Una bomba a orologeria, chi prende Cassano se lo ricordi

di Marco Ansaldo

A 28 anni Antonio Cassano non ha ancora imparato a stare al mondo, ma non è una novità. Ciò che interessa è capire se il mondo imparerà finalmente a stare con Cassano senza perdonargli qualsiasi comportamento in nome della sopravvalutata genialità.

Primo segnale: la durezza di Garrone nel chiedere la rescissione del contratto al collegio arbitrale della Lega è la reazione più definitiva che il barese abbia dovuto affrontare dopo una sua mancanza, forse perché non ne aveva mai commesse di così gravi come insultare e puntare il dito contro il proprio presidente. Secondo segnale: l'esclusione dalla Nazionale, se il giudizio gli darà torto, è una punizione che non è mai stata comminata a nessuno, ma che Prandelli è deciso a infliggergli in base al nuovo codice etico, anche se in Federazione c'è chi spinge per una linea più morbida. L'immagine del nuovo Principe azzurro che rilancia l'Italia del pallone si è già consumata. Garrone e Prandelli hanno fatto molto per sdoganare il Fantantonio dal limbo in cui si trovava, l'hanno riportato in scena, hanno giocato parte della propria credibilità sulla scommessa di farlo maturare. Se gli voltano le spalle pure loro, restano in pochissimi quelli su cui Cassano potrà contare in futuro.

Il terzo segnale potrebbe venire dal mercato. Nel leggere della reazione smodata del barese all'invito di Garrone abbiamo dubitato che dietro ci fosse una calcolata strategia per liberarsi a costo zero e attirare i possibili acquirenti: negli ultimi tempi Cassano mostrava insofferenza ad accettare la realtà della Samp, benché dicesse di volersi fermare a vita. Abbiamo peccato di dietrologia. Cassano non è Ibrahimovic e certe sottigliezze non gli appartengono. Se poi scoprisse che anche Del Neri, Marotta, Moratti e Della Valle, cioè i presunti estimatori, si sono convinti a non assumere una bomba a orologeria, la favola della sua resurrezione sarebbe già finita.
Il fascino quotidiano del bene

di Enzo Bianchi

Lo straordinario successo che sta avendo il film di Xavier Beauvois sui monaci di Tibhirine merita forse qualche considerazione che scavi un po' in profondità sulle ragioni di un'accoglienza così favorevole. Come mai la critica è rimasta subito colpita e ora gli spettatori - artefici di un passaparola che dilata gli echi positivi che si rincorrono ovunque, a partire dalla laicissima Francia, avamposto delle proiezioni per il grande pubblico - paiono commossi e affascinati? Penso che un elemento tutt'altro che secondario sia stata la capacità del regista di mostrare che una vocazione rara e particolare come quella monastica - vissuta da una esigua porzione dei credenti che professano una fede a sua volta non più maggioritaria - sia in realtà una scelta umanissima, fatta di gesti quotidiani, di limiti e di paure, di ritmi e vicende addirittura quasi banali, di non apparizione, di quotidianità ripetitiva. E sia una scelta operata da persone normalissime, magari profondamente diverse tra loro per cultura, formazione, sensibilità, ceto sociale: persone nelle quali ciascuno si può riconoscere, a prescindere dalla condivisione della medesima fede. Il monachesimo, nelle sue espressioni più genuine, è sempre stato una scelta di controcultura, di volontaria e libera marginalità: non nel senso di un'opzione elitaria, di un consesso esclusivo di puri e duri, ma nel suo voler cercare il senso di ciò che si vive, nell'anelare a tradurre in scelte quotidiane nella loro ordinarietà le convinzioni più profonde che lo animano, nel non lasciarsi condizionare dai comportamenti della maggioranza quando questi si discostassero dalle esigenze evangeliche. Un fenomeno marginale, dunque, sovente periferico persino rispetto alla chiesa stessa - non si dimentichi la sua natura fondamentalmente non clericale - ma non autoescludentesi: un modo «altro» per essere al cuore dell'umanità, là dove pulsano le energie vitali di ogni convivenza. Oggi, in una società in cui dimensioni come il silenzio, l'interiorità, la discrezione, la condivisione, l'obbedienza a istanze etiche, la ricerca della pace e della solidarietà paiono ignorate se non addirittura irrise, la semplice vita quotidiana di un pugno di uomini può destare nei cuori di chi li incontra - anche solo attraverso lo strumento della finzione cinematografica - una spontanea «simpatia», può richiamare alla memoria desideri sopiti, aneliti a una vita più umana e pacata. Nel devastante dominio dell'apparire, della ricerca ossessiva dell'interesse personale a scapito degli altri e della collettività, della soddisfazione degli impulsi più incontrollati può suonare come una salutare boccata d'aria fresca la semplice testimonianza di chi liberamente decide di tener conto degli altri nel proprio comportamento, di chi accetta di condividere i doni - materiali come intellettuali e spirituali - che possiede, di chi affronta la sofferenza, il dolore e la morte come parti integranti di una vita che vale la pena di essere vissuta. Sovente nasce così una paradossale «simpatia» verso chi si comporta in modo tanto diverso da noi: il suo semplice restare lì, fedele nel poco, fa sorgere una nostalgia profonda per i piccoli gesti quotidiani, il ricordo di come a volte basta uno sguardo, un tocco delicato, una parola sommessa, un pasto preparato con cura per farci riscoprire la grandezza delle nostre vite, l'umile bellezza di vivere non solo gli uni accanto agli altri, ma gli uni con gli altri, solidali nel condividere la comune umanità. Non abbiamo forse bisogno - oggi come sempre, e forse più che mai - di riscoprire l'antico senso della fedeltà alla parola data, dell'onorare gli impegni assunti, dell'alimentare incessantemente di senso i gesti più banali che compiamo ogni giorno per sottrarli all'asfissiante monotonia della routine? Apparentemente saldezza e perseveranza non godono oggi di molto credito eppure, se ci interroghiamo in sincerità, cos'altro ci attendiamo dalle persone che ci stanno accanto? Cos'altro desideriamo se non che le persone amate restino fedeli a se stesse e a noi nel mutare di eventi e stagioni? Forse ci manca la consapevolezza che affinché questo sia possibile è necessaria una dinamica molto più profonda della volubilità cui siamo abituati, dell'affannoso rincorrere nuove prospettive, dell'infantile inseguire l'ultima emozione di un momento: la fedeltà infatti esige una capacità di mutare atteggiamento, di adattarsi alle situazioni che cambiano, di adeguarsi all'altro che accanto a me cresce, cambia, lavora, riposa, soffre, si rallegra, invecchia, muore, in una parola: vive. Credo sia proprio questo uno dei messaggi più eloquenti di «Uomini di Dio», un messaggio non riservato ai monaci né ai cristiani o ai credenti: aver saputo mostrare la quotidianità del bene, le normali umanissime potenzialità che ciascuno di noi porta in sé, la capacità di amare e di essere amati senza calcoli, la possibilità di vivere con dignità anche nell'angoscia e nella paura, il faticoso discernimento su come affrontare situazioni drammatiche, cercando non come venirne fuori a tutti i costi, ma piuttosto come poterle attraversare tutti insieme.


in “La Stampa” del 24 ottobre 2010


Davide Van De Sfroos - Nona Lucia

Ociu fioe che la nona l'è una stria / l'hann vedüüda sgarlà nell foech cun't i mann

ociu fioe perchè adèss la gula via / cun't un mànegh de scùa in mèzz ai gaamb...

Trona e tempesta, la loena l'è scapaada, / nocc d'infernu... nocc indemuniaada,

varda la mia nona e varda anca la tua... / suta la gona i moeven la cùa

Nona Lucia, nona strìa... / la cambia la sua pèll, la cambia la sua umbriia,

al sabato sera si veste di nero / e fa il karaoke su al cimitero....

Nona Lucia la parla cui serpeent / la parla cun't i sàss e la fa cambià anca el veent

pulènta e sciguèta.. la pentula stravàca / la va' a balà soe al Praa d la Tàca...

Nona Lucia, gioca a scacchi col prete / sia lei che lui hanno sempre sete

Prepara intrugli dalla sera al mattino, / sia lei che lui bevon solo vino...



traduzione in italiano

Occhio bambino che la nonna è una strega / l'hanno vista scavare nel fuoco con le mani

Occhio bambino che adesso vola via / con un manico di scopa in mezzo alle gambe...

Tuona e tempesta, la luna è scappata, / notte d'infermo, notte indemoniata,

Guarda mia nonna e guarda anche la tua / sotto la gonna muovono la coda.

Nonna Lucia, nonna strega / cambia la sua pelle e cambia la sua ombra

al sabato sera si veste di nero / e fa il karaoke su al cimitero...

Nonna Lucia parla con i serpenti / parla con i sassi e fa cambiare anche il vento

Polenta e civetta... la pentola rovescia / va a ballare al Prato della Tàca

Nonna Lucia, gioca a scacchi col prete / sia lei che lui hanno sempre sete.

Prepara intrugli dalla sera al mattino, / sia lei che lui bevon solo vino


 

Il "caso Ruby"

Risposte attese e stringenti doveri

Non ci piace guardare dal buco della serratura. E del personale stato di salute dei nostri politici
Ma aiutare i ragazzi è una cosa seria

di Marco Rossi-Doria

Il presidente del Consiglio ha affermato che la sua conoscenza della giovane Ruby è dovuta al fatto che egli aiuta chi ha bisogno. E la stampa e la politica si dividono tra chi crede a questa affermazione e chi pensa che si tratti di tutt'altro.

Ma forse la questione importante è soprattutto un'altra. Sì, perché sono milioni gli italiani che aiutano ragazze e ragazzi che hanno bisogno. Molti lo fanno per lavoro. A salari estremamente contenuti. Insegnanti di scuole in zone terribilmente difficili. Assistenti sociali. Psicologi. Operatori delle Asl e del privato sociale. Educatori nei centri sportivi. E, finite le ore pagate, spesso continuano a lavorare. Perché sanno che Patricia è in pericolo, che Carmine potrebbe mettersi nei guai, che Antonio va guardato a vista altrimenti ricade in errore, che la bimba di pochi mesi di Giovanna ha bisogno di pannolini. Altre volte fanno altri mestieri. Lavorano in banca. Sono imprenditori. Hanno un negozio di scarpe. Sono operai. Eppure devolvono denari e dedicano tempo e mettono a disposizione conoscenza e attenzione emotiva e operativa. Per una casa famiglia per adolescenti in miseria o in pericolo, per un'attività di animazione di quartiere, per dare continuità a un gruppo scout che resiste in un posto difficile o una comunità per tossicodipendenti, per sostenere degli educatori di strada che raggiungono di notte e di giorno ragazzini che vagano senza un adulto di riferimento, per animare gli oratori e le altre comunità. O sono semplici genitori che fanno parte delle tante forme dell'aiuto reciproco informale che affronta crisi e pericoli della crescita. O sono esperti delle fondazioni che decidono a quali progetti dare i denari, vagliando quanto chi li gestirà saprà usarli con equilibrio e sapienza.

Sono davvero tanti gli italiani che aiutano i ragazzi, italiani e stranieri a evitare le vie difficili da cambiare. O a misurarsi con le difficoltà materiali e con gli incubi, le paure, i falsi miti, la confusione. Spesso aiutano le loro famiglie costruendo complesse misure di sostegno, rispettose degli equilibri emotivi e del diritto. Altre volte provano a ridurre i danni dell'assenza di famiglie, con l'affido o con ore e giorni di tempo dedicato. Spesso passano parte delle loro vacanze con le giovani persone povere o in difficoltà. E - per fare bene queste cose - si aggiornano sul cosa e il come fare. Studiano. Partecipano a weekend di confronto. Seguono conferenze di psicologi, pedagogisti, giudici minorili, medici. Affrontano una terapia personale o una supervisione di gruppo per evitare errori macroscopici. Vanno all'estero e si confrontano con chi fa le stesse cose altrove.

Sono credenti e laici. Votano a destra quanto al centro e a sinistra. Perché quando si tratta di fare davvero queste cose, le barriere ideologiche cadono. E il confronto, che prevede anche posizioni e indirizzi diversi, si sposta, comunque, sulla comune e difficile riflessione intorno alle cose fatte e ai risultati ottenuti o meno. E ai tanti errori. Il che richiede umiltà. E la fatica di guardarsi dentro e chiedersi: lo sto facendo per i ragazzi o per me? Ogni volta chiedersi. E sorvegliarsi. Perché educare è un mestiere difficile. Ma educare e sostenere chi è giovane e in difficoltà è difficilissimo.

