento per valutare lo sviluppo - rappresenta una occasione preziosa per operare una svolta. Un aiuto a prenderla sul serio, voltando in qualche modo pagina, ci è offerta dal recente interessante manuale di Cristina Gabetti dal titolo Occhio allo spreco. Consumare di meno e vivere meglio (Rizzoli); un testo che non si colloca all'interno della tradizione dei classici ambientalisti ed ecologisti il più delle volte tristi, ma che propone piuttosto - come è detto eloquentemente nel titolo - la decrescita nei consumi e l'abolizione degli sprechi come condizione per «vivere meglio». La prospettiva da cui l'autrice muove è infatti una prospettiva positiva: l'obiettivo perseguito è la conquista della felicità, che si realizza laddove il ridimensionamento dei beni materiali diventa lo strumento per una più seria valorizzazione di quelli relazionali e per il miglioramento della qualità della vita. (...) La possibilità che si sviluppino processi sempre più apprezzabili in questa direzione è anzitutto legata alla crescita di consapevolezza della gravità della situazione, perciò allo sviluppo di un'opera consistente di informazione e di sensibilizzazione da parte dei media. Ma è anche (e soprattutto) legata alla capacità di abbandonare atteggiamenti e comportamenti consumistici, per abbracciare stili di vita contrassegnati dal contenimento dei bisogni e dalla crescita di una mentalità che consideri l'austerità, il rigore e la sobrietà non come sacrifici ai quali forzatamente sottostare (e dunque come fattori di penalizzazione) ma come vie obbligate per il ricupero dei valori veri, quelli che danno piena espressione alla persona e favoriscono la promozione di relazioni interpersonali e sociali autentiche.
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di Maria Galluzzo
Sabato prossimo Benedetto XVI riceverà in udienza più di 1500 zingari. Ci saranno rom, sinti, manouches, kalé, yenish e travellers. Arriveranno da venti paesi d'Europa per la ricorrenza dei 150 anni dalla nascita del loro patrono, il beato Zeffirino Giménez Malla, gitano martire della fede di origine spagnola che nel 1997 Giovanni Paolo II elevò agli altari. È la prima volta che un papa riceve a piazza san Pietro un gruppo così grande di rappresentanti delle popolazioni zingare. Paolo VI li incontrò a Pomezia nel 1965 e poi li accolse a Castel Gandolfo nel 1975. Giovanni Paolo II vide spesso molte delegazioni; proclamò il beato Zeffirino, e durante il Giubileo del 2000 pronunciò il mea culpa per i peccati commessi nei confronti degli zingari dai «figli della Chiesa». Il pellegrinaggio di sabato è organizzato dal Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti con la collaborazione della fondazione “Migrantes” della Cei, la diocesi di Roma e la Comunità di Sant'Egidio. Dalla Chiesa e dal volontariato arriva dunque come sempre una bella dimostrazione di attenzione alla condizione di queste popolazioni (15 milioni vivono in Europa, 170mila in Italia). Mentre molte città italiane si arroccano in posizioni di difesa come unica strategia, e a pochi giorni da una campagna elettorale per le amministrative che ha provato a diffondere la paura di “zingaropoli”, la galassia cattolica continua nella costruzione di un progetto di accoglienza che ha ormai radici lontane e profonde. Non dimentichiamo che la Santa Sede ha un dicastero ad hoc che si occupa di migranti e che da anni si è dotato di uno strumento per la pastorale degli zingari. Perché, come ha spiegato alla Radio Vaticana Marco Impagliazzo, presidente di Sant'Egidio, mentre da un lato si moltiplicano gli episodi di «antigitanismo», dall'altro si sa ancora troppo poco del fatto che «gli zingari stanno cambiando», che «c'è grande, grande voglia di integrazione nelle nostre società europee». Anche di questo si parlerà nell'incontro di sabato, accanto alle testimonianze di supertistiti di campi di sterminio: si metterà in luce una popolazione che vuole camminare nella storia e cogliere le opportunità di una positiva integrazione fatta di diritti - casa, istruzione, lavoro, cure mediche - ma anche di doveri.
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di don Lorenzo Milani
Don Milani scrisse questa lettera dalla montagna alla fine del 1955 e venne pubblicata sul «Giornale del Mattino» di Bernabei.
Caro direttore, col progetto di consorzio di cui ti parlai si darebbe l'acqua a nove famiglie. Quasi metà del mio popolo. Il finanziamento è facile perché siamo protetti dalla legge per la montagna. La benemerita 991 la quale ci offre addirittura o di regalo il 75 per cento della spesa oppure, se preferiamo, in mutuo l'intera somma. Mutuo da pagarsi in 30 anni al 4 per cento comprensivo di ammortamento e interessi. Nel caso specifico, l'acquedotto costerà circa 2 milioni. Se vogliamo sborsarli noi, il governo fra due anni ci rende un milione e mezzo. L'altro mezzo milione ce lo divideremo per 9 che siamo e così l'acqua ci sarà costata 55.000 lire per casa. Oppure anche nulla; basta prendere pala e piccone e scavarci da noi il fossetto per la conduttura e ecco risparmiate anche le 55.000 lire. Se invece non avessimo modo di anticipare il capitale allora si può preferire il mutuo. Il 4 per cento di due milioni è 80.000 lire all'anno. Divise per nove dà 8.800 lire per uno. Se pensi che 8.000 lire per l'acqua forse le spendi anche te in città e se pensi che a te l'acqua non rende, mentre a un contadino e in montagna vuol dire raddoppiare la rendita e dimezzare la fatica, capirai che anche questo secondo sistema è straordinariamente vantaggioso. Insomma bisogna concludere che la 991 è una legge sociale e meravigliosa. Mi piacerebbe darti un'idea chiara di quel che significa l'acqua quassù, ma per oggi mi contenterò di dirti solo questo: s'è fatto il conto che per ogni famiglia del popolo il rifornimento d'acqua richieda in media 4 ore di lavoro di un uomo valido ogni giorno. Se i contadini avessero quella parità di diritti con gli operai che non hanno, cioè per esempio quella di lavorare solo 8 ore al giorno, si potrebbe dunque dire che qui l'uomo lavora mezza giornata solo per procurarsi l'acqua. Dico acqua, non vino! Tu invece per l'acqua lavori dai tre ai quattro minuti al giorno. A rileggere l'articolo 3 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale» mi vengono i bordoni. Ma oggi non volevo parlarti dei paria d'Italia, ma d'un'altra cosa. Dicevamo dunque che c'è questa 991 che pare adempia la promessa del 2° paragrafo dell'art. 