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di Massimo Gramellini
Hanno destato scalpore le dichiarazioni rilasciate alle agenzie di stampa dalla moglie del leader democratico Franceschini. «Ho letto su un giornale che mio marito sarebbe stato visto domenica notte in una sala da tè, alla festa di compleanno di una ragazza di 100 anni, Rita Levi Montalcini. Che cosa ne penso? La cosa mi ha sorpreso molto, anche perché domenica notte Dario era sul divano di casa in ciabatte e divisa da boy scout, intento a sorbirsi il suo brodino di pollo e a guardare in tv la replica delle avventure di don Milani».
«Vorrei fosse chiaro che io e i miei figli siamo vittime e non complici di questa situazione. Dobbiamo subirla e ci fa soffrire. Sapesse quante volte gli chiediamo di cambiare canale, di girare non dico su "La Fattoria", ma almeno su Antonella Clerici o i puffi. Lui niente, sostiene che sono programmi osceni, ciarpame senza pudore a sostegno del divertimento dell'Imperatore. E intanto non molla il telecomando. Me lo lascia solo quando viene a trovarlo qualcuno dei suoi amici di sinistra: tutta gente malvestita e maleodorante, come ha giustamente rilevato il sig. Berlusconi, specie da quando si è ritirato Bertinotti, che era l'unico di loro a saper abbinare i calzini alle mozioni. È tale la puzza che, appena quei ceffi se ne vanno, mi tocca spalancare le finestre e chiamare D'Alema per fare un po' di corrente. Domenica ho aspettato che mio marito finisse di digerire il brodino e gli ho proposto un colpo di vita: andiamo a fare baldoria all'oratorio con don Mazzi e Nilla Pizzi? Non mi ha neanche risposto. Si era addormentato».
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è sempre l'incontro con un padre! Deo Gratias!
Come si spiega il fenomeno del drammatico voltare le spalle alla Chiesa in alcuni dei Paesi tradizionalmente «più cattolici»? L'ho chiesto una volta a un sacerdote in Olanda e la sua risposta mi ha fatto molto pensare. "Il prete - diceva - qui era tutto; decideva tutto, perfino nell'ambito del matrimonio e della famiglia. Quando i tempi e l'evoluzione della cultura hanno fatto cadere questa dipendenza, si è passati all'eccesso opposto di un totale rifiuto".
Credo che questo spieghi, almeno in parte, la crisi in cui sono caduti, uno dopo l'altro, paesi come l'Olanda, l'Irlanda e i Paesi Baschi che erano una volta la roccaforte del cattolicesimo. Il distacco dalla Chiesa è cominciato con il distacco dal clero. Per certi versi la Lombardia, in certe sue zone, fa parte di questi paesi di avanguardia dove la Chiesa cattolica è più forte, rispettata, ricca di vocazioni. Bisogna prevenire il fenomeno...
Faccio un piccolo esempio: il modo di gestire i locali e, più in generale, le risorse parrocchiali. La gente deve capire che il parroco non si considera il padrone, come se queste fossero cose sue che egli benevolmente presta o mette a disposizione di altri, ma che si considera semplice «custode dei miei [del Signore] atri» (Zc 3, 7), uno che vigila, certo, sul corretto uso dei beni della Chiesa e discerne, insieme con altri, sul loro migliore impiego, ma che fa sentire alla gente che è cosa di tutti».
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Autoscatti osè, nuova moda dei teenager
Polemica negli Usa per la diffusione del «Sexting»: le immagini scambiate con cellulari o diffuse via web
E' polemica in America sul «Sexting», un termine nuovo, la trasmissione on line, via cellulare ma non solo, dei propri nudi e seminudi. Da un sondaggio del 2008 risulta che un adolescente americano su cinque, maschi e femmine dai 13 ai 19 anni, si mostra a tutti in versione «nature» o discinta, talora ai limiti della pornografia. Lo scambio di queste foto, una forma di esibizionismo sessuale, è in aumento, tanto che le autorità si chiedono se e come fermarlo.
«E' un fenomeno molto preoccupante - ammonisce Bill Albert della Campagna di prevenzione delle gravidanze minorili - che dall'America si diffonde nel mondo. (...)». L'America si è divisa in due. Parte del pubblico crede che, con le sue immagini titillanti, il «Sexting» sia un rischio per la morale familiare; ma un'altra parte contesta il sondaggio del 2008, che a suo giudizio avrebbe «gonfiato» il fenomeno. David Finkelhor, un sociologo che si occupa di crimini contro i bambini, nota a esempio che il sondaggio fu condotto solo on line: «E' probabile che vi abbiano risposto gli esibizionisti, i cow boys e le cow girls dell'internet, sessualmente liberi, e non rifletta la condotta della massa».
La Teenage research unlimited di Chicago, che ha svolto il sondaggio, sostiene che sia attendibile. «E' vero che ci hanno risposto on line, ma i quasi 1.300 adolescenti da noi interpellati erano stati reclutati anche al telefono» ha dichiarato la portavoce Becky Wu. «Al telefono sono molto più reticenti - ha aggiunto - perché, soprattutto se in casa, i genitori o altri potrebbero sentirli. On line si lasciano andare. Teniamo anche conto che comunicano più su internet che in famiglia». Parlando delle teenagers, Becky Wu ha inoltre precisato che il «Sexting» è molto più comune tra quelle dai 16 ai 19 anni, il 22 per cento, che tra le più giovani, «più pudiche», l'11 per cento.
Per David Finkelhor, il punto più debole del sondaggio è la mancata distinzione tra nudi e seminudi: «Il topless femminile sui media è ormai una cosa normale - osserva -, le teenager si limitano a copiare». Ma per Bill Albert della Campagna di prevenzione delle gravidanze minorili, per quanto riguarda le ragazze, nudi e seminudi sono la stessa cosa: «Se scoprissero certe parti in pubblico, la polizia le fermerebbe. Il loro obbiettivo è di essere provocanti. Non a caso in Pennsylvania un procuratore ha minacciato di processare per pornografia una quindicenne e meno che non ritirasse la foto in cui appare seminuda». Il guaio, lamenta Jeanne Pascoe della Università di Berkeley, è che, reclamizzato dalla polemica, il «Sexting» prenderà sempre più piede. Cristo Sims, un suo ricercatore, ha riscontrato una impennata nelle trasmissioni di foto spinte ai computer e ai cellulari degli adolescenti: «Non mi sorprenderei se fossero davvero il 20 per cento o anche di più. E' un problema che bisognerà affrontare come quello più generale della regolamentazione di internet».
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Il Settimanale della diocesi pubblica tutti i conti finanziari relativi al titolare, monsignor Coletti. Che esorta i colleghi a fare altrettanto.
L'operazione trasparenza voluta da monsignor Coletti nelle ultime settimane a proposito dei guadagni del clero è stata compiuta con molta serietà. Al punto che chiunque, oggi, è in grado non soltanto di sapere quanto prenda di stipendio il vescovo, ma anche l'ammontare dei risparmi bancari e dei versamenti per il fondo supplementare previdenziale versati dal presule.
"Dopo quasi 44 anni di servizio - scrive monsignor Coletti sul numero del Settimanale pubblicato oggi - i miei risparmi non raggiungono i 40mila euro che considero sufficienti a coprire le spese del mio funerale e a fare qualche elemosina (segnalata con cura nel mio testamento). Ancora per qualche anno, fino al 2011, verserò poi “di tasca mia” una cifra di circa 4mila euro annui per costituire un fondo pensione integrativo, senza il quale finirei per dipendere dalla Diocesi - se sopravviverò a lungo dopo il 75esimo anno - in un modo che ritengo eccessivo. Come recita il contratto di tale fondo integrativo: “in caso di premorte la somma raggiunta sarà destinata all'erede designato”, che nel mio caso è la stessa Diocesi". Lunghissima vita al vescovo, augura un giornale locale, dopo aver letto le parole di monsignor Coletti. Anche per la schiettezza e la sincerità utilizzate per mettere in piazza i propri (piccolissimi) affari. Ma il punto forte della “confessione” del prelato riguarda lo stipendio, inferiore ai 1.800 euro lordi al mese.