Questo è il grande, laborioso esercito di persone che aiutano davvero i ragazzi che hanno bisogno. E che forse rappresentano la migliore Italia «bipartisan». Chi ne fa parte può pensare bene o male del presidente del Consiglio. Ma nessuno - proprio nessuno - ritiene che regalare gioielli e denaro e vestiti di marca a un'adolescente in difficoltà sia aiutare chi ha bisogno. Perché il solo pensarlo offende, profondamente, gli anni di lavoro, le cose fatte e apprese, lo stesso senso della vita e della relazione tra esseri umani che hanno dato significato al loro impegno.
Berlusconi di nuovo nello scandalo

La moglie, Veronica Lario, lo aveva già segnalato: uno stato di malattia, qualcosa di incontrollabile. Incredibile che un uomo di simile livello non abbia il necessario autocontrollo.

L'ultima bufera su Berlusconi e la sua corte di ragazze sta provocando ondate di reazioni, una diversa dall'altra. C'è chi, con linguaggio sprezzante, lo esorta a dimettersi. Chi già apertamente lo insulta nelle rubriche tv, con termini da trivio. Chi vede solo l'aspetto etico e chi tenta analisi politiche a freddo, interrogandosi sule conseguenze. Chi tende a ingigantire e chi tenta di arginare: però nel secondo caso, vedi stampa di destra, con titoloni su tutta la prima pagina. Per una vicenda che si voleva sopire, strana tecnica. E siamo solo all'inizio. Come sa chi ha un minimo di esperienza sul gossip e le sue diramazioni, aspettiamoci il peggio.

Fra tutte queste reazioni ne manca una che faticheremmo a definire, qualcosa che sta fra la tristezza civile e la pietà umana. Non assistiamo soltanto a una tegola sulla testa del Berlusconi politico, primo ministro in carica e aspirante al Quirinale. Né stavolta si può parlare di complotto giudiziario, o tanto meno poliziesco. Semmai, fino a ieri, prevaleva la circospezione. Il fatto è che esistono testimonianze, alcune opinabili ma altre, ahimè, documentate, che creano un duplice ordine di problemi. Uno, ovviamente, è politico: la credibilità, meglio ancora la dignità, dell'uomo che governa il Paese; i riflessi sulla vita nazionale e sui rapporti con l'estero; l'esempio che dall'alto viene trasmesso ai normali cittadini. I quali non si sognano né trasgressioni né festini, ma da oggi dovranno abituarsi alle variazioni pecorecce sul “bunga bunga”. L'altro problema, da valutare come se Berlusconi fosse un tizio qualunque, è la condizione che già la moglie, Veronica Lario, aveva pubblicamente segnalato. Uno stato di malattia, qualcosa di incontrollabile anche perchè consentito, anzi incoraggiato, dal potere e da enormi disponibilità di denaro. Si sa che Berlusconi è un generoso, non lesina su aiuti e ricompense. Ma quale tipo di aiuti, e ricompense per che cosa? Incredibile che un uomo di simile livello e responsabilità non disponga del necessario autocrontrollo. E che il suo entourage stia a guardare.

E' vero che in passato abbiamo avuto personaggi di primo piano che, oggi, non l'avrebbero passata liscia. Altri tempi, però. Altro comportamento di giornali e tv. Altre cautele. O forse allora si taceva o si sminuiva un po' per prudenza, un po' per tristezza e un po', nessuno sghignazzi, per pietà.

Giorgio Vecchiato

Testi religiosi, il sequestro

di Alain Bentolilla, linguista


Una religione degna di questo nome deve offrire all'intelligenza di chi vi accede l'immensa quantità dei discorsi pazientemente formulati, dei testi accuratamente trascritti e incessantemente interpretati, incessantemente discussi. È il libero accesso a questa ricchezza intellettuale prodotta collettivamente di epoca in epoca, intimamente mescolata alla storia dei popoli la cui fede non ha annullato l'intelligenza, che costituisce la garanzia di una religione sincera, tollerante e legittima. Quale che sia il nome del dio che essa venera, è ciò che la differenzia definitivamente da una setta. Se la fede si impone al credente come una necessità, una religione invece esige piena lucidità quando si sceglie di aderirvi. Colui che accede ad una religione, qualunque essa sia, deve assumersi l'impegno di andare ad interrogare lui stesso i suoi discorsi e i suoi testi. Occorre che sia capace di fare lo sforzo del senso e così confrontare le proprie interpretazioni con quelle degli altri con convinzione e rispetto. Aderire ad una religione significa penetrare in un'immensa biblioteca che conserva la traccia di ciò che, di generazione in generazione, gli uomini hanno scritto per altri uomini a proposito della parola di Dio. Non vi si entra con gli occhi bendati; bisogna che ognuno vada personalmente a cercare su degli scaffali immensi i testi lasciati da altri in altri tempi. Queste tracce non sono conservate perché noi vi mettiamo servilmente i nostri passi; sono le interpretazioni e le testimonianze di una comunità credente sottoposte alla lettura, offerte alla discussione collettiva. L'adesione religiosa cieca e servile perverte il principio religioso e apre la via ai movimenti integralisti più esecrabili. Profeti autoproclamati sfruttano le debolezze e le paure, le frustrazioni e i risentimenti. Approfittano del timore o dell'incapacità di alcuni ad aprire, grazie alla padronanza della lingua, la porta alla comprensione di discorsi e di testi che restano così preservati da ogni interrogazione. L'insicurezza linguistica di certi gruppi sociali è il migliore alleato di tutti gli integralisti religiosi e dei guru settari. Privati del diritto all'interrogazione, all'analisi e all'interpretazione, quando il verbo va a cercare al di sopra della loro umana condizione delle ragioni per superare la sua persistente assurdità, gli illetterati devono giungere alla conclusione che le parole del sacro siano solo delle parole d'ordine, che le frasi del sacro si trasformino in formule magiche e in segni di riconoscimento pseudo-identitari. Ma a parte coloro che leggono con difficoltà, ben poco numerose sono le persone che oggi si prendono la briga di leggere e di interpretare loro stesse i testi religiosi, ma anche filosofici o letterari. Spesso ci si accontenta di parlare di quello che si è sentito dire di un libro, sacro o profano; raramente si fa lo sforzo di leggere personalmente, di interrogarsi in prima persona sul senso che ha voluto trasmetterci e che noi abbiamo il diritto di interpretare. La nostra società ha preso la pessima abitudine di delegare suoi poteri di comprensione, così come ha accettato per pigrizia di delegare i suoi poteri di decisione sociali e politici. Tutti hanno perso la fiducia nel potere della propria intelligenza singolare e nella qualità della propria capacità di analisi. Sul piano religioso, ciò si traduce in comportamenti di sottomissione comunitaria, in forme di proselitismo sempre più insidiose ed in un insopportabile utilizzo del sacro a fini di lucro. Un tavolo, qualche sedia. Tre fronti chine su uno stesso libro, sacro o profano che sia. Di tanto in tanto, una testa si solleva, una bocca si apre e dice la sua intima convinzione, la sua intima interpretazione. Discussa, soppesata, confrontata al testo presente, ma anche illuminata dalla memoria di tutti gli altri testi, questa proposta prende il suo posto nella costruzione collettiva e serena del senso che, di epoca in epoca, di testo in testo, ci prolunga e ci unisce. Non ne è escluso nessuno di coloro che accettano la regola della trasmissione, che è: né servilismo né tradimento.

in “La Croix” del 27 ottobre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

"Molto dolore è meglio / di poco amore"


Vittorio Franceschi, A corpo morto, pièce teatrale del 2008
Sperare contro ogni speranza

di
Gian Mario Gillio

«Amare la terra e tutti gli esseri viventi!» è lo slogan che quest'anno il comitato organizzatore ha voluto mettere al centro della nona Giornata del fialogo cristiano-islamico che si celebrerà in tutta Italia a partire dal 27 ottobre. (...) «L'emergenza ambientale

Ci sono dei folli talmente folli

che nulla potrà mai loro togliere dagli occhi la graziosa febbre d'amore.

Che siano benedetti.

E' grazie a loro che la terra è rotonda

e che l'alba ogni volta si leva, si leva, si leva, si leva.



Christian Bobin, L'amore è proprio una piccola cosa... con delle conseguenze meravigliose, 92
Dell'ottusità

di Massimo Gramellini

Cosa direste a quel ragazzo di Belluno, salito in corsa sull'ultimo treno della sera, che pur dovendo scendere alla prima stazione non si nasconde italicamente in bagno, ma cerca il controllore per mettersi in regola e si vede comminare una multa di 116 volte superiore al costo del biglietto? Io gli direi: consolati, a un nostro lettore è andata peggio. In viaggio da Torino a Foggia, viene derubato di tutto nel sonno. Va dal capotreno, ottenendo ampie rassicurazioni. Ma ad Ancona il personale cambia e un nuovo controllore gli chiede il biglietto. «Il suo collega non le ha detto che ho subìto un furto?». No, non gliel'ha detto, e c'è una multa salata da pagare. Ma il lettore non ha più il portafogli e così il funzionario si limita a consegnargli il verbale, invitandolo a scendere alla stazione successiva. Ormai immerso in un incubo kafkiano, il nostro scende e si precipita al commissariato. «Documenti, prego». Non li ha, i documenti, come può averli, se ha appena spiegato a lorsignori che sul treno i ladri gli hanno portato via tutto? Il commissario scuote la testa. «Lei per me potrebbe essere anche un terrorista». E lo denuncia a piede libero.

La questione è la stessa da millenni: i casi della vita sono più variegati delle caselle di un regolamento. Ma ogni sistema di controllo si giustifica solo con la propria rigidità. Non potendo consentire ai suoi esecutori di usare il filtro flessibile del buonsenso, li mette di fronte a un'alternativa atroce: rispettare le norme così come sono oppure eluderle. Comportarsi da ottusi o da disonesti, mai da esseri umani.
Tre voci per rileggere il Sinodo

di Frédéric Mounier

Ci sono dei segni apparentemente minimi, ma che hanno il loro peso. Ad esempio, durante la celebrazione di chiusura del Sinodo, domenica mattina, l'ordine protocollare di entrata nella basilica di San Pietro è stato modificato: i sette patriarchi d'Oriente sono entrati accanto al papa, separati dal Collegio dei cardinali e dai vescovi. Questa modifica non è sfuggita all'occhio di uno di loro, S.B. Gregorios III, patriarca di Antiochia e di tutto l'Oriente, di Alessandria e di Gerusalemme. A suo avviso, “questa precedenza ha permesso una visibilità maggiore per i capi delle Chiese cattoliche orientali, visibilità importante per i loro fedeli come per il mondo arabo e musulmano in generale”. Così va l'Oriente, attento ai simboli, radicato nella storia tuttavia rivolto al futuro. Lo si sentiva nel dialogo che ha riunito, lunedì mattina, in diretta sulla rete RCF, dagli studi di Radio Vaticano, la parola, rara, del cardinale francese Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, e le voci di Mons. Philippe Brizard, direttore emerito dell'Opera d'Oriente, e del gesuita Samir Khalil, professore universitario libanese, uno degli ispiratori del Sinodo. Incontestabilmente, la libertà religiosa è stata al centro di questa assemblea. “E non solo la libertà di culto, che è il minimo, ha insistito il cardinale Tauran. Tale libertà è rispettata ovunque nel mondo, salvo nell'Arabia Saudita e nella Corea del Nord. Dobbiamo puntare sulla libertà religiosa, che è una libertà sociale. Essa permette di trovare, come credenti, il proprio spazio nella società. Per noi, i luoghi santi sono sia la chiesa che il tempio, la sinagoga o la moschea...” Ma il cardinal Tauran deve ammettere che, nei suoi incontri con il ministro degli affari esteri saudita, si è scontrato, “per il momento”, con un rifiuto, “essendo il suolo dell'Arabia Saudita una moschea”. Ma per lui “siamo condannati al dialogo. E ogni dialogo suppone posizioni diverse. Così ci si può far comprendere e comprendere l'altro, anche se è estremamente difficile”. Ma la situazione in Arabia Saudita conosce un'evoluzione fondamentale, constata padre Khalil, con l'arrivo massiccio e recente di più di due milioni di immigrati cattolici: “Il loro comportamento potrebbe cambiare il volto delle cose. Per la prima volta nella storia, i sauditi possono davvero 'vedere' dei cristiani in un certo numero.” E il cardinal Tauran aggiunge: “Tutta la famiglia cattolica li sostiene.” E racconta: “Ho invitato a cena a casa mia l'ayatollah iraniano sciita Seyyed Mostafa Mohaghegh Damad e il consigliere politico del gran muftì del Libano, Mohammad Sammak, che sono intervenuti al Sinodo: sono stati molto sorpresi dalla libertà di espressione che regnava nell'assemblea! Ho risposto loro che il cristianesimo è proprio la libertà!” E il cardinale, che ha lavorato alla nunziatura libanese durante la guerra, ricorda che le stamperie dei padri paolini, a Jounieh, stampavano dei corani: “Fu un importante contributo cristiano alla cultura!”. Sul punto sensibile dei preti sposati orientali, che il Sinodo auspica che vengano autorizzati da Roma ad esercitare il loro ministero in Occidente, i pareri sono diversi. “Studieremo questa proposta, promette il cardinale Tauran. Ma non dobbiamo pensare che i preti sposati siano 'la' soluzione.” Mentre padre Samir Khalil, anche se non ne vuole fare una “cavallo di battaglia”, ricorda che la Chiesa latina accoglie molti preti anglicani e ucraini sposati: “Questa nuova realtà, in sé è banale. Queste due spiritualità si completano”. Altra domanda formulata da alcuni patriarchi: la loro partecipazione di diritto al conclave. “Non mi arrischierei su questo terreno. Non riesco a vedere come, nel quadro della Chiesa di oggi, si potrebbe avere un collegio dei patriarchi che diventerebbero elettori”, reagisce il cardinale Tauran. Tutti insistono sul ruolo chiave delle istituzioni educative in Oriente. “Dobbiamo inculcare nelle persone che possono prendere delle decisioni, nelle élite, la necessità dei dialoghi interreligiosi e interculturali”, afferma Padre Samir Khalil. Mentre mons. Brizard insiste sulla necessità che i pellegrinaggi non si limitino a visitare la Chiesa latina e Israele: “Sarebbe una disonestà intellettuale non visitare i cristiani palestinesi e le loro Chiese locali!”. A conclusione del Sinodo, il cardinal Tauran insiste: “In Medio Oriente non siamo più dei richiedenti asilo! Questo Sinodo ha permesso ai cristiani d'Oriente di comprendere che Dio li ha piantati lì perché fiorissero. Hanno lì le loro radici, ma la condizione essenziale è la pace”. Precisa poi: “Ho 67 anni. Alla mia età, né un palestinese né un israeliano, che sia ebreo, arabo o musulmano, ha conosciuto un solo giorno di pace nella sua vita. Questo è il vero scandalo, in violazione totale di tutti i diritti umani”. E quando i padri sinodali chiedono la creazione di una “festa dei martiri” comune a tutti i cattolici d'Oriente, non bisogna vedervi, secondo padre Samir Khalil, un ritorno al passato. “Per camminare verso la Resurrezione, non possiamo evitare la croce di Cristo”.