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini». A te, cittadino di città, la Repubblica non regala un milione e mezzo, né ti presta i soldi al 4 per cento compreso l'ammortamento. A noi sì. Basta far domanda e aver qualche conoscenza. Infatti eravamo già a buon punto perché un proprietario mi aveva promesso di concederci una sua sorgente assolutamente inutilizzata e inutilizzabile per lui, la quale è ricca anche in settembre e sgorga e si perde in un prato poco sopra alla prima casa che vorremmo servire. Due settimane dopo, un piccolo incidente. Quel proprietario ha un carattere volubile. Una mattina s'è svegliato d'umore diverso e m'ha detto che la sorgente non la concede più. Ho insistito. S'è piccato. Ora non lo scoscendi più neanche colle mine. Ma il guaio è che quando ho chiesto a un legale se c'è verso d'ottenere l'esproprio di quella sorgente, ma risposto di no. Sicché la bizzettina di quell'omino, fatto insignificante in sé, ha l'atomico potere di buttare all'aria le nostre speranza d'acqua, il nostro consorzio, la famosa 991, il famoso articolo 3, le fatiche dei 556 costituenti, la sovranità dei loro 28 milioni di elettori, tanti morti della Resistenza (siamo sul monte Giovi! Ho nel popolo le famiglie di 14 fucilati per rappresaglia). Ma qui la sproporzione tra causa ed effetto è troppa! Un grande edificio che crolla perché un ragazzo gli ha tirato coll'archetto! C'è un baco interiore dunque che svuota la grandiosità dell'edificio di ogni intrinseco significato. Il nome di quel baco tu lo conosci. Si chiama: idolatria del diritto di proprietà. A 1955 anni dalla Buona Novella, a 64 anni dalla Rerum Novarum, dopo tanto sangue sparso, dopo 10 anni di maggioranza dei cattolici e tanto parlare e tanto chiasso, aleggia ancora vigile onnipresente dominatore su tutto il nostro edificio giuridico. Tabù. Son 10 anni che i cattolici hanno in pugno i due poteri: legislativo e esecutivo. Per l'uso di quale dei due pensi che saranno più severamente giudicati dalla storia e forse anche da Dio? Che la storia condannerà la nostra società è profezia facile a farsi. Basterebbe il solo fatto della disoccupazione oppure il solo fatto degli alloggi. Ma una storia serena non potrà non valutare forse qualche scusante, certo qualche attenuante: l'ostacolo della burocrazia insabbiatrice, quello dell'Italia sconvolta dalla guerra, quello degli impegni internazionali... Insomma, tra attenuanti e aggravanti, chi studierà l'opera dei cattolici in Italia forse non riuscirà a dimostrare che la loro incapacità sia un'incapacità costituzionale. Saremo perdonati dunque anche se in questa preziosa decennale occasione di potere non avremo saputo mostrare al mondo cosa sappiamo fare. Ma guai se non avremo almeno mostrato cosa vorremmo fare. Perché il non saper fare nulla di buono è retaggio di ogni creatura. Sia essa credente o atea, sia in alto o basso loco costituita. Ma il non sapere cosa si vuole, questo è retaggio solo di quelle creature che non hanno avuto Rivelazione da Dio. A noi Dio ha parlato. Possediamo la sua legge scritta per steso in 73 libri e in più possediamo da 20 secoli anche un Interprete vivente e autorizzato di quei libri. Quell'Interprete ha già parlato più volte, ma se non bastasse si può rivolgersi in ogni momento a lui e sottoporgli nuovi dubbi e nuove idee. A noi cattolici non può dunque far difetto al luce. Peccatori come gli altri, passi. Ma ciechi come gli altri no. Noi i veggenti o nulla. Se no val meglio l'umile e disperato brancolare dei laici. Che i legislatori cattolici prendano dunque in mano la Rerum Novarum e la Costituzione e stilino una 991 molto più semplice in cui sia detto che l'acqua è di tutti. Quando avranno fatto questo, poco male se poi non si riuscirà a mandare due carabinieri a piantar la bandiera della Repubblica su quella sorgente. Manderanno qualche accidente al governo e ai preti che lo difendono. Poco male. Partiranno per il piano ad allungarvi le file dei disoccupati e dei senza tetto. Non sarà ancora il maggior male. Purché sia salva almeno la nostra specifica vocazione di illuminati e di illuminatori. Per adempire quella basta il solo enunciare leggi giuste, indipendente dal razzolar poi bene o male. Chi non crede dirà allora di noi che pretendiamo di saper troppo, avrà orrore dei nostri dogmi e delle nostre certezze, negherà che Dio ci abbia parlato o che il papa ci possa precisare la Parola di Dio. Dicendo così avrà detto solo che siamo un po' troppo cattolici. Per noi è un onore. Ma sommo disonore è invece se potranno dire di noi che, con tutte le pretese di rivelazione che abbiamo, non sappiamo poi neanche di dove veniamo o dove andiamo, e qual è la gerarchia dei valori, e qual è il bene e quale il male, e a chi appartengono le polle d'acqua che sgorgano nel prato di un ricco, in un paesino di poveri.