"Come campa un vescovo italiano", si chiede lo stesso articolista del Settimanale. Semplice: campa con uno stipendio medio-basso, “arricchito” nel caso di Coletti da una mini-pensione cumulata negli ultimi anni dopo aver raggiunto l'età per il collocamento a riposo. "Posso parlare soltanto per me - scrive il successore di Maggiolini - ma questa è più o meno la condizione di tutti i miei fratelli vescovi. La mia remunerazione, che è calcolata su dodici mensilità (niente tredicesima, quindi, ndr), è costituita in media, con scarse oscillazioni in più o in meno, da 680 euro provenienti dall'Istituto Sostentamento Clero e da 651 euro provenienti dall'amministrazione diocesana. A questi si aggiungono da qualche mese 450 euro di pensione che viene sommata alla remunerazione perché fino a 75 anni, se Dio vuole, continuerò a lavorare". A conti fatti, il vescovo si mette in tasca tutti i mesi 1.781 euro lordi. Con i quali provvede a tutto ciò di cui ha bisogno.
"Mi viene offerto gratis l'alloggio e la spesa della bolletta energetica - spiega il capo della Diocesi lariana - così che, non avendo mogli e figli a carico, devo spendere soltanto per il vitto e il vestiario, stipendiare regolarmente la domestica e mantenere efficiente, assicurata e rifornita la macchina che mi porta in giro per la Diocesi sulla lunghezza di 20-30mila chilometri ogni anno". "Su questi soldi - aggiunge monsignor Coletti nel lungo articolo del Settimanale - pago regolarmente le tasse. Non ne ho merito, perché sono trattenute alla fonte. E sono contento che sia fatto". Ovviamente, un vescovo riceve dai fedeli offerte e donazioni. Monsignor Coletti non fa eccezione, ma spiega: "Ho preso da tempo l'abitudine di tenere conto di tutto ciò che mi viene offerto da singoli e da comunità come dono o ringraziamento per vari servizi, in modo da destinarlo a interventi di sostegno ad attività pastorali diocesane, ai poveri, alle missioni, alle vocazioni e al seminario".
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L'appello del cardinale Tettamanzi il Venerdì Santo: «Chi non ha da tempo un'abitazione dignitosa per sé e la propria famiglia, si sente umiliato nel vedere sorgere esclusive residenze e palazzi di lusso nei quali mai potrà abitare perché troppo costosi»
di Pino Nardi
«Milano ha bisogno di un segno molto forte sulla questione casa. Ma non mi sembra che il Comune sia nelle condizioni di poterlo dare: non ha la volontà, le possibilità e in questo momento non mi pare un soggetto sensibile su questo tema». Lo sostiene Gabriele Rabaiotti, ricercatore presso il Dipartimento di architettura e pianificazione al Politecnico e collaboratore con l'area politiche urbane dell'Istituto per la ricerca sociale. Da oltre un anno è l'ispiratore di quel progetto, sollecitato dai parroci milanesi, della creazione di un'agenzia che consenta di dare garanzie ai proprietari per affitti a prezzo calmierato. Un proposta ben vista dal cardinale Tettamanzi, che l'architetto rilancia come strada per sbloccare un mercato ingessato. Un tema, quello dell'emergenza-casa, rilanciato anche dall'Arcivescovo nell'omelia del Venerdì Santo. Il Cardinale ha sottolineato che una famiglia non riesce a sostenere un affitto e neanche un mutuo, perché i prezzi sono troppo alti. La soluzione è costruire più case, oppure fare in modo che vengano affittate o vendute quelle che già ci sono?
In Italia non c'è un problema di quantità, perché abbiamo 130 case ogni cento famiglie. Nelle città, c'è una media del 10% di sfitto, che non è poco. Quindi la questione è più redistributiva che non espansiva: cioè serve capire in quali modi riuscire a portare oggi il patrimonio non utilizzato verso l'uso socialmente più utile, piuttosto che non costruire nuove case. Abbiamo una città di case senza abitanti e abitanti senza una casa. Il mercato va avanti da anni a costruire e a lasciarle vuote.
Perché?
Perché la casa è un investimento, non è un bene d'uso. Per chi costruisce e chi compra è un investimento, alternativo all'andare in Borsa ad acquistare azioni. Ecco perché poi la casa resta vuota: siccome si ha un'aspettativa di remunerazione, non si affitta a costi contenuti.
Ma quando si tiene una casa sfitta non la si lascia “morire”?
Certo. Nei Paesi d'Europa l'affitto è mediamente al 40% rispetto al patrimonio immobiliare. Da noi è al 20% e sta continuamente diminuendo, perché noi ci appoggiamo alle rendite passive: compriamo e aspettiamo che il bene si valorizzi nel tempo. Se affittassimo, invece, avremmo già messo in tasca un terzo di quell'investimento. Il problema è anche culturale.
Quale contributo potrebbero dare il Comune e le altre istituzioni pubbliche?
Potrebbero sviluppare due linee, tentate in altre città. Il Comune di Torino, per fare in modo che venisse spostato il patrimonio inutilizzato o affittato a costi molto alti, si è introdotto in un mercato calmierato con un assegno di 1.500 euro (l'anticipo della cauzione per i primi sei mesi) dato ai proprietari che accettano affitti concordati a canoni contenuti. È un incentivo, ma a Milano questo non è accaduto. Inoltre nella metropoli lombarda dal 1999 non si aggiorna il canone concordato. Se non lo si fa, nessuno lo applicherà mai.
È troppo basso, insomma...
Esatto. I sindacati inquilini e i proprietari immobiliari sembra che non abbiano interesse ad aggiornare questo canone. I primi perché continuano così a sostenere che servono case popolari; i secondi perché hanno interesse a mantenere i contratti di affitto molto alti e se rendono praticabile il canone concordato è evidente che c'è anche un terzo mercato che sfugge al controllo delle rendite più speculative. Dunque, un interesse congiunto per bloccare la questione.
E l'altra linea di impegno?
Il secondo esempio è che il Comune di Milano ha messo a bando - chiuso qualche mese fa - otto aree pubbliche di sua proprietà destinate a standard e servizi e rese edificabili, a detta del Comune stesso, per massimizzare l'offerta di case in locazione a basso costo. Ebbene, se si guardano i risultati, hanno vinto imprese che hanno proposto meno case in affitto di altre. Allora forse serviva più a dare nuove aree ai costruttori tradizionali - una lobby molto forte a Milano - che non a sviluppare veramente il patrimonio in locazione a basso costo in una città che non ne ha.
I cattolici possono fare qualcosa?
Certo. Il patrimonio di mezzo è fatto anche delle tante case che chi frequenta le parrocchie è riuscito a realizzare, grazie a tempi più fortunati, magari per i propri figli, che però sono oggi in altre città a lavorare. Un patrimonio che resta sfitto o affittato sul mercato in forma speculativa. Un uso più sociale di questo investimento immobiliare, legittimo e giustificato, può però trovare un campo più utile e interessante per essere praticato. Allora perché non proporre di mettere queste case in locazione a costi contenuti?.
Come ha proposto il Cardinale nel Percorso pastorale...
Bisognerebbe realizzare un'iniziativa come il piano nuove chiese. Abbiamo costruito le chiese in periferia, ma lì ci sono anche le case. Serve un bel piano di comunicazione, un'uscita pubblica importante e l'agenzia ipotizzata diventa uno strumento per farlo. Abbiamo le possibilità per dare un segno forte a questa città. Ma bisogna avere più coraggio.
Casa popolare? Come vincere la "lotteria".
Bisogna costruire nuove case popolari a Milano? «Su questo le posizioni sono diverse. Ritengo che se non sviluppiamo l'offerta di mezzo tra quella pubblica (case popolari) e quella privata (il mercato), non usciamo da questa crisi - risponde Gabriele Rabaiotti -. La questione è riuscire a muovere le famiglie che vent'anni fa hanno avuto la casa popolare - perché c'è altra gente che ne ha più bisogno -, accedendo a un mercato calmierato in affitto a costi contenuti, ma non così bassi. Mediamente abbiamo una famiglia su quattro che non ha più i requisiti di reddito per restare in quelle case, ma nessuno le sposta anche perché non c'è l'alternativa. Dove le portiamo, sul mercato? Quindi restano lì e la casa viene ereditata dal figlio. Delle 60 mila case a Milano, tra patrimonio Aler e comunale, togliamo il 25% di chi non ha più diritto, abbiamo 12 mila alloggi che sono quelli che servono per le nuove domande che arrivano sistematicamente ogni sei mesi ai bandi. Ma la mobilità non esiste, perché non c'è un'offerta di case nuove in locazione a costi contenuti». E quindi? «Bisogna avere una visione delle politiche promozionale e non assistenziale. La casa popolare è per i primi 12 mila fortunati e non la prenderà più nessuno. È come vincere la lotteria. Questo non può funzionare, tenendo presente che non ci sono le risorse per farne altre 12 mila. Il Comune, attraverso leggi regionali, ha ripreso la vendita delle case popolari e si sa che ogni tre vendute ne farà una. Altro che costruirne di nuove, stiamo perdendo anche quelle che esistono».