in “La Croix” del 26 ottobre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

«Cerchiamo di far sentire la nostra debole voce»

intervista a mons. Fouad Twal, patriarca latino di Gerusalemme, a cura di Frédéric Mounier e Olivier Bonnel

Su quale territorio si esercita la sua missione di patriarca?

La mia diocesi, il Patriarcato latino di Gerusalemme, si stende su quattro paesi: la Giordania, la Palestina, Israele e Cipro. Questa situazione pone molti problemi per il trasferimento dei preti da uno Stato all'altro, da una città all'altra. Inoltre, Gerusalemme conta tre patriarcati: uno armeno, uno greco-ortodosso e uno latino, il che rappresenta in totale tredici riti.

Qual è il suo stato d'animo di fronte alla costruzione di case nelle colonie ebraiche in Cisgiordania?

Fin dall'inizio del mio mandato, ho cercato di essere più vescovo e meno uomo politico, ma sembra che questo aspetto non si possa evitare. Temo che l'ultima parola venga lasciata ai fondamentalisti e incoraggio i leader politici moderati a fare dei gesti coraggiosi per ridare fiducia alla popolazione, che non crede più ai discorsi della classe politica. Ad esempio, certi deputati della Knesset hanno appena chiesto che le guide della città di Gerusalemme siano esclusivamente degli israeliani. Ora, Gerusalemme appartiene a tutti e i luoghi santi devono essere accessibili a tutte le religioni.

L'accesso libero ai luoghi santi è secondo lei la chiave del futuro di Gerusalemme?

Tutta una generazione di giovani cristiani, cresciuti sotto l'occupazione israeliana, non sa dove si trova il Santo Sepolcro. Il parroco di Betlemme non ha il diritto di portare un gruppo di pellegrini a visitarlo. Quei giovani saranno in grado più tardi di formare una famiglia unita e amorosa o sono condannati alla violenza, alla paura e al rifiuto dell'altro? Vorrei, un giorno, conoscere la gioia di vedere i giovani palestinesi giocare con i giovani israeliani, camminare insieme, visitare i luoghi santi insieme. Ma non credo che questo sogno si realizzerà tanto presto.

Lei ha affermato che Gerusalemme è un mistero che bisogna accettare di non comprendere. Che cosa intendeva dire?

Il mistero, è questa città di pace non ha ancora conosciuto la pace completamente. È una città che riunisce i credenti di tre religioni e al contempo li divide. Ebrei, cristiani e musulmani amano talmente Gerusalemme da arrivare ad uccidersi reciprocamente per amore. Noi cristiani siamo una minoranza, ma cerchiamo di far sentire la nostra debole voce. Non abbiamo il diritto di tacere. Abbiamo la speranza di ridare alla Terra santa il suo volto di santità. Gli uomini politici non possono arrivare da soli ad una soluzione, hanno bisogno delle religioni.

Sulla Terra Santa, le Chiese cattoliche potranno esprimersi ad una sola voce?

Per il momento, le Chiese orientali tengono troppo ai loro riti. Il rito è una ricchezza, non è un dogma. Con le altre religioni, è la stessa cosa: intratteniamo un dialogo di vita, di amicizia, che ha più effetto di molte discussioni. Ma il dialogo con gli ebrei è un po' complicato, perché avviene tra occupanti ed occupati: uno opprime, l'altro viene oppresso. Ma anche se la nostra situazione è critica, non cessiamo di credere al dialogo.


in “La Croix” del 25 ottobre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

La sua veste, la veste nuziale che il Figlio di Dio ha scelto per sposarsi col Figlio dell'Unomo, l'unica che veramente gli conviene, è la povertà. Cristo non è venuto per farci ricchi, ma per farci bastare la povertà. Invece, così, per spianargli la via, credendo forse di spianargli la via, l'abbiamo vestito bene, da console, da patrizio, da re, da sapiente.

don Primo Mazzolari, Il solco, 126

Il "dottor" Gesù. Miracoli & medicine

Gesù era un buon medico? Dei corpi, dico: non solo delle anime. Certo, di gente ne ha guarita tanta; però quelli erano miracoli... E se sotto quei gesti prodigiosi, dietro la vita ridonata ai ciechi e agli storpi rimessi in piedi ci fossero «indicazioni per affrontare anche sul piano terapeutico la condizione del malato»? E se

E' una posizione che mi fa riflettere.

p.s. Tra l'altro, quando vedo certe cose che capitano nella Madre Chiesa, anche a me viene da "sbattezzarmi", in un senso molto meno giuridico.


don Chisciotte


Dopo il successo delle edizioni 2008 e 2009, a cui hanno complessivamente aderito quasi duemila cittadini, l'UAAR ha deciso di organizzare per il 25 ottobre 2010 la terza giornata nazionale dello sbattezzo. ‘Sbattezzo' significa cancellazione degli effetti civili del battesimo, ossia l'elementare diritto, sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e riconosciuto da un provvedimento del Garante per la privacy, di poter abbandonare una confessione religiosa: nel caso specifico, di non essere più considerati dallo Stato come “sudditi” della Chiesa, “obbedienti” e “sottomessi” alle gerarchie ecclesiastiche, come recita il Catechismo.

Le ragioni per uscire dalla Chiesa Cattolica possono essere diverse: coerenza con i propri principi, protesta perchè discriminati in quanto omosessuali, donne o ricercatori, rivendicazione della propria identità atea o agnostica. Oppure la semplice onestà intellettuale di dire “non sono più dei vostri”. Ma lo sbattezzo è anch'esso un momento di autodeterminazione: ognuno è libero di attribuirgli il significato che preferisce!

L'UAAR non organizza controriti vendicativi, ma invita coloro che non sono più cattolici a esercitare questo diritto.
In quei giorni fatali posso dire di aver visto finalmente l'uomo. L'uomo nudo; completamente spogliato, per la violenza degli eventi troppo più grandi di lui, da ogni ritegno e convenzione, in totale balìa degli istinti più elementari paurosamente emersi dalle profondità dell'essere. Ho visto contendersi il pezzo di pane o di carne a colpi di baionetta; ho visto battere col calcio del fucile sulle mani adunche dei feriti e degli estenuati che si aggrappavano alle slitte, come il naufrago alla tavola di salvezza; ho visto quegli che era venuto in possesso di un pezzo di pane andare a divorarselo negli angoli più remoti, sogguardando come un cane, per timore di doverlo dividere con gli altri; ho visto ufficiali portare a salvamento, sulla slitta, le cassette personali e perfino il cane da caccia o la donna russa, camuffati sotto abbondanti coperte, lasciando per terra abbandonati i feriti e i congelati; ho visto un uomo sparare nella testa di un compagno, che non gli cedeva una spanna di terra, nell'isbà, per sdraiarsi freddamente al suo posto a dormire...

Eppure, in tanta desertica nudità umana, ho raccolto anche qualche raro fiore di bontà, di gentilezza e d'amore - soprattutto dagli umili - ed è il loro ricordo dolce e miracoloso che ha il potere di rendere meno ribelle e paurosa la memoria di quella vicenda disumana.


don Carlo Gnocchi, Cristo con gli alpini, 32-33

Facendo quello che si è sempre fatto

si ha quello che si ha sempre avuto.
Slancio senza confini per una Notizia attesa da tutti

Come ogni anno dal 1926, nella penultima domenica di ottobre si celebra nel mondo cattolico la Giornata missionaria. Papa Benedetto ha pubblicato il suo messaggio sul tema «La costruzione della comunione ecclesiale è la chiave della missione», che incomincia così: «Cari fratelli e sorelle, il mese di ottobre, con la celebrazione della Giornata missionaria mondiale, offre alle Comunità diocesane e parrocchiali, agli Istituti di vita consacrata, ai movimenti ecclesiali, all'intero popolo di Dio, l'occasione per rinnovare l'impegno di annunciare il Vangelo e dare alle attività pastorali un più ampio respiro missionario».

Quante volte a me missionario qualcuno chiede: «Perché parlare ancora di missioni, di mandare personale e aiuti in Africa, in Asia, in Oceania, quando qui in Italia stiamo perdendo la fede? C'è bisogno di missionari qui da noi».

Il messaggio del Papa risponde a questa domanda. La missione ha un significato ben più ampio di quanto normalmente si crede. Certo, lo scopo primo è di ricordare ai fedeli la "missione alle genti", cioè l'annunzio di Cristo ai popoli che ancora non hanno ricevuto il Vangelo; e di invitarli a pregare e ad aiutare i missionari fra i non cristiani. Ma la Giornata missionaria ci ricorda con forza che tutte le comunità cristiane (famiglie, parrocchie, istituti religiosi, movimenti e associazione laicali), debbono essere "missionarie". Perché «la Chiesa è per natura sua missionaria» (Ad gentes, 2). Cristo l'ha creata così e se non fosse più missionaria non sarebbe più la Chiesa di Cristo. Marcello Candia diceva spesso: «Io sono missionario in forza del mio Battesimo».

Missione alle genti e nuova evangelizzazione dei popoli cristiani sono strettamente collegate, l'una riceve forza e motivazioni nuove dall'altra. C'è un passo del Vangelo che spiega questa verità difficile da capire e da credere: infatti si pensa che, proprio perché qui da noi diminuisce la fede e la vita cristiana, bisogna concentrare tutte le energie ecclesiali sul popolo italiano. Gesù non la pensava così. Poco prima di salire al Cielo, «apparve agli undici discepoli mentre erano a tavola. Li rimproverò perché avevano avuto poca fede e si ostinavano a non credere a quelli che l'avevo visto risuscitato. Poi disse: "Andate in tutto il mondo e portate il Vangelo a tutti gli uomini. Chi crederà sarà battezzato, chi non crederà sarà condannato"» (Mc. 16, 14-16). Ma come?! Gesù rimprovera gli undici di aver poca fede e di non credere nemmeno nella sua Risurrezione. Poi dice: «Andate in tutto il mondo e portate il Vangelo a tutti gli uomini». Come fanno ad annunziare il Vangelo se non credono che Cristo è risorto dalla morte? Non sarebbe stato meglio se si fermavano tutti assieme a Gerusalemme, fortificando la loro fede con la preghiera e lo studio? La risposta la dà Giovanni Paolo II: «La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l'identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell'impegno per la missione universale» (Redemptoris Missio, 2).

