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Mentre leggevo queste dichiarazioni, faticavo a credere ai miei occhi.
Non capisco il motivo per cui schierarsi ora in questo modo e non farlo (vantandosene) in relazione a ben altri argomenti. Perché non accennare ad alcun problema, che pure esiste e non è lieve?
Si nascondono le questioni spinose perché non si sa come affrontarle o perché non si ha interesse a farlo?
don Chisciotte
Il direttore dell'«Osservatore Romano» e lo scontro tra mondo cattolico e politica
Vian: rivendico di non aver scritto sulle vicende private del Cavaliere
«Santa sede-governo, rapporti eccellenti. Avvenire? Qualche scelta imprudente»
«E' vero, sulle vicende private di Silvio Berlusconi non abbiamo scritto una riga. Ed è una scelta che rivendico, perché ha ottime ragioni». Dice Gian Maria Vian, direttore dell'Osservatore Romano, il quotidiano del Papa, che «il giornalismo italiano pare diventato la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi. Segno che la politica, in tutti i suoi schieramenti, è piuttosto debole. Infatti da alcuni mesi la contesa tra partiti sembra svolgersi soprattutto sui giornali, che hanno assunto un ruolo non soltanto informativo, come mostrano le vicende anche degli ultimi giorni. Ma forse
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Purtroppo esistono e si diffondono ancora le interpretazioni della sofferenza che vorrebbero dirsi "cristiane", ma che in realtà sono contrarie allo spirito di Cristo.
don Chisciotte
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Mario Isnenghi è lo storico italiano che forse più di tutti ha lavorato sul tema della memoria rispetto alla storia dell' Italia. A lui, abbiamo rivolto alcune domande sulla voglia di «ricordare poco» degli italiani. È vero che l'Italia è un paese senza memoria? «Lo è il Paese-Italia, l' insieme, la collettività. Ma al plurale, se ci spostiamo ai frammenti, le memorie invece pullulano, si rigenerano o semplicemente si inventano, confliggendo o ignorandosi reciprocamente. E così oggi, al mercato delle parole, la "memoria" tira: memorie di valle e di quartiere, al servizio di assessorati e di pro loco, a ciascuno la sua memoria, che, essendo "sua", è insindacabile. Perciò, francamente, no, non credo affatto che a questo punto il problema sia quello che poteva apparire nei primi anni Novanta, cioè l' azzeramento delle memorie. Anzi il problema è divenuto quello dell' affollamento, un affollamento che determina irrilevanza, autoreferenzialità e cacofonia. L' effetto di questo sovrappiù di soggettività rammemoranti e commemoranti - ognuna se stessa - si ritorce in assenza, indisponibilità, indifferenza a una memoria comune: che sarebbe poi, nel nostro caso, quella chiamata ad avvicinarsi il più possibile alla storia d' Italia». Quali sono le cause di questo appannamento della memoria storica? «Se parlassimo un po' più di storia, e un po' meno di memorie? Voglio dire, parliamo di qualche cosa di più fattuale e meno fantasticato nei percorsi di ciascuno. Il punto è che - se fai storia - incontri subito le ragioni che rendono difficile il costituirsi nel nostro Paese di una memoria, non dico addirittura "riconciliata" - come si pretenderebbe -, ma esito comune di un conflitto che ha coinvolto in diversa maniera tutti. Con la storia che ci ritroviamo, gli omissis della memoria sono una forma di sopravvivenza». C' è un modo per ricordare senza cadere nella retorica o nella propaganda? «Macché retorica, qui c' è semmai la retorica dell' antiretorica. Non mi pare che si ricordi o che si "celebri" molto, per quanto riguarda i momenti forti e fondanti della storia. Non vediamo a ogni 4 novembre le contorsioni a cui ci si condanna per non "ricordare e celebrare" la vittoria dell' Italia nella Grande Guerra? Qualcuno dirà che non si celebrano le stragi: magari ci fosse da "ricordare e celebrare" il rifiuto unanime della guerra da parte del popolo nel 1915. Però non è andata così. E non essendo andata così, non sarebbe meglio ricordare la storia come è andata davvero? E riconoscere e far memoria di un avvenimento comunque straordinario e coinvolgente in cui il Paese tenne, nella prova più grande e perigliosa di tutta la sua storia?». Quali sono gli elementi della nostra storia nazionale che andrebbero assolutamente ricordati? e quali magari messi un po' da parte se non proprio dimenticati? «Riassumo. La genesi dell' Italia unita: del Risorgimento stiamo sempre lì a lamentare le mancanze, ma assieme all' acqua sporca buttiamo via il bambino. Naturalmente fu una nascita contrastata, che come tale va ricordata, non furono rose e fiori. Fu un grande movimento e l' Europa civile restava attonita davanti al "popolo dei morti" che si risvegliava. Poi la straordinaria esperienza collettiva della Grande Guerra, da cui scaturì il Fascismo, ma non era scritto, portava dentro tante cose. Poi la guerra civile strisciante: l' Italia ha inventato il Fascismo e non se ne è liberata da sola, ma ha avuto la forza di contribuire al cambiamento con l' antifascismo e con la Resistenza. Ci fosse stata solo la "zona grigia", avremmo perso - anche più di quanto sia avvenuto - la faccia, oltre che la guerra. Questi mi sembrano gli elementi minimi di un alfabeto civico comune. Su di essi si può tentare, con discrezione, di costruire una politica della memoria. Non vedo l' opportunità di una politica dell' oblio. Quello funziona - anche troppo - per conto suo».
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di Franco Garelli
L'aspro dibattito pubblico seguito alla tragedia in mare degli immigrati eritrei indica che siamo forse a un punto di svolta dei rapporti della Chiesa con la Lega Nord, che su questi temi può coinvolgere anche l'esecutivo di cui essa fa parte o di cui sembra essere la padrona. Da entrambe le parti sono volate parole grosse, che hanno portato il Vaticano e la Cei a dire che nel Mediterraneo si sta consumando una nuova Shoah.
Che l'Occidente finge di non vedere; e con lo stato maggiore leghista che ha reagito a muso duro, accusando i Vescovi di dire «parole senza senso», di «inventarsi nuovi comandamenti», di lanciare messaggi che alimentano i viaggi in mare dei clandestini che poi finiscono in tragedie. Dalla Padania è persino giunta la minaccia di rivedere il Concordato, anche se Bossi a questo punto ha smorzato la polemica, ricordando che «la Chiesa fa il suo mestiere, noi il nostro». Ma al di là dei toni più o meno forti, è del tutto evidente che quella che si sta concludendo è una delle settimane di maggior passione e scontro tra la Lega Nord e la Chiesa, per la distanza che ormai separa - in tema di politiche migratorie e sociali - i due mondi.
Oggetto della contesa, dunque, non è la politica globale del governo in carica, che su vari aspetti valorizza la presenza della Chiesa nel paese; ma uno dei suoi punti qualificanti, rappresentato da quell'insistenza sui temi dell'ordine e della sicurezza che - a detta dei vescovi - produce la chiusura del Paese verso gli immigrati e alimenta l'indifferenza verso quanti cercano di emigrare per sfuggire alla fame, alla guerra, a condizioni disumane. La Chiesa non intende disgiungere legalità e solidarietà, ma richiama il governo e la nazione a non vivere solo di ordine pubblico e di respingimenti; così come vorrebbe che le forze politiche che si richiamano all'identità cattolica accettassero le indicazioni della sua dottrina sociale Il nuovo braccio di ferro tra Lega e Chiesa indica almeno tre cose.
Anzitutto che l'unica voce critica sui temi sociali e dell'immigrazione che preoccupa la Lega Nord è quella della Chiesa cattolica, nonostante che nel Paese vi siano molte altre forze sociali, politiche e religiose che da tempo protestano contro le scelte del governo e dei leghisti in questo campo. Proprio perché la considera come la spina nel fianco più ostica per attuare il suo no ad un'Italia multietnica, il Carroccio riconosce alla Chiesa una capacità di mobilitazione pubblica sui temi sociali ben superiore a quella su cui possono contare gli stessi partiti dell'opposizione. A più riprese la Lega si è contrapposta agli appelli del card. Tettamanzi, che auspicava la nascita a Milano di nuove moschee e un rapporto più sereno con l'islam; mentre ha sempre reagito con fastidio alle forti proteste della Cei per l'introduzione del reato di immigrazione clandestina nel pacchetto sicurezza varato dal governo.
In secondo luogo emerge che la Lega Nord ritiene di avere una posizione così forte nel Paese e nell'arena politica da usare con i vescovi toni pesanti, persino ricattatori. Per parare la critica di essere l'anima di una politica migratoria senz'anima, Bossi sfida paradossalmente il Vaticano ad aprire le sue porte ai clandestini, ricordando che proprio la città del Papa è quella che ha le mura più spesse e gli accessi più riservati; in ciò dimenticando tutti i gruppi religiosi e le parrocchie che operano sul territorio per far fronte alle varie emergenze sociali, tra cui quelle dei nuovi flussi migratori.
Infine occorre notare che al centro della contesa tra i vescovi e la Lega Nord vi è la competizione tra due diverse visioni della realtà che passano anche attraverso la questione migratoria. I vescovi italiani, soprattutto quelli del Nord Italia, sono ben consapevoli di quanto la Lega sia radicata sul territorio e della sua capacità di interpretare il sentire di quelle popolazioni. Vent'anni fa i vescovi e i preti della Lombardia e del Veneto, hanno del tutto sottostimato la capacità di penetrazione delle idee leghiste su territori che erano politicamente bianchi, ritenendo che la Dc e i gruppi ecclesiali fossero in grado di interpretare il sentire comune. Oggi Lega e Chiesa invece si contendono il territorio, le domande della gente, la capacità di rappresentare il mondo locale. I preti e i vescovi di alcune aree del Nord sanno che se nelle omelie insistono troppo sui temi della solidarietà verso gli immigrati la gente comincia a rumoreggiare in chiesa; ma sono anche consapevoli che se non tengono alto il loro messaggio sociale e religioso disperdono il senso stesso della proposta cristiana.
La tregua tra Lega Nord e Chiesa sembra dunque sul punto di rompersi. La prima, pur caratterizzandosi perlopiù per un'anima laica, ha da tempo adottato la religione cattolica come una sacra volta per difendere i valori della tradizione contro la presenza multietnica, dell'islam in particolare. Dal canto suo, la Chiesa anche grazie all'ossequio leghista al cattolicesimo ha visto maggiormente riconosciuto il suo ruolo nel paese, certificato dai provvedimenti a suo favore varati dalla maggioranza di governo. Si tratta di un equilibrio destinato a infrangersi se i leghisti chiedono alla Chiesa di occuparsi soltanto delle questioni di sacrestia (lasciando a loro libertà di azione sui temi emergenti) e se la Chiesa non intende rinunciare a giocare in senso forte la sua anima più solidale.
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Ma dalla Val d'Aosta vengono proposte, come i titoli destinati all'aiuto del prossimo
La crisi frena gli aiuti umanitari. E si propongono i "titoli solidali"
di Eugenio Occorsio
Donazioni e contributi di solidarietà in frenata: la crisi economica sta facendo sentire i suoi effetti sul delicatissimo "terzo settore" e così rischiano di incepparsi progetti umanitari, di tutela delle minoranze, di ricerca scientifica che hanno assolutamente bisogno di questo tipo di entrate.
L'allarme lo lancia l'Istituto italiano di donazione, un organismo privato di controllo e consulenza che certifica l'effettivo utilizzo ai fini statutari delle donazioni. Sono 106 le Ong iscritte all'Istituto, dall'Associazione per la ricerca sul cancro (Airc) a quella delle leucemie (Ail), dalla Fondazione ambrosiana per la vita al Pontificio istituto per le missioni estere, e ancora dall'Amref all'Intersos che coordinano i medici in Africa. "L'adesione al nostro istituto è volontaria - spiega il presidente Maria Guidotti - ed è una garanzia per il corretto e trasparente utilizzo delle donazioni. Abbiamo rilevato che nel primo semestre del 2009 il 34% delle organizzazioni a noi aderenti registra un flusso di donazioni inferiore sia all'anno precedente che alle aspettative. E' un dato preoccupante: all'inizio dell'anno solo il 22% delle organizzazioni si aspettava un 2009 in calo". (...) A soffrire in particolare saranno le organizzaioni di minori dimensioni, soprattutto nei settori della salute e della cooperazioni internazionale. (...)
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"Le ideologie ci separano, i sogni e le angosce ci riuniscono".
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Michael Bruno vuole dimostrare che si può vivere con poco
La sfida di un manager americano: tagliare il superfluo e resistere con pochi oggetti.