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L'uomo si è incontrato con Te nel pane, ancor prima che Tu lo facessi per noi nel Pane di vita eterna. Tu celebrasti con lui sotto il sole un primo sponsale: lo volesti compagno nel campo prima che sull'altare. I miei contadini non s'accorgono, allorché seminano, zappano, mietono, delle invisibili braccia che hanno vicino e che lavorano senza tregua, prima e più di loro, anche quando essi dormono o son stanchi e malati.
Il pane eucaristico porta il segno di tutte le comunioni naturali, suggerisce tutte le riconoscenze, è compendio e memoria di tutti i doni».
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«Cercheremo di compensare la maggiore prudenza che dovremo esercitare in avvenire con un impegno più continuo ed efficace. Si sbagliano se pensano d'intimidirci. Dove si combatte per una causa giusta, non possiamo mancare... O, più umilmente, più in tono con la nostra piccolezza, cercheremo d'usare un po' meglio quella grande facoltà che spesso, purtroppo, ignoriamo; voglio dire la fantasia».
«La fantasia...
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Una cappella «laica», la sfida dell'ospedale
Alle Molinette una stanza del silenzio. Minacce alla vigilia dell'inaugurazione
La «Stanza del silenzio» (...) «È semplicemente una stanza che dà la possibilità a chiunque, anche a chi non crede, di ritrovarsi nello spirito», spiega Galanzino, sicuro che il progetto funzionerà, e senza intoppi. (...) La sua «stanza silenziosa», ricorda, «è stata realizzata con pochi soldi e con la disponibilità assoluta del cardinale Poletto». La diocesi ha messo a disposizione la cappella del vecchio ospedale dermatologico, quasi mai usata perché alle Molinette è in funzione una chiesa ben più grande. Ed è nella chiesa che hanno trovato posto la madonnina, i crocefissi e gli altri simboli cattolici spostati dall'ormai ex cappella per far posto a pareti con diverse sfumature di azzurro, colore scelto con un sondaggio fra i rappresentanti delle diverse religioni. Scartati all'unanimità il giallo, l'arancio e il rosso, escluso l'affresco dei muri con scene panoramiche («cose che non favoriscono la meditazione»), vietati i simboli di ogni confessione perché nessuna possa prevalere sulle altre. Accesso consentito a tutti, degenti, parenti, amici, personale ospedaliero. Unica concessione ai simboli: i libri sacri dei vari culti, a disposizione in un armadietto all'ingresso della sala. Accanto ai libri anche un registro per scrivere impressioni e suggerimenti, «un modo
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Istat: «Otto milioni e mezzo gli italiani a rischio alcol»
Ed è allarme giovani: oltre il 17% degli under 15 ha consumato almeno una bevanda alcolica nel 2008
Consumi giornalieri non moderati, «binge drinking» (più di sei bevande alcoliche in un'unica occasione), bevute fuori pasto. Sono quasi otto milioni e mezzo gli italiani a rischio alcol, che bevono più di tre unità alcoliche al giorno (per gli uomini) e più di due (per le donne), secondo il rapporto Istat 2008 su Uso e abuso di Alcol in Italia. Ed è allarme giovani: oltre il 17% degli under 15 ha consumato almeno una bevanda alcolica nel 2008, in particolare il 19,7% dei maschi e il 15,3 delle femmine, mentre già a partire dai 18-19enni i valori di consumo sono prossimi alla media della popolazione, cioè il 74,7% dei maschi e il 58% delle donne.
Per valutare in generale il grado di rischio connesso all'assunzione di bevande alcoliche, oltre a prendere in considerazione il consumo giornaliero non moderatoepisodi di ubriacatura concentrati in singole occasioni (binge drinking), che comportano comunque un assunzione di quantità eccessive di alcol. Nel 2008 gli italiani con almeno un comportamento a rischio (consumo giornaliero non moderato o binge drinking) sono 8 milioni e 449 mila, di cui 6 milioni e 531 mila maschi (25,5%), mentre le femmine sono 1 milione 910 mila persone (7%). Se nell'indicatore di rischio si comprende anche l'assunzione di alcolici fuori pasto una o più volte la settimana il numero di persone con almeno un comportamento a rischio salirebbe a 9 milioni e 868 mila, pari al 18,6% della popolazione di 11 anni e più. Di questi 906 mila in età 18-24 anni, 658 mila minori e 3 milioni e 103 mila anziani.
Le differenze maggiori tra i due indicatori si concentrerebbero maggiormente tra i giovani e gli adulti. Le fasce di popolazione in cui i comportamenti a rischio sono più diffusi sono: gli anziani di 65 anni e più (il 46% degli uomini contro l'11,2% delle donne), per un totale di 3 milioni 37 mila ; i giovani di 18-24 anni (il 23,7% dei maschi e 6,8% delle femmine), per un totale di 643 mila; i minori di 11-17 anni (il 18,2% dei maschi e il 12,2% delle femmine), pari a 635 mila persone. Il modello di consumo degli anziani, si legge nel rapporto Istat, è di tipo essenzialmente tradizionale, caratterizzato cioè dal bere vino durante i pasti. Per questo motivo, in queste fasce di popolazione il tipo di comportamento a rischio prevalente è pressoché coincidente con un consumo giornaliero non moderato (45% degli uomini e 10,6% delle donne), soprattutto durante il pasto (64,6% degli uomini e 84,1% delle donne).
I giovani di 18-24 anni rappresentano il segmento di popolazione, dopo gli anziani, in cui la diffusione di comportamenti a rischio è più alta. In particolare il modello di consumo dei giovani vede un elevato peso del binge drinking (22,1% dei maschi e 6,5% delle femmine), che rappresenta la quasi totalità del rischio complessivo. L'OMS raccomanda la totale astensione dal consumo di alcol fino ai 15 anni. Per questo motivo, per i minori di 11-15 anni viene considerato come comportamento a rischio già il consumo di una sola bevanda alcolica durante l'anno. In quest'ottica, le quote di popolazione a rischio sono molto rilevanti e con differenze di genere meno evidenti che nel resto della popolazione: 19,7% dei maschi e 15,3% delle femmine. Anche tra i ragazzi di 16-17 anni il quadro della diffusione di comportamenti di consumo a rischio è piuttosto critico: 14,9% dei ragazzi e 6,8% delle ragazze ne dichiara almeno uno. Inoltre, già a questa età il binge drinking raggiunge livelli prossimi a quelli medi della popolazione: rispettivamente 10,6% per i maschi e 3,9% per le ragazze. L'abitudine al consumo non moderato di bevande alcoliche da parte dei genitori, inoltre, sembra influenzare il comportamento dei figli. Infatti, è potenzialmente a rischio il 22,7% dei ragazzi di 11-17 anni che vivono in famiglie dove almeno un genitore adotta comportamenti a rischio nel consumo di bevande alcoliche. Tale quota, invece, scende al 15% tra i giovani che vivono con genitori che non bevono o che comunque bevono in maniera moderata.
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Diverse voci del mondo cristiano si levano scandalizzate quando la Festa religiosa del Natale, Nascita di Cristo, è stravolta, facendola diventare "festa della bontà", "giorno delle dolcezze", "zucchero filato degli affetti pseudo-familiari", "segno della pace", "bambolotto per carezze", "gran vetrina degli acquisti", "nascita di Babbo Natale", ecc. ecc. Orbene, ci siamo lasciati fregare il copyright della data, così come anticamente l'abbiamo soppiantata alla festa del dio Sole.
Ora accade lo stesso per il 25 aprile: da Festa della Liberazione vogliono trasformarla in festa di tutto, affinché ciò che è stato il suo specifico sia sommerso, annacquato, annegato dal resto. Io non lo farei.
Come per la memoria della Nascita di Cristo, preferirei che fosse tolta dal calendario civile e che la "cultura" festeggi "altro" (che non è poi lontano da Cristo, ma è "altro", diverso dalla sua persona), se lo ritiene utile, con l'appoggio simpatico dei credenti in Cristo per quel tanto che lo ritengono degno dell'uomo.
Lo stesso faccia il popolo italiano: se - con saggezza e discernimento (se ne troveranno ancora?!) vorrà far memoria di "altro", lo faccia in altra data, ma tenga giù le mani dagli eventi che, insieme ad altri, fondarono la nostra democrazia.
don Chisciotte
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![](/images/DNN/09_04/G8_Aquila_risparmio.jpg)
se il risparmio è di "soli" 220 milioni di euro,
a quanto ammonta la spesa complessiva
per un vertice del G8?!