La missione cambia continuamente perché cambiano le situazioni. Il nostro tempo è affascinante: apre strade nuove, sempre fondate sulla fede, l'amore personale a Cristo, l'obbedienza alla Chiesa universale e locale, ma nuove di metodi, di linguaggi, anche di contenuti. La dibattuta questione dell'«inculturazione del messaggio» nelle culture non cristiane presenta questo vantaggio pastorale. Visitando le «giovani Chiese» di missione, si vede spesso come i giovani cristiani, pur poco istruiti nella fede, apprezzano il dono della fede e manifestano l'entusiasmo di essere cristiani diventando essi stessi missionari. La missione oggi deve essere continuamente inventata anche nei metodi pastorali, nella predicazione, nell'annunzio.

Questa la radice del rinnovamento anche pastorale che le giovani Chiese testimoniano. Il vescovo di Vanimo in Papua Nuova Guinea, monsignor Cesare Bonivento, mi diceva: «Nella mia diocesi le molte conversioni vengono dai giovani cristiani. Sanno ancora pochissimo di Gesù e della fede cristiana, ma spontaneamente vanno in giro a parlarne. Non so cosa dicono, tutta la mia opera di vescovo è di dare loro una sufficiente istruzione religiosa, ma ho poco personale missionario. Spesso prego lo Spirito Santo e gli dico: la missione è tua, pensaci tu».


p. Piero Gheddo

L'aveva scritto Gramellini poco dopo la risalita dei trentatré minatori, ma io non l'avevo postato perché mi sembrava un'esagerazione: pensare che il frastuono e le difficoltà del ritorno in superficie avrebbero fatto rimpiangere il sottosuolo! Invece il servizio del TG2 delle 20.30 di ieri ha detto proprio questo! Addirittura il veterano dei "risaliti" avrebbe detto: «Quasi era meglio restare sottoterra». Onore a Gramellini... e un'occasione di ripensamento per tutti noi.


don Chisciotte



13/10/2010

Il minatore nascosto

di Massimo Gramellini

Sono il trentaquattresimo minatore intrappolato da mesi in fondo al deserto cileno dell'Atacama. Di me nessuno sa nulla: mi sono nascosto bene. Oggi i miei trentatré compagni usciranno da qui. Poveretti. Sottovalutano quel che li aspetta. A me non fanno paura le televisioni giapponesi che hanno pagato a peso d'oro il diritto di perlustrare fino all'ultima ruga le nostre reazioni. E neppure i reporter che sventaglieranno i microfoni sotto il naso dei reduci, chiedendo loro «qual è il suo primo desiderio, adesso?». Che tu ti levi dalle scatole, zecca appiccicosa.

Non mi scandalizza neanche la bramosia dei parenti, che ci hanno già venduti in esclusiva a qualche talk show, nel quale andare a raccogliere gli applausi e i sospiri di un pubblico che si risveglia dal coma emotivo solo quando gli sbattono in faccia un caso estremo. No, io mi nascondo dal dopo. Quando tutte le interviste saranno esaurite e le curiosità esaudite. Quando l'ultima figlia avrà rotto l'iPod gentilmente offertole da Steve Jobs, l'ultimo cognato sarà tornato dalla partita gentilmente offertagli dal Real Madrid e l'ultima moglie si sarà stufata di accompagnarci nelle crociere gentilmente offerteci da mezzo mondo. Quando tutto ma proprio tutto verrà archiviato e sarà chiaro che a nessuno interessavamo come persone, ma solo come fenomeni da baraccone: «Ci dica, cosa si prova a stare là sotto?». Una sensazione sincera di pace, se vuoi proprio saperlo. Per questo io non mi muovo. E aspetto. Che gli altri trentatré, finito il giro di giostra, ritornino giù.

Se il dramma dei minatori cileni fosse successo in una miniera italiana, le cose sarebbero andate più o meno così.

1° giorno: tutti uniti per salvare i minatori, diretta tv 24 ore su 24, Bertolaso sul posto.

2° giorno: da Bruno Vespa plastico della miniera, con Barbara Palombeili, Belen e Lele Mora.

3° giorno: prime... difficoltà, ricerca dei colpevoli e delle responsabilità:

BERLUSCONI: colpa dei comunisti;

DI PIETRO: colpa del conflitto d'interessi;

BERSANI: ... ma cosa ... è successo??

BOSSI: sono tutti terroni, lasciateli là;

CAPEZZONE: non è una tragedia è una grande opportunità ed è merito di questo

governo e di questo premier;

FINI: mio cognato non c'entra.

4° giorno: TOTTl: dedicherò un gol a tutti i minatori.

5° giorno IL VESCOVO LOCALE: facciamo una preghiera per i minatori, che in questi giorni sono vicini alle viscere della terra, e quindi al diavolo

6° giorno: cala l'audience, una finestra in Chi l'ha visto e da Barbara D'Urso che intervista i figli dei minatori: "dimmi, ti manca, papà?"

dal 7° al 30esimo giorno: falliscono tutti i tentativi di Bertolaso, che viene nominato così Capo Mondiale della protezione civile.

Dopo un mese: i minatori escono per fatti loro dalla miniera, scavando con le mani.

Un anno dopo: i 33 minatori, già licenziati, vengono incriminati per danneggiamento del sito minerario.



Meno male che è successo in Cile: si sono salvati!

È l'assemblea che celebra!

di Alain Weidert, laico battezzato di Chalvron, presso Vézelay

Chi celebra? Il prete, diranno molti cattolici! L'assemblea, risponde il (molto ufficiale) Catechismo della Chiesa cattolica (CCC) sulla scia del Concilio Vaticano II. Affermazione cristologica capitale che la stragrande maggioranza dei battezzati ignora o di cui non è ancora intimamente convinta. Nel migliore dei casi, certi parleranno di “partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa”, per riprendere i termini della costituzione conciliare sulla liturgia (Sacrosanctum Concilium, n. 14). Essere attori e non più spettatori (dire la messa per gli uni, assistervi o seguirla per gli altri), è una tappa superata. D'ora in poi si tratta di celebrare tutti insieme l'Eucarestia e non di essere semplicemente “membri” di un'istituzione che la celebra. Secondo il Catechismo della Chiesa cattolica, “la Chiesa agisce nei sacramenti come 'comunità sacerdotale', 'organicamente strutturata': mediante il battesimo e la confermazione, il popolo sacerdotale è reso idoneo a celebrare la liturgia” (n. 1119). Questo è il carattere normativo di ogni messa. Ogni attività dei laici, in virtù della loro consacrazione a Cristo e dell'unzione dello Spirito Santo... “tutto ciò diventa 'offerta spirituale, gradita a Dio per mezzo di Gesù Cristo (Rm 12,1); e nella celebrazione eucaristica, queste offerte si uniscono all'oblazione del Corpo del Signore per essere offerte piissimamente al Padre. Così anche i laici, operando santamente dappertutto come adoratori, consacrano a Dio il mondo stesso”, si legge nel CCC (n. 901) che cita la costituzione sulla Chiesa (Lumen Gentium, n.34). Se Gesù Cristo è l'attore primo dell'Eucarestia, “l'unico Liturgo” (CCC, n. 1070), “è tutta la Comunità, il Corpo di Cristo unito al suo Capo (Cristo), che celebra. Le azioni liturgiche... appartengono all'intero Corpo della Chiesa, lo manifestano...” (n.1140). “L'assemblea che celebra è la comunità dei battezzati i quali, 'per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo, vengono consacrati a formare una dimora spirituale e un sacerdozio santo, e poter così offrire, in un sacrificio spirituale tutte le attività umane del cristiano'. Questo 'sacerdozio comune' è quello di Cristo, unico Sacerdote, partecipato da tutte le sue membra.” (n. 1141). “In questo modo, nella celebrazione dei sacramenti, è tutta l'assemblea che è 'liturga'” (n.1144). “In una celebrazione liturgica, tutta l'assemblea è 'liturga', ciascuno secondo la propria funzione” (n. 1188). Tutti sacerdoti mentre per golosità noi flirtiamo ancora (!) con le parole e la pratica sacrificale di un do ut des pagano. Contaminazione ingannevole instillata dalle affermazioni di officianti sacrificatori che si nascondono dietro al latino, avvocati di un clero intercessore, conciliatore del culto che distribuirebbe Dio all'uomo. Con Gesù ogni sacrificio è definitivamente sovvertito, i suoi pontefici sacri destituiti. “È tutta la Chiesa, corpo di Cristo, che prega e che si offre...” (n. 1553) ma non senza che una presidenza esprima “il legame sacramentale... a ciò che ha detto e fatto Cristo” (n. 1120). “Legame”, parola essenziale che non determina affatto qui un potere di plenipotenziari patentati tra cielo e terra. “Il sacerdozio battesimale è quello di tutto il Corpo di Cristo. Tuttavia alcuni fedeli sono ordinati mediante il sacramento dell'Ordine per rappresentare Cristo come Capo del Corpo” (n. 1188). “...è soprattutto nel presiedere l'Eucarestia che si manifesta il ministero del vescovo...” (n. 1142). “Proprio in quanto lo rappresenta (Cristo), il Vescovo o il prete (agendo 'in persona Christi capitis') presiede l'assemblea...” (n. 1348). Si parla qui della testa del corpo (capitis) che presiede perché è il corpo di Cristo che celebra, in persona Christi (espressione del resto inesistente nel CCC e nel corpus conciliare per designare il prete da solo). Allora non c'è più un altro Cristo? Il CCC dice che il Padre, mediante il battesimo, “ci incorpora al Corpo del suo Cristo, e, (che) per mezzo dell'Unzione del suo Spirito che scende dal Capo nelle membra, fa di noi dei 'cristi'” (n. 2782). Sì, “dei cristi” e questo riguarda ogni battezzato. Il testo prosegue: “Ormai divenuti partecipi di Cristo, siete naturalmente chiamati 'cristi'.” “La liturgia è azione di 'Cristo tutto intero' ('Christus totus')” (n. 1136). Spieghiamo senza stancarci perché bandiamo un termine e perché soprattutto ne promuoviamo un altro. Via le parole erronee, gli abusi e le deviazioni di riti che di nuovo rischierebbero di sottomettere la nostra dimora battesimale e di farne un luogo di brigantaggio sacrificale, di riparazione espiatrice, di soddisfazione propiziatoria. Come un fiume deviato dal suo corso ritrova il suo letto, il popolo dei battezzati e delle battezzate torna dall'esilio, ritrova la sua eredità. Il Vaticano II segna la fine di una cattività in cui le capacità cristologali degli eredi di Cristo curiosamente erano state cancellate dalla memoria viva della Chiesa. Ritorno alla normalità!


in “La Croix” del 2 ottobre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)




I Simpson e la religione. Homer e Bart sono cattolici

di Luca M. Possati

Pochi lo sanno, e lui fa di tutto per nasconderlo. Ma è vero: Homer J. Simpson è cattolico. E se non fu vocazione


Dove dormono i bambini? Provate a dare un'occhiata ad alcune delle immagini scattate dal fotografo James Mollison e scoprirete che non tutti hanno la fortuna di riposare in un letto tranquillo. Raccolte nel libro "Dove dormono i bambini", edito da Contrasto, le immagini sono state realizzate nelle camere da letto di 56 bambini di 24 paesi del mondo, inclusi Stati Uniti, Italia, Giappone, India, Messico e Brasile. Ahkôhxet, un piccolo indio Kraho, dorme per terra in una capanna nella foresta amazzonica; Kaya, una bambina di Tokyo, ha un armadio pieno di abiti mentre Bilal, pastore bambino cisgiordano dorme con le pecore nel gregge del padre. "Questo lavoro rappresenta un modo per riflettere sulla povertà, sul benessere economico, su come i bambini si relazionino agli oggetti della loro vita quotidiana e sul loro potere  -  o mancanza di questo  -  nel prendere decisioni riguardo alle loro vite", così il fotografo James Mollison
Mentre leggevo queste righe, pensavo fossero riferite a tanti parroci e vescovi di tante nostre comunità cristiane, che - nascondendosi dietro il cosidetto valore "solo consultivo" dei Consigli Pastorali Parrocchiali, dei Consigli Affari Economici, delle Commissioni Caritas e della Catechesi - alla fine decidono quello che vogliono, quando vogliono, come vogliono. Quando finirà questo abuso?!


don Chisciotte


Demosilviocrazia

di
Massimo Gramellini


Basta con questa rugosa democrazia importata dall'estero. Gli iscritti al Pdl ne avranno presto a disposizione una variante «made in Italy»: più snella, dal «design» esclusivo, e disponibile in un elegante e pratico formato. La nuova delibera del Popolo della Libertà stabilisce infatti che i congressi locali del partito potranno eleggere chi come e quando vogliono. Ogni nomina dovrà però passare al vaglio del punto 6 - altrimenti noto come «Abbiamo scherzato» - il quale recita: «Il Presidente può a suo insindacabile giudizio, e senza l'obbligo di motivare la decisione, non dare seguito alle indicazioni delle Assemblee». A nessuno sfuggirà l'originalità del modello, che garantisce a tutti di giocare alla democrazia fino all'ingresso del sovrano. Toccherà poi a lui alzare o abbassare il pollice, confermando o sovvertendo il verdetto della giuria.