Sul Web si è scatenato il dibattito: nella vita di oggi, che cosa è davvero indispensabile?
di Bruno Ventavoli
E'più o meno a metà del cimento. E per il momento pare resistere. L'imprenditore americano Michael Bruno, annunciò lo scorso anno, (e cominciò davvero il 12 novembre) che avrebbe vissuto un anno intero con sole 100 cose essenziali. E' la mia sfida al consumismo, disse, lanciando una moda neominimalista che ha raccolto adepti, imitatori, fiancheggiatori critici. Paginate sui giornali. Interviste. Guardatevi intorno, disse, siamo sommersi da oggetti inutili, compriamo compulsivamente oggetti inutili, gli oggetti non sono più strumenti per vivere, ma feticci che adoriamo senza nemmeno rendercene conto. Dobbiamo amare gli esseri umani, non gli oggetti. Perfetto. Dalle battaglie contro i vitelli d'oro combattute qualche millennio fa, fino al moderno marxianesimo, passando per anacoreti, San Francesco, mistici d'ogni fede, e psicoanalisi, sono tanti i precursori che hanno dichiarato guerra alla materialità della vita. Bruno lo fa per semplice sfida personale, per liberarsi dal consumismo folle, avido, egoista.
Il primo problema è stato decidere quali oggetti portare nel suo anno da «Lost» in California. S'è consultato on line con i partecipanti al suo forum. E s'è dato sette comandamenti. Solo cose di stretto uso personale. Letto, tavolo o sedie, sono cose «usate» con la famiglia (qui c'è un po' puzza di trucco), quindi fuori dal computo. Gran parte dei ricordi sono stati accantonati. Niente oggettini madidi di ricordi proustiani. Figurine di Harry Potter, collezione di trenini Marklin sono finiti in garage, e probabilmente saranno venduti. Via i vecchi diari, solo un Moleskine pronto per l'uso. Per salvare la faccia con la moglie, s'è tenuto anche la fede nuziale, altrimenti 13 anni di matrimonio rischiavano seriamente di incrinarsi.
I libri erano una rogna spinosa. Che fare della biblioteca così ricca di volumi che gli hanno ispirato la sua svolta anticonsumista? Dibattito in rete. Tenerne solo uno, o considerarli come categoria, quindi salvarne svariati? Shakespeare o Seneca? Il solito dilemma dei bibliofili. Bruno dichiara ufficialmente tre Bibbie (una delle quali regalata dal padre). Ma ammette un «cheat»: per scoprire l'«inganno» rimanda alla lettura del suo futuro libro «La sfida delle 100 cose».
Col guardaroba è stato draconiano. Una ventina tra camicie, t-shirt, bermuda, una cintura, due paia di jeans, una cravatta (!), flip flops, e persino 6 magliette della salute (che molti, invece, avrebbero considerato esteticamente superflue). Un berretto di lana (che la moglie definisce «orrendo»). Sul capitolo biancheria intima probabilmente c'è stata un'insurrezione dei famigliari, terrorizzati dalle conseguenze per il loro olfatto. Mutande e calzini sono stati ritenuti «un solo oggetto», ovvero se n'è tenuti, una decina. «L'obiettivo è resistere al consumismo, non abdicare all'igiene».
Per svago e tempo libero, vero nutrimento dell'anima, non ha badato a economie. Nella lista c'è un po' di tutto, dalla tavola da surf, all'attrezzatura per campeggio, dal sacco a pelo alla bottiglia d'acqua per lavarsi dopo una giornata tra le onde, alle scarpette per arrampicare. Niente iPhone, né Blackberry, ma iMac, stampante, orologio, un paio di macchine fotografiche, una vecchia automobile Mazda 929 di 16 anni.
La vita minimale procede. Cento oggetti possono bastare. Decine di persone lasciano messaggi, discutono nel forum. Chi entusiasta, chi critico, chi rilancia al ribasso proponendo una «Sfida delle 50 cose». D'altronde c'è qualche miliardo di persone al mondo che sopravvive con anche meno. Einstein, ricorda un individuo, sosteneva di poter vivere relativamente con poco, un violino, una penna, un orologio solare e una giacca di pelle (tutti regali di compleanno della sua seconda moglie). E i buddhisti, per liberarsi dalla legge del possesso, consentono solo otto cose: tre «Civara» (l'abito), una scodella per la questua, il rasoio, l'ago per cucire, il filo, il rosario, lo zaino, e un altro oggetto che dipende dalle scuole. Ma la loro è una sfida diversa. Bruno, sul piano dell'igiene, s'è adeguato più o meno adeguato, oltre al rasoio buddhista, ha salvato solo spazzolino, e trimmer per tagliare i peli nel naso e nelle orecchie.
Bruno ha lanciato la sfida delle 100 cose proprio mentre la crisi economica esplodeva in tutta la sua virulenza. Migliaia di americani hanno dovuto fare, obtorto collo, quel che ha fatto lui per scelta. Tante immagini abbiamo visto di gente sfrattata da case pignorate e di manager licenziati, che se ne andavano mesti con qualche scatolone contenente ciò che potevano e volevano tenere con sé. Se il suo manuale fosse già stato stampato, avrebbero potuto attingere consigli per riempire i box di cartone.
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di Lietta Tornabuoni
Chissà chi ha introdotto nel nostro linguaggio ufficiale, già tanto deplorevole, la parola «eccellenza». Un tempo, nel Seicento e oltre, destinata alle persone (governatori, arcivescovi, presidenti), «eccellenza» è passata ora alle cose: uva e vini, affettati, Università (che pure sono tra le peggiori d'Europa), pomodori pelati, imbarcazioni, Grotta Azzurra caprese (nonostante i miasmi) e altri paesaggi naturali. Bisognerebbe tagliare la lingua a chi la adopera, questa espressione «eccellenza italiana» (a volte, in caso di necessità, anche plurale: «eccellenze»). E' falsa. Trovare cose eccellenti da noi è molto raro; risulta più facile trovare cose alterate, manipolate, rovinate per incuria o per farci più soldi, oppure cose che non funzionano affatto. E' un'espressione ridondante, un esempio di linguaggio-maschera che serve a occultare una situazione miserevole e a tenersi su a forza di chiacchiere. E' un'espressione invadente: da quando è stata introdotta, viene applicata a qualunque sciocchezza, son diventati eccellenti pure l'aspirina, le creme di bellezza piene d'acqua a confronto con quelle straniere di pari marca e volume; le cipolle rosse al mercato, i vini «famigliari» dai nomi illusori. Insomma, «eccellenza» è un'espressione ridicola e fuori posto, da tempi di crisi (...). Eppure, a irritare non è soltanto la sua enfasi e il suo uso: piuttosto, il disprezzo per la normalità che nasconde. Che nostalgia, invece, per una normalità in cui i bagagli dei viaggiatori non vengano saccheggiati o perduti, gli aerei non tardino minimo due ore, il pane e la mozzarella non siano gonfi d'aria, i panorami non offrano veleni, i turisti non vengano sistematicamente derubati, nessuno pretenda torvamente mance e mazzette, la gente non venga ammazzata in mezzo alla strada. Che sollievo sarebbe, la normalità. (...)
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La freschezza della Chiesa, è quella di credere nella novità di Dio. La Chiesa di oggi non subisce, per caso, la tentazione della paura? Dio è novità. E quando vedo una Chiesa che ha paura della novità posso sorridere. La Chiesa non sta in piedi perché io sono bravo o non sono bravo. La Chiesa sta in piedi perché ha lo Spirito. L'atteggiamento di chi vuole affrontare la contemplazione nella vita è proprio questa sicurezza in Dio. E questa testimonianza che fa gridare alla nostra fede: «Cristo risorto è la nostra forza!». Ed è per questo che, direi particolarmente oggi, dobbiamo dare l'impressione proprio nella Chiesa stessa, di non volere delle sicurezze. E proprio nel coraggio di non volere sicurezze e di fidarsi non dell'organizzazione, non della mia - direi - preghiera di ieri, ma di gettarmi con grande fiducia nel potere di Cristo risorto, nell'azione dello Spirito Santo in me che mi abita e nella fiducia infinita in un Padre che mi dà la vita, in questo trovo la mia pace e quindi la mia contemplazione».
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Non è più dilazionabile l'urgenza di trovare anche per la comunità islamica di Milano luoghi di preghiera. Esiste anche una carenza di luoghi di culto e di aggregazione cattolici in alcuni quartieri della periferia milanese. Ne parla mons. Erminio De Scalzi, vicario episcopale per la città di Milano
Nel discorso alla città dello scorso dicembre, il cardinale Tettamanzi parlava della necessità di creare luoghi per il dialogo e l'incontro, con se stessi e con gli altri. Tettamanzi precisava che “in tante zone della Città mancano anche gli spazi fisici e le occasioni concrete per fermarsi a riflettere e a pregare. Abbiamo bisogno di luoghi di preghiera in tutti i quartieri della Città”. (...)
Tettamanzi proseguiva il discorso alla città aggiungendo che “ne hanno un bisogno ancora più urgente (di luoghi di preghiera) le persone che appartengono a religioni diverse da quella cristiana, in modo particolare all'Islam”. È cambiata, da dicembre a oggi, la condizione di preghiera degli islamici a Milano?
Anche gli islamici, a Milano, hanno diritto ad avere un luogo di culto. È un diritto che la nostra Costituzione riconosce a tutte le religioni. Le grandi città europee hanno una o più moschee. Sento che è giunto il momento
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Non mi interessa che queste interviste siano state fatte al Meeting; credo che un'evidente confusione regni tra i cattolici in quanto tali. Nemmeno le parole-chiave tengono; nemmeno la Parola del Signore affiora che criterio unico di giudizio. In questo caso cerchiamo di salvare capre e cavoli... dimenticando le parole del Maestro rispetto a chi cerca di salvare la propria vita (o società, o partito, o interesse...).
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In una elementare bustine «originali», accendini portati da casa e gomme sbriciolate per fare la polvere
Lo facevano perfino meglio degli adulti, che senza saperlo, o non volendo vedere, glielo avevano insegnato. Quarta classe di una scuola elementare: tiri tu o tiro io che giochiamo alla droga? Simulazione di spaccio di cocaina, confezionata con i reali arnesi del mestiere e una certa maestria. Una pellicola di cellophane, di quelle per contenere gli alimenti da frigo, e un accendino per sigillare, dosando il giusto la fiamma. Falsa era solo la polvere bianca, una gomma per cancellare sbriciolata e infilata nel cellophane. All'intervallo, i bimbi si riunivano: chi vendeva, chi comprava, chi offriva sconti.
Le indagini sono state completate, la scuola ha preso provvedimenti. «Darete la colpa a noi, direte che non abbiamo visto, non ci siamo accorti», si piange addosso una maestra. L'allarme l'ha dato una mamma. Un giorno che preparava una torta, in cucina s'è visto il figlioletto inventarsi chimico. Lì, sul tavolo. Le bustine, l'accendino, la gomma... Allora ha domandato, lui ha raccontato che è iniziato per quel compagno, che ha portato la novità, tutti l'hanno prima invidiato, quindi ammirato, infine gli sono andati dietro, cercando di superarlo. Dice un poliziotto, uno che arrestandoli anche quattro volte nell'arco di trent'anni, ha visto ragazzini diventare adolescenti, padri e nonni
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Non condivido il sarcasmo dell'autrice sul valore della vita del concepito o della persona non più cosciente, ma sento doveroso il suo richiamo a non usare due pesi e due misure, non certo per rispettare la verità, ma per interesse politico. E se questo "giochetto interessato" lo fa anche Repubblica, purtroppo non è la sola, anzi - come sottolinea l'autrice - è ancora più odioso se visto fare da chi dice di ispirarsi ad una precisa antropologia e ad una sana morale.don Chisciotte
La doppia etica della vita
di Chiara Saraceno
Il Bossi che se la piglia con le parole di condanna del Vaticano sulla crudeltà dei respingimenti è lo stesso che parla di identità cristiana-cattolica e di valori cristiano-cattolici quando vuole contrapporre il "noi" italiano (e meglio ancora padano) al "loro" dei migranti. Giovanardi che dichiara che parlare di Shoah nel caso delle centinaia (migliaia) di migranti che muoiono lungo le vie della migrazione - nei deserti, nelle prigioni libiche, in mare - è lo stesso che non fa una piega quando papa e vescovi parlando dell'aborto come assassinio, che si è scatenato contro la pillola Ru486, che parla degli embrioni appena fecondati come fossero esseri umani da proteggere (purché italiani, ovviamente). Insieme al governo e alla maggioranza di cui fanno parte, ed anche con l'attivo sostegno di una parte dei cattolici dell'opposizione, hanno sostenuto le posizioni della Chiesa in difesa della "vita nascente" e perché si continuino a mantenere artificialmente in vita corpi che hanno ormai perduto ogni traccia di vita umana. Hanno promosso leggi "in difesa della vita". E sempre "in difesa della vita" si sono opposti e si oppongono fino allo spasimo vuoi a sentenze dei tribunali, vuoi a pareri dei medici e delle comunità scientifiche.
Apparentemente va bene difendere gli embrioni (italiani) e accanirsi su corpi impotenti (italiani) in nome della vita e dell'etica cristiana, chiamando assassini coloro che invece cercano di distinguere tra esseri umani e esseri che non lo sono ancora o non più. Quando si tratta di immigrati invece cadono tutti i principi, tutte le norme di difesa della vita e della dignità della persona. Gli immigrati sono vite impunemente spendibili, senza valore, meno umani di un embrione al primo stadio e di un corpo da cui si è allontanato ogni barlume di coscienza e di capacità di vita (respirare, nutrirsi) autonoma.