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La risposta richiede di riflettere sul senso dell'istituto referendario nel nostro ordinamento e sulla sua fragilità, dovuta all'indifferenza dell'elettorato, alle strategie di neutralizzazione da parte dei governi e a quelle di manipolazione da parte dei promotori. Occorre ridare il giusto valore allo strumento referendario soprattutto di fronte a delicate questioni riguardanti il bene comune: ecco perché invitiamo a una partecipazione ampia, matura e consapevole alla prossima consultazione. Nel numero di giugno di Aggiornamenti Sociali, il direttore Giacomo Costa ci conduce, attraverso la storia dell'istituto referendario e l'esame del contesto attuale, a comprendere le ragioni per le quali è importante, in questo momento storico, andare a votare. Ricordando che il referendum è un istituto di partecipazione diretta del popolo nelle vicende politiche in un sistema di tipo rappresentativo, quale è quello italiano, p. Costa sottolinea che esso è uno strumento al quale si può ricorrere per rimediare a scollamenti tra la volontà del popolo e le scelte dei suoi rappresentanti, nonché per realizzare una convergenza di consensi su tematiche particolari che difficilmente si raggiungerebbe nelle sedi istituzionali. A minare le fondamenta dell'istituto referendario, sono intervenuti negli ultimi decenni una crescente disaffezione nei suoi confronti, che ha portato al ricorso all'astensione in maniera ostruzionistica; la strategia di sviamento messa in atto dai Governi; l'abuso e la manipolazione dei quesiti da parte dei loro promotori. Il contesto attuale
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di Franco Ferrari
«La voce delle pecore, la voce del gregge». La metafora fa ovviamente riferimento alla realtà ecclesiale e ai problemi della comunicazione al suo interno.
La comunicazione, per sua natura, non si può realizzare senza un ascolto e uno scambio reciproco. Un carattere dialogico che per il magistero conciliare (Lumen Gentium, Gaudium et Spes) deve caratterizzare anche i rapporti interni al Popolo di Dio, cioè alla Chiesa, proprio tra pastori e fedeli e viceversa. La libertà di parola all'interno della Chiesa, indubbiamente deve avere uno stile e un metodo propri di una comunità di fede, ma senza di essa la comunità (i suoi membri) “non cresce, vive anzi in uno stato di permanente minorità” (M. Mincuzzi, vescovo di Lecce, 1981). Questo spazio di libertà sembra essere un punto critico costante della vita ecclesiale, anche dopo il Vaticano II. Paola Bignardi, già presidente nazionale dell'Azione Cattolica, ha annotato nel suo volume “Esiste ancora il laicato?” (2006): “la presenza di un laicato che si pone con inquietudine domande sulle forme della missione della Chiesa viene guardata con diffidenza
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di Marco Belpoliti
L'Italia è una Repubblica fondata sull'aggressività e lo psicofarmaco? Sembrerebbe proprio di sì. Negli ultimi cinque anni le minacce e le ingiurie, stando a un rapporto del Censis appena pubblicato, sarebbero aumentate del 35,3%. Detto altrimenti, il controllo delle pulsioni e il rispetto delle regole in Italia sono in pericolo. E questo è l'aspetto out del processo in corso; mentre l'aspetto in riguarda invece l'aumento degli stati di depressione combattuti con l'aiuto di farmaci ora in netto aumento. Possibile? Direi sicuro. Da tempo gli psicologi e i sociologi ci segnalano la fine di quelle che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk chiama le «banche dell'ira», ovvero le istituzioni che permettevano di mettere a deposito, in modo fruttifero, le frustrazioni, i risentimenti, gli odi, l'ira, suscitate dalle tensioni sociali e personali che attraversano le società moderne, e non solo quelle. Le fondamentali banche dell'ira erano, da un lato, il cristianesimo, ovvero la Chiesa cattolica, in Italia, e l'ideologia socialista e comunista, dall'altro, in Europa. Rinviando gli individui frustrati al Regno dei Cieli o alla società socialista o comunista, si raccoglieva il risparmio delle persone e lo si metteva a frutto, erogando in futuro un credito che maturava, come ci ricorda in un capitolo del suo libro Marco Revelli (Poveri, noi, Einaudi). Nella disgregazione di queste istituzioni, che hanno perso la loro presa sulla società, non ci sono più contenitori capaci di mantenere la pentola in ebollizione senza però farla esplodere. Il rancore e il risentimento sono il vero mood della società postmoderna che consuma le proprie energie frustrate nella microconflittualità segnalata del Censis. Secondo la ricerca, resa ora nota, l'85,5% degli italiani si ritiene l'unico arbitro dei propri comportamenti. Non ci sono regole condivise; ovvero, non c'è una morale collettiva, valori, su cui commisurare la bontà o meno delle proprie azioni presenti e future. L'effetto positivo o negativo diventa l'unico metro di calcolo per cui un comportamento individuale è da ritenersi giusto o sbagliato. La depressione è l'altra faccia del risentimento e del rancore, poiché ogni fallimento individuale, patito come tale, e che non trova un capro espiatorio su cui scaricarsi, rimbalza indietro come un boomerang, e produce uno stato di tristezza, abbattimento, caduta dell'autostima e conseguente bisogno di autopunizione. Ci si scaglia contro gli altri, in questa individualizzazione del risentimento, non più canalizzato verso obiettivi collettivi, e questo è lo stato euforico, aggressivo, che ci tenta tutti dinanzi ai fallimenti veri o presunti; o invece ci rivolge a una sorta di catatonia, il sonnambulismo diurno che connota molte delle nostre espressioni individuali, che è curato in vari modi e maniere, spesso con il ricorso alla pastiglia. (...) In effetti noi tutti combattiamo ogni giorno, da mattina a sera, e anche oltre, una battaglia continua con cose, persone, entità invisibili o assenti, una guerra mai dichiarata, e proprio per questo logorante, che ci fa diventare minacciosi e ingiuriosi con il vicino della porta accanto, chiunque esso sia, oppure cadere in una forma di tristezza inspiegabile, perché qualsiasi cosa succede o facciamo non c'è nessuno che ci dia una mano: è la guerra dei fatti nostri.