È una formula divertente e spettacolare, che coniuga pluralismo e dittatura, turbolenza e obbedienza, libertà e marajà. Ho subito deciso di introdurla fra le mura domestiche, comunicando a mia moglie che, ai sensi del punto 6, d'ora in avanti mi riserverò di «non dare seguito alle sue indicazioni» circa il ritiro dei vestiti in tintoria «a mio insindacabile giudizio» e soprattutto - ah, che meraviglia - «senza l'obbligo di motivare la decisione». Mi ha definito un tiranno assolutista, quando invece è evidente che sono solo un leader moderno e carismatico. Purtroppo le era rimasto un lodo retroattivo e con quello mi ha sbattuto fuori di casa. Chissà se ad Antigua qualcuno mi rimedia un posticino.

 



Sabrina chi?

di Massimo Gramellini

Dottore mi ascolti, la prego, in questi giorni ho serie difficoltà a relazionarmi col prossimo. Non riesco a farmi coinvolgere dallo psicodramma collettivo. La ragazzina uccisa dallo zio e dalla cugina, credo, non so. Ecco il problema: non so. Ci ho provato, ma non ci riesco. Sui giornali salto a piè pari gli articoli (mi bastano e avanzano le foto) e appena in tv se ne parla (cioè sempre) cambio canale. Eppure i miei colleghi fanno soltanto il loro mestiere, servire il lettore. Su dieci lettere che arrivano in redazione, otto trattano di Sarah. Fra le dieci notizie più cliccate sul web, nove riguardano Sarah. Fra i dieci programmi più visti in tv, undici parlano di Sarah. E della cugina. E dello zio. E della zia. E del cognato (ci sarà di sicuro un cognato, c'è sempre un cognato).

Non ho scuse, l'insensibile sono io. Mi sento uno di quegli snob che si lasciano attrarre dalla «moviola del male» (copyright di Carlo Freccero) solo se i protagonisti hanno il sangue blu. Apro un sito e in agguato c'è un sondaggio che mi chiede: Sabrina è complice o testimone? E che ne so? Non so neanche chi sia, questa Sabrina, con cui tutti sembrate avere così grande dimestichezza. Perché l'orrido e il torbido non mi attraggono più? Perché preferirei indagare la psiche di una ragazza che scrive poesie o fa volontariato in un ospizio? Non per imitarla, si figuri. E' che la trovo più sorprendente, più originale. Il segreto che mi interessa scoprire abita dentro di lei, non dentro Sabrina. O lo zio. O la zia. Con tutto il rispetto. Ho qualche speranza di guarire, dottore?
Provocazione dell'«Economist»: la fede fa bene o male al mondo?

di Marco Ventura

Il settimanale inglese The Economist ha diviso i suoi lettori sulla domanda del nostro tempo: la religione è una «forza per il bene»? Solo il 25% ha espresso fiducia nella fede. Per il 75%, la religione non contribuisce al bene dell'umanità. All'Economist sono ben consapevoli che nella religione bene e male sono indissolubilmente intrecciati. Ma hanno voluto spingere i lettori a una posizione estrema. «Trovi che la fede sia pericolosa, che ispiri un truce dogmatismo da cui derivano conflitti, intolleranza e barbarie? Oppure che la fede sia positiva, che spinga la gente a vivere un'esistenza morale, virtuosa e ricca?». Entrambe le cose sono vere, ma cosa pensi in fin dei conti? Da che parte stai? Credi più nel bene di credenti come Madre Teresa e Desmond Tutu, o nel male di credenti come Bin Laden, Milosevic e Pinochet? Mark Oppenheimer, editorialista del New York Times, si è fatto padrino dei pro religione in nome di tre idee. Primo: la religione educa alla ritualità; secondo: la religione organizza la ricerca di un senso, di un'etica, di un bene comune; terzo: «religion is fun», la religione diverte. Lo scrittore Sam Harris ha rappresentato gli anti religione in nome dell'assurdità della fede. Chi crede il falso non può fare il bene di ciò che è vero: «la religione dà alla gente cattive ragioni per fare il bene, mentre ragioni migliori sarebbero a portata di mano». Ha vinto lui, 75 a 25. La società secolarizzata coltiva appartenenze ibride, identità confuse. Siamo un po' tutto insieme. Increduli e credenti. Amici e nemici della fede. Per questo siamo tentati di trovare chiarezza in una scelta di campo, credenti di qua e non credenti di là, che cancelli la confusione e divida il mondo in bianco e nero. È questa la provocazione dell'Economist. Crediamo davvero che basti appartenere al campo dei credenti o dei non credenti per essere migliori? Che la fede o la non fede ci destinino a priori al bene o al male? In realtà non lo sappiamo e non possiamo saperlo. Sappiamo soltanto che nessuna ortodossia, nessun credo religioso o non religioso, giustifica una vita spesa male.


in “Corriere della Sera” del 18 ottobre 2010

Ecco perché chi ha talento oggi fa fatica a emergere

di Francesco Alberoni

Ci sono dei luoghi in cui, per un certo periodo, fioriscono i geni, in seguito torna la mediocrità. Atene fra il 450 e il 350 ospitava figure come Socrate, Platone e Aristotele, poi nulla. L'Italia ha avuto lo splendore del Rinascimento, poi le occupazioni straniere e la decadenza. Alla fine del secolo a Vienna c'erano Freud, Klimt, Mahler poi il deserto. In Francia negli anni Sessanta e Settanta Sartre, Simon de Beauvoir, Levy Strauss, Barthes. Oggi non c'e più nessuno come loro. In tutta Europa la cultura sembra avvizzita.

Perché? Perché non nascono più persone di genio oppure perché il nuovo ambiente non le aiuta a crescere, ad affermarsi, ma le ostacola e valorizza altri tipi di personaggi? Io credo che sia questa la vera causa. Quand'è che fioriscono i geni? Quando la società ha slancio, ottimismo, fame di futuro e quindi di persone competenti e geniali. Come in Italia nel dopoguerra, quando tutti volevano lasciarsi alle spalle la miseria e creare prosperità. Ed erano pronti a lavorare duramente, a prodigarsi. Gli operai lottavano per diventare piccoli imprenditori, gli studenti facevano a gara per sapere di più. I più bravi erano subito richiesti dalle imprese. In una piccola città come Pavia gli studenti universitari più brillanti erano conosciuti da tutti e ricercati dalle ragazze.

Poi è venuta la globalizzazione e una crisi dei sentimenti morali collettivi. Abbiamo una popolazione invecchiata, una economia stagnante, una scuola scadente, una università satellite di quelle anglosassoni, con studenti che non hanno più la passione del sapere. Fra cui si è radicato il devastante convincimento che chi fa bene, chi si prodiga, chi lavora duramente, chi merita, non verrà ricompensato, non avrà successo. Mentre riuscirà chi è spregiudicato, chi appare in televisione, chi trova protezioni politiche.

Si è diffusa l'idea che siamo in una «società liquida» in cui non conta ciò che hai fatto, non valgono la lealtà, la parola data. Cosa non vera perché se non resistessero questi valori la società smetterebbe di funzionare. E anche nel lavoro vediamo che i giovani preparati, pronti a lavorare e ad adattarsi, lo trovano. Ma con più fatica. Come fa più fatica chi ha grandi doti e si trova in un ambiente culturale che non lo aiuta e non lo capisce. Per riuscire deve avere una grande fede, un grande ideale e una fiducia di fondo nella natura umana per vincere ogni giorno la sfiducia, il cinismo, l'indifferenza di chi lo circonda.
E' questa la tentazione politica! La prima è la tentazione economica, quella del profitto; questa è la seconda, la tentazione politica, quella del potere.

Il problema non è tanto che ci siano dei ricchi e dei poveri, dei paesi ricchi e dei paesi poveri: lo dice il Papa e lo dicono anche tutti i documenti. Il problema è che ci siano dei ricchi che diventano sempre più ricchi a spese dei poveri; che ci siano dei paesi ricchi che si arricchiscono ancora di più a scapito dei paesi poveri: questa è la tragedia! Ecco allora il potere!

Dovremmo chiedere al Signore che nelle nostre comunità, nelle nostre diocesi, nelle nostre chiese ci siano dei vuoti di potere. Ricordo quando sono stato ordinato vescovo. Il giorno dopo l'ingresso in diocesi è venuto da me un sacerdote molto bravo e molto buono per dirmi: «Guardi, eccellenza, lei deve stare molto attento perché questi sono i primi giorni di governo e sono dunque i più difficili: potrebbe crearsi un vuoto di potere!». Io l'ho guardato e gli ho risposto: «Vorrei proprio che si creasse, un vuoto di potere! Non un vuoto di servizio, ma un vuoto di potere, sì».

Amo parlare moltissimo con le persone che incontro: fa parte della «chiesa del grembiule». Quando parliamo di chiesa, parliamo di chiesa della casula, di chiesa che prega, di chiesa della stola. È bellissimo: è una fotografia bella della chiesa. Poi c'è la chiesa del Libro, la chiesa che insegna, che spiega la Parola, che spezza il pane della Parola. Anche questa immagine è bellissima.

Ma la fotografia più bella della chiesa, per me, è la chiesa del grembiule: «Gesù si alzò da tavola, depose la veste, prese un asciugatoio, se lo cinse e si mise a lavare loro i piedi». La chiesa del grembiule non è una fotografia audace, scollacciata della chiesa, che la riduce al ruolo di fantesca. E' la fotografia più evangelica, dunque più bella della chiesa. Noi dovremmo amarla seriamente, e speriamo che quando qualcuno tra voi verrà ordinato vescovo, il cerimoniale sia un pochino ritoccato: oltre che dargli l'anello, la mitra e il pastorale, tra i simboli ci sia pure il catino, la brocca e l'asciugatoio (pp. 40-41).

Dovremmo affermare con più chiarezza l'espressione di Isaia 32,17: «Opus justitiae pax» (la pace è frutto della giustizia). Pace e giustizia vanno insieme. Dovremmo dirlo con più forza questo: non si può più parlare della pace soltanto, dobbiamo parlare della pace e della giustizia insieme, perché sono combinate, passeggiano insieme, da sole non stanno più! Non possiamo dire «pace, pace» se non c'è giustizia sulla terra!

Perché questi concetti non li facciamo rimbalzare nelle nostre catechesi, nelle nostre omelie? Perché ci sembra di uscire addirittura dal contesto ecclesiastico se tocchiamo i punti nodali della giustizia là dove la stessa viene scarnificata, colpita?

Considerate i dati che voi stessi avete indicato sui pannelli della mostra: com'è diviso male il pane nel mondo! Ma intanto stiamo tutti zitti, perché queste cose non ci toccano da vicino! E, una scoperta grandissima fatta nella chiesa negli ultimi dieci anni: la pace si è sposata con la giustizia! E ciò che Dio ha unito, l'uomo non separi! (p. 61).

Schierarsi dalla parte dei poveri non vuol dire rifiutare i primi, significa soltanto partire dagli ultimi per andare verso tutti. «Pauper» (che in latino sta per povero) non si oppone tanto a «dives» (ricco) ma a «potens» (potente). Dobbiamo cioè smetterla di essere uomini di potere. Quando guardate ai parroci, ai sacerdoti, ai vescovi, non considerateli uomini di potere, altrimenti è difficile parlare di pace.

Ecco l'esodo: lasciare le nostre litigiosità corporative per dare anche noi l'immagine e il segno di condivisione, di pace, di conflittualità superata (perché pace non significa abolire i conflitti, bensì fare in modo che le pietre d'inciampo dei conflitti segnino un nuovo cammino diventando pietre di guado, provvidenziali perché ti permettono di passare da una sponda all'altra). La logica che presiede a tante scelte fatte in campo mondiale è quella della sicurezza. Noi facciamo l'assicurazione contro l'incendio, parliamo di scudi spaziali, ma è una mitologia pagana. Il cristiano non è colui che ha le sicurezze in tasca, perché la sua unica sicurezza è Gesù Cristo, morto e risorto. Le altre sono sicurezze della carne, aggrappamenti, non abbandoni. Esodo dalle ricchezze, dunque, dalla religiosità corporativa, dal potere, per assumere il grembiule.