E' questa siderale distanza nel valore attribuito alla vita umana che deve dare scandalo, non il fatto, in sé del tutto legittimo, di reagire anche duramente ad un giudizio della Chiesa cattolica. Non soccorrere chi è in pericolo, rimandare, come si sta facendo, chi arriva sulle nostre coste nei Paesi da cui provengono senza contestualmente preoccuparsi dei rischi per la loro vita che in molti casi questo comporta - è uno scandalo in sé, a prescindere dalle idee che si hanno su aborto e fine vita. Ma diventa intollerabile, inaccettabile, se queste azioni sono promosse da chi, quando si tratta di aborto, fecondazione assistita, fine vita e testamento biologico, dichiara di aderire al concetto di vita umana proposto dalla Chiesa cattolica e lo impone per legge a tutti.
Per una volta, verrebbe da dire finalmente, la Chiesa cattolica ha usato nei confronti delle morti tra i migranti per mancanza di soccorso e solidarietà umana termini simili a quelli che normalmente riserva a chi decide di abortire o di porre fine a una vita solo artificiale.
A mio parere si tratta di situazioni assolutamente incomparabili.
E l'accusa di esagerazione, rivolta da Bossi e Giovanardi alle parole del vescovo Vegliò, presidente della Pontificia Opera per i migranti, dovrebbe riguardare piuttosto l'accusa ricorrente di assassinio per le donne che abortiscono e per chi pietosamente sospende le cure a chi non può vivere più. Non il fatto di denunciare le responsabilità politiche e umane di chi abbandona al proprio destino di morte i disperati delle migrazioni, impaurendo e minacciando di sanzioni anche chi vorrebbe aiutarli.
Non è il laicismo che sta corrodendo le basi morali della nostra società. È piuttosto l'uso strumentale della religione per scatenare campagne amico-nemico, noi-loro, buoni-cattivi, salvo poi rivendicare ogni possibile eccezione quando serve, nei comportamenti privati come nelle politiche pubbliche.
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(...) Se c'è un popolo che noi italiani abbiamo il dovere storico e morale di soccorrere, è il popolo eritreo. Perché della storia e dell'identità italiana, di cui finalmente si discute senza pregiudizi, gli eritrei fanno parte da oltre un secolo; così come noi apparteniamo alla loro, al punto da averla plasmata. Il nome stesso - Mar Eritreo era per i greci il Mar Rosso - fu suggerito a Francesco Crispi da Carlo Dossi, capofila della scapigliatura lombarda e collaboratore dello statista siciliano. Ma l'Eritrea è se possibile qualcosa di più della prima colonia italiana; senza l'intervento del nostro esercito e della nostra amministrazione, forse non sarebbe mai esistita come unità politica e culturale, e le tribù che abitavano l'altopiano sarebbero rimaste per sempre alla mercé dell'impero abissino.
Proprio questo legame particolarissimo consentì agli eritrei di godere solo dell'aspetto positivo del colonialismo - il centro dell'Asmara è una vetrina dell'architettura italiana della prima metà del Novecento, mentre la ferrovia Massaua-Asmara fu distrutta dai bombardamenti inglesi -, e di evitare le pagine nere, dalla repressione in Libia ai bombardamenti sull'Etiopia. Ma è soprattutto la fratellanza d'armi ad aver coniato tra i due popoli un vincolo di solidarietà, che in questi giorni dovrebbe morderci la coscienza. I prigionieri di Adua, cui il negus fece tagliare il piede destro e la mano sinistra in quanto sudditi ribelli, rei di aver combattuto accanto agli italiani. I centinaia di militi ignoti sepolti nel cimitero di guerra di Cheren, dove avevano resistito agli attacchi britannici. Il libro di Montanelli, intitolato appunto XX battaglione eritreo. Il sacrificio di migliaia di ascari, da quelli del 1896 ai loro nipoti che ancora dopo la resa del Duca d'Aosta all'Amba Alagi continuarono a combattere nelle bande irregolari di Amedeo Guillet, l'ultimo eroe d'Africa. E la traccia che di tutto questo è rimasta nella cultura collettiva: gli acquerelli di Caccia Dominioni, i fez rossi sulle copertine della Domenica del Corriere, le fotografie degli sciumbasci
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di Massimo Gramellini
Mi sono ripromesso di non parlare mai più di B, se non per tesserne gli elogi. Ed è proprio ciò che intendo fare oggi, avvolgendo in una coperta di evviva la sua ultima dichiarazione calcistica: bisogna dimezzare gli ingaggi dei calciatori. Bravo. Ad alcuni di loro (per esempio a quelli che senza fare una piega hanno lasciato inabissare la squadra per cui tifo) li azzererei addirittura. Ma la mia totale adesione alla campagna moralizzatrice del B non può farmi dimenticare chi fu il primo in Italia a gonfiare il prezzo dei mercenari del pallone: B medesimo, quando nel 1992 prelevò Gigi Lentini con un elicottero e lo strappò al Toro (e al ventricolo destro del mio cuore) per almeno 18 miliardi e mezzo di lire. Una cifra che adesso farà ridere, ma all'epoca fece piangere e anche un po' arrabbiare parecchia gente: Gianni Agnelli lo ribattezzò ironicamente «il calmieratore».
Solo gli stupidi non cambiano mai idea, ci mancherebbe. Ma solo i furbi riescono sempre a indossare l'idea più intonata alle loro convenienze del momento, convincendo gli altri che sia quella giusta. In questo genere di ginnastica verbale B è un autentico maestro. Quando entrò in politica si lamentò giustamente perché al suo partito appena nato veniva concesso meno spazio che ai partiti già grandi e grossi, quindi meno bisognosi di farsi conoscere dagli elettori. E qualche anno dopo si lamentò, sempre giustamente, che i partiti appena nati pretendessero di avere in tv lo stesso spazio di un partito grande e grosso come il suo.
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Gli Stati stranieri non sono obbligati a fornire le generalità
Gli svizzeri sono poi così corretti (segreto bancario a parte)? Noi italiani siamo davvero ingovernabili? Gli stereotipi nazionali vanno presi, smontati e studiati. Solo allora possono rivelarsi istruttivi. All'inizio di agosto, qui sul Corriere, avevo raccontato la sorpresa autostradale dell'estate 2009: auto italiane preoccupate del Sistema Tutor, e in genere rispettose dei limiti; auto straniere ben più disinvolte, spesso oltre i limiti. Il turbofanatico
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Aborrisco la violenza e non capisco proprio come si faccia ad andare in discoteca apposta per vedere simili personaggi, ma non trattengo una certa soddisfazione a sentire che c'è qualcosa per cui non si sopporta più... e si chiamano le cose (e le persone) col loro nome.
P.S. Pietosa la figura del povero dj che tenta delle frasi senza senso... come colui che l'ha preceduto al microfono.don Chisciotte
Ospite al lido Blu Marine di Marina di Gioiosa Jonica, in Calabria. Ma arriva con 4 ore di ritardo. oveva arrivare a mezzanotte, si è presentato alle 4 del mattino. La folla grida "scemo, scemo", lui comincia a scaldarsi: "Ci vediamo dopo fuori, appena finisce l'ospitata...". Così la situazione precipita. Lancio di oggetti e cori contro il fotografo che deve lasciare il locale di corsa per non essere pestato.
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"Chiesa non sia supermarket e lasci affari ai laici", raccomanda il super-visore vaticano degli affari economici
di Giacomo Galeazzi
Gli enti ecclesiastici quando indicono un appalto non possono guardare a logiche fondate puramente su profitto ma devono essere attenti al profilo etico, in particolare al rispetto dei diritti dei lavoratori: in generale la Chiesa e i cattolici nelle attività economiche devono guardare ai risvolti sociali e di solidarietà delle loro imprese. Inoltre per la Chiesa è meglio lasciare la gestione degli 'affari' ai laici per evitare di trasformarsi in un supermarket. È quanto afferma all«Osservatore romano», l'economista coreano Thomas Hong-Soon Han, dal novembre scorso Revisore internazionale della Prefettura degli Affari Economici, l'organismo a cui spettano la vigilanza e il controllo sulle amministrazioni che dipendono dalla Santa Sede. «Bisogna sempre porsi un interrogativo di fondo - spiega l'economista - qual è lo stile di vita che vogliamo portare in queste attività? È chiaro che come cristiani non possiamo seguire soltanto la logica del profitto più alto al più basso costo possibile». «Poniamo il caso che un ente ecclesiastico indica un appalto per costruire un edificio - prosegue Hong-Soon Han - Io dico che le offerte non devono essere valutate soltanto in base alla convenienza economica. Bisogna vedere che cosa c'è dietro i costi di realizzazione proposti da una determinata ditta: quali sono le condizioni di lavoro, qual è il livello dei salari, insomma come viene realizzata concretamente la giustizia nell'organizzazione dell'attività produttiva«. Quindi «se per esempio si verificano situazioni di sfruttamento dei lavoratori, è evidente che accettare l'offerta vorrebbe dire per la Chiesa rendersi corresponsabile, sia pure solo indirettamente, di quella logica ingiusta». «Perciò - spiega - un'offerta del genere va bocciata. Del resto, questo è l'unico mezzo di pressione che abbiamo per convincere i responsabili di un'impresa a rispettare le condizioni della giustizia e della carità». Il Revisore degli affari economici della Santa Sede ricorda poi che in passato «i comportamenti dei cristiani non sono stati sempre inappuntabili. È facile cedere alla tentazione di ottenere anzitutto condizioni favorevoli dal punto di vista economico. A volte questo viene giustificato in nome delle esigenze della carità: il risparmio in un settore, si dice, può significare maggiore disponibilità per altre attività sociali e umanitarie. Però si dimentica che in ogni caso 'la carità esige la giustizia', come scrive il Papa nella Caritas in veritate». Quindi l'economista illustra le caratteristiche del suo lavoro: «La Prefettura ha un collegio internazionale dei revisori composto da cinque laici di vari Paesi del mondo, che si riuniscono due volte all'anno. Il nostro compito principale è quello di esaminare bilanci preventivi e consuntivi della Santa Sede e del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, per offrire indicazioni in vista di una migliore gestione economica e patrimoniale. E se pure le indicazioni del del collegio di revisori non sono vincolanti, devo riconoscere che la Prefettura è sempre molto attenta alle nostre osservazioni».«Non ci sono limiti al nostro giudizio - spiega ancora il revisore economico della Santa Sede - del resto, un bilancio non è solo uno strumento tecnico: è il risultato di un modo di intendere e di gestire i beni economici. E noi dobbiamo dire la nostra anche su questo, altrimenti rischiamo di fermarci alla superficie delle cose». « 'Ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale' ricorda Benedetto XVI nella sua enciclica sociale», rileva l'economista coreano. «Con una battuta, direi che valutare le cose unicamente in termini di efficienza non è molto efficiente». Alla Chiesa Thomas Hong-Soon Han suggerisce «due cose». Anzitutto di lasciare gestire le attività economiche «a professionisti laici. E poi di evitare la tentazione di ampliarle sempre di più: il rischio è che una parte della struttura ecclesiastica finisca per trasformarsi in una sorta di ente commerciale, per non dire in un grande supermarket».
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Signore Gesù,
che dalla casa del Padre sei venuto a piantare la tua tenda in mezzo a noi;
tu che sei nato nell'incertezza di un viaggio
ed hai percorso tutte le strade,
quella dell'esilio,
quella dei pellegrinaggi,
quella della predicazione:
strappami all'egoismo ed alla comodità,
fa' di me un pellegrino.
Signore Gesù,
che hai preso così spesso il sentiero della montagna,
per trovare il silenzio e ritrovare il Padre;
per insegnare ai tuoi apostoli e proclamare le beatitudini;
per offrire il tuo sacrificio, inviare i tuoi apostoli e far ritorno al Padre:
attirami verso l'alto,
fa' di me un pellegrino della montagna.
Come San Bernardo,
devo ascoltare la tua parola,
devo lasciarmi scuotere dal tuo amore.
A me, continuamente tentato di vivere tranquillo,
domandi di rischiare la vita,
come Abramo, con un atto di fede;
a me, continuamente tentato di sistemarmi definitivamente,
chiedi di camminare nella speranza,
verso di te, cima più alta, nella gloria del Padre.
Signore,
mi creasti per amore, per amare:
fa ch'io cammini, ch'io salga, dalle vette, verso di te,
con tutta la mia vita,
con tutti i miei fratelli,
con tutto il creato
nell'audacia e nell'adorazione.
Così sia.
Canonico Gratien Volluz, Priore dell'Ospizio del Sempione
Questo e altri testi nella sezione Preghiere
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Chi non vuole vedere e chi muore
Sono arrivati in cinque. Erano ischeletriti, cotti dal sole che martella, in agosto, sul canale di Sicilia. Ma il barcone, era grande: ce ne stipano ottanta, i trafficanti in Libia, di migranti, su barche così. Affastellati uno sull'altro come bidoni, schiena a schiena, gli ultimi seduti sui bordi, i piedi che penzolano sull'acqua. E dunque quel barcone vuoto, con cinque naufraghi appena, è stato il segno della tragedia. Laggiù a 12 miglia da Lampedusa, ai margini estremi dell'Europa, un relitto di fantasmi. Cinque vivi e forse più di settanta morti, in venti giorni di peregrinazione cieca nel Mediterraneo.