Ma ne vale veramente la pena?!
don Chisciotte
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I piccoli di tre anni mettono da parte le indicazioni per riassociarle poi alle esperienze dirette. Nulla di ciò che diciamo viene perso ma immagazzinato e utilizzato in un secondo momento
di Sara Ficocelli
Provare per credere: tutte le volte che si dice a un bambino molto piccolo di fare o non fare una cosa, lui (o lei) fa il contrario. La scienza ha però una buona notizia da dare ai genitori dei piccoli testardi. In realtà le vostre parole non passano da un orecchio all'altro senza lasciare traccia, ma vengono "messe da parte" per il futuro. Questa la conclusione cui è giunto uno studio condotto dall'università del Colorado. (...)
Per condurre la ricerca lo psicologo Munakata e colleghi hanno utilizzato un videogioco per l'infanzia e una tecnica conosciuta con il nome di "pupillometria", che misura il diametro della pupilla per determinare lo sforzo cerebrale. (...) "Probabilmente - spiega lo psicologo Maurizio Brasini - si tratta di differenze quantitative che si trasformano in differenze qualitative. Differenze che riguardano la maturazione del sistema nervoso centrale e in particolare della corteccia prefrontale, preposta alla pianificazione delle azioni. Ma anche differenze che riguardano la quantità di esperienze registrate in memoria, e le modalità di accesso ad esse".
La misurazione con il pupillometro ha poi dimostrato che i bambini di 3 anni non riuscivano né a concentrarsi sul futuro né a vivere completamente il presente. Richiamavano però alle mente il passato tutte le volte che il cervello ne aveva bisogno. Il dottor Chatham spiega questo meccanismo con un esempio molto chiaro: "Prendiamo il caso che fuori faccia freddo e tu dica a un bambino molto piccolo di andare a prendere la giacca nella sua camera e preparasi per uscire. A quel punto ti aspetti che egli rifletta sulla situazione e in un certo senso pianifichi il futuro, facendo la cosa più conveniente. Ma non è questo ciò che accade nel suo cervello. Piuttosto, è più facile che corra fuori, si renda conto personalmente di quanto fa freddo e solo a quel punto rientri in casa e ripensi alle parole che voi gli avete detto poco prima, andando a prendere la giacca esattamente dove gli avevate detto voi".
In pratica, nulla di ciò che dicono i genitori si perde, ma tutto viene immagazzinato e riutilizzato dai bambini in un secondo momento, associando le indicazioni ricevute all'esperienza diretta. La scoperta, che uscirà sul prossimo numero della rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, secondo gli studiosi potrebbe aiutare psicologi e pediatri a sviluppare terapie di sostengo a bambini in difficoltà e percorsi educativi modellati in base alle diverse fasi di crescita.
"E' completamente sbagliato pretendere che un bambino ci ascolti semplicemente ripetendo una, due, tre volte lo stesso comando - conclude Munakata - Sarebbe semmai più efficace provare a scatenare in loro una reazione. La cosa migliore è fare in modo che le azioni che vengono chieste non richiedano uno sforzo mentale particolare, ma un confronto pratico con la realtà". Secondo lo psicologo bisogna insomma dire una frase del tipo "So che non vuoi prendere e indossare il tuo cappotto adesso, ma quando tra cinque minuti avrai freddo, ricordati che potrai trovarlo nella tua cameretta". Cinque minuti senza cappotto, specialmente in certe serate d'inverno, possono scatenare un raffreddore. Ma il cammino verso la crescita vale almeno qualche starnuto.
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Come al solito, in caso di emergenza in qualche modo i miliardi si trovano.
A volte tagliando spese superflue, a volte portando via dove già c'è poco.
Ma si trovano. Ne sono felice.
Anche per il concertone si sono trovate...
Però... - sarò senz'altro semplificante - mi domando:
perché non si sono trovati dei miliardi (non le briciole)
- perché la scuola pubblica abbia insegnanti e strutture
per salvaguardare il nostro maggiore patrimonio, l'educazione, i figli, il futuro?
- perché chi combatte le mafie (che bloccano una parte considerevole del Paese) abbia uomini e mezzi?
- perché chi promuove cultura, solidarietà, socializzazione, sia riconosciuto e sostenuto?
- perché chi non ha la casa abbia l'opportunità di un'edilizia popolare qualificata?
- perché...
Perché le macerie di un sisma del terreno si vedono
e quelle degli animi e di una società non si vedono?
don Chisciotte
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di Walter Barberis
E' ormai frequente, in occasione di anniversari che riconducano a momenti critici e controversi della nostra storia nazionale, sentire il richiamo a una memoria condivisa. Sembrano confondersi, tuttavia, in questo invito istanze diverse, sulle quali vale la pena riflettere. E in primo luogo per una questione assai semplice: che il termine memoria è ambiguo per definizione. Connota il giusto intento di trasmettere alle generazioni più giovani il patrimonio di esperienza di coloro che le hanno precedute. E, generalmente, indica l'esigenza di tenere viva la lezione che si presume ci abbiano lasciato avvenimenti tragici che hanno lacerato la nostra società. Ma la memoria è soggettiva, individuale, e per di più incline a deteriorarsi, a perdersi, a peggiorare. La memoria è il risultato di sguardi particolari, che non possono essere modificati. Certo, si può affermare che esperienze comuni abbiano sedimentato una memoria collettiva. È vero. Ma sarà comunque impossibile conciliare, rendere omogenee, memorie legate a esperienze diverse, derivate da punti di vista e da adesioni personali o di gruppo totalmente differenti. Perché un partigiano dell'Ossola o della Langa dovrebbe rimodellare il suo ricordo per accordarlo con un reduce della Monterosa o della X Mas che gli fu nemico in quei mesi di scontri mortali fra il '43 e il '45? O viceversa. E quale memoria potrebbero condividere un italiano del Sud e uno del Nord rispetto a quegli avvenimenti?
Si deve intendere il termine memoria come metafora di qualcos'altro. Ovvero come il terreno su cui far germogliare un processo di riconciliazione nazionale, cioè quell'accordo fra visuali diverse e distanti che permetterebbe di mettere alle spalle il passato: con la concessione ai «vinti» di qualche risarcimento morale e di un conseguente restauro di immagine, e con la richiesta ai «vincitori» di una qualche forma di abiura e di cessione valoriale. Si potrebbe discutere sull'opportunità di una simile operazione; il fatto è che con tutta evidenza non funziona. Perché ogni guerra civile, dalla Rivoluzione Francese in avanti, ha sempre lasciato dietro di sé una scia di recriminazioni, di rese dei conti, di riscritture degli avvenimenti e una molteplicità di memorie differenti e antagoniste. Esattamente com'è successo in Italia.
La questione è ancora attuale, ma nasce nel profondo della nostra civiltà, quando la guerra del Peloponneso scosse la Grecia del V secolo a.C. Perché era successo - si chiesero i contemporanei - che Greci avessero combattuto altri Greci? Tucidide, sulle orme di Erodoto, mise a punto una procedura che pareva soddisfare quella richiesta di spiegazioni: si doveva fare un'inchiesta, to historein, cioè fare storia. Si doveva procedere a una ricostruzione degli avvenimenti capace di rispondere onestamente alle domande di verità; fornire un'interpretazione sorretta da prove certe. Allo stesso modo di un'indagine giudiziaria, o medica. È ancora questo di cui ha bisogno una qualunque comunità: una buona storia, non manipolata a scopi propagandistici, non piegata dallo spirito di parte.
La storia italiana è tutta segnata da elementi di frattura e dagli scontri di fazione. Non a caso il Foscolo, esordiva sulla cattedra di eloquenza all'università di Pavia, nel 1809, con queste parole: «O Italiani, io vi esorto alle storie, poiché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare». E aggiungeva, come rimedio: «Amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra nazione, e potrete alfine conoscervi fra di voi, ed assumere il coraggio della concordia». Parrebbero parole sensate anche oggi: condividere buoni studi e un'onesta ricostruzione dei fatti potrebbe corroborare la riconciliazione nazionale, dare prospettiva al Paese senza patteggiamenti pelosi su come ricordare il nostro passato.