La chiesa del grembiule nasce da Gesù che si alza da tavola, si toglie le vesti e si cinge il grembiule. Noi abbiamo cara, invece, l'immagine della chiesa della casula, della chiesa del Libro, che celebra la liturgia, ma la chiesa del grembiule non è un'immagine molto fortunata: fa bisbigliare le persone. Occorre invece la chiesa che lava i piedi, che serve! Capite che processi innesca questa logica? (p. 70-71)

mons. Tonino Bello, Pace. Quanto resta della notte?

L'assedio dei mostri

di Cesare Martinetti

I mostri assediano la casa del mostro. Hanno il vestito della festa e le scarpe sporche di fango. Sono già passati al cimitero e poi in campagna, alla cisterna dov'è marcito il corpo di Sarah. Ora scrutano quel portone di ferro che hanno visto mille volte in tv. È lì che il mostro ha strangolato la fatina bionda mentre l'invidiosa Sabrina la teneva alle spalle. Viaggiatori della domenica. Un viaggio come un rito. «Vengono da fuori, non sono di Avetrana», dice il parroco don Dario. Il pellegrinaggio domenicale dei mostri che cercano tracce di realtà in una storia che finora hanno visto soltanto luccicare in tv. I carabinieri mettono le transenne intorno alla casa del mostro. «Crime scene», si vede nei telefilm americani. Vorrebbero separare due spazi, di qua e di là, e invece costruiscono un solo unico ring dove si incontrano gli abissi che ci portiamo in uno spazio interno che sta giù nel profondo. Di fuori, i mostri, vogliono entrare anche loro dentro la storia e dunque dentro la tv. Fotografano il citofono della famiglia Misseri, si fotografano tra di loro. Come una cerimonia di inveramento. Tutto, in questa storia, è avvenuto così. Noi abbiamo conosciuto Sarah grazie alle sue foto su Facebook. La sua mamma ha saputo che era morta di fronte alle telecamere. Quelle stesse che poco prima avevano ripreso le lacrime di coccodrillo del mostro assassino. Anche questi teneri mostri che assediano la casa del mostro vestiti come tronisti di Maria De Filippi vogliono arraffare qualche centimetro di schermo. Vittime e insieme carnefici. C'è chi non vuol credere fino in fondo a una storia così orrenda. Ma tutto questo è successo davvero? Non si sa più cos'è vero e cosa è tv. Siamo tutti dietro le stesse transenne.
Misera Italia. Per la Caritas ecco 600mila nuovi poveri

di Roberto Monteforte

«In caduta libera». Non poteva avere titolo più appropriato il X rapporto sulla povertà e sull'esclusione sociale in Italia, curato dalla Caritas italiana e dalla Fondazione Zancan e presentato ieri dal segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, dal direttore generale della Caritas Italia, monsignor Nozza, dal presidente della Fondazione Zancan, monsignor Pasini. Analisi lucida, numeri precisi, attenzione al dato qualitativo e alla condizione concreta della popolazione, quindi denunce e proposte chiare: questo emerge dallo studio, con una secca smentita dei dati ottimistici sulla povertà presentati nel luglio scorso dal governo e dall'Istat. Nel nostro paese la povertà non è affatto diminuita, anzi è in aumento, come il disagio sociale e la percezione della precarietà, della fragilità sociale di chi con l'avanzare della crisi è a rischio. Tocca 8.370 mila persone che hanno visto cambiare pesantemente le loro condizioni di vita. Un dato diverso, e più pesante rispetto ai dati forniti dall'Istat che indicava in 7.810 mila i «poveri» in Italia. Secondo lo studio «In caduta libera» vanno conteggiati, invece, anche quelle 560 mila persone che, visto l'abbassamento della linea generale della povertà passato da 1007 euro per coppia a 983, sarebbero state classificate come «povere relative». Nessuna «contrapposizione » tra Caritas e Istat, affermano i ricercatori che hanno curato il «Rapporto», soltanto letture «qualitativamente» diverse dei dati che darebbero per il 2009 un aumento dei poveri del 3,7% sul 2008. Solo il 45% delle famiglie italiane sarebbe al riparo dalla crisi economica. Preoccupato e fortemente critico il giudizio espresso della Chiesa italiana. «Il dramma della povertà - commenta il segretario generale della Cei, monsignor Crociata - offusca la nostra comunità e le ricadute pesanti sono sotto gli occhi di tutti. E a tutti chiedono rinnovato impegno nell'azione di contrasto e nelle forme di solidarietà». Mette il dito sull'elusione ed evasione fiscali «particolarmente gravi». «Si tratta di sottrazione di risorse - denuncia - che pesano sugli onesti e diminuiscono le disponibilità di aiuto agli ingenti ». La Cei invita a giocare la carta del «federalismo solidale», che può portare «a nuovi e più efficaci assetti di un sistema assistenziale caratterizzato da troppi squilibri». Per smuovere l'attuale «situazione di stallo», monsignor Crociata chiede un cambio di passo: interventi soprattutto a favore della famiglia e delle giovani generazioni. «Non si tratta di occuparsi semplicemente dell'assistenza - puntualizza -. È una questione di giustizia, di dignità e di libertà». Che la crisi economica sia bel lontana dal superamento lo testimonia l'esperienza concreta dei centri di ascolto della Caritas. Emerge la difficoltà delle persone disoccupate, delle famiglie impoverite, di chi sa che prima o dopo finiranno gli ammortizzatori sociali. Dallo studio emergono i diversi livelli di «povertà»: quella «assoluta» di chi non può accedere ai beni essenziali, quella «relativa » e gli «impoveriti». Coloro che sono «a forte rischio di povertà, colpiti dall'aumento della disoccupazione e della cassa integrazione, dal calo del potere reale d'acquisto e dalla disuguaglianza dei redditi. Il dato preoccupante è «l'aumento delle disuguaglianze e la sensazione di un impoverimento generalizzato, non solo dal punto di vista del reddito, ma anche delle aspettative e delle risorse culturali». La povertà colpisce particolarmente nel Mezzogiorno e le famiglie numerose, con bassi livelli di istruzione. Ha anche il volto degli 800mila italiani «ridotti all'indigenza a causa di separazioni e divorzi». Per i vescovi va cambiato registro. È fallita la «social card». Occorre gestire diversamente le risorse che pure «sarebbero sufficienti». Dei 49 miliardi di euro stanziati ogni anno per la spesa sociale, l'86% va in trasferimenti alle famiglie e solo il 14% in servizi. Al governo chiedono meno trasferimenti e più servizi.


in “l'Unità” del 14 ottobre 2010

Cattolici «schiacciati» in Medio Oriente. Un problema per cristiani e Islam

di Andrea Riccardi

Qualche speranza si è accesa sulla strada minata della pace tra israeliani e palestinesi. Contemporaneamente Benedetto XVI sta rafforzando i cattolici in Medio Oriente attraverso un sinodo. Non sono molti, tra i cinque e i sei milioni, poco di più di quelli della diocesi di Milano. Però in ogni Paese arabo, in Turchia, Iran e Israele, ci sono comunità cristiane antiche, depauperate dall'emigrazione, vieppiù minoritarie nella marea musulmana. Un tempo non fu così. C'erano grosse comunità cristiane ed ebraiche nel quadro dell'impero ottomano: un mosaico di fedi ed etnie. Dalle minoranze venivano i mediatori tra Oriente e Occidente. È un universo franato con la Prima guerra mondiale, fra stragi e sotto la pressione nazionalista araba e turca. Nel 1920, grazie alla Francia, nacque il Libano, dove i cristiani erano maggioranza (oggi non più). Dopo la Seconda guerra mondiale sono sorti gli Stati arabi indipendenti e Israele. Lo scenario di convivenza è cambiato. C'è stato un primo terremoto: gli ebrei sono emigrati dai Paesi musulmani in Israele (circa 700.000 di cui 125.000 iracheni, 250.000 marocchini, 60.000 iraniani). Finiscono convivenze di secoli, talvolta di millenni. I musulmani si ritrovano faccia a faccia con l'ultima minoranza non islamica, i cristiani. Questi si schierano con il nazionalismo arabo anche per evitare di essere cittadini di seconda classe. Ma, nei decenni successivi, sono sempre più a disagio con l'islamizzazione. Non è un caso che hanno guardato con qualche attenzione ai regimi laici della Siria e dell'Iraq (ad Assad e allo stesso Saddam Hussein). Nella polarizzazione degli odi, con il fondamentalismo, i cristiani sono schiacciati in tante nicchie. In Libano oggi sono 1.600.000 su 4.200.000, anche se ufficialmente si dice ancora siano la metà degli abitanti. Altrove sono piccole o piccolissime minoranze, eccetto che in Egitto con circa il 10% degli abitanti (i copti) e la Siria con il 5%. Si tratta di comunità con tradizioni differenti, unite a Roma o indipendenti. Non svolgono una missione tra i concittadini, perché considerata proselitismo. Il loro ruolo sociale è ridotto e non serve più la loro mediazione con l'Occidente. È la fine di queste antichissime Chiese? È un problema per il Cristianesimo. Ma lo è pure per un Islam privato dell'unica alterità religiosa. Ormai alcuni musulmani riconoscono il valore della presenza cristiana, come garanzia di pluralismo per evitare un totalitarismo islamico. Forse gli occidentali dovrebbero coglierne meglio il ruolo. I cristiani hanno bisogno di spazio e diritti per non soffocare. Ma è necessario pure che si rianimino. È la sfida del sinodo. Hanno sofferto molto nella storia. Ma debbono maturare una visione del futuro. C'è da operare il riconoscimento dell'Ebraismo nell'orizzonte cristiano, oltre i pregiudizi antisemiti e l'identificazione con la causa araba. Bisogna poi accogliere i cristiani immigrati in Israele (romeni, russi o filippini). Come vecchie Chiese si apriranno ai nuovi venuti? Si deve poi cogliere l'epocale fenomeno della ripopolazione cristiana della penisola arabica, dove ci sono oggi ben 2.500.000 cattolici. Ma in Arabia Saudita è vietato il culto cristiano. La sfida di Benedetto XVI appartiene alla categoria dello spirito: ridar vita e coraggio alle comunità dall'interno. Il rischio è la ghettizzazione o la musealizzazione o forse la scomparsa. I cattolici sono legati agli altri cristiani, tra l'altro rappresentati al sinodo. Attraverso un rinvigorimento interiore, il Cristianesimo orientale può trovare la sua missione. Papa Ratzinger non ha paura di parlare del Cristianesimo come minoranza. Il caso del Medio Oriente è però estremo: minoranze creative o autunno del Cristianesimo? Questa è la sfida, non solo religiosa, ma geopolitica.


in “Corriere della Sera” del 16 ottobre 2010

I numeri sulla fame nel Pianeta

di Carmine Saviano

Vittime della mancanza di cibo. E di conflitti che cancellano ogni possibilità di sviluppo. Di disastri naturali che mettono fine a qualsiasi sogno di sopravvivenza. Di crisi finanziarie provocate dal cinismo speculativo. La quantità di affamati nel mondo fa paura, nonostante - dicono - sia in calo: secondo le ultime stime della Fao, ammontano a un sesto della popolazione mondiale, poco meno di un miliardo di persone. E' dedicata a loro la Giornata Mondiale dell'alimentazione, giunta alla sua nona edizione. Tante iniziative in Italia e in tutto il pianeta: dalla petizione online per pressare i governi alle tante attività che coinvolgono sportivi e uomini e donne del mondo dello spettacolo. Fino alla maratona prevista a Roma domenica (17 ottobre). Tutti "uniti contro la fame".

Le cifre della Fao lasciano senza fiato. 925 milioni di affamati. Gran parte dei quali concentrati nell'Africa sub sahariana, dove il 30% della popolazione è vittima della fame. Con picchi in Sierra Leone dove il 70% vive al di sotto della soglia di povertà, e nello Zambia dove la percentuale è del 68%. Nei paesi sviluppati, o in via di sviluppo, non va molto meglio: il 16% delle persone non ha di che nutrirsi. E, molto spesso, a farne le spese sono i più deboli: in India la fame colpisce il 48% dei bambini al di sotto dei cinque anni, in Bangladesh il 46%, in Madagascar il 42%, in Eritrea il 40%.

Nella Giornata Mondiale dell'alimentazione, c'è spazio anche per l'analisi delle politiche vincenti contro la fame. Ovvero di quelle dei paesi che, negli ultimi quindici anni, hanno migliorato, di molto, la propria situazione. In questo caso, i dati sono incoraggianti: 31 paesi, su 79 monitorati dalla Fao hanno registrato un calo significativo del numero delle persone sottonutrite. I denominatori comuni di questi successi sono quattro: la creazione di un ambiente favorevole per la crescita economica e il benessere; gli investimenti nel settore rurale; la difesa e il mantenimento dei i successi raggiunti; la pianificazione di un futuro sostenibile.