Decine e decine di eritrei inabissati come una povera zavorra di ossa in fondo a quello stesso mare in cui a Ferragosto incrociano navi da crociera, traghetti, e gli yacht dei ricchi. È questo il dato che raggela ancor più. Perché in venti giorni, nelle acque della Libia e di Malta, e in mare aperto, qualcuno avrà pure incrociato, o almeno intravisto da lontano quel barcone; ma lo ha lasciato andare al suo destino. Solo da un peschereccio, hanno detto i superstiti, ci hanno dato da bere. Come dentro a una spietata routine: eccone degli altri. E non ci si avvicina. Non si devia dalla rotta tracciata, per un pugno di miserabili in alto mare.
Noi non sappiamo immaginare davvero. Come sia immenso il mare visto da un guscio alla deriva; come sia spaventoso e nero, la notte, senza una luce. Come picchi il sole come un fabbro sulle teste; come devasti la sete, come scarnifichino la pelle le ustioni. Noi del mondo giusto, che su quelle stesse acque d'agosto ci abbronziamo, non sappiamo quale spaventevole nemico siano le onde, quando il motore è fermo, e l'orizzonte una linea vuota e infinita. Non possiamo sapere cosa sia assistere all'agonia degli altri, impotenti, e gettarli in acqua appena dopo l'ultimo respiro. 'Altri' che sono magari tuo marito o tuo figlio. Ma bisogna liberarsene, senza tempo per piangere. Perché quel sole tormenta e disfa anche i morti; e i vivi, vogliono vivere. Noi non sappiamo com'è il Mediterraneo visto da un manipolo di poveri cristi eritrei, fuggiti dalla guerra, sfruttati dai trafficanti, messi in mare con un po' di carburante e vaghe indicazioni di una rotta.
Ma c'è almeno un equivoco in cui non è ammissibile cadere. Nessuna politica di controllo della immigrazione consente a una comunità internazionale di lasciare una barca carica di naufraghi al suo destino. Esiste una legge del mare, e ben più antica di quella pure codificata dai trattati. E questa legge ordina: in mare si soccorre. Poi, a terra, opereranno altre leggi: diritto d'asilo, accoglienza, respingimento. Poi. Ma le vite, si salvano. E invece quel barcone vuoto
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Ma... oltre ad una doverosa riconoscenza, è o non è una questione di affetto?!don Chisciotte
Uno studio della Camera di commercio milanese sul valore dell'aiuto fornito in casa dagli anziani
Famiglie, il sostegno dei nonni fa risparmiare 50 miliardi
Dal ruolo di babysitter alle faccende domestiche così la rete parentale riduce la spesa per i servizi
I nonni sono anche una risorsa per far quadrare i conti familiari. Il loro impegno come baby sitter, nell'aiuto alle pulizie di casa, a lavare e stirare, nei piccoli lavori di cucito o in cucina porta ogni anno un risparmio di circa 50 miliardi alle famiglie italiane. Ben 5 miliardi solo considerando l'occasione di allungare le vacanze estive offerta dai nonni ai più piccoli, quando i genitori sono impegnati al lavoro. Sono le elaborazioni della Camera di Commercio di Milano sui dati Istat 2008 e il registro delle imprese 2009. Oltre al prezioso aiuto portato alle famiglie dai nonni, da questi dati emerge comunque una società in grande trasformazione. Le imprese che si dedicano all'assistenza sociale, residenziale e non, in Italia sono 11.998, con una crescita del 7,7% tra il 2008 e il 2009. Nelle città, tra le famiglie con i bambini piccoli, quelle in cui entrambi i genitori lavorano superano oramai abbondantemente quelle in cui c'è la madre casalinga. I servizi più richiesti sono allora la baby-sitter, l'assistenza domiciliare e la collaborazione domestica. Avere una rete parentale di supporto riduce in modo drastico il ricorso a tali servizi, così come avere contatti quotidiani con i nonni; cruciale è anche il reddito a disposizione: dove gli stipendi non bastano i nonni sono una risorsa indispensabile. I nonni fanno da baby sitter, aiutano nelle pulizie di casa, a lavare e stirare, nei piccoli lavori di cucito o in cucina. Il conto dei 50 miliardi di risparmi corrisponde a quanto sarebbe necessario per stipendiare altrettante colf e baby-sitter per ogni bambino. In Italia sono 8 milioni quelli con meno di 14 anni. Tra le città, sono prime per risparmi Roma (2 miliardi e mezzo), Milano (oltre un miliardo), Torino (quasi 900 milioni) e Napoli (quasi 800 milioni).
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Generazione «né-né»: settecentomila giovani «inattivi convinti»
Hanno da 15 a 35 anni: niente lavoro, niente studio
«Mi chiamo Maria Elena Crespi, Malena per i miei quattro amici, ho 23 anni, vivo alle porte di Milano, non studio e non lavoro. Provo vergogna per questo? Io no». Malena è un nome e cognome, un viso acqua e sapone, e una storia di disillusioni e non impegno convinto che gli spagnoli catalogano sotto l'insegna Generación «ni-ni»: ni estudia ni trabaja: generazione «né» studio «né» lavoro. Adolescenti e giovani. Spagnoli e italiani, inglesi e americani. Tanti. Sempre di più. Anche se non la maggioranza. In Italia il fenomeno non ha un'etichetta, non ancora, ma sociologi e psicologi lo conoscono bene. E i dati inediti del Rapporto Giovani 2008, elaborati dal Dipartimento di Studi sociali, economici, attuariali e demografici della Sapienza di Roma per conto del ministro della Gioventù Gorgia Meloni, sembrano certificarlo. Ancor più quando vengono incrociati con le anticipazioni dell'indagine Istat sulla Forza lavoro 2008. Nella fascia di età tra i 15 e i 19 anni ci sono 270 mila ragazzi che non studiano e non lavorano (il 9%): la maggior parte perché un lavoro non lo trova; 50 mila perché della loro inattività ne fanno una scelta; 11 mila, poi, proprio perché di lavorare o studiare non ne vogliono sapere («non mi interessa», «non ne ho bisogno»).
Stessa tendenza nei dati relativi ai giovani tra i 25 e 35 anni: un milione e 900 non studia e non lavora. Vale a dire: quasi uno su quattro (il 25%). Un milione e 200 mila di questi gravitano nella disoccupazione (ma tra loro c'è chi dice di non cercare bene perché è «scoraggiato» o perché «tanto il lavoro non c'è»). Settecentomila sono invece gli «inattivi convinti»: non cercano un lavoro e non sono disposti a cercarlo. È stato calcolato che se avessimo tassi occupazionali pari a quelli dei Paesi Bassi (capolista nella classifica Ue, 81,3% nella fascia d'età tra i 15 e i 39 anni), il nostro Pil guadagnerebbe 1-2 punti in percentuale. Ma il fenomeno «né-né» è qualcosa che va oltre i numeri. In Spagna, dice una recente indagine di Metroscopia pubblicata su El País in occasione del battesimo massmediatico della Generación «ni-ni», il 54% dei giovani tra i 18 e i 35 anni dichiara di «non avere un progetto su cui riversare il proprio interesse o le proprie illusioni».
Il leitmotiv: «Lo studio? tempo perso, non mi apre le porte al futuro. Il lavoro? Non lo cerco perché tanto non lo trovo». E la crisi sembra aver accentuato la rinuncia a qualsiasi impegno. Soddisfatti della loro vita privata (lo è l'80%), i giovani spagnoli si sentono in preda a una «devastazione lavorativa». E anche chi alla fine sceglie di studiare, lo fa senza prospettive. «Appena si rendono conto di cosa li aspetta continuano a formarsi, viaggiano, lavorano magari come camerieri per pagarsi un master mentre mamma e papà a casa li aspettano». Stesse tonalità per la fotografia scattata ai giovani «né-né» nostrani: coccolati dalla società e iperprotetti in famiglia come i «bamboccioni» ma troppo consapevoli delle loro scelte per finire sotto l'etichetta; apatici e un po' disarmati come i figli della «generazione x» ma anagraficamente troppo giovani per essere loro apparentati; circondati da fratelli e amici icona della «generazione mille euro» ma troppo disillusi per provare a loro volta a infilarsi, prima o dopo, nella stessa realtà. «Non lavorano perché la famiglia li mantiene e un impiego non si trova; non studiano o studiano meno di una volta per i programmi più leggeri, la mancanza di selezione», dice la psicoterapeuta Anna Oliverio Ferraris. «Se poi il modello è quello alla Grande Fratello (basta andare in tv per guadagnare) passa il concetto che per riuscire non serve impegnarsi. E ci si lascia vivere fino a 30 anni senza un progetto. Le motivazioni, invece, si coltivano fin dall'infanzia. Insieme al concetto che la realtà è anche lotta e sacrificio. E per questo è bella».
Malena, nella sua stanza tappezzata di libri, annuisce: «Vero. Ma io lotto per quello che va a me. E per ora sto bene così. Forse un po' meno i miei genitori, la mia vecchia prof di lettere che ha sempre visto per me un futuro "promettente" (che parolaccia). E forse anche la società che non accetta quelli che cercano una strada diversa dai mille e 120 euro al mese di mia sorella laureata-dottorata». «Ci fosse però quella strada
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«Ogni mattina 25 frustate per colazione». Lui è tra i 250 mila sfollati che hanno dovuto abbandonare le loro case
«Ogni mattina ci svegliavano con 25 frustate. Era la nostra colazione». Mboli ha 16 anni. Lui, come il fratello Muka, e tanti suoi coetanei, è stato rapito dal suo villaggio nella Repubblica Democratica del Congo dalla Lord's Resistance Army (LRA), un gruppo di ribelli ugandese. Storie che si intrecciano in un'Africa martoriata dalla guerre civili. Dalle lotte intestine. E dalle torture e dai soprusi che ogni giorni devono subire i civili. Donne e bambini. Anziani e uomini. Nessuno escluso. Ed ecco quindi la testimonianza di Mboli, raccolta da Medici senza frontiere. Un ragazzo tra tanti. Uno dei 250 mila congolesi che hanno dovuto abbandonare le proprie case. Essere divisi dalla famiglia. E vivere nel terrore. Perché i soldati della LRA arrivano anche dove si cerca un rifugio. Come nel Sud Sudan e negli stati del Central e Western Equitoria al confine sudanese.
Per tre giorni Mboli e il fratello hanno dovuto camminare con i ribelli. Costretti a essere testimone di atrocità e violenze. «Hanno ucciso le persone a cui passavamo accanto sulla strada, proprio davanti a me. Li colpivano con bastoni, con le baionette e gettavano i loro corpi nel fiume. Temevo che se mi fossi fermato per prendere fiato, anche io sarei stato ucciso, perciò ho marciato a lungo sotto il peso di quella grande sacca», ha raccontato Mboli. E alla fine l'hanno lasciato andare. Solo lui, però, perché il fratello è rimasto con i soldati. È tornato a casa, dove ad aspettarlo c'era la sua famiglia. Insieme sono partiti. Fuggiti da una nuova ondata di violenza attraverso la foresta pluviale che unisce il Congo e il Sud Sudan. Condannati a scappare non solo dai ribelli, ma anche dagli animali feroci. A nutrirsi di radici nella giungla, nella speranza di arrivare «alla salvezza».
Una volta arrivati in Sudan, i rifugiati cercano riparo nei campi oppure si costruiscono rifugi temporanei. Restano vicino alle strade nella speranze di ricevere notizie dei propri cari. Insomma, cercano riparo in un Paese altrettanto difficoltoso. Violenza e povertà sono all'ordine del giorno. Una vita precaria che la squadra di Medici senza frontiere cercano di migliorare. Un equipe di psicologi organizza sessioni individuali e di gruppo. «La violenza ha distrutto molte vite», spiega Francesca Mangia coordinatrice del progetto. E l'incertezza del futuro pesa su ognuno di loro, anche su chi, come Mboli, è riuscito a sopravvivere.
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Abbiamo parlato insieme di tristezza e di gioia. In realtà, ho ricevuto stamattina una notizia molto triste, drammatica.
Durante i vespri di ieri sera, il caro Frère Roger Schutz, fondatore della Comunità di Taizé, è stato accoltellato e ucciso, probabilmente da una squilibrata.
Questa notizia mi colpisce tanto più perché proprio ieri ho ricevuto una lettera di Frère Roger molto commovente, molto amichevole. In essa scrive che nel fondo del suo cuore intende dirmi che "noi siamo in comunione con Lei e con coloro che sono riuniti in Colonia".
Poi scrive che, a causa delle sue condizioni di salute, purtroppo non sarebbe potuto venire personalmente a Colonia, ma sarebbe stato presente spiritualmente insieme con i suoi fratelli.