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Qui ci vuole un sabbatico: come difendersi dalla tecnologia selvaggia
di Maria Luisa Agnese
Ora pausa pranzo, camminando in via Garibaldi a Milano colgo al volo questo dialogo fra tre colleghi di lavoro due uomini e una donna che avanzano chiacchierando mentre lei, tipica ragazza della 27esima ora, controlla e mail/messaggi sul Blackberry. “Ma non potresti smetterla per un attimo? E parlare con noi?” le dice uno dei colleghi: “Siete tutte uguali, l'ho detto l'altro giorno a mia moglie: per il mio prossimo compleanno, voglio un regalo solo, per un giorno niente cellulare, computer, iPad: tutto spento”. Il telefonino o meglio l'ansia da continua connessione ci sta mangiando la vita. E sta mettendo a rischio le relazioni interpersonali e gli equilibri familiari e amicali. E' un'idea che mi frulla in testa quando da quando durante un week end in montagna due mesi fa sono rimasta scollegata per 24 ore per un incantesimo tecnologico (prima è rimasto muto l'iPhone, per il cambio di operatore e poi per un black out anche l' iPad) e sembravo un'anima in pena, parenti e amici mi dicevano: “Ma prendila con filosofia, in fondo sei due giorni in vacanza, goditela”. E se le donne sono più avanti anche in questo delirio, per ansia/obbligo di tenere tutto sotto controllo: marito, figli lavoro e amici, la sbornia da tecnologia preoccupa ormai parecchi, a cominciare dagli addetti ai lavori che, dopo l'entusiasmo dello stato nascente cercano regole, limitazioni, paletti per sfuggire alla condanna dell'essere sempre a disposizione 24 ore su 24: insomma un manuale di volo che permetta di sfruttare la tecnologia senza diventarne schiavi. Un passo indietro lo ha invocato un drogato per mestiere, come Nick Bolton commentatore principe di tecnologia sul New York Times che qualche tempo fa ha iniziato il suo post sul Blog Bits, pubblicando la schermata di Twitter con il suo stato “Non sto consultando Twitter”. E continuava raccontando varie esplorazioni per un uso più morigerato del mezzo: lui e sua moglie hanno cominciato a eliminarlo almeno a tavola, in famiglia, spronandosi a vicenda; un suo amico blogger, Joel Johnson editor di Gizmodo ha fatto un patto con la fidanzata, quando arrivano al ristorante sbrigano velocemente le ultime operazioni sui loro smart Phone, buttano un' ultima occhiata a Foursquare, poi li fanno sparire per un'oretta dalle loro vite. Altri hanno deciso un giorno “free”, venerdì sabato o domenica a seconda della religione, tanti perlomeno di non portarlo a letto. Nessuno poi vuole ripetere le malinconiche scenette di quattro (o più) amici al ristorante, ognuno con il naso sprofondato nel suo cellulare. “Basta ripetersi come un mantra: “Posso aspettare a consultare le email”. Urge dunque una moratoria, un sos famiglia, per regolamentare il nostro tempo dedicato al video fra Skipe Facebook, Facetime e Twitter, un sabbatico dalla tecnologia, uno stacco, un digiuno purificatore che aiuti a ripristinare una disciplina della mente, non c'è bisogno di fare sette telefonate per incontrarsi, basta darsi un appuntamento preciso: almeno noi che abbiamo vissuto anche senza, lo sappiamo, e dobbiamo provarci. Ricordiamocelo e insegnamolo alle nuove generazioni native digitali. Siete d'accordo o votate tecnologia selvaggia?
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di Marco Tarquinio
Gentile direttore, mi riferisco alla lettera del signor Massullo, apparsa nella pagina di Forum domenica 29 maggio e alla sua risposta che a me è apparsa non chiara né esaustiva. Mi permetto di riformulare a mio modo il quesito del signor Massullo. È possibile e moralmente lecito a un cattolico con coscienza ben formata votare un candidato politico che, fra tante cose belle, sostiene anche le coppie di fatto, l'aborto, l'eutanasia... cioè scelte contrarie a principi che la Chiesa ritiene non negoziabili? - Guglielmo Nicoletti, Padova
Lei, gentile signor Nicoletti, non riformula affatto il quesito del lettore Massullo che era totalmente incentrato sul valore da dare alla valutazione di coscienza, me ne propone uno diverso. Un quesito al quale, peraltro, in queste settimane come già negli anni scorsi, su Avvenire abbiamo dato più volte quella che ci sembra una risposta sensata e utile. Comunque sia, gliela ripeto volentieri: i «valori non negoziabili» sono impegnativi per un cattolico, e il Papa e i vescovi ce li indicano per poter sviluppare un'azione politica e sociale giusta e per aiutarci nel formulare un giudizio su chi ambisce a svolgere un ruolo e un servizio pubblico. Ricordo per l'ennesima volta questi valori che delineano quell'«etica della vita» che dà base all'«etica sociale»: tutela della dignità della persona e della vita umana in ogni momento e condizione (nascente, povera, migrante, malata, morente...), riconoscimento del ruolo fondamentale della famiglia naturale, cioè fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna, libertà di educare i propri figli. Questo vuole dire che il politico che dichiara di non volerli rispettare oppure
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No all'indifferenza, tutti debbono reagire
Napolitano: «Occorre stroncare questo traffico e prevenire i viaggi della morte»
Caro Magris,
lei ha dolorosamente ragione. Tocca noi tutti («pure me stesso mentre sto scrivendo queste righe»: lei ha voluto sottolineare nell'articolo sul Corriere di sabato) l'assuefazione alle tragedie dei «profughi in cerca di salvezza o di una sopravvivenza meno miserabile» che periscono in mare. (...) Ma se in qualche modo è istintiva l'assuefazione, è fatale anche che essa induca all'indifferenza? A me pare sia questa la soglia che non può e non deve essere varcata. Se è vero, come lei dice, che la democrazia è tale in quanto sappia «mettersi nella pelle degli altri, pure in quella di quei naufraghi in fondo al mare», occorre allora scongiurare il rischio di ogni scivolamento nell'indifferenza, occorre reagire con forza - moralmente e politicamente - all'indifferenza: oggi, e in concreto, rispetto all'odissea dei profughi africani in Libia, o di quella parte di essi che cerca di raggiungere le coste siciliane come porta della ricca - e accogliente? - Europa.