Raccogliere firme per far sentire il peso dell'opinione pubblica. E' l'obbiettivo di "1billionhungry. com", la petizione online lanciata dalla Fao. Attiva da più di un anno, ha già raggiunto un milione e centomila firme. E non solo: 1billionhungry è una campagna di mobilitazione fatta di video e documenti, condivisi sui maggiori social network da centinaia di migliaia di persone. E l'Italia è tra i paesi più attivi con quasi 70mila firme. Una corsa digitale per la solidarietà che vede in testa il Nepal con più di 140mila firme. Poi il Bangladesh con 125mila, il  Brasile con 115mila e l'India con 70mila. Scarso il contributo dei paesi occidentali: 12mila le adesioni negli Stati Uniti, 4mila in Gran Bretagna, 3mila in Germania e solo mille in Russia. (...)

Bobbio, perché la mitezza è ancora una virtù

di Gustavo Zagrebelsky

La forza è (nel senso che sempre così è stato, anche se non è detto che sempre così sarà) la «virtù» della politica. La mitezza, invece, è una virtù sociale. Così, si distingue politica e società. I caratteri dell'una e dell'altra possono divergere, anche radicalmente, gli uni dagli altri. Ma è davvero così? Possiamo immaginare una società mite sotto un governo violento? Oppure, al contrario, una società violenta e un governo mite? A me pare che no, non possiamo. Non possiamo immaginare questa separazione. Ogni forma di governo, cioè ogni forma di esercizio della funzione politica, corrisponde a una sostanza sociale. Così, se vogliamo una politica democratica, dobbiamo volere anche una società democratica. Se vogliamo imporre un governo dispotico, cioè basato sulla violenza, occorre che la società sia a sua volta violenta, che vi sia una contrapposizione tra chi sta su e chi sta giù, che ci sia prepotenza nei rapporti sociali. Forma (politica) e sostanza (sociale) sono strettamente collegate, l'una retroagisce nell'altra. Una società non democratica, per esempio basata sullo sfruttamento di una parte a opera dell'altra, produrrà politica non democratica, anche se le forme sono democratiche (ad esempio, se esistono partiti, elezioni, associazioni, eccetera) e la politica non democratica sosterrà i caratteri non democratici della società. Non si può separare. Così, di conseguenza, mi pare un errore fuorviante quello di tanti «ingegneri costituzionali» che si occupano di «regole» ma ignorano, come se non c'entrasse, la materia sociale che in queste regole dovrebbe scorrere. In altri termini, le virtù sociali (come i vizi) sono diffusive di sé. Se la storia del mondo ci dice che la politica non è (mai stata) mite, non è perché non lo possa essere, ma perché le società sono state violente. È la storia dei rapporti umani, siano essi politici che sociali, che ha sempre mancato di quelle virtù che raccogliamo sotto il nome di mitezza. Chi vuole promuoverla effettivamente, deve operare e socialmente e politicamente. Un'ultima, capitale domanda rimanda al «guai ai miti», espressione che troviamo nel testo di Bobbio. Da giurista, la formulo così: se violenza e sopraffazione s'abbattono sui miti di questo mondo, quid iuris? La questione, naturalmente, non riguarda il diritto in senso legale. Riguarda il sentirsi moralmente «in diritto»? «In diritto» di reagire con gli stessi mezzi, tradendo la propria mitezza, o «in dovere» di subire, restandole fedeli ad ogni costo? Innanzitutto, osserviamo che la mitezza non è propriamente una virtù reciproca, come la tolleranza, che è una virtù vicina alla mitezza, la quale non può vivere o, meglio, non lasciare vivere se non è ricambiata. «Il mite non chiede, non pretende alcuna reciprocità: la mitezza è una disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrisposta per rivelarsi in tutta la sua portata. Come del resto la benignità, la benevolenza, la generosità, la bienfaisance, tutte virtù sociali ma nello stesso tempo unilaterali (non sembri una contraddizione: unilaterali nel senso che alla direzione dell'uno verso l'altro non corrisponde un'eguale direzione, eguale e contraria, del secondo verso il primo. “Io ti tollero se tu mi tolleri”. E invece: “Io custodisco ed esalto la mia mitezza - o la mia generosità o la mia benevolenza - nei tuoi riguardi indipendentemente dal fatto che tu sia altrettanto mite - o generoso o benevolente - con me”). La tolleranza nasce da un accordo e dura quanto dura l'accordo. La mitezza è una donazione e non ha limiti prestabiliti». Davvero? Non ha limiti prestabiliti? E se chi ha potere su di noi ci costringe a essere violenti, cioè ci priva della possibilità d'esercitare la nostra mitezza? D'accordo: la mitezza non è una virtù reciproca. Ma ha pur tuttavia bisogno di un «ambiente» nel quale possa esistere. Possiamo immaginare, senza cadere nel ridicolo, discorsi di mitezza in un campo di sterminio. Tutti gli ambienti sono compatibili con la mitezza? Auschwitz lo era? Quando, per sopravvivere, siamo costretti ad essere violenti e spietati, perfino nei confronti dei nostri più prossimi, amici, familiari, compatrioti, esseri umani in genere, e anche al di là della cerchia degli umani, nei confronti degli esseri viventi, della natura vivente, che cosa dobbiamo fare? La mitezza illimitata non si trasformerebbe allora in un vizio: un vizio che ne è la prosecuzione, ma che è pur sempre un vizio: imbecillità, passività, ignavia, apatia, irresponsabilità e perfino connivenza e corresponsabilità? I moralisti, a partire dall'ammonimento dell'Ecclesiaste 7, 16 («Non esser troppo scrupoloso né saggio oltre misura. Perché vuoi rovinarti?») hanno sempre messo in guardia rispetto all'eccesso nella virtù. «Noli effici iustus multum», dice Sant'Agostino nel Commento al Vangelo di Giovanni, vedendo nella sproporzione della virtù un atto d'orgoglio attraverso il quale passano i vizi. Noli effici mitis multum, potremmo dire noi. Il «lasciare gli altri essere quello che sono», che abbiamo visto essere una definizione propria della mitezza, in questi casi non si trasformerebbe, per eccesso di virtù, in un lasciare che gli altri facciano di noi quello che noi non siamo, che ci trasformino in violenti o in correi dei violenti? L'inerzia, in questo caso, contro la prima apparenza, non sarebbe allora proprio un peccato d'omissione contro la mitezza? I teorici della nonviolenza distinguono tra non violenza attiva e passiva e non giustificano quella passiva. La nonviolenza deve essere attiva per appartenere alla virtù della mitezza. Ma, con questa distinzione non si supera lo scoglio. Affinché essa possa essere attiva, cioè produttiva d'effetti benefici, occorre per l'appunto che esista un ambiente non totalmente degradato dalla violenza, nel quale il mite possa far vedere e valere, almeno come un piccolo bagliore nel buio, le proprie ragioni. Quando la società si fa violenta, quando la politica si alimenta di questa violenza e a sua volta l'alimenta creando divisioni, esclusioni, inimicizie, ingiustizie, sopraffazione, e paura, davanti al mite due strade si aprono: perseverare nella mitezza lasciandosi sommergere dalla violenza, oppure contraddirla per il momento, combattendo contro i violenti, scendendo cioè sul loro stesso piano. La prima opzione è quella della speranza: la speranza nella Provvidenza divina che, alla fine di tutto, farà prevalere il bene sul male, o la speranza nella natura fondamentalmente buona degli esseri umani, una natura che lavora da sé per liberarsi delle scorie che la rendono cattiva. In entrambi i casi, la vittoria dei miti sarebbe assicurata, anche se non sappiamo quando, già su questa terra, secondo la promessa evangelica. Ma se non si ha questa speranza e la si considera un rifugio solo consolatorio? Allora anche i miti non disdegneranno di uscire dalla loro indole profonda e indossare quella dei loro nemici. Si tratta di combattere una buona battaglia che, nei risultati sperati, non contraddice affatto ma ribadisce la loro fedeltà alla mitezza. Quando ciò accadesse, quando ciò accadrà, bisognerebbe, bisognerà temere l'ira dei miti. Una volta, fu chiesto al professor Bobbio in che cosa egli avesse speranza. La speranza è una virtù teologale, fu la risposta. Solo i credenti possono averla. Gli altri, tra cui lui stesso, devono fare affidamento sulle proprie forze e in queste porre le proprie laiche virtù (Congedo, in De senectute e altri scritti autobiografici, Torino, Einaudi, 1996, pp. 107-108). Sulla premessa di questa risposta, non avrei dubbi nel dire che anche lui sarebbe stato dalla parte di quanti pensano che, superato il limite, miti o non miti che si sia, si deve cessare di subire e passare all'azione.


in “La Stampa” del 13 ottobre 2010

“Bisogna eliminare l'espressione 'minoranza'”

Intervista a Sua Beatitudine Grégoire III Laham, patriarca di Antiochia dei greco-melkiti, arcivescovo di Damasco,

a cura di Frédéric Mounier e Olivier Bonnel

Il governo israeliano ha intenzione di chiedere ai suoi futuri cittadini un giuramento di fedeltà allo “Stato ebraico e democratico di Israele”. Che cosa ne pensa?

Gli Israeliani si ritengono in dovere, per la loro fede, di proclamare Israele Terra promessa. Ma, a causa del loro nazionalismo, vedono in Israele anche la loro patria. Noi dobbiamo aiutarli, nell'amicizia, a cambiare questo punto di vista. Gli ebrei, che vogliono essere un esempio di democrazia nel mondo arabo, senza distinzione di razza e di religione, diventerebbero una nazione religiosa? Sarebbe assolutamente un suicidio per Israele. Io dico loro: “Amici, non fate questo!”. I cristiani hanno lì un ruolo importante da svolgere. Noi riconosciamo il diritto all'esistenza di Israele, alla sua sicurezza, e allo stesso tempo, riconosciamo il diritto all'esistenza per i Palestinesi.

Per lei, i cristiani d'Oriente non sono, nel vero senso del termine, una minoranza?

Questo Sinodo vuole dirci: “Non abbiate paura!”. Per eliminare la paura, bisogna eliminare l'espressione “minoranza”. Perché una minoranza è un gruppo che viene dall'esterno e che si stabilisce in una nazione. Non è il nostro caso. Noi siamo cittadini a pieno diritto.

Qual è la vostra situazione in Siria?

La Siria è un esempio di paese “laico credente”, che rispetta la fede cristiana e la fede musulmana. Dal 27 settembre scorso, noi disponiamo di uno statuto personale: le religioni non cristiane, tra cui gli ebrei, e i cristiani possono governarsi secondo le proprie leggi religiose per quanto riguarda la famiglia, il matrimonio, l'eredità, ecc. In Siria, abbiamo la libertà di culto. Tuttavia, la libertà di coscienza non è garantita. Del resto, noi godiamo di un regime favorevole: né le moschee né le chiese pagano elettricità e acqua. Nei quadri dei piani di urbanizzazione, il governo dà dei terreni per la costruzione delle moschee e delle chiese. Con i protestanti e gli ortodossi abbiamo potuto realizzare un catechismo comune, stampato a spese dello Stato, e distribuito dal ministero dell'istruzione.

E per la libertà di conversione?

La conversione non è proibita, ma chi si converte non può essere registrato come cristiano. Stiamo lavorando a questo problema. Per passare alla libertà di coscienza nel mondo musulmano occorre molta pazienza. Dobbiamo essere parte del mondo arabo e lavorare insieme per il suo avvenire. E non come cristiani opposti ai musulmani.

I cristiani avrebbero un ruolo particolare da svolgere?

Un ruolo unico! Nessuno può svolgerlo al loro posto. Dato che siamo sul posto, siamo il vero luogo dove queste idee maturano. Il Sinodo deve davvero valorizzare questa cosa. Una vera rivoluzione aspetta il mondo arabo. Esiste un'élite istruita, è in corso una maturazione. Lo si percepisce nei libri, nei media.

Ci vuole un Vaticano II per le Chiese d'Oriente?


Mi piacerebbe proporre lo svolgimento di un “sinodo centrale”, con i protestanti e gli ortodossi, da tenersi in Medio Oriente. Sarebbe il nostro Vaticano II. Potrebbe essere un frutto di questo sinodo.


in “La Croix” del 13 ottobre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Hai dei nemici? Bene.

Questo significa che qualche volta nella tua vita, hai lottato per qualcosa.