Alla fine mi scrive in questa lettera che ha il desiderio di venire quanto prima a Roma per incontrarmi e per dirmi che "la nostra Comunità di Taizé vuole camminare in comunione con il Santo Padre". E poi scrive di proprio pugno: "Santo Padre, Le assicuro i miei sentimenti di profonda comunione. Frère Roger di Taizé".
In questo momento di tristezza possiamo solo affidare alla bontà del Signore l'anima di questo suo fedele servitore. Sappiamo che dalla tristezza - come abbiamo sentito adesso nel Salmo - rinascerà la gioia.
Frère Schutz è nelle mani della bontà eterna, dell'amore eterno, è arrivato alla gioia eterna. Egli ci ammonisce e ci esorta ad essere fedeli lavoratori nella Vigna del Signore sempre, anche in situazioni tristi, sicuri che il Signore ci accompagna e ci darà la sua gioia.
rassegna di foto di frère Roger
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![](/images/DNN/09_08/rave_morti.jpg)
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Nei prossimi due giorni potreste trovarmi in auto in una di queste località:
Diga del Vajont, nella memoria dei 1910 morti di ventisei anni fa:
Una delle cappelle mosaicate da p. Marko Ivan Rupnik in Slovenia:
http://www.centroaletti.com/ita/opere/slovenia/11.htm
Un rapido giro tra le Alpi del Cadore:
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di Jena
Oggi vi dico la verità: amo Berlusconi e Tremonti, amo Franceschini e Bersani, amo Di Pietro, Bertinotti e Vendola, amo Ferrero e pure Veltroni, amo addirittura D'Alema e Napolitano, amo perfino Gelmini, Ratzinger, Maroni, Calderoli e financo La Russa... Lo psichiatra mi ha prescritto una vacanza.
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Tra espressioni tipo "forze del bene", "esercito del male", "magico"... ringrazio il Cielo (quello vero!) di non essere seguace di questo tipo di "messia".don Chisciotte
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La televisione che verrà
Ecco la fiction in dialetto
Riscriviamo tre celebri serie nella lingua della località dove si svolgono
di Massimo Gramellini
Bruno Gambarotta (Regno di Sardegna) ha tradotto la saga de Il commissario Manara in piemontese.
Il vicedirettore Giancarlo Laurenzi (Stato Pontificio) ha romanizzato I Cesaroni, che già sono abbastanza romani per conto loro, ma mai abbastanza per il federalismo televisivo che ci attende.
Quanto a Francesco La Licata (Regno delle Due Sicilie) ha declinato in lingua isolana Il commissario Montalbano per renderlo più simile all'originale di Camilleri.
A questo punto non resta che leggerli e sognare a occhi aperti la tivù sottotitolata che verrà.
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Da qualche giorno, ascoltare i Giornali Radio delle reti RAI è come seguire un incrocio tra un notiziario parrocchiale redatto da un prete vecchio stampo e i bollettini di guerra dell'Istituto Luce nel ventennio.
don Chisciotte
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«La risolutezza di Maria. È lei che decide di muoversi per prima: non viene sollecitata da nessuno. E lei che s'inventa questo viaggio: non riceve suggerimenti dall'esterno. È lei che si risolve a fare il primo passo: non attende che siano gli altri a prendere l'iniziativa. Dall'accenno discretissimo dell'angelo ha avuto la percezione che la sua parente doveva trovarsi in serie difficoltà. Perciò, senza frapporre indugi e senza stare a chiedersi se toccava a lei o meno dare inizio alla partita, ha fatto bagagli, e via! Su per i monti di Giudea. «In fretta», per giunta. O, come traduce qualcuno, «con preoccupazione». Ci sono tutti gli elementi per leggere, attraverso questi rapidi spiragli verbali, lo stile intraprendente di Maria. Senza invadenze. Stile confermato, del resto, alle nozze di Cana, quando, dopo aver intuito il disagio degli sposi, senza esserne da loro pregata, giocò la prima mossa e diede scacco matto al re. Aveva proprio ragione Dante Alighieri nell'affermare che la benignità della Vergine non soccorre soltanto colui che a lei si rivolge, ma «molte fiate liberamente al dimandar precorre».
Santa Maria, donna del primo passo, ministra dolcissima della grazia preveniente di Dio, «alzati» ancora una volta in tutta fretta, e vieni ad aiutarci prima che sia troppo tardi. Abbiamo bisogno di te. Non attendere la nostra implorazione. Anticipa ogni nostro gemito di pietà. Prenditi il diritto di precedenza su tutte le nostre iniziative. Quando il peccato ci travolge, e ci paralizza la vita, non aspettare il nostro pentimento. Previeni il nostro grido d'aiuto. Corri subito accanto a noi e organizza la speranza attorno alle nostre disfatte. Se non ci brucerai sul tempo, saremo incapaci perfino di rimorso. Se non sarai tu a muoverti per prima, noi rimarremo nel fango. E se non sarai tu a scavarci nel cuore cisterne di nostalgia, non sentiremo più neppure il bisogno di Dio».
fai il download dell'intera meditazione tra i nostri Testi
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di Massimo Gramellini
Una notizia leggera ma buona, per ricominciare. Il settanta per cento degli italiani vorrebbe trascorrere il Ferragosto a Villa Certosa con il padrone di casa, i suoi cari e le sue care. «Accetterebbe l'invito senza esitazioni», recita testualmente il sondaggio di «Novella 2000». Qual è la buona notizia? Beh, che un trenta per cento di italiani non accetterebbe l'invito. O avrebbe almeno un'esitazione prima di tuffarsi sotto la doccia con Topolanek. Immaginavo fossero molti, ma molti di meno. Colpa dei pregiudizi che mi portano spesso a sottovalutare le risorse morali di questo straordinario Paese. Trenta per cento. Per inciso, più di quelli che votano Pd. Se ne deduce che il Pd non riesce a raggiungere nemmeno tutti gli allergici al Certosismo: figuriamoci gli altri.
Poiché ho deciso di seguire il consiglio del settanta per cento dei lettori, non parlando più di B, e di seguire il consiglio dello stesso B, non parlando più di tutto ciò che rattrista le masse e intralcia la loro propensione al consumo, non mi resta che baloccarmi con quel numero gravido di ottimismo. Trenta per cento. Augurandomi che venga presto ottenuto in altre classifiche. Trenta per cento di italiani che non evadono il fisco. Trenta per cento di italiani che leggono libri. Trenta per cento di italiani che si risvegliano dal torpore e pensano, ridono, piangono e si appassionano con la propria pancia e la propria testa. Mi accontenterei anche del venti, dài.
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Venite tutti, che strana meraviglia il mare ci portò...
Venite tutti, è Gulliver il grande che il mare ci portò...
Addormentato davanti a noi Gulliver il grande... / È una nera montagna che ci toglie il sole,
è Gulliver il grande che il mare ci portò...
Così curioso davanti a noi / l'uomo montagna ci guarda già,
venite tutti ad ammirare / la meraviglia vista mai.
Gli omini piccoli che sanno già / che la sua forza li aiuterà
Gulliver il grande si chiede già / in quale altro mare naufragherà.
Venite tutti, che strana meraviglia il mare ci portò...
Venite tutti, è Gulliver il nano che il mare ci portò...
Che effetto prima, davanti a noi Gulliver il nano, / ma i suoi occhi cercano già i nostri volti,
è Gulliver il nano che il mare ci portò.
Venite tutti ad ammirare / la meraviglia con cui giocare,
così indifeso davanti a noi / come un bambino a cui insegnare,
E mentre invece dentro di sè / del nostro aspetto lui ride già,
Gulliver il nano sognando sta / un altro mare per naufragare.
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«L'uomo è troppo povera cosa per chiedergli conto direttamente di quanto accade di brutto nel mondo e per colpa sua. (...) Non si può portar via nulla al cuore, specialmente a una donna, senza restituirle subito qualche cosa...»
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Bravo don Matteo! Mi lasciano perplesso certe espressioni di Boffo, che ho messo in blu, nelle quali si esprime un'arte di non esplicitare... che non considero virtuosa.
Senza strepiti, ma senza ombre
Caro don Matteo, ero fuori sede e riesco solo oggi a pubblicare la sua lettera. Della quale la ringrazio sia per i contenuti che per il tono. Credo che la «ponderazione» di quelle che ci appaiono le condizioni migliori affinché l'annuncio del Vangelo risuoni nitido nella coscienza dei nostri contemporanei non debba mai, proprio mai, abbandonarci. E che questo sia come un assillo che ci tormenta e giudica ogni nostra parola, ogni nostro silenzio. Nessuno dei potenziali interlocutori dovrebbe trovarsi a pensare che parliamo o taciamo per «interesse» personale, per qualche esplicita o inconfessabile partigianeria. Certo, anche noi siamo immersi nella società delle opinioni, spesso caotica e pigra nelle sue analisi. In troppi cedono alla tentazione di reagire con un giudizio netto e definitivo al semplice frammento estrapolato da un discorso ben più complesso. Stiamo al caso nostro. Sull'atteggiamento assunto dalla Chiesa nei riguardi delle scelte «private» del premier Berlusconi sui giornali si sta dicendo un po' di tutto: «Repubblica» può permettersi un giorno di dire che si è arrivati da parte nostra a «scomunicare» Berlusconi e il giorno successivo asserire il contrario. Opinionisti famosi si alternano e allegramente si contraddicono, senza avvertire minimamente l'esigenza di argomentare la tesi sostenuta. E questa non è una variante indifferente. Ovvio che non si debba parlare soltanto per avere il plauso dei giornali, lo diceva non a caso l'altro giorno il cardinale Bagnasco. Ma nel ponderare le condizioni di innesto del Vangelo non si può trascurare il «contesto». Io ad esempio, per il mestiere che faccio, non posso non tenere conto degli sfottò che mi arrivano nell'arco delle ventiquattr'ore da personaggi del calibro di Francesco Cossiga o di Giuliano Ferrara. Per questi non è certo vero che «Avvenire» abbia parlato flebilmente, e dietro «Avvenire» è chiaro che costoro vedono altri. Voglio dire, don Matteo, che la domanda che conta in queste circostanze è, a mio avviso, la seguente: la gente è riuscita a individuare le riserve della Chiesa? Ebbene, la risposta che a me sembra di poter dare
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I ragazzi e le feste sulla spiaggia. Le notti dell'alcol senza limiti
Mezzo litro di vodka. E si è accasciata. Non sonno da sbornia, ma coma da alcol. Ha rischiato di morire su una spiaggia nella notte di San Lorenzo, Annamaria, napoletana, 15 anni. Troppo ubriachi anche gli amici, tutti minorenni, per accorgersi che stava male. (...) Coma e collassi sono in aumento, traguardo frequente di feste e serate alcoliche. Lo dicono i numeri delle Asl, la quantità di giovani al pronto soccorso, i referti che si ripetono: intossicazione da etanolo, di vari livelli, il più grave segna il confine tra la vita e la morte. (...) L'alcol va giù come l'acqua, mentre la percezione della realtà si allontana. Serate divertenti, assicurano gli organizzatori. (...) Cifre preoccupanti sulla crescita di patologie alco-correlate, come pancreatiti e cirrosi, sempre tra giovanissimi: +5%. Non diverso il trend nel resto d'Italia. Come in provincia di Milano: «La Asl cita un incremento di coma e collassi da alcol tra minori - spiega Francesca Lo Russo, psicologa cha lavora in progetti relativi dipendenze nelle scuole
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E' il fast food più "grasso" degli Stati Uniti. E anche uno dei più controversi
"Bypass burger" e patatine allo strutto è il ristorante che fa male alla salute
"Questo luogo fa male alla salute". Lo dice un cartello scritto a caratteri cubitali sulla porta d'ingresso dell'Heart Attack Grill, uno dei più controversi ristoranti americani. Al suo interno, seduti ai tavoli di quello che in italiano suona "attacco di cuore alla griglia", i clienti consumano il loro Quadruplo Bypass Burger, un super panino dal valore energetico che supera le 8000 calorie, serviti da avvenenti cameriere vestite da infermiere. Fondato nel 2005 a Chandler, nello stato dell'Arizona, questo fast food in stile ospedaliero è uno dei più discussi degli Stati Uniti. In un paese fortemente colpito dall'obesità, nel quale il modello alimentare dominante è quello di hamburger e patatine conditi con un'abbondante dose di salse, l'Heart Attack Grill è diventato noto come il ristorante dove si prepara la cucina meno salutare degli Stati Uniti.
Il proprietario, il Dr. Jon, un sedicente ex nutrizionista che non ha mai ottenuto la laurea in medicina, ci tiene a chiarire ai tanti che puntano il dito contro questo tempio della cattiva alimentazione che il suo ristorante serve lo stesso tipo di cibo degli altri fast food. L'unica differenza con il resto del mondo è che i suoi clienti sanno che entrando all'Heart Attack vanno incontro a seri problemi di salute. "Il mio è forse l'unico ristorante onesto degli Stati Uniti", ha dichiarato alla stampa il "medico chef", che da dietro ai fornelli del suo ristorante, frigge vestito in camice bianco centinaia di hamburger al giorno.