La comunità internazionale, e innanzitutto l'Unione europea, non possono restare inerti dinanzi al crimine che quasi quotidianamente si compie (...) Stroncare questo traffico, prevenire nuove, continue partenze per viaggi della morte (ben più che «viaggi della speranza») e aprirsi - regolandola - all'accoglienza: è questo il dovere delle nazioni civili e della comunità europea e internazionale, è questo il dovere della democrazia. La ringrazio, caro Magris, per la sua sollecitazione: che ho sentito come rivolta anche a me, come rivolta, di certo, a tutti gli italiani.
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Ma la tesi è corretta.
Peraltro già presentata bene nel 1986 in un breve saggio di Massimo Di Forti, "La società post-erotica".
Il macigno che distrusse l'illusione dell'edonismo
di Antonio Scurati
Ci sono date che, sebbene rimangano in principio ignorate, segnano una controstoria segreta dell'umanità. Il 5 giugno '81 è una di quelle. Quel giorno il centro per la prevenzione delle malattie degli Usa identificò un'epidemia di pneumocistosi polmonare in 5 pazienti gay di Los Angeles. Era l'inizio dell'epidemia dell'AIDS. Ma era anche l'inizio degli anni '80, il più lungo e intenso periodo di finta allegria dissipatrice che la storia dell'Occidente contemporaneo ricordi. Un decennio lungo trent'anni e durato fino a oggi. Anzi, fino a ieri. Trent'anni di fasulla e perfino lugubre joie de vivre sottilmente venati da un corrosivo presentimento luttuoso. Quel primo campanello d'allarme rimase a lungo inascoltato. (...) Buttati dietro le spalle gli anni '70 degli ultimi conflitti sociali manifesti e delle ultime dure lotte politiche, si predica ovunque euforicamente il nuovo verbo della società dei consumi, il cui hard core culturale e commerciale sta proprio, non a caso, nello scatenamento dei consumi sessuali. Ogni merce, anche la meno eccitante, viene sapientemente investita da un flusso di pulsioni libidinali ad opera di una legione di pubblicitari. La «liberazione sessuale», massima conquista dei movimenti di contestazione dei decenni precedenti, viene pervertita e irradiata sull'intero spettro delle merci. L'imperativo è uno solo: consumare, spandere, godere. Tre verbi che stanno chiaramente su di un continuum temporale e semantico con l'atto ed il concetto di «scopare».
Per le donne e gli uomini della mia generazione, nati tra la fine dei '60 e il principio dei '70, l'AIDS fu una prima apocalittica rivelazione riguardo alla fatuità e falsità dell'ideologia edonista profusa prima dai gruppi di potere e poi dai ceti di governo proprio a cominciare dagli anni '80. La sperimentammo sulla nostra pelle quella menzogna anzi - è proprio il caso di dirlo - nella nostra carne. Ci affacciammo, infatti, all'età biologica del godimento sessuale proprio quando l'agghiacciante consapevolezza riguardante il diffondersi della malattia proclamava che la festa era finita (sebbene alcuni uomini degli anni '80 si siano ostinati a negarlo fino a ieri, anzi, fino a oggi). (...) Non avremmo addentato il frutto proibito, e non per timore del peccato ma perché era un frutto avvelenato. Per noi occidentali, l'AIDS infettava direttamente il cuore della nostra mitologia tardo-moderna. (...) Da quel momento in avanti l'amplesso amoroso venne definito «evento a rischio», il rischio fu contrastato con «campagne preventive» e il momento in cui quel rischio si esaltava, vale a dire l'atto sessuale, sottoposto all' ipoteca di un «rapporto protetto». Quella che sarebbe dovuta finalmente essere l'espressione di un'esuberanza vitale, di una libertà conquistata, di una natura emancipata dalle proprie fatalità e costrizioni grazie alla tecnologia medico scientifica (l'invenzione della pillola), veniva ora subito sottoposta ad un protocollo di sicurezza fatto di guerre antivirali preventive e speculazioni sul rischio. Ci è stato giustamente insegnato che trasformare una malattia in metafora è gesto spesso ideologicamente perverso ma è davvero difficile non notare come l'ossessione del «rapporto protetto» sia presto diventato un paradigma per l'Occidente in crisi dei decenni successivi. Dalla metà degli anni '80 in avanti, quasi sempre, sia che si facesse l'amore sia che si facesse la guerra, non essendo affatto propensi a rinunciare al nostro sfrenato godimento, volendo anzi continuare a lussureggiare anche in futuro, a dispetto di tutto, illudendoci di essere ancora in grado di farlo, abbiamo creduto di poter continuare ad andare a letto con lo spirito del tempo dei fatui e sciagurati anni '80 indossando un preservativo, una piccola guaina di lattice immunizzante che ci garantisse l'orgasmo preservandoci, però, dal contatto con la realtà del mondo, dell'altro e, soprattutto, di noi stessi.