Sappiamo bene che la Resistenza non ha accomunato gli italiani; è stata un'esperienza di pochi, geograficamente limitata; nonostante la vulgata comunista, non è stata solo una guerra di liberazione dallo straniero tedesco, ma anche e talvolta prevalentemente una guerra civile; non ha visto protagonisti soltanto partigiani comunisti, ma una pluralità di soggetti culturali e politici. E come tutte le guerre civili, ha trascinato dietro di sé uno sciame di vendette, di storie private confuse a storie pubbliche. Ma ha avuto un senso preciso e un ruolo decisivo nella vita nazionale. Ed è di questo che oggi devono ragionare gli italiani, ben oltre le loro memorie personali o familiari; e di là da ogni bisogno di partito. L'Italia che guarda al futuro ha bisogno di una storia condivisa.
Non furono sagge le parole di De Gaulle, quando in omaggio a un impettito nazionalismo, per evitare alla Francia un serio esame di coscienza sul suo passato collaborazionista, nel 1969 disse: «Il nostro Paese non ha bisogno di verità. Ciò che gli occorre è la speranza, un po' di coesione, uno scopo». Suonano stonati gli echi di quelle parole, quando si è alle prese in Francia come altrove con atteggiamenti razzisti e rigurgiti antisemiti. Abbiamo viceversa un gran bisogno di verità, cioè di una storia plausibile, rigorosa nei suoi metodi di ricerca. E abbiamo bisogno della sua morale. Che in questo caso è assai semplice e può essere tranquillamente condivisa: nella storia mondiale del Novecento, ma si potrebbe dire sempre, la democrazia, per quanto imperfetta, si è rivelata il sistema politico migliore. Chi ha combattuto per la democrazia merita rispetto e gratitudine. Chi ha combattuto per regimi totalitari, in Italia come in Ungheria, in Argentina come in Cambogia, merita una riflessione, talvolta comprensione, ma non una postuma assoluzione.
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Il Vangelo della Liturgia di oggi:
"Rinascere" è una necessità.
"Rinascere" è un dovere.
Ci viene offerta la possibilità,
ne sentiamo il bisogno,
ci viene richiesto un impegno
perché dall'Alto, dal Capo, daccapo,
ri-nasca ognuno di noi che ha ricevuto il battesimo da neonato,
ri-nasca la Chiesa.
don Chisciotte
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Su 2 milioni, 1,7 ne ricavano reddito e per oltre 400.000 è il primo lavoro
Professione blogger, l'anno del boom: guadagnare con un post online
NY - Professione blogger. Che negli ultimi due-tre anni ci fosse stato il boom era risaputo, ma che in America la categoria di chi si guadagna da vivere "postando" online fosse più numerosa dei programmatori di computer, dei pompieri o dei baristi (tanto per citare molto diversi tra loro) e alla pari con gli avvocati - anche se questi ultimi guadagnano sicuramente di più - nessuno lo immaginava. Lo ha scoperto il Wall Street Journal che in un articolo (sul sito online) - mettendo insieme gli studi, le analisi e le statistiche disponibili - è arrivato al sorprendente risultato. Tra gli oltre 20 milioni di blogger presi in esame in America (tutti quelli che lo fanno per passione, per informare, per gioco o per qualsiasi altro motivo) ce ne sono 1,7 milioni che ci guadagnano sopra. E per 452mila di costoro quei soldi sono la prima fonte di stipendio.
"Siamo diventati la nazione più noisily ostinated (traducendo alla lettera "rumorosamente ostinata nelle opinioni") sulla faccia della terra", ironizza il Wsj. Arrivando ad ipotizzare che nella "Information Age", l'era dell'informazione, che ha prodotto così tante nuove professioni, il blogging potrebbe essere quella che avrà il maggiore impatto e le maggiori conseguenze "sulla nostra cultura". Se i giornalisti erano "il quarto potere, i blogger stanno diventando il quinto".
Un'attività iniziata come "forum di discussione" sulla politica e le nuove tecnologie si è allargata rapidamente a tutti i campi immaginabili della vita, "dalla maternità alla sanità, dalle arti alla moda, fino alla odontoiatria". Quello che era iniziato "come un hobby o uno sbocco per volontari" sta diventando un "big business" per i nuovi siti emergenti, per le società che da questi vengono giudicate e per tutti coloro che lavorano "in questa nuova industria".
Viene anche fornito l'identikit del blogger. Molto istruiti (tre quarti sono laureati in un college), la maggioranza bianchi che guadagnano sopra la media. Un giovane americano su tre fa il "blogger" (nel senso più esteso) e tra questi chi ci guadagna per vivere è il due per cento. In che modo? Secondo i calcoli del Wsj con centomila visitatori unici al mese un sito può guadagnare 75mila dollari all'anno. Per un buon "post" i blogger possono prendere da 75 a 200 dollari, qualcuno può fare addirittura lo 'spokeblogger', pagato dai pubblicitari per "bloggare" un prodotto.
Considerato che è un lavoro che non prevede spese di trasporti, che ha costi iniziali bassi (ma un orario tra le 50 e le 60 ore settimanali) è naturale che attiri tantissimi giovani. I professionisti, quelli che sono assunti e lavorano per una società, sono pagati tra i 45mila e i 90mila dollari l'anno, una piccola percentuale raggiunge anche i 200mila.
Mentre il numero dei blogger cresce, il numero dei professionisti dell'informazione tradizionale diminuisce significativamente. Solo a Washington - la città più "blogged" d'America e forse del mondo - rispetto a pochi anni fa è diminuito del 79 per cento il numero dei giornalisti che lavorano nei tradizionali giornali di carta. Del resto i siti online al top della graduatoria già oggi hanno introiti considerevoli e a un certo punto "non ci sono dubbi che l'Huffington Post varrà più del Washington Post".
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Volete misurare la prontezza dei vostri riflessi?!
Provate a fermare le velocissime pecore di questo giochino!!
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I cori razzisti a Balotelli una vergogna nazionale.
Occorre cambiare le regole al più presto e dare più armi agli arbitri, inasprire le sanzioni economiche e sportive
di Gianni Mura
Tutto nel segno di Balotelli. Anche grazie a un suo gol si chiude il discorso al vertice del campionato, ma il tifo razzista contro di lui a Torino apre un nuovo capitolo. "Se fossi stato allo stadio avrei ritirato la squadra" ha detto Moratti. Nel pomeriggio di ieri le scuse di Cobolli Gigli. E intanto il calcio italiano si scopre brutto in campo, ottuso e violento intorno al campo, lontano dall'Europa. Non è una bella fotografia, ma fotografa la realtà. E sottovalutarla, far finta di nulla non conviene a nessuno. Altre considerazioni.
1. Peccato che Moratti non fosse a Torino e quindi non potesse ritirare la squadra. Un segnale forte sarebbe servito. Così, si prende atto che l'arbitro, in sintonia col delegato all'ordine pubblico, può sospendere la partita per uno striscione razzista non rimosso, ma per cori razzisti no. Per un bengala , un petardo sì. Per cori razzisti no. L'arbitro può segnalare i cori nel suo referto. In genere scatta una multa (cifre ridicole, poco più d'un buffetto sulla guancia).
2. Il razzismo negli stadi non è un male solo nostro, è diffuso in Europa, e per l'Uefa e per Platini che la dirige questa è una battaglia da vincere. Occorre cambiare le regole al più presto e dare più armi agli arbitri (che palesano spesso improvvise sordità). Occorre inasprire le sanzioni, da quelle economiche (che si possono destinare a campagne d'educazione) a quelle sportive. Inasprire significa non aver paura di stangare: in caso di recidiva, passare dalla chiusura dello stadio alla partita persa alla penalizzazione in punti all'esclusione dalle coppe europee. (...)
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"Spegnete la tv per sette giorni": da Londra dilaga la protesta
Staccare la spina per sette giorni. E magari, se il risultato è incoraggiante, non riattaccarla più. E' l'obiettivo della "Tv Turnoff Week", la settimana della televisione spenta, una campagna ideata in Gran Bretagna e ripresa da numerosi altri paesi per provare a vivere senza tivù. Comincia oggi e finirà domenica, senza illudersi di poter realizzare una simile rivoluzione: ma i sostenitori dell'iniziativa aumentano e i suoi promotori sperano che come minimo serva a rendere la gente più consapevole, spingendo quelli che la televisione intendono tenerla accesa a guardarla un po' di meno. "Get out of the box", letteralmente "uscite dalla scatola", del video s'intende, è lo slogan stampato in migliaia di poster appesi nelle strade di Londra e di altre città inglesi. Fate un esperimento, dicono gli organizzatori: invece di guardare la tivù, stasera invitate i vostri vicini a fare due chiacchiere. I benefici, assicurano, saranno istantanei.