Così, in quella che Dr. Jon definisce la clinica della cattiva alimentazione, i clienti vengono chiamati pazienti da cameriere che si fanno chiamare infermiere e che prendono delle ricette al posto delle ordinazioni. Chi pesa più di 160 chilogrammi mangia gratis. Per lui offre la casa. Chi invece ambisce ad una cena gratis qui a Chandler dovrà solo pazientare e continuare a sedersi ai tavoli dell'Heart Attack. Per lui, oltre a un aumento di peso, sono previsti problemi cardiaci, diabete, problemi alle articolazioni, ictus.
ueste le conseguenze del menù del ristorante, una carta abbastanza ristretta che comprende quattro panini - Bypass Burger Singolo, Doppio, Triplo e Quadruplo - Fatliner fries, ovvero patatine fritte nel lardo, Jolt Cola, una bevanda dall'alto tasso di zuccheri, e sigarette senza filtro. Non mancano poi i super alcolici. Tutto qui all'Heart Attack è offerto per far male alla salute.
I clienti che scelgono di consumare dal Triplo bypass burger in su possono usufruire di un servizio aggiuntivo: per sopperire allo sforzo di mangiare un panino di quelle dimensioni il locale mette a disposizione delle infermiere che accompagnano il cliente su una sedia a rotelle fino alla sua automobile. Inorridiscono gli Stati Uniti di fronte a tanta provocazione, si sgolano i medici nel tentativo di far chiudere il ristorante ma la fortuna del locale non è ancora stata intaccata.
In molti hanno cercato di far chiudere il fast food e alcuni gruppi di attivisti hanno avviato una crociata contro il Dr. Jon che rilancia con un libro dal titolo "Eat, Drink, and Smoke their way to Better Health" e con numerose interviste televisive a sostegno del suo nuovo progetto. Si chiamerà l'Heart Attack Grill Diet Centers e promuoverà uno stile di vita fatto di grassi, alcol e sigarette. L'unico regime alimentare che permette di divertirsi e rovinarsi la vita. (...)
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Migliaia di segnalazioni all'Authority Abbonamenti-virus da cinque o venti euro
Nel trabocchetto estivo possono cadere anche persone smaliziate come gli esperti di mass media. (...) Ma come scatta la trappola dell'abbonamento-virus? Il meccanismo è diabolicamente banale. Il più delle volte bastano una visita a un sito di musica, un clic distratto per ascoltare un brano, la non lettura di una clausola microscopica, l'invio del proprio numero di cellulare o di un sms con un certo testo a un certo numero e ci si ritrova
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SOCIALISMO: Hai 2 mucche. Il tuo vicino ti aiuta ad occupartene e tu dividi il latte con lui.
COMUNISMO: Hai 2 mucche. Il governo te le prende e ti fornisce il latte secondo i tuoi bisogni.
FASCISMO: Hai 2 mucche. Il governo te le prende e ti vende il latte.
NAZISMO: Hai 2 mucche. Il governo prende la vacca bianca ed uccide quella nera.
DITTATURA: Hai 2 mucche. La polizia te le confisca e ti fucila.
FEUDALESIMO: Hai 2 mucche. Il feudatario prende metà del latte e anche tua moglie.
DEMOCRAZIA: Hai 2 mucche. Si vota per decidere a chi spetta il latte.
DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA: Hai 2 mucche. Si vota per chi eleggerà la persona che deciderà a chi spetta il latte.
ANARCHIA: Hai 2 mucche. Lasci che si organizzino in autogestione.
CAPITALISMO: Hai 2 mucche. Ne vendi una per comprare un toro ed avere dei vitelli con cui iniziare un allevamento.
CAPITALISMO SELVAGGIO: Hai 2 mucche. Fai macellare la prima ed obblighi la seconda a produrre tanto latte come 4 mucche. Alla fine licenzi l'operaio che se ne occupava accusandolo di aver lasciato morire la vacca di sfinimento.
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"Strisciando di pub in pub". Il tour etilico delle notti romane
Si beve praticamente di tutto e nessuno controlla l'età. Sfide a boccali di birra
"Birra, birra" dice il ragazzo indiano che gira con una busta di plastica piena di lattine ghiacciate tra i turisti assiepati sulle scale di piazza di Spagna. "Quanto costa?". "Poco poco: solo due euro". Due vigili urbani appoggiati alla macchina di servizio guardano la scena. Minorenni che si riempiono gli zaini di lattine (da mezzo litro l'una) e tutti - irlandesi, inglesi, svedesi, tedeschi, americani e qualche italiano di neanche 16 anni - in attesa della stessa cosa: che il gruppo si sia fatto abbastanza numeroso per partire per il Pub Crawl, che letteralmente significa più o meno strisciare per pub. Una specie di surf etilico (il crawl è anche uno stile di nuoto) che, ideato a Londra, va di gran moda anche a Roma (...) "Il Pub Crawl costa 20 euro" spiega uno degli "steward" del tour alcolico. "Cinque euro vanno a noi, gli altri al capo e al locale" continua Tommy. Come funziona? "Si va in un primo pub dove per un'ora e mezza si beve tutto quello che si può all'open bar. Poi in un altri due pub: qui è gratuito solo il primo shot". È ora di andare: il gruppo è di 100, 120 persone: lungo la strada una ragazza beve vino rosso da una bottiglia. Altre tre parlano in spagnolo a mitraglia. Età? "Diciassette anni". A Largo di Fontanella Borghese una delle "guide" salta sopra un pilone e, in inglese, spiega: "Metà di noi va di là, l'altra metà di qua". Un gruppo si dirige in un locale che si definisce associazione culturale. Uno steward scrive il nome (non il cognome), l'età (e le spagnole diciassettenni dicono: "19 anni", tanto nessuno controlla i documenti). All'ingresso si riceve: una maglietta e un voucher con cui ritirare al bancone una bottiglia di birra, che appena finisce si restituisce per averne un'altra piena e così via. In 20 minuti se ne possono ingollare anche più di 12, insieme a qualche shot, di vodka o rum o, volendo, anche vino bianco e rosso. Dopo neanche mezz'ora non c'è più nessuno che non sia ubriaco, due ragazzi svedesi rigurgitano alcol ma partecipano lo stesso alla gara di birra: il più veloce a bere vince una maglietta. Un'altra ora e si ferma tutto: i pub crawler vengono radunati, qualcuno esce con la bottiglia (nonostante a Roma fino al 20 agosto un'ordinanza nei weekend proibisca vetro e lattine fuori dai locali), barcollando raggiungono la fermata dell'autobus per andare all'altro pub. Il bus arriva, si sale, un bel gruppone di cinquanta, sessanta persone, almeno la metà minorenni e completamente ubriachi. Tutti ridono, scherzano, senza un pensiero al mondo. Neanche quello del biglietto.
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Uno dei "lavori" che segnalano che sono in vacanza (per molti non è un controsenso!) è che mi metto a sistemare gli spazi fisici in cui vivo.
Credo sia un'opera in parallelo a quel "riordino" degli "spazi" e dei "tempi" relazionali che può avvenire in questo periodo.
Oggi, dopo due anni dal trasloco, ho terminato di essenzializzare la corrispondenza dei decenni passati, che era rimasta inscatolata, nei cartoni e nelle caselle dei ricordi.
Senza drammi, ho dovuto salutare ancora una volta tante persone che mi hanno scritto. Non ho riletto tutto, ma sono stato felice di rivederle, risentirle, ringraziarle.
Non è stato facile decidere che era necessario fare spazio negli armadi e rafforzare la memoria: è lei adesso che deve conservare questi compagni di viaggio, mentre la carta e l'inchiostro sono finiti triturati.
Un'azione un po' crudele (direi tranchant, con una punta d'ironia!).
Spero che - laddove essi vivano - non ne abbiano sofferto.
Alcune pagine le ho conservate: ancora troppo pregnanti, troppo pesanti per ora...
«Conserva scritti nel libro della vita i nomi di tutti, perché tu, Padre, ci possa tutti ritrovare nella comunione di Cristo Signore nostro».don Chisciotte
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Credo che l'interpretazione sia estremizzata e provocatoria, ma offre uno spunto su cui riflettere.
Vogliamo ricomprarci l'anima
di Gabriele Ferraris
Il commercio delle anime non l'ha inventato Faust, è florido da sempre. Oggi più che mai: nel recente passato molte anime sono state sventatamente svendute, con inevitabili, tardivi rimpianti, e conseguenti smanie di riacquisto. Il Mercato-Mefistofele prospera: al limite, incorre in qualche errore di marketing, come quando la Volkswagen, per lanciare il «nuovo Maggiolino», puntò sullo slogan «Se negli Anni 70 ti sei venduto l'anima, adesso puoi ricomprartela»; ignorando o fingendo d'ignorare che l'anima è anima solo se originale. Difatti, il «nuovo Maggiolino» Vw non convinse; mentre io mi sono ricomprato il mio Maggiolino, modello '64.
Così sia per i telefilm: perché accontentarsi dei remake, se puoi avere l'originale, e allo stesso prezzo? Siamo sconfitti, ma conserviamo un minimo di dignità: abbiamo abiurato su questioni cruciali, dal Vietnam alla Spiritualità, ma non avremo mai altro Fonzie all'infuori che Henry Winkler. Ehy!
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di Arrigo Levi
Vorrei ricordare, a distanza di 40 anni giusti, alcuni pensieri di Paolo VI sulla pace. In un secolo insolitamente ricco di grandi figure papali e di travagli per la Chiesa, impegnata in un'opera di difficile «aggiornamento», come allora si disse, per confrontare la sua fede antica e i suoi riti col mondo del Novecento, papa Montini fu l'anello indissolubile fra l'istinto innovatore di Giovanni XXIII e il profetismo di Giovanni Paolo II. Fu il Papa che rese nell'essenza immodificabile la svolta conciliare. Figlio di un deputato popolare, fortemente antifascista, padre spirituale di quella prima generazione di deputati democristiani che guidò l'Italia negli anni della ricostruzione e della scelta costituzionale insieme col Pci, Paolo VI fu anche figura chiave nella storia d'Italia: fino al suo definitivo, sofferto rifiuto, per la sopravvivenza della democrazia, di ogni compromesso con le Br, anche se questo costò la vita al suo discepolo più amato, Aldo Moro. Era un uomo sincero, ricco di umana gentilezza e perspicacia, sereno nonostante le tante prove che la sua fede dovette affrontare. Così mi apparve quando, dovendo iniziare la collaborazione alla Stampa dell'amico Ronchey, e volendo offrire al mio nuovo giornale qualcosa di straordinario, ebbi l'insolito privilegio di una intervista col Papa. Era la terza della storia (dopo quelle concesse a Montanelli e Cavallari: tutti e tre assai laici, e io anche ebreo). Quando chiesi l'intervista, don Macchi mi disse che erano giacenti due o trecento richieste; ma mi incoraggiò a essere audace.
Il 30 dicembre 1968 ebbi il colloquio, che fu lungo e affettuoso, e si concluse con una benedizione a tutti coloro che lavoravano per La Stampa, e con uno scambio di calorosissimi shalom. Il primo gennaio '69 si celebrava nel mondo, per iniziativa del Papa, la seconda Giornata della pace, e la pace fu il tema che il Papa aveva prescelto per l'incontro: facilitato dalla sua antica amicizia con Arturo Carlo Jemolo, autorevolissima firma della Stampa, da lui protetto in Vaticano, insieme con tanti altri, nel tremendo inverno romano del 1943. La pace: una speranza, ma anche un cruccio immenso. L'estate del '68 - il fatidico Sessantotto - aveva visto l'invasione della Cecoslovacchia, la fine del «comunismo col volto umano», il ritorno al gelo profondo della Guerra Fredda. Il suo primo pensiero andava ai giovani, che occorreva «educare al senso umano, alla forza del carattere, al rifiuto dell'uso di armi (salvo la necessità di legittima difesa); educare all'ideale dell'umanità pacifica, laboriosa e solidale». Sapeva bene che passavano allora tra i giovani «correnti di agitazione radicale, un'onda di inquietudine, di ribellione, di contestazione». Ma invitava a «guardare più a fondo nella psicologia della gioventù, oggi ribelle ed esasperata: essa cela in fondo un'ansia di sincerità, di giustizia, di rinnovamento che non va disconosciuta ma piuttosto interpretata come evoluzione, per certi aspetti legittima, verso forme più mature di convivenza sociale». Invitava perciò «la saggezza dei dirigenti e l'antiveggenza dei giovani» a incontrarsi «per dare alla società nuovi ordinamenti, i quali non potranno non essere conformi alle insopprimibili esigenze della pace, sia sociale, che internazionale». Metteva in risalto i grandi slanci di generosità dei giovani, ogni volta che essi venivano «a contatto con disgrazie altrui»: e ricordava «la presenza spontanea, seria, efficace» dei giovani nelle calamità nazionali: il Vajont, le inondazioni di Firenze, i terremoti in Sicilia e Piemonte. (...) Non mi apparve dominato dallo sconforto, come taluni asserivano. «Guardiamo avanti, non indietro. La costruzione della pace è un'opera lenta e lunga. Conosciamo la fragilità degli uomini, ma anche la loro innata propensione alla pace: una necessità storica la impone». E poi, «noi uomini religiosi rimaniamo persuasi che una segreta, buona e paterna provvidenza giuoca nei destini dell'umanità, e perciò speriamo sempre». Il fatto che i rapporti tra la Chiesa cattolica e le altre confessioni si stessero «polarizzando verso amichevoli intese, ieri impensabili, oggi probabili» confortava la sua speranza: la «Giornata della pace è iniziativa che sta diventando comune». Su questa via occorreva procedere, sostenendo «le grandi istituzioni internazionali sorte appunto per promuovere le intese fra i popoli e la pace nel mondo». Primo, tra i fini da raggiungere, «un vero disarmo mondiale, specie nelle armi micidiali di cui oggi l'umanità terrorizzata dispone». Troppe speranze, troppo in anticipo sui tempi? Forse sì, oggi come allora. Ma fa bene ricordare la fede forte, limpida, riflessiva, di un vero credente religioso, saldo nei principi come nelle aperture al mondo, quale fu Paolo VI. Oggi come allora, è di conforto e incitamento anche per un credente laico qual io sono.