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di Claudio Magris
Su alcuni giornali, duecento morti o dispersi in mare come quelli dell'altro ieri, in una fuga della disperazione, non finiscono neppure più in prima pagina, scivolano in quelle seguenti fra le notizie certo rilevanti ma non eclatanti. (...) Le tragedie odierne dei profughi in cerca di salvezza o di una sopravvivenza meno miserabile che periscono, spesso anonimi e ignoti, in mare non sono meno dolorose, ma non sono più un'eccezione sia pur frequente, bensì una regola. Diventano quindi una cronaca consueta, cui si è fatto il callo, che quasi ci si attende già prima di aprire il giornale e che dunque non scandalizza e non turba più, non desta più emozioni collettive. Questa assuefazione che conduce all'indifferenza è certo inquietante e accresce l'incolmabile distanza tra chi soffre o muore, in quell'attimo sempre solo, come quei fuggiaschi inghiottiti dai gorghi, e gli altri, tutti o quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono essere troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo. È giusto ma è anche facile accusarci di questa insensibilità, che riguarda pure me stesso mentre sto scrivendo queste righe e tutti o quasi tutti coloro che eventualmente le leggeranno. Diversamente da altri casi, in cui l'indifferenza o la livida ostilità si accaniscono sullo straniero, sul miserabile, su chi ci è etnicamente o socialmente diverso, in questa circostanza la nostra insensibilità non nasce dalla provenienza e dall'identità a noi ostica di quelli annegati. Nasce dalla ripetizione di quei drammi e dall'inevitabile assuefazione che ne deriva. Anche se, per sciagurate ipotesi, ogni giorno le cronache dovessero riportare notizie di soldati italiani caduti in Afghanistan, la reazione, dopo un certo tempo, si tingerebbe di stanca abitudine. Pure atroci delitti di mafia vengono a poco a poco vissuti come una consuetudine. Non si può sopravvivere emozionandosi per tutte le sventure che colpiscono i nostri fratelli nel mondo; pure la commozione per qualche delitto particolarmente raccapricciante, ad esempio l'efferata uccisione di un bambino, dopo un certo tempo orribilmente si placa; la notizia è stata assorbita, non scuote più l'ordine del mondo né il cuore. L'assuefazione - alla droga, alla guerra, alla violenza - è la regina del mondo. «Bisogna pur vivere - si dice in un romanzo di Bernanos - ed è questa la cosa più orribile». Forse una delle più grandi miserie della condizione umana consiste nel fatto che perfino il cumulo di dolori e disgrazie, oltre una certa soglia, non sconvolge più; se annuncio la morte di un parente, incontro una compunta comprensione, ma se subito dopo ne annuncio un'altra e poi un'altra ancora rischio addirittura il ridicolo. Proprio per questo
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La busa noeuva
In de la mia strada gh'è ona busa noeuva,
ona busa noeuva che jer la gh'era nò.
L'hoo minga vista, porca d'ona Eva,
quella busa noeuva e, pamm, son borlaa giò!
Me sont incazzaa e hoo dii: "Voo in del Sindich.
M'hann dii de andà a parlà a on sportell.
Sont andaa là e g'hoo dii: Ma come...
gh'è in gir i bus senza cartell?!...
In de la mia strada... sì... ona busa noeuva...
ona busa noeuva che jer la gh'era nò...
Me son faa mal tutt chì in su la gengiva,
in de la busa noeuva, e me fa mal an'mò!"
El fa: Ma a mì cosa m'importa
de la soa busa?... Cosa gh'entri mì...
Ch'el vaga sù al quint pian, seconda porta:
l'è competenza del reparto “C”
Sont andaa sù finna al quint pian de corsa.
Quand son staa sù, dopo, m'hann mandaa giò.
M'hann mandaa giò in d'on altra stanza
e, quand son staa giò, m'hann mandaa sù ancamò!
Ghe l'hoo dii a tucc mì: "Gh'è ona busa noeuva,
ona busa noeuva che jer la gh'era nò,
in de la mia strada; bisognaria quattalla,
se nò, porca sidella, doman l'è lì ancamò.
Soo proppi nò come la sia,
m'hann faa girà come on merluzz
per trovà quell che poeu el saria
el competent per stoppà i bus.
El dis: "Ch'el faga ona domanda,
poeu, dopo, me la porta chì,
cont ona foto bella granda,
formato duu per vintitrii!"
E mì hoo scritt giò che gh'è ona busa noeuva,
ona busa noeuva che jer la gh'era nò,
in de la mia strada; ghe voraria ona foto,
ma la mia machinetta l'è rotta e podi nò!
Son vegnuu via incazzaa 'me on negher
Sont andaa a cà e l'era an'mo lì.
El passava on ghisa, gh'hoo dii: Ch'el senta!"
L'ha minga vista, l'è andaa denter fin chì.
E mì g'hoo dii: 'A l'è ona busa noeuva,
ona busa noeuva che jer la gh'era nò.
Adess ch'el gh'è andaa denter lù che l'è on ghisa,
ch'el vaga e ghe le disa de quattalla giò!
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Migranti: ripasso di storia
Don Mario Bandera, direttore del Centro missionario diocesano di Novara, si sofferma su un passato rimosso per riflettere sulle storture e le disuguaglianze della nostra epoca.
Che la storia sia maestra di vita, è un detto risaputo. (...) Eppure, a ben guardare, sembra che la Storia agli italiani non abbia insegnato niente. Anzi, più le vicende storiche sono state drammatiche, intense, vissute da milioni di persone, più queste vicende, con il passar del tempo, vengono immediatamente poste nel dimenticatoio dalle successive generazioni. Proviamo a fare un ripasso. Dalla sponda sud del Mediterraneo, a ondate successive, sbarcano sulle coste dell'isola di Lampedusa migliaia di disperati, tutti provenienti dall'Africa. I commenti dei reggitori del nostro governo sono la colonna sonora dei telegiornali del Bel Paese (...)
La prima cosa da dire è che in un mondo dove il 20% della popolazione ha a disposizione l'80% delle risorse, e di conseguenza, capovolgendo i termini, l'80% della popolazione mondiale vive col 20% delle risorse del pianeta, non ci vuol molto a capire che, se una tavola è imbandita con pietanze preparate utilizzando cereali, carne, frutta, verdura, ecc. ecc. sottratte ad altre zone del pianeta, è inevitabile che coloro che non hanno nessuna prospettiva di futuro faranno carte false e percorreranno tutte le strade più impossibili pur di riuscire a entrare anche loro nella sala da pranzo.
Un secondo elemento che fa da detonatore a questa situazione è quello demografico. Tutti dicono che il primo mondo sta invecchiando; anzi, per certi aspetti è già vecchio, mentre nei paesi del sud del mondo i due terzi della popolazione ha meno di 30 anni. Siamo di fronte, cioè, a una fotografia dove dei vecchi signori a cui interessa solo il galateo a tavola, devono fare i conti con una massa crescente di giovani desiderosi di trovare l'occasione per migliorare le proprie condizioni di vita.