La settimana della tivù spenta è un'invenzione di David Burke, un americano di 44 anni trapiantato da decenni in Inghilterra. Tutto cominciò quando un amico gli mise in mano una newsletter anti-televisione: Burke lo lesse, si mise alla prova e da allora è il più ostinato combattente sul fronte della lotta al video. "Dal giorno in cui ho smesso di guardare la tv", racconta, "ho cominciato a vedere la società contemporanea occidentale con altri occhi. Di colpo mi sono reso conto dell'assurdità di entrare in una stanza in cui nessuno parla perché tutti sono ipnotizzati da uno schermo luminoso". (...)
Del resto studi e cifre sugli effetti dannosi della tivù, o meglio del guardarla troppo, si moltiplicano. Una ricerca della British Psychological Society afferma che guardare la televisione fa male alla salute, e una dell'associazione americana pediatri è giunta a simili conclusioni. (...)
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di Giovanni Bianconi
Il «caso Pinar» ha trovato una soluzione, grazie alla scelta umanitaria dell'Italia di far attraccare la nave in un porto siciliano. Prima ancora della disputa con Malta - diplomatica e non solo, par di capire - c'era da risolvere l'emergenza di 140 vite «clandestine» in pericolo. Emergenza di carattere politico, oltre che umanitario. Perché è politica scegliere di anteporre le ragioni della solidarietà a quelle delle competenze sulle acque di nessuno dove chi cerca un approdo rischia l'abbandono.
Alla fine ha prevalso la volontà di tendere una mano a quei migranti in cerca di futuro, e quando avranno toccato terra ci sarà il tempo per riprendere le discussioni tra governi e ambasciatori su chi aveva il dovere di intervenire. Una volontà che magari poteva affiorare prima, senza arrivare alle condizioni - allarmanti, tragiche o disperate, a seconda delle diverse fonti - in cui versavano i profughi raccolti dalla nave turca. E senza l'immagine un po' imbarazzante di ministri che si rimbalzavano le responsabilità tra Roma e La Valletta, mentre quei corpi ammassati in coperta aspettavano in mezzo al mare.
Di questi tempi le politiche dell'immigrazione sono complicate, ma puntare i piedi davanti a uomini, donne e bambini che chiedono aiuto non è un bello spettacolo. Meglio cercare soluzioni e accordi prima che si verifichino situazioni come quelle della Pinar, e se al dunque si rivelano inadeguati prima si affronti l'emergenza e poi si torni a discutere di competenze e acque territoriali. Solo con le vite messe in salvo, però, anche se sono «clandestine».
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Giuro che non ho letto nel pensiero del ministro
quando sabato ho scritto il mio post sulla crisi!
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di Massimo Gramellini
Diario mediatico di un giorno di crisi. Apro il giornale e leggo di una donna inglese con la voce d'angelo e la faccia da rospo che a cinquant'anni emerge dal cono d'ombra in cui l'aspetto fisico l'aveva reclusa e diventa una stella della tv. Sulla copertina di una rivista spunta il volto da geroglifico di Rita Levi Montalcini, immortalata alla vigilia dei suoi primi cento anni. Su un'altra resistono la Bellucci e la Herzigova, però fotografate senza trucco: sempre belle, non più irraggiungibili. In televisione la rivelazione sanremese Arisa gioca con la sua goffaggine, mentre scorre la pubblicità di un uomo di 102 anni che affida a una pronipote in fasce la nuova parola d'ordine: non più «ricchezza», «benessere» e neppure «ottimismo», ma «felicità».
Potrei andare avanti: la vecchiaia e la bruttezza non avevano mai goduto di tanta fortuna. E fa un certo effetto ritrovarle esaltate proprio in quelle cattedrali della visibilità che negli ultimi decenni avevano imposto l'eterna bellezza e l'eterna giovinezza come valori assoluti, ma così assoluti che per ottenerli si era disposti a sacrificare anche l'intelligenza sull'altare dell'eterna idiozia. Poiché il sistema della comunicazione non ha mutato missione sociale - vendere - si deve parlare di un cambio di strategia. La sostanza ricomincia a prevalere sull'apparenza. Qualcuno ne darà il merito alla crisi che sforbicia l'effimero e si concentra su ciò che è essenziale: la saggezza, il talento, la sobrietà. Per ora sembrano i postumi di una sbornia. Speriamo di non risvegliarci con il mal di testa.
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Se per una foto si chiede di ripetere la cresima...
di mons. Mario Delpini
Avvenire - Milano 7 - 12 ottobre 2008
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che - come è logico che sia - aveva investito anche l'Italia,
checché ne dica qualche ammaliatore.
Adesso non c'è più.
Il terremoto in Abruzzo ha abbattuto anche la crisi mondiale.
Dopo lo spettacolo della distruzione e delle morti,
ora si parla solo di progetti, di rinascite, di futuro.
Potenza della "comunicazione",
parola che finisce come "risurrezione",
ma non è proprio la stessa cosa!!
don Chisciotte
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Tutto si può riciclare, anche i 200 Kg di escrementi che un elefante medio produce in un giorno medio. Dopotutto la carta è fibra vegetale, la cacca di elefante anche. Perché non approfittarne?
Un progetto di Vagamondi prevede di ritirare con un furgoncino la produzione di alcuni elefanti e di portare il raccolto in cartiera, dove, con l'aggiunta di solo il 20% di carta (riciclata) il tutto viene lavorato per produrre nuova carta.
Il progetto si chiama Maximus, dal nome scientifico dell'Elefante dello Sri Lanka: Elephus Maximus Maximus e mira a trasformare l'elefante da disastro per l'agricoltura da abbattere il prima possibile a risorsa economica sostenibile.
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di Mara Accentura
Ci ritroviamo a condividere le vite degli altri, anche quelle di chi non abbiamo mai visto. Ma di commento in commento ognuno lascia impronte indelebili sul web. E allora? Sarà impossibile perdersi di vista. E sempre più difficile sfuggire al proprio passato.
Ora che Facebook ha appena superato i cinque anni e 150 milioni di membri la cosa più cool è mollare. O almeno fare finta, non senza averne detto di tutti i colori, possibilmente in pubblico, sulla stampa o sui blog. Ma sì, dicono alcuni, che palle questo facebook, perché farsi regolare la propria vita sociale da un gruppo di supergeek californiani? E poi chissenefrega del vecchio compagno di scuola - perso di vista per ragioni tuttora valide - che ti manda la foto di classe, lo scrittore sfigato che ti invita a un pallosissimo reading, la vicina di casa che nemmeno saluti per strada che ti avvisa che ha preso l'australiana... «È la dimostrazione di come esista la libertà di pensiero senza il pensiero. La vera rivoluzione sarebbe far pagare gli utenti un tanto a parola», dice Gian Paolo Serino. «È un'arma impropria in mano ai nevrotici... e lo siamo più o meno tutti», dice Susi Brescia. «È troppo facile il contatto. Per essere amici ci vuole più impegno». «Spesso sento dire “ci vediamo su facebook”», riprende Serino. «Il che lascia interdetti. La vita vera è altrove». Ma altrove dove? Il web mescola sempre di più le categorie del reale e del virtuale. «Per me fb è un bar dove ogni tanto passo per un caffè o l'aperitivo», dice Marta Bertolini. «Buongiorno, come va, due battute con gli altri avventori, poi con qualcuno ci si mette a parlare e si esce pure. Il bar è organizzato e ha anche una bacheca annunci». «Ho reincontrato davvero la mia compagna di banco dopo 28 anni, grazie a fb», racconta Lidia Guarino. «I profili degli amici? Delle sliding door: vedere le altre nostre vite possibili». Allora? «Siamo spalmati tutti sulla rete», osserva un amico fb che vuole rimanere anonimo. «E passare da leggere il Guardian online a un sito di una galleria fotografica di L.A. mentre si chatta e si caricano foto di un weekend passato a Berlino è un attimo: si vive di link in link». E a chi dice che gli amici veri sono diversi da quelli di fb, risponde: «Splinder, MySpace, facebook... Oggi le storie nascono anche sul web. Rapporti veri. Resta ben poco di virtuale quando due si incontrano sul serio». Per conto mio potrei nominare più di un amico “vero” che in un momento particolarmente difficile della vita si è rivelato un pallido avatar.