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Il suo esempio mi induce a evidenziare gli spazi di collaborazione che è doveroso estendere sempre più ai fedeli laici, coi quali i presbiteri formano l'unico popolo sacerdotale e in mezzo ai quali, in virtù del sacerdozio ministeriale, si trovano “per condurre tutti all'unità della carità, ‘amandosi l'un l'altro con la carità fraterna, prevenendosi a vicenda nella deferenza' (Rm 12,10)”. È da ricordare, in questo contesto, il caloroso invito con il quale il Concilio Vaticano II incoraggia i presbiteri a “riconoscere e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo specifico nell'ambito della missione della Chiesa
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di Marco Belpoliti
Chi controlla le fiction televisive, controlla la televisione. Il potere del piccolo schermo luminoso non risiede più nei telegiornali, ma nel complesso sistema delle fiction. Certo, i telegiornali che tacciono, oppure esaltano, una certa notizia, contano, ma solo nell'immediato, ovvero nello spazio di 12-24 ore. Poi notizia scaccia notizia. E nessuno se ne ricorda più. Le fiction invece lavorano alla distanza, perforano la memoria e costituiscono il sistema dei nostri ricordi attivi su molti argomenti: la salute vista attraverso Terapie d'urgenza, i sentimenti con lo sguardo di Un medico in famiglia, la storia via Barbarossa, l'educazione attraverso Maria Montessori, la mafia spiegata da L'ultimo dei Corleonesi; e così via. Per questo chi dirige (...) è il padrone dell'immaginario degli italiani. Un fatto culturale (...). I serial televisivi sono entrati nell'orizzonte dello spettatore medio e ne costituiscono, nel bene e nel male, l'immaginario più pervicace. Chi non ne ha seguito, per curiosità o per passione, almeno uno? Le fiction hanno preso il posto dei romanzi d'appendice, della letteratura seriale, dei fotoromanzi e delle storie che si raccontavano di bocca in bocca la sera nelle case. In effetti fiction significa racconto, prosa narrativa basata su avvenimenti immaginari con personaggi immaginari. E ha una doppia valenza (...): un aspetto creativo, inventivo, e un aspetto di simulazione. Fiction come finzione. Non semplicemente falso, bensì simile al vero. L'arrivo delle fiction televisive, figlie delle soap opera americane e delle telenovelas sudamericane, ha mutato il regime di realtà introducendo tra il vero e il falso una via di mezzo che è il verosimile: simile al vero, ma non vero. La fiction non è solo un effetto massmediale, ma condiziona in modo attivo i nostri modi di pensare, le convinzioni più intime, gli stessi comportamenti. E ora che le fiction sono diventate anche dei racconti a sfondo storico - Barbarossa - anche il nostro modo di ricordare il passato. Un telefilm televisivo in più puntate dedicato ai Comuni italiani o al Risorgimento vale più dei libri di testo scolastici. L'immagine sta avendo il sopravvento sulla parola scritta. Il punto è che la fiction costituisce sempre più la fonte attiva dei ricordi delle persone, sostituendosi alle esperienze stesse, con uno scambio continuo tra «realtà» e «finzione», così che la finzione è più potente della realtà stessa e la modella. La fiction televisiva rispetto al cinema ha qualcosa di più: permette agli spettatori di identificarsi con i personaggi «reali» della finzione, mentre l'eroe, modello del romanzo come del film, resta unico e lontano dalla vita dei singoli. E non ci sono solo le opere di narrazione o di finzione scenica - sit-com, serial, telenovelas, soap opera - ma anche i talk show e i cosiddetti docudrama (dove si drammatizzano temi controversi della vita reale) e docufiction (documentari su temi storici con attori) appartengono al genere fiction. Melotti nel suo studio ci ricorda le tre caratteristiche di questi generi televisivi: per loro la realtà è un materiale grezzo su cui operare; il pubblico vi può partecipare; il conduttore costituisce l'indispensabile tramite tra realtà e finzione. Il Grande Fratello è un esempio perfetto di fiction: si basa sulla realtà, ma il suo copione è scritto in modo narrativo. (...) Basta far girare la stessa storia attraverso strumenti scenici e televisivi: inquadrature diverse, prospettive diverse, versioni diverse. Ciò che non deve mai cambiare è il plot della storia. (...) Forse solo quando sbatteremo contro il fondale di cartone, allestito dal padrone della neotelevisione, sentiremo come Truman la voce del regista di turno che, di fronte al sano istinto di andare oltre, ci dirà con tono suadente e materno: «Sono il creatore di uno show televisivo che dà speranza, gioia ed esalta milioni di persone. Ascoltami, là fuori non troverai più verità di quanta non ne esista nel mondo che ho creato per te: le stesse ipocrisie, gli stessi inganni, ma nel mio mondo non hai nulla da temere». Sapremo sfondare il muro d'immagini che ci separa dalla realtà e ritrovarla, una buona volta?
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A distanza di un paio di giorni possiamo anche sorridere sulla questione (senza offendere chi ne ha subìto le conseguenze), però le domande - qui poste in maniera ironica - restano tutte drammatiche.
Era meglio ascoltare l'esperto
di Bruno Gambarotta
Il giornale radio delle 13 di ieri ci informava che «un gruppo di giovani per ingannare l'attesa sono scesi dalle auto e si sono messi a giocare a pallone sull'asfalto rovente». Però poi, nelle edizioni successive, non ci hanno detto com'è finita la partita. Forse stanno ancora giocando, avranno organizzato un torneo in notturna con i fari delle auto. I giovani hanno capito per primi che «passante» non significa più «collegamento rapido che attraversa una determinata zona», ma «struttura in cemento e asfalto ideata per far passare il tempo». L'anno prossimo rimedieremo organizzando un torneo di calcetto fra le squadre del passante di Mestre, dell'ingresso a Savona nell'Autostrada dei Fiori, della tangenziale Nord di Milano, della Roncobilaccio-Barberino del Mugello. I veterani della Salerno-Reggio Calabria sono esclusi per manifesta superiorità.
Benedetti italiani! Non leggete i giornali? Non guardate la televisione? Cosa dobbiamo ancora fare per farvi entrare in testa che siamo in crisi, il mattone non tira più, ci sono i tagli allo spettacolo e perciò quest'anno niente vacanze e niente ferie? Vi avevamo spiegato in tutte le salse che gli esodi biblici per le vacanze sono roba del passato, e questo è il bel risultato. È mai possibile che dobbiate sempre smentire le proiezioni degli esperti? Quando abbiamo deciso di allestire una riserva di mille o duemila bottiglie d'acqua per dissetare quei pochi automobilisti benestanti che si fossero avventurati sul passante, molti di noi hanno obiettato che erano troppe, che ci sarebbero rimaste sul groppone, che avremmo finito per doverle bere noi. E voi, pur di farci dispetto, vi siete buttati tutti sul passante, ansiosi di collaudarlo, prima che lo chiudessero per i soliti lavori di ammodernamento. Tutti a lodarlo: è una novità, un gioiello dell'ingegneria moderna, una perla del Nord-Est, al Sud un passante così passante se lo sognano. Tutti a dire: con il passante di Mestre non ci saranno mai più ingorghi.
E adesso siamo qui, a invocare san Bertolaso, a chiedere la proclamazione dello stato di calamità naturale. No, non dobbiamo fare i piagnoni come certi concittadini che non nomino, dobbiamo rimboccarci le maniche e prendere dei provvedimenti per evitare che il disastro si ripeta. Che nessuno si azzardi a tirare fuori i vecchi proverbi, «Tra il dire e il fare è passante il mare». La prima misura consisterà nel controllare che ogni automobile che si avventura oltre le barriere d'ingresso sia dotata di tanti kit di sopravvivenza per quanti sono i passeggeri. Ciascuno deve avere una dotazione di cibo e acqua per almeno un mese. Crediamo di interpretare il pensiero del Governatore della regione, proponendo che, almeno nei giorni contrassegnati dal bollino rosso, sia data la precedenza ai veneti da almeno sette generazioni. In alternativa, per sveltire le pratiche, si può ricorrere a un rapido esame di conoscenza del dialetto. Dopo i veneti tocca ai turisti provenienti dal Nord Europa, loro sono sempre i benvenuti; poi i settentrionali delle altre etnie, celti, longobardi, liguri, taurini, salassi. Ultimi i meridionali, tanto loro sono abituati a pazientare. Come diceva il grande Eduardo, «A' da passa' 'o passante!».
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Il lungomare e quel morto fuori posto
L'indifferenza in spiaggia: ci sono i luoghi per morire e si muore sempre di una malattia
Un morto in spiaggia, tra gente che si gode il sole e mostra di essere finalmente in vacanza, è semplicemente uno fuori posto. Uno che non sa capire le situazioni, che non ha la sensibilità per stare nella società del tempo presente, stressata dalla crisi economica, dalla paura della perdita dello status sociale difficilmente raggiunto ed ora in pericolo. E se si incontra un uomo così, morto, lo si cancella come se non ci fosse e lo si copre con un asciugamano e si continua a vivere e a fare vacanza. In queste ricorrenze, sempre meno frequenti, interessano semmai i corpi capaci di fare sognare un incontro galante. Si guardano le barche a vela che passano nel golfo di Napoli e si immagina il piacere di sentire il vento che spinge le vele, la bellezza del potersi mostrare al timone.
Che cosa si pretende, che si chiami la polizia che vuole nome e cognome, o che si cerchi di dare una mano a chi pare non stia a galla? Per carità magari ti incriminano per omicidio o nel migliore dei casi per soccorso inadeguato. Meglio finire la barzelletta che si era incominciato o raccontare il viaggio che si è programmato tra due settimane.
Il morto non c'è. E poi la morte è banale. Se ne vedono continuamente alla televisione, su Internet, nelle cronache dei giornali: non fanno notizia. Ci sono i luoghi per morire e si muore sempre per una malattia. Niente di strano, quotidianità, banalità. La morte è un evento a cui non pensare. Si dimentica la propria, figuriamoci se si può essere colpiti dalla morte di altri. Ad ognuno il suo, viene da dire. È passato il tempo del destino, degli dei, del mistero. Viviamo la vita digitale e la morte la si conosce cliccando su Google. Non riguarda nemmeno più le religioni che devono farsi cantori della gioia non più del memento mori. Finalmente la morte è morta e questo annuncio andrebbe subito dopo quello di Nietzsche sulla morte degli dei. Esiste l'uomo, l'uomo di superficie, della forza, della vita, non l'uomo della interiorità con i problemi del senso e del significato di essere nel mondo. È tempo di empirismo e conta solo avere un corpo prestante e un po' di denaro e per questo servono il sole e buone amicizie, quelle giuste. La morale, il senso del peccato, il sentimento di colpa, sono temi della archeologia dell'uomo e si deve andare molto indietro a quando la morte provocava il lutto ed era preceduta dalla agonia. Quando non si doveva correre, ma si stava sotto un albero a perdere il tempo e pensare persino ai rimorsi, a come prodigarsi per le disgrazie del prossimo.
Il prossimo, un termine che nemmeno Google segnala più, dépassé. Occorre essere pragmatici soprattutto quando la vita diventa faticosa e stressante. Occorre dimenticare le tristezze, persino i debiti e vivere perché questo è il vero imperativo. Di disgrazie ci si occupa semmai facendo volontariato, ma lo si fa solo i giorni lavorativi e per due ore al giorno. Sufficit. Per questo «lasciamo che i morti seppelliscano i propri morti» e lasciamo ai vivi la soddisfazione di godersi una giornata di sole sul lungomare Caracciolo nella Napoli in cui per fortuna non ci sono più immondezze. Roba anche questa per l'inverno non per il tempo di vacanze.