Un ulteriore elemento di approfondimento di questa situazione è, tanto per restare in Africa, che gli stati coloniali che ne hanno fatto scempio per secoli - guarda caso, tutte nazioni cristianissime e cattolicissime della vecchia Europa - si vedono presentare il conto. Se per secoli il colonialismo ha depredato risorse e materie prime dei paesi africani, favorendo lo sviluppo industriale europeo e rendendo sempre più poveri quei paesi, non era pensabile che, prima o poi qualcuno, non dovesse pagarne il conto. Nella vita funziona la giustizia sincronica, ma nella storia ha molto più peso la giustizia diacronica: le colpe commesse dai nonni e dai padri ricadono sulle teste dei figli, i quali non possono dire: «Io che c'entro», vivendo essi stessi sin dalla nascita nel benessere che il colonialismo ha contribuito a creare a scapito di quella povera gente. E la tratta degli schiavi dove la mettiamo? Per secoli l'Africa è stata depredata del tesoro più prezioso che aveva: i suoi abitanti. (...)
Un altro elemento che ci consente di capire cosa sta succedendo è legato al fenomeno del "neo colonialismo". Come si sa, nel 1884 al Congresso di Berlino, le potenze coloniali si spartirono l'Africa tirando dei confini con il righello sopra la carta geografica. Quando negli anni '60 del secolo scorso sviluppò il movimento per riacquistare l'indipendenza, i paesi coloniali se ne andarono, lasciando le chiavi delle ricchezze nelle mani di fedeli esecutori dei propri ordini, allevati nelle accademie militari e iscritti nelle logge massoniche di mezza Europa, in grado cioè di far funzionare la macchina del latrocinio nello stesso identico modo in cui aveva funzionato per secoli, con l'aggravante di diventare dei tiranni per la propria gente. Questo stato di cose ha generato un'infinità di conflitti e di guerre di cui vediamo gli effetti sui volti di chi sbarca a Lampedusa. (...) Qualcuno potrà obiettare che tra questa gente ci siano anche fior di delinquenti. La stessa cosa successe con gli emigranti italiani che approdarono negli Stati Uniti: assieme a migliaia di onesti lavoratori si intrufolarono alcuni che crearono una succursale della mafia in terra yankee, che ben presto superò la casa madre. A emigrare, di solito, sono i più intraprendenti, nel bene e nel male. Individuare le mele marce è compito delle autorità competenti. Attribuire a dei poveri cristi l'infamante nomea di esser tutti delinquenti è una cosa che solo dei mentecatti possono fare! Per secoli il nostro paese ha lasciato partire i suoi figli più poveri verso paesi dove c'era lavoro, e le rimesse di quei migranti hanno risollevato intere aree italiane. Dare la possibilità agli africani di fare altrettanto è il minimo che possiamo fare. Allo stesso tempo, varrà la pena di ripensare i nostri programmi di aiuto. Se invece di destinare milioni di euro per costruire armi sempre più sofisticate, i soldi venissero (come ripete incessantemente il Magistero della Chiesa) utilizzati per aiutare i popoli che vivono nella fame, forse il mondo sarebbe diverso e di sicuro migliore.
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di Paolo Fallai
Eppure, dei nostri figli, non possiamo essere amici. Resta questo alla fine della lunga traversata compiuta dai padri, dal deserto dei rapporti di un tempo, all'affettività giocosa cercata e trovata oggi. Perché quel deserto i quaranta/cinquantenni di oggi
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Uno studio americano della Northeastern University di Boston pubblicato su Science dimostra che la maldicenza modifica, letteralmente, il modo in cui "vediamo" le persone
di Sara Ficocelli
Don Basilio cantava che la calunnia è un venticello, riferendosi all'abitudine, tanto cara all'essere umano, di diffondere con nonchalance maldicenze sul conto di una persona. Il meschino calunniato non poteva immaginare che la scienza avrebbe un giorno riabilitato questa usanza poco elegante elevandola addirittura al rango di "funzione protettiva per il cervello", ma tant'è.
Uno studio americano della Northeastern University di Boston 1 pubblicato su Science dimostra che il gossip cambia, letteralmente, il modo in cui "vediamo" le persone: spettegolare rende infatti il nostro sistema neuronale più vigile e pronto a tenere sott'occhio i soggetti di cui di sparla, permettendoci di ricordare la fisionomia di un volto fra centinaia. Nel corso di una giornata, spiegano gli scienziati, incontriamo infatti decine e decine di individui, ma ci focalizziamo solo su un pugno di essi, e non sempre in base a una scelta consapevole. I criteri in base ai quali il cervello filtra e dà la priorità ad alcuni dettagli prescindono da un ragionamento vero e proprio e si basano su informazioni inconsciamente assimilate da fonti incontrollabili. Come il gossip. Uno step è ad esempio quello della suddivisione del mondo tra amici e nemici. Stabilire se una persona rientra nella prima o nella seconda categoria è possibile sia con la conoscenza diretta che attraverso il pettegolezzo. Tale è il potere di calunnie, maldicenze e diffamazioni che, secondo la psicologa Lisa Barrett ce ha condotto lo studio, basta che qualcuno ci parli male di un'altra persona per ricordare quel volto fra mille e plasmare negativamente la nostra opinione in proposito. (...) Tutti hanno indugiato particolarmente sulle facce delle persone definite poco raccomandabili, e molto meno sulle le altre. Una suggestionabilità che, secondo gli scienziati, è anche un'arma di difesa per il cervello: "Questa selezione preferenziale per i cattivi potrebbe proteggerci da bugiardi e imbroglioni, permettendoci di vederli più a lungo e raccogliere in modo esplicito ulteriori informazioni sul loro comportamento", concludono su Science. (...)