Facebook ha rimescolato le generazioni. «Quando, la scorsa primavera, ho ricevuto per e-mail l'invito a iscrivermi sono scoppiata a ridere. Era mia madre. Mia madre appartiene ai babyboomers, la generazione che ha inventato l'adolescenza. La tecnologia, la rete non l'ha mai spaventata, in confronto a lei io sono luddista. La sua generazione ha anche iscritto la sua storia in quella collettiva, il privato nel pubblico: non è un caso che il suo gruppo anagrafico sia tra quelli più in crescita su fb e che le sia venuto in mente di pubblicare un album con 50 immagini che hanno segnato la sua epoca: da Kennedy alle marce per i diritti civili a Ultimo tango a Parigi. La mia generazione (40) e quella dei trentenni che hanno vissuto epoche più narcisiste o meramente più individualiste si esprimono per avere quei cinque secondi di attenzione online, “il quarto d'ora di esibizionismo di noi timidi”», dice Marilena Renda. Scarichiamo video, articoli di attualità, ci iscriviamo a dei gruppi, chiacchieriamo e ça va sans dire scriviamo anche molte banalità. Per quella dei nativi digitali, gli adolescenti e i ventenni wired, fb è solo una delle molteplici estensioni (da usare contemporaneamente a MSN, iPod, MySpace, Nintendo DS, PlayStation) che gli permette di sperimentare il mondo reale (qualsiasi cosa esso significhi per questa generazione) possibilmente in sharing. Non solo per questo gruppo demografico sta scomparendo l'amico del cuore ma si è avverata la profezia di Warhol: “I don't know where the artificial stops and the real starts” non so dove finisca l'artificiale e inizi il reale.
All'inizio è spontaneo limitare l'accesso alle persone che conosciamo davvero e che possibilmente la pensano come noi. Ma una volta dentro ti rendi conto che sei a un solo clic per includere gente nuova, te la propone il sistema stesso incrociando gli amici degli amici. «Il mio criterio di selezione si basa principalmente sugli amici in comune», dice Laura Sacchi. «Leggendo un commento o link postato sul suo profilo valuto se tra noi ci possa essere qualcosa da condividere. O invio un messaggio per chiedere perché mi ha chiesto l'amicizia anche se non ci conosciamo». «Non accetto tutti, non mi interessa la gara a chi ne ha di più», interviene Vittorio Sabbatelli. «Voglio quelli con cui parlare di politica o anche dire stronzate. Insomma gente che mi conosce e non se la prende se dico delle amenità perché sa come sono fatto». «Ci arrivo dopo un'astinenza Internet di 5 anni», dice Manuela Dettori. «Ho trovato due amicizie vere, un amore maledetto, 3 o 4 squilibrati psicotici e alcuni contatti utili». Ma ci sono anche i bulimici, quelli che arrivano a migliaia di faccine. In genere promuovono qualcosa: un libro, un gruppo, un partito, se stessi. «Avendo 5.000 contatti e 3.000 nel mio Satisfiction (gruppo di fan letterario ndr)», spiega Serino, «cerco di promuovere non me stesso ma invogliare alla lettura».
«È uno strumento molto versatile, ognuno lo interpreta a suo modo. Per chi come me lavora davanti a un computer è un'occasione di pausa. Mette ordine nella nostra vita virtuale che altrimenti sarebbe molto dispersiva. È come passeggiare in piazza ma su scala globale», dice Alfredo Baldini.
In questa piazza globale sta cambiando radicalmente il concetto di privacy. Le nostre vite stanno diventando sempre più pubbliche. Un conto è passeggiare a Campo de' Fiori e conversare con qualcuno mentre la gente ti passa accanto. Un altro è sapere che quella conversazione è registrata e sottoposta a pubblico scrutinio. Ricordate quella canzone di Sting “Every breath you take... I'll be watching you...”? Su facebook lo stalking è tanto involontario quanto parte integrante del sistema: tutti ci troviamo a condividere le vite degli altri. Accadono cose molto buffe con gli aggiornamenti sulla propria situazione sentimentale. Provate a passare dalla casella “sposato” a “single” a “relazione complicata” e vi ritroverete la bacheca intasata da decine di faccine preoccupate o incuriosite perché fb non distingue i gradi di intimità. Se avete rotto con qualcuno, comunicarlo alla persona con cui ci si incontra solo in palestra è l'ultima cosa che vi passa per la mente. Altrettanto umiliante trovare il seguente messaggio in bacheca: “Tizio ti ha eliminato”. Una volta un ex amico spariva nel nulla. Oggi te lo notifica. Questo scarso controllo sulla privacy, oltre a essere antipatico, ha almeno una conseguenza importante e poco valutata: ognuno di noi lascia impronte indelebili sul web. «Per le generazioni precedenti era normale perdersi di vista. Per quelle cresciute su Internet è letteralmente impossibile. Saremo tutti sempre più legati gli uni agli altri», interviene Jeff Jarvis, docente di giornalismo alla City University di New York. «I nostri nomi sono tutti googlabili».
Adesso, è vero che la trasparenza ha i suoi lati positivi ma sarà sempre più difficile scomparire e ricominciare da un'altra parte. Ricordate l'ultima volta che vi siete fatti una canna con tizio, vi siete assentati per falsa malattia, avete mollato qualcuno in modo brutale. Bene, ora è molto facile che queste informazioni siano registrate online. Il web non dimentica nulla. Mentre scriviamo abbiamo appena letto che un'impiegata è stata licenziata nel Regno Unito per aver scritto in bacheca che il suo lavoro era noiosissimo. Il passato ci inseguirà e per molti di noi potrebbe essere un bagaglio troppo ingombrante. Per cancellare le informazioni da fb non basta disattivare il profilo ma bisogna eliminare ogni singola entry a mano e aspettare l'intervento dei gestori per la definitiva cancellazione sui profili condivisi.
È un bene o un male? E soprattutto chi controlla queste informazioni e come le usa? Solo qualche settimana fa Mark Zuckerberg ha annunciato una carta dei diritti e delle reponsabilità e l'introduzione di un voto pubblico riguardo a qualsiasi cambiamento verrà introdotto su fb. Ma certo non basterà e c'è da scommettere che sarà sulla regolamentazione della rete che si combatteranno le battaglie più interessanti dei prossimi anni.
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Cent'anni di muritudine
di Massimo Gramellini
Il sindaco di San Isidro fece ricorso, lo vinse e ricostruì il muro. Ma poiché i furti nelle case dei ricchi continuavano, decise di costruirne un altro per separare le case dei ricchi più ricchi dalle case dei ricchi normali. Quella notte rubarono in casa sua e così il sindaco fece costruire un terzo muro che lo isolasse dai vicini invidiosi. La notte seguente trovò la figlia in atteggiamenti sospetti con un povero di San Fernando, o con un ricco di San Isidro, al buio non si vedeva bene, e decise di murarla nella sua stanza. Ma la moglie si arrabbiò e allora il sindaco fece innalzare un quinto muro, definitivo, in camera da letto. Per sé tenne soltanto un piccolo bagno, nel quale andò subito a rintanarsi. Lì si sentì finalmente in pace e al sicuro. Quando, alcuni giorni dopo, i ladri sfondarono il muro, lo trovarono adagiato sul pavimento. Aveva un sorriso beato e fra le mani il progetto edilizio dell'Aldilà. Nel mezzo aveva disegnato un muro altissimo per non fare passare la morte. Ignorava che lei sapesse volare.
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"Quasi tutte le assurdita' del comportamento derivano dall'imitazione di coloro a cui non possiamo somigliare".
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Nei prossimi due giorni sarò all'Abbazia di Luxeuil, sulle orme di san Colombano.
Visita il sito dell'associazione "Amici di san Colombano".
Ci ri-leggiamo giovedì!
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davanti alla tomba,
in attesa della Risurrezione
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La prima parte dell'intervista al card. Martini:
un'ottima meditazione per il Venerdì Santo.
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Le “parole infondate” (cfr Mt 12, 36-37) non sono tanto le chiacchiere tra amici, quanto tutte le parole importanti che non marchino un coinvolgimento vitale, che non provengano dal cuore; ogni esercizio del pensiero e dell'immaginazione che si allontani dalle forze unificanti proprie dell'amore; ogni utilizzo del linguaggio che renda quest'ultimo strumento di potenza o di profitto.
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Dalla Lettera pastorale 2000-2001 “La Madonna del Sabato santo”
del card. C.M. Martini
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Un'altra vita
di Franco Battiato
Certe notti per dormire mi metto a leggere,
e invece avrei bisogno di attimi di silenzio.
Certe volte anche con te, e sai che ti voglio bene,
mi arrabbio inutilmente senza una vera ragione.
Sulle strade al mattino il troppo traffico mi sfianca;
mi innervosiscono i semafori e gli stop, e la sera ritorno con malesseri speciali.
Non servono tranquillanti o terapie
ci vuole un'altra vita.
Su divani, abbandonati a telecomandi in mano
storie di sottofondo Dallas e i Ricchi Piangono.