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Saviano: perché Pecorella infanga don Peppe Diana?
di Roberto Saviano
MI è capitato nella vita di fare pochissimi giuramenti a me stesso. Uno di questi, che non riuscirei a tradire se non vergognandomi profondamente, è difendere la memoria di chi nella mia terra è morto per combattere i clan. Ho giurato a me stesso sulla tomba di Don Peppe Diana il giorno in cui alcuni cronisti locali, alcuni politici e diversa parte di quella che qualcuno chiama opinione pubblica iniziarono un lento e subdolo tentativo di delegittimarlo.
Il venticello classico di certe parti d'Italia che calunnia ogni cosa che la smaschera; il tentativo di salvare se stessi dalla scottante domanda "perché io non ho mai detto o fatto niente?". Ho letto in questi giorni sulla rivista Antimafia Duemila che due ragazzi, Dario Parazzoli e Alessandro Didoni, hanno chiesto durante una trasmissione Tv a Gaetano Pecorella come mai, quando era presidente della commissione giustizia, difendeva al contempo il boss casalese egemone in Spagna Nunzio De Falco, poi condannato come mandante dell'omicidio di Don Peppe Diana. Mi ha colpito e ferito sentire alcune dichiarazioni dell'Onorevole Pecorella in merito all'assassinio di Don Peppe Diana. In una intervista al giornalista Nello Trocchia per il sito Articolo 21, Pecorella dichiara: "Io dico che tra i moventi indicati, agli atti del processo, ce ne sono tra i più diversi. Nel processo qualcuno ha parlato di una vendetta per gelosia, altri hanno riferito che sarebbe stato ucciso perché si volevano deviare le indagini che erano in corso su un altro gruppo criminale. E altri hanno riferito anche il fatto che conservasse le armi del clan. Nessuno ha mai detto perché è avvenuto questo omicidio, visto che non c'erano precedenti per ricostruire i fatti. Se uno conosce le carte del processo, conosce che ci sono indicate da diverse fonti, diversi moventi".
Proprio leggendo le carte si evince chiaramente che non è così, Onorevole Pecorella. Perché dice questo? È vero esattamente il contrario. Dalle carte del processo emerge invece che è tutto chiaro. E pure la sentenza della Corte di Cassazione del 4 marzo 2004 conferma che don Peppe è stato ucciso per il suo impegno antimafia e per nessun'altra ragione. Che De Falco (di cui lei, Onorevole, ha assunto la difesa) ha ordinato l'uccisione di Don Peppe per dimostrare, uccidendo un nemico in tonaca, un nemico senza armi, che il suo gruppo era più forte e coraggioso di quello di Sandokan. E anche per deviare la pressione dello Stato proprio sul clan Schiavone. Quelli che lei definisce più volte "moventi indicati" furono, come dimostrano le sentenze, delle calunnie che alcuni camorristi portarono per lungo tempo in sede processuale per discolparsi. Calunnie nate dal fatto che persino loro cercavano di lavarsi le mani, in buona o cattiva fede, del sangue innocente che avevano versato. Ne avevano vergogna. Questo è quel che dicono gli iter conclusi della giustizia italiana. Ed è per questo che la risposta che l'Onorevole Pecorella ha dato appena qualche giorno fa alla domanda se Don Diana, a suo avviso, non fosse stato ucciso per il suo impegno contro i clan lascia basiti.
L'onorevole dice: "Io non ho avvisi. Io riporto quello che è emerso nel processo e nulla più. Ci sono diversi moventi, c'è anche quello, che all'inizio non era emerso, che faceva attività anticamorra. Per la verità nel processo non è venuto fuori molto chiaro neanche questo come movente. È inutile che costruiamo delle fantasie sulle ipotesi. Quella dell'impegno anticamorra è tra le ipotesi. Ma nel processo non è emerso in modo clamoroso, non è mai venuta fuori un'attività di trascinamento, di gente in piazza. Non è che c'erano state manifestazioni pubbliche, documenti. Qualcuno ha detto anche questa ragione. Come vede ci sono tanti moventi. Certamente è stato ucciso dalla camorra. Chi viene ucciso dalla camorra è una vittima della camorra. Ora se è un martire bisogna capirlo dal movente che non è stato chiarito".
È stato chiarito. Lo Stato Italiano considera Don Peppe un martire della battaglia antimafia, migliaia di persone hanno sfilato in sua difesa. E i documenti che non ci sarebbero, ci sono eccome. Hanno non solo un nome, ma anche un titolo: "Per amore del mio popolo non tacerò". È il documento stilato da Don Peppe insieme ad altri preti della forania di Casal di Principe in cui viene annunciata una battaglia pacifica, ma priva di compromessi alle logiche dei clan, al loro predominio, alla loro mentalità, alla loro cultura, alla loro falsa aderenza alla fede cristiana. Persino Papa Giovanni Paolo II, dopo la morte di Don Peppino Diana, pronunciò nell'Angelus: "Voglia il Signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro [...] produca frutti [..]di solidarietà e di pace". Per Giovanni Paolo non ci furono dubbi, fu un martire. Per Lei, Onorevole Pecorella, invece ce ne sono. Perché, mi chiedo?
Le chiedo inoltre se considera legittimo rivestire il ruolo di Presidente della Commissione Giustizia del Parlamento Italiano e portare avanti la difesa del boss Nunzio De Falco. Lei immagino mi risponderà di sì, che anche il peggiore dei presunti criminali, ne ha il diritto. Ma questo principio di garanzia vale soltanto fino al verdetto finale. Tale verdetto di colpevolezza del suo mandante è stato emesso e confermato. Quindi la prego di non diffondere falsi dubbi sulla condanna a morte di Don Diana. Chi ha ucciso Don Peppe Diana è uno dei clan più potenti e feroci d'Italia che ha ancora due latitanti, Iovine e Zagaria, liberi di investire, costruire, e portare avanti i loro affari.
Oggi, Onorevole Pecorella, lei è presidente della commissione d'inchiesta sui rifiuti, e i Casalesi, come saprà, sono i maggiori affaristi nel traffico di rifiuti tossici e legali. Loro quindi dovrebbero essere i suoi maggiori nemici anche se in passato ha difeso in sedi processuali i loro capi. La prego di avere rispetto per Don Peppe e non dare nuovamente credito a calunnie che negli anni passati killer e mandanti hanno cercato di riversare su una loro vittima innocente. Questa mia domanda non è questione di destra o di sinistra. La legalità è la premessa del dibattito politico, o almeno dovrebbe esserlo. La premessa e non il risultato. Quando iniziai a trascrivere delle parole che Don Peppe aveva detto nel Casertano ho ricevuto lettere commosse da molti lettori conservatori, da cattolici di Comunione e Liberazione sino ai ragazzi della Comunità di Sant'Egidio, dalla comunità ebraica romana e da tante altre.
La battaglia alle organizzazioni criminali, l'ho vista fare da persone di ogni estrazione politica e sociale. Ho visto, quando ero bambino, manifestazioni nei paesi assediati dalla camorra in cui sfilavano insieme militanti missini, democristiani, comunisti e repubblicani. L'onestà non ha colore, spesso così come non ne ha l'illegalità. Per questo, il mio non è un appello che possa essere ascritto a una parte politica. Non permetterò mai a nessuno, e come dicevo me lo sono giurato, che la memoria di Don Peppe sia oltraggiata da accuse false, demolite dai Tribunali, che ebbero il solo scopo di screditare le sue parole, emettendo nel silenzio il ronzio malefico "quello che dice non è vero". Questo non lo permetterò. Lei mi dirà che questa mia è una battaglia troppo personale. Io le ribadirei che, sì, lo è, è vero. Tutto ciò che riguarda la mia terra, ormai riguarda la mia vita stessa e quindi non può che essere personale. Difendere la memoria di Don Peppe Diana è una questione personale anche per un'altra ragione: è una questione di onore. Onore è una parola che spesso hanno abusivamente monopolizzato le cosche facendola diventare sinonimo del loro codice mafioso. Ma è il tempo di sottrarla alle loro grammatiche. Onore è il sentire violata la propria dignità umana dinanzi a un'ingiustizia grave, è il seguire dei comportamenti indipendentemente dai vantaggi e dagli svantaggi, è agire per difendere ciò che merita di essere difeso. E io l'onore, l'ho imparato qui a Sud. Per meglio spiegarmi, mi sovvengono le parole di Faulkner: "Tu non puoi capirlo dovresti esserci nato. In realtà essere del Sud è una cosa complessa. Comporta un'eredità di grandezza e di miseria, di conflitti interiori e di fatalità, è un privilegio e una maledizione. Vi è il senso aristocratico dell'onore e dell'orgoglio". Mi piacerebbe poter mettere una parola definitiva su questo. Su quanto accaduto a don Peppe. Permettere di farlo riposare in pace. Riposare in pace significa non chiamarlo in causa laddove non può difendersi. A volte, come accade a molti miei compaesani per cui conserva il suo valore, mi viene di rivolgermi a lui. Don Peppe se è vero che tu hai visto la fine della guerra, perché, come dice Platone, solo i morti hanno visto la fine della guerra, sta a noi vivi il compito di continuare a combatterla. E non ci daremo pace.
(Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency)
Sull'argomento si può anche vedere un approfondimento di RaiNews24.
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Le persone si riconoscono dagli occhi
Subito dopo il nostro sguardo si concentra sulla forma della bocca e subito dopo sul naso
Per riconoscere qualcuno a volte basta uno sguardo negli occhi. Ricercatori dell'Università di Barcellona hanno infatti scoperto che sono gli occhi la prima cosa che guardiamo in una faccia familiare, per riconoscerla in fretta e per carpire delle informazioni utili. Lo studio, pubblicato nella rivista Computational Biology, rivela che subito dopo gli occhi, il nostro sguardo si concentra sulla forma della bocca e subito dopo sul naso. «Sapevamo che al nostro cervello sono sufficienti delle piccole aree visive per riconoscere qualcuno ed ottenere le informazioni necessarie», ha spiegato Mathias Keil, ricercatore che ha partecipato allo studio. «Basta poco per visualizzare un immagine, e gli occhi sono la prima cosa che guardiamo in un'altra persona», ha detto. Utilizzando dei software visivi, i ricercatori hanno scoperto che gli occhi possono essere sufficienti per riconoscere un volto familiare, mentre non lo sono il naso e la bocca. Altri fattori, come l'età della persona, non sono presi in considerazione. «Se si fa la fotografia di un amico, ogni particolare può servire a riconoscerlo, ma è molto probabile che ci si concentri sugli occhi», ha detto Keil. «Sembra proprio che il nostro cervello si sia specializzato a riconoscere qualcuno in questo modo», ha concluso.
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I poveri in Italia ci sono eccome! La demagogia dell'autore dell'articolo sta nel chiamare in causa sempre tutti i parlamentari e mai chi - in questo momento e negli ultimi 15 anni - sta prendendo le decisioni.
Rapporto Istat
Allarmanti motivi per riflettere e cambiare marcia
di Gianfranco Marcelli
Sfidando l'accusa di scadere nella demagogia a buon mercato, osiamo consigliare ai 630 deputati di Montecitorio, da oggi ufficialmente in ferie per un mese e mezzo, di portarsi dietro un piccolo e istruttivo «compito per le vacanze»: l'esame delle 11 paginette diffuse ieri dall'Istat, con le statistiche sulla povertà in Italia nel 2008. Sacrificando poco più di mezz'ora del loro riposo, potranno farsi un'idea abbastanza precisa di quanto la crisi stia pesando sulle famiglie e, in generale, sulle fasce più deboli del Paese. E chissà che qualcuno di essi non decida di rimettere le mani sulla sua personale agenda delle emergenze d'autunno. Al loro posto non ce la sentiremmo, in effetti, di chiudere frettolosamente quella lettura e di passare oltre con una scrollata di spalle. (...) Perché si tratta pur sempre di otto milioni e più di italiani, racchiusi in 2 milioni e 737mila famiglie. (...) Accanto alla lettura consigliata, ci permettiamo inoltre di suggerire agli onorevoli parlamentari tre modeste considerazioni. La prima può perfino suonare banale: i dati in discussione si riferiscono al 2008 e tutto lascia ritenere che, a questo punto del 2009, qualche altra non trascurabile fetta di nostri connazionali sia andata a ingrossare le file dei più sfortunati. Allo stesso modo, non è pensabile che, di qui alla fine dell'anno, si possa determinare un'inversione di tendenza significativa, con flussi di popolazione in risalita sociale. Converrebbe dunque immaginare un qualche rimedio al più presto, senza aspettare l'indagine Istat dell'anno prossimo che certifichi la scontata evoluzione negativa del fenomeno. Secondo spunto di riflessione. (...) Ed emergerà a quel punto che i segnali di smottamento, nei dodici mesi scorsi, sono molto più preoccupanti nel Sud. Si sapeva ad esempio che in quest'area del Paese l'aliquota di poveri è ben oltre la media nazionale. (...) Che cos'altro serve, quali altre 'eloquenze' numeriche occorrono ai nostri governanti per dare finalmente una sterzata alle politiche di welfare, ricentrandole seriamente sulla famiglia e ponendo così le premesse, prima per il contenimento, poi per un recupero via via più consistente della stessa marginalità sociale?