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di mons. Desmond Tutu, premio Nobel per la pace
Esistono problemi talmente grandi e a tal punto complessi che è facile essere indotti a credere che non avranno mai soluzione. La fame è uno di questi. Dubito che sia mai esistito un periodo nell'intera storia dell´umanità nel quale tutto il genere umano ha avuto da mangiare a sufficienza. Perfino oggi, in un mondo nel quale è possibile comunicare a distanza di migliaia di chilometri soltanto premendo un tasto, otto milioni di esseri umani patiscono cronicamente carestie in Africa orientale. In tutto il pianeta sono circa un miliardo gli uomini, le donne e i bambini che anche questa notte andranno a dormire affamati. Malgrado tutto, l´esperienza di tutta una vita mi ha insegnato che non esiste problema così grande da essere insolubile, né ingiustizia così radicata da non poter essere estirpata. E tra queste vi è la fame. La fame non è un fenomeno naturale, bensì una tragedia provocata dall´uomo. Non si ha fame perché non c´è abbastanza da mangiare: si ha fame perché i meccanismi che trasportano i generi alimentari dai campi alla tavola sono mal funzionanti. In questa ennesima epoca di crisi caratterizzata da fenomeni climatici estremi, da risorse naturali in assottigliamento - sfamare tutti diventerà sempre più difficile. Come siamo potuti arrivare a questo punto? I nostri governi dovrebbero addossarsene la responsabilità. Le loro politiche di governo e di amministrazione stanno favorendo un sistema fallito che offre benefici a poche industrie potenti e pochi gruppi di interesse a discapito di molti. Hanno speso miliardi di dollari per il settore dei biocombustibili e per i coltivatori a Nord, ma hanno abbandonato 500 milioni di piccoli coltivatori che messi insieme sfamano però un terzo del genere umano. Hanno speso più di un decennio a discutere di cambiamento del clima, ma si sono impegnati a riduzioni delle emissioni tali da metterci sicuramente in dirittura d´arrivo verso un catastrofico riscaldamento. Hanno lasciato che i mercati alimentari andassero fuori controllo e hanno negato alle donne - che producono buona parte degli alimenti consumati nel mondo - il diritto di possedere della terra, le risorse e le opportunità di cui godono le loro controparti maschili. Il futuro, in ogni modo, non è già deciso. Sta a noi plasmarlo e dargli forma. (...) Si rende necessario un approccio completamente diverso nelle nostre modalità di produzione e di condivisione dei generi alimentari. I governi, soprattutto quelli dei potenti Paesi del G-20, devono dare il via alla trasformazione, devono investire nei produttori poveri e assicurare loro il sostegno di cui necessitano per adattarsi al cambiamento del clima. Devono emettere normative che regolino gli instabili mercati delle materie prime e porre fine alla prassi di risarcire le aziende che trasformano ciò che è commestibile in combustibile per i motori. Devono inoltre approntare un accordo sul clima globale che tenga effettivamente sotto controllo il cambiamento del clima. Naturalmente molti governi e imprese opporranno resistenza al cambiamento delle loro modalità operative, delle loro abitudini, delle loro ideologie e del loro modo di perseguire il profitto. Dipenderà pertanto da noi - da voi, da me - convincerli, scegliendo alimenti che sono prodotti in modo corretto e sostenibile, riducendo al massimo la nostra impronta di anidride carbonica, schierandoci (...) e pretendendo che le cose cambino.
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Ringrazio tutti coloro che nel 1946 votarono affinché l'Italia fosse una Repubblica.
Mi piace l'etimologia del termine: res-publica, "cosa di tutti".
Ringrazio coloro che lungo questi anni hanno contribuito al fatto che restasse "cosa di tutti".
Prego perché tale resti, anzi migliori!
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Oggi alla Chiesa manca il respiro
di Enzo Bianchi
Ormai non ci si presta nemmeno più attenzione, ma nei mezzi di informazione si è ritornati alla «antica e preconciliare identificazione fra chiesa italiana e Conferenza episcopale», anzi sovente addirittura tra cattolici e presidenza della Cei. E questo non dipende in primo luogo da una sbrigativa semplificazione da parte dei mass media, ma da un progressivo dilatarsi della forbice tra la sovraesposizione dei vertici ecclesiastici e l'afasia dell'opinione pubblica nella chiesa. È l'immagine che la chiesa dà di se stessa che in un certo senso autorizza l'osservatore esterno a identificarla con le figure più rappresentative del suo episcopato. Non si tratta quindi di un deplorevole malcostume giornalistico, quanto piuttosto di un serio campanello d'allarme sullo stato di salute della chiesa italiana e sul suo impatto nella società civile. L'impressione più diffusa all'esterno, ma soprattutto all'interno della chiesa, è quella sinteticamente evidenziata dal titolo di un breve saggio a due voci: Manca il respiro. Gli autori - Saverio Xeres, presbitero e docente di storia della chiesa presso la facoltà Teologica dell'Italia settentrionale, e Giorgio Campanini, laico e già professore di Storia delle dottrine politiche, oltre che di teologia del laicato - danno voce a un disagio sempre più diffuso tra i cattolici italiani, alla sofferenza di tanti credenti che amano e hanno a cuore la propria chiesa e la vorrebbero in costante riforma per presentarsi al suo Signore «senza macchia né ruga» (Ef 5,27). (...) Sempre più fedeli assistono scoraggiati e impotenti a un progressivo depotenziamento dei documenti conciliari, specie di quelli portatori di un nuovo soffio vitale nella chiesa. Sembra quasi che le decisioni collegiali assunte dai padri conciliari che, non si dimentichi, costituiscono la più alta espressione del magistero ecclesiale - siano equiparati ai molteplici pronunciamenti di singole conferenze episcopali e di uffici nazionali che finiscono per esprimere una sempre più accentuata autoreferenzialità della chiesa. Così si arriva ad «assimilare le grandi prospettive conciliari alle patetiche velleità postconciliari». Il criterio di lettura della situazione della «Chiesa nel mondo contemporaneo», offerta dal Vaticano II e consistente nel «vedere-giudicare-agire», sembra ormai aver lasciato il posto a una prelettura di eventi e circostanze che viene poi calata dall'alto nelle singole realtà regionali o diocesane. Anche il laicato, quando è preso in considerazione, viene pensato come un sostituto di un clero in costante diminuzione e non come una diaconia con un ruolo specifico nel mondo. Così assistiamo a interventi di organismi episcopali che si sostituiscono ai laici nel leggere la situazione sociale proprio mentre prestano sempre meno ascolto alla voce dei laici stessi. (...) I due autori aprono con fiducia a una nuova stagione di presenza cristiana nella società: «Sono questi tempi di marginalità per la chiesa i più preziosi: la bellezza del Vangelo infatti appare limpidamente quando esso non ha altro sostegno se non la propria, intrinseca fecondità». Sì, anche quando «manca il respiro», lo Spirito non cessa di soffiare.
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