Sulle strade la terza linea del metrò che avanza,
e macchine parcheggiate in tripla fila,
e la sera ritorno con la noia e la stanchezza.
Non servono più eccitanti o ideologie
ci vuole un'altra vita.
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Presentato al Wedding Culture Expo della provincia di Jiangsu, un vestito da sposa - del valore di 1,4 milioni di dollari- composto da 2009 code di pavone.
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Se questa Domenica l'organista è a Parigi
di mons. Mario Delpini
Avvenire - Milano 7 - 23.03.08
Al parroco verrebbe da sbottare: «Insomma, sembra che la gente venga in parrocchia, nella sua chiesa, quando proprio non ha altro da fare!», ma è determinato a perseverare nel suo proposito di Quaresima, vuole essere amabile con tutti. Soltanto gli viene un po' da piangere, pensando a quel povero Cristo che per fare Pasqua ha scelto la domenica sbagliata.
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aggiungo che spesso la Chiesa
si è ridotta a dare "pseudo-consigli" di tale superficialità,
facendoli passare per "buona notizia".
Già sono da compatire coloro che lo fanno in tv o alla radio...
don Chisciotte
Elaina Smith, la bimba che aggiusta i cuori dei grandi
A scoprire Elaina è stato il conduttore Andy Gouling
Ha solo sette anni, ma su emittente inglese solleva signore tradite dal marito e giovani complessate senza fidanzato
Stanca del partner che non ami più? «Datti alla macchia dopo aver cambiato la serratura e il numero di cellulare». Cerchi affannosamente mister Right, l'uomo giusto, quello della vita? «Vai in città e muovi il culo. Ma accertati che sia ricco e abbia un'automobile grande». Sei a pezzi perché lui se n'è andato con la tua migliore amica? «Consolati. Uno così meglio perderlo che trovarlo». Le risposte di Agony Aunt sono fulminanti: la sua posta del cuore non lascia mai il mittente a bocca asciutta. «Dico la prima cosa che mi viene in mente e alla gente piace», ammette candida Elaina, affatto sorpresa dal successo delle sue osservazioni. Sapeva di possedere il dono della parola giusta al momento giusto: «Quando il mio cuginetto fu picchiato a scuola da un gruppo di bulli provai a risollevargli l'umore con qualche battuta e funzionò». Funziona ancora, a giudicare dalle centinaia di persone che contattano Mercia97Fm per chiederle consiglio. Andy Goulding, 34 anni di cui 13 passati dietro al microfono, giura di non aver mai visto nulla del genere: «E' fenomenale, ha il candore di una bambina e la maturità di una persona grande. Dopo il suo primo intervento in diretta una signora ricoverata in ospedale ha chiamato per ringraziare, quella voce l'aveva divertita molto. Da allora siamo stati letteralmente inondati di e-mail dirette a lei». Lei non si sottrae. Anzi. A Karen in lacrime per un amore naufragato replica che «la vita è troppo breve per farsela rovinare da un uomo». Alla ragazza sedotta e abbandonata consiglia la leggerezza di «una bella notte a giocare a bowling con le amiche». A un'altra ancora, stufa del fratello ventitreenne «ozioso e sporco», suggerisce fermezza: «Digli di cercarsi un lavoro e smettere di guardare la tv».
È la banalità del bene: ricette ovvie e di buonsenso prescritte da una baby-psicologa che ha intuito il fascino segreto dei chiromanti. Elaina è spiritosa, spontanea, saggia. Ma perché donne dell'età della sua mamma le confidano pene d'amore e intimi desideri? «E' lo specchio dell'appiattimento dell'età adulta, la cosiddetta sindrome di Peter Pan», spiega il neuropsichiatra infantile Roberto Grande che ha appena pubblicato con Ponte alle Grazie il saggio «Il bambino di cioccolato». L'effetto speculare dell'eterna adolescenza dei genitori, sostiene Grande, è «l'adultizzazione dei figli». (...) Da un lato baby-Lolite precocemente avide di sessualità, dall'altro serissimi professionisti in miniatura come Elaina Smith e David Fishman, il critico gastronomico dodicenne scoperto dalla rivista GQ che da settimane mette sull'attenti i migliori chef di New York. «E' una ragazzina sicura di sé ma non si prende sul serio», garantisce la madre, Karen Harris. Da quando «collabora» con il Breakfast quotidiano di Andy Goulding è una piccola star nella città di Coventry. «I miei compagni di scuola dicono che ho un lavoro fantastico», si compiace lei. Al punto che ha cambiato idea su cosa farà da grande: «Quando ero piccola sognavo di diventare veterinario, adesso invece voglio fare la conduttrice radiofonica». E pazienza per gli animali: il linguaggio della natura è divertente, quello del cuore molto di più.
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Ieri pomeriggio allo stadio Garampi del seminario di Venegono,
la squadra degli educatori, portando con onore i colori del Celtic,
ha vinto la finale del "Torneo Quaresma",
aggiudicandosi ai rigori (5-4) la sfida contro i secondi del girone, la terza teologia.
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Hai avuto le tue colpe, Aronne. Hai mormorato anche tu contro Mosè, mentre Myriam tua sorella ti faceva bordone. Però, tutto sommato, non ti sei mai lasciato prendere da quei "raptus" di gelosia, o da quelle sorde corrosioni dell'immagine del capo, a cui si lasciano andare spesso i cortigiani più vicini alla persona del principe: tanto vili nel lecchinaggio, quanto rapidi nel voltafaccia.
Hai avuto le tue colpe. Ma non hai avvilito la tua anima nella sfrontatezza autoritaria. E ti sei sempre mantenuto lontano da quella voluttà di sottopotere che sta mettendo a dura prova la nostra convivenza civile.
Oggi siamo assediati dai tirapiedi. C'è una inflazione di palloni gonfiati. Lo stuolo dei gregari si lottizza le aree del padrone. Il potere si frantuma nelle mani di fàmuli e giannizzeri di turno. La cerniera dei proseliti diventa passaggio obbligato per chi voglia accedere, non dico alla zona dei privilegi, ma perfino a quella dei più sacrosanti diritti. Finanziamenti, appalti, assunzioni, piani regolatori, tangenti, vengono filtrati dallo svincolo dei sottocaliffi. Gli accoliti, poi, si aggregano e si scompagnano secondo spregiudicati calcoli di alchimia politica, tutti tesi a cogliere l'attimo opportuno per salire sul vapore e insediarsi alla sua guida.
Di qui, l'anima clientelare che ci portiamo dentro. Di qui, le molteplici sudditanze che, attraverso la lunga catena di vassalli, valvassori e valvassini, ci conduce a oscene genuflessioni. Di qui il cinismo con cui si spia il momento opportuno per far fuori chi comanda e prenderne il posto.
Di qui, l'arroganza con cui il capo viene ricattato dagli arrampicatori che frequentano le sue segreterie. Di qui, l'impudenza con cui il gerarca supremo è spesso tenuto in ostaggio dai suoi corrotti manutengoli.
Perdonami lo sfogo, carissimo Aronne. Ma parlare con una persona dal cuore incontaminato come il tuo mi solleva lo spirito. Mi fa sognare tempi migliori, che certamente verranno. E mi fa fiorire nell'anima la speranza in un mondo più pulito e più giusto. Così come, un giorno, fiorì il tuo bastone. Nel deserto. Davanti alla tenda di Dio.
L'intera meditazione nella sezione Testi.
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“Si profila il rischio che il Mediterraneo si trasformi in un cimitero a cielo aperto”: Hans-Gert Poettering, presidente dell'Europarlamento, in apertura della sessione plenaria (Bruxelles, 1-2 aprile) ricorda “le oltre trecento vittime”, “profughi morti in mare o dispersi” nei giorni scorsi davanti alle coste libiche “nel tentativo di fuggire dalla miseria”. Poettering, dopo una breve descrizione dei fatti, e sottolineando che alcune persone “sono state tratte in salvo dalle autorità egiziane”, afferma “la commozione e la partecipazione al lutto” dell'Assemblea, per “queste persone provenienti dall'Africa” in “cerca di speranza”. Poettering aggiunge che “con l'aggravarsi della crisi economica tali flussi migratori verso l'Europa aumenteranno” e l'Unione è dunque chiamata a dare una risposta coerente. Il Parlamento sta preparando una dichiarazione congiunta sull'argomento. Prima di iniziare i lavori, gli eurodeputati hanno dunque osservato un minuto di silenzio.
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grazie a G.R. per lo scritto
Ecco invece un video dei tifosi della squadra dei docenti al Garampi Stadium del seminario:
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Milano: quel Lezionario impredicabile