Winston Churchill
Bestemmia di Berlusconi, Rosy Bindi massacra monsignore

di Dario Ferri

(...) Il settimanale Oggi ospita un botta-e-risposta davvero interessante tra il presidente del Partito Democratico Rosy Bindi e il teologo monsignor Rino Fisichella, oggi presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione e prima nello stesso ruolo alla Pontificia Accademia per la Vita. Materia del contendere: la barzelletta in cui Silvio Berlusconi bestemmia.

LA TESI DI FISICHELLA - L'approccio di monsignor Fisichella è quello dogmatico: La bestemmia è il peccato che si riferisce al secondo comandamento: Non pronunciare il nome di Dio invano. Il catechismo la definisce un «proferire contro Dio

Se una mendicante “rompe le balle” a un prete

di Walter Verini

“Non rompermi le balle, vado di fretta”. La mendicante si lascia rimbalzare la frase addosso e, con una rassegnazione che le deve essere consueta, tende oltre la sua mano, sperando che il prossimo passante sia meno frettoloso e le allunghi una monetina. Sono le 8.12 di sabato 9 ottobre 2010, sedicesimo D.B.; Milano, Italia; Stazione di Porta Garibaldi. Fin qui, tutto normale. Se non fosse che quel “non rompermi le balle

Arma letale

di Massimo Gramellini

Ci vuole il porto d'armi per i tassisti, urla la Lega, dopo che a Milano un membro della categoria è stato pestato a sangue da un gruppo di bulli (coperti dalla scandalosa omertà del quartiere) per aver preso sotto le ruote il cockerino senza guinzaglio di una loro conoscente. Ma immaginiamo che quel tassista fosse stato armato e avesse ucciso nella colluttazione uno dei bulli o la proprietaria del cockerino. Adesso qualcuno direbbe che i proprietari di cani hanno diritto di girare armati per difendersi dall'arroganza dei pirati della strada. Ma immaginiamo che la proprietaria del cockerino fosse stata armata e un passante avesse pestato la cacca del suo cane, arrabbiandosi come un bufalo, e la signora in preda alla concitazione del litigio avesse fatto fuoco. Adesso qualcuno direbbe che i passanti hanno diritto di girare armati. Ma immaginiamo che il passante fosse stato armato e avesse pestato la cacca di un alano: nel vedersi circondato dalla proprietaria del cane, dai bulli e dal tassista, avrebbe temuto che gli scatenassero contro il temibile molossoide. Preso dal panico, il passante avrebbe sparato, sbagliando completamente la mira e colpendo l'inquilino del prospiciente caseggiato, sportosi alla finestra per curiosare. Adesso qualcuno direbbe che tutti gli inquilini di tutte le case affacciate su qualche strada hanno diritto di girare armati. Ma immaginiamo che l'unico a essere armato fosse stato il cockerino. Armato di guinzaglio, intendo, come usa nei Paesi civili.

Forse ci saremmo risparmiati questa carneficina.
La «società liquida» si riflette anche in questa deriva

Se la politica è solo dei leader, proliferano i partiti non le idee-forza

Ha avuto davvero ragione Zygmunt Bauman a definire «liquida» la società dell'Occidente avanzato. Nessuno attributo, infatti, è più aderente alla realtà per indicare almeno due concetti insieme: la massa e la precarietà delle sue forme. Una condizione che non incoraggia a metter mano a molte iniziative e, tra queste, soprattutto quelle politiche. In teoria. In pratica, invece, avviene il contrario; o almeno così sembra, se è vero che assistiamo senza particolari emozioni, alla nascita, alle aggregazioni e alla scomposizione a getto continuo di partiti e di alleanze. Solo gli esperti, ormai, sono in grado di dire quanti e quali siano i partiti in Italia; e questo groviglio di nomi e di simboli è così intricato che anche i navigatissimi funzionari del ministero dell'Interno, hanno difficoltà a catalogarli senza errori. Per tutto il Novecento i partiti politici sono stati sempre la conseguenza di una più o meno diffusa condivisione di idee e di progetti di sviluppo sociale ad essi preesistente. E proprio questa loro natura, li ha resi riconoscibili e organizzati. Il rischio, come le tragedie del secolo hanno dimostrato, era il contrario di quelli odierni. Oggi i partiti si costituiscono attorno agli interessi di un gruppo (se non di singoli leader) e solo dopo cercano di dotarsi di un apparato programmatico e di idee da proporre all'elettorato; nel secolo scorso, invece, il pericolo, ma si potrebbe dire la tragedia, era la riduzione e la compressione delle idee in sistemi di potere assoluto, in mano a leader-dittatori.

L'uscita dal Novecento, il "secolo breve" come giustamente l'ha definito lo storico Eric J. Hobsbawm, simbolicamente rappresentata dalla caduta del Muro di Berlino, pur cancellando l'obbrobrio del totalitarismo, ha, però, coinvolto nella crisi anche i partiti tradizionali non ideologici. Una sorta di rifiuto generalizzato il quale, a lungo andare, si sta rivelando assai meno liberante di quanto si era immaginato. La nuova politica, insomma, pur di liberarsi dai fantasmi del passato, ha finito per buttare via il bambino insieme all'acqua sporca. E siccome anche in politica vale la legge generale che non vi può essere vuoto che non sia riempito, alla crisi della forma-partito è corrisposta con una simmetria quasi perfetta, la proliferazione di partiti incapaci di produrre liberamente idee e progetti attorno a valori condivisi, e anche indisponibili al confronto democratico tra i propri aderenti, e, dunque, senza organizzazione di base.

Quello che conta
Dalle «Omelie sui vangeli»

di san Gregorio Magno, papa


Vi sono altre cose, fratelli carissimi, che mi rattristano profondamente sul modo di vivere dei pastori. E perché non sembri offensivo per qualcuno quello che sto per dire, accuso nel medesimo tempo anche me, quantunque mi trovi a questo posto non certo per mia libera scelta, ma piuttosto costretto dai tempi calamitosi in cui viviamo. Ci siamo ingolfati in affari terreni, e altro è ciò che abbiamo assunto con l'ufficio sacerdotale, altro ciò che mostriamo con i fatti. Noi abbandoniamo il ministero della predicazione e siamo chiamati vescovi, ma forse piuttosto a nostra condanna, dato che possediamo il titolo onorifico e non le qualità. Coloro che ci sono stati affidati abbandonano Dio e noi stiamo zitti. Giacciono nei loro peccati e noi non tendiamo loro la mano per correggerli. Ma come sarà possibile che noi emendiamo la vita degli altri, se trascuriamo la nostra? Tutti rivolti alle faccende terrene, diventiamo tanto più insensibili interiormente, quanto più sembriamo attenti agli affari esteriori. Ben per questo la santa Chiesa dice delle sue membra malate: «Mi hanno messo a guardiana delle vigne; la mia vigna, la mia, non l'ho custodita» (Ct 1, 6). Posti a custodi delle vigne, non custodiamo affatto la vigna, perché, implicati in azioni estranee, trascuriamo il ministero che dovremmo compiere.

(Om. 17, 3. 14; PL 76, 1139-1140. 1146)

Papa Luciani e la bimba in provetta

di Alberto Melloni

La discussione sui bimbi in provetta riaccesasi in questi giorni attorno alla assegnazione del Nobel, potrebbe indurre molti a pensare che la Chiesa cattolica sia una Chiesa che o è «contro» ciò che per tanti è un dono o deve esserlo per adempiere la propria missione. Contro il rischio che questo stereotipo del «no» si consolidi come una accusa o come un orgoglio val la pena di rileggere l'intervista di Albino Luciani. La consegnò ai primi d'agosto del 1978 alla rivista Prospettive nel mondo ed era dedicata alla «prima» bambina venuta al mondo con una fecondazione in vitro. Il futuro Giovanni Paolo I in questa specie di lettera augurale

"Mi vietate di parlare però io non vi odio"

di Liu Xiaobo, premio Nobel per la Pace 2010

Il giugno 1989 ha segnato il punto di svolta nella mia vita. Prima, la mia carriera era stata una tranquilla cavalcata dal liceo al dottorato alla cattedra all'Università di Pechino, dov'ero popolare e ben accetto agli allievi. Contemporaneamente ero un intellettuale pubblico. Negli Anni 1980 avevo pubblicato articoli e libri di impatto, ero spesso invitato a parlare qua e là ed ero ospitato come visiting professor in Europa e negli Stati Uniti. Avevo però un impegno con me stesso: vivere con onestà, responsabilità e dignità. Di conseguenza, tornato dagli Stati Uniti per partecipare al movimento del 1989, sono stato incarcerato per «propaganda contro-rivoluzionaria e incitamento al crimine», e da quel momento non sono mai più stato autorizzato a pubblicare o parlare in Cina. Per il semplice fatto di aver espresso opinioni diverse da quelle ufficiali e aver preso parte a un movimento pacifico e democratico, un professore perde la cattedra, uno scrittore il diritto di pubblicare e un intellettuale la possibilità di parlare in pubblico, il che è ben triste, sia per me come individuo sia per la Cina dopo tre decenni di riforme e aperture.

Le mie più drammatiche esperienze dopo il 4 giugno 1989 sono tutte legate ai tribunali; le due opportunità che ho avuto di parlare in pubblico mi sono state fornite dai due processi contro di me, quello del 1991 e quello attuale. Sebbene le accuse fossero diverse, nella sostanza erano identiche: reati di opinione. Vent'anni dopo, le anime innocenti del 4 giugno non riposano ancora in pace e io, spinto sulla strada della dissidenza dalle passioni di quei giorni, dopo aver lasciato nel 1991 il carcere di Qincheng, ho perso il diritto di parlare apertamente nel mio Paese e l'ho potuto fare solo sui media stranieri, controllato da vicino per anni, rieducato con i lavori forzati e adesso ancora una volta portato in tribunale dai miei nemici dentro il regime. Ma ancora una volta voglio dire a quel regime che mi priva della mia libertà, che io rimango fermo a quanto dissi vent'anni fa nella mia «Dichiarazione del 2 giugno sullo sciopero della fame»: non ho nemici e non ho odio.

Nessuno dei poliziotti che mi hanno controllato, arrestato e controllato, nessuno dei giudici che mi hanno processato e condannato, sono miei nemici. Mentre non posso accettare che mi abbiate sorvegliato, arrestato, processato o condannato, rispetto le vostre professioni e le vostre personalità. L'odio corrode la coscienza di una persona; la mentalità del nemico può avvelenare lo spirito di un Paese, istigarlo a una vita brutale e a lotte mortali, distruggere la tolleranza e l'umanità di una società, bloccare il progredire di una nazione verso la libertà e la democrazia. Spero perciò di saper trascendere le mie vicissitudini personali replicando all'ostilità del regime con l'amore...

Aspetto con ansia il momento in cui il mio Paese sarà terra di libera espressione, dove i discorsi di tutti i cittadini siano trattati allo stesso modo; dove valori, idee, opinioni politiche competano l'una con l'altra e coesistano pacificamente; dove le opinioni della maggioranza e della minoranza abbiano le stesse garanzie, in particolare siano pienamente rispettate e difese le idee politiche diverse da quelle di chi detiene il potere; dove tutti i cittadini possano esprimere le loro idee politiche senza paura e non siano mai perseguitati per le loro voci di dissenso. Spero di essere l'ultima vittima dell'inquisizione letteraria cinese e che dopo di me nessun altro sarà più incarcerato per aver detto quello che ha detto.

Discorso pronunciato il 23 dicembre 2009 in apertura del processo per «incitamento alla sovversione del potere dello Stato»

Rosy Bindi, Berlusconi e la bellezza

di Gad Lerner

Chi sarà il più bello tra Rosy Bindi e Silvio Berlusconi?

Me lo chiedo sulle pagine di “Vanity Fair”, ispirate a canoni estetici molto severi, dunque so di sfiorare il ridicolo, ma me lo chiedo molto seriamente. Procedo tenendo appoggiata, di fianco alla tastiera del pc, la fotografia con cui il nostro settantaquattrenne presidente del Consiglio ha fatto tappezzare di manifesti Milano, prima di tenervi domenica scorsa un acceso comizio al Castello Sforzesco.

Dunque sto parlando di una foto che si è scelto lui, cioè in cui si piace, o per lo meno da cui si sente ben rappresentato. Guardiamolo insieme, senza pregiudizi: vi sembra un bell'uomo?

La pelle del viso ha una colorazione innaturale e la levigatezza da cui è contraddistinta ne determina un'ipertensione tale che il sorriso finisce deformato in smorfia. Non aggiungerò dettagli sull'arcinota peluria che ricopre il capo del Capo, se non per rilevare che il suo ritratto truccato e artefatto lo rende sempre più somigliante alla caricatura di un dittatore nordcoreano. O alla maschera tragica di un clown cui una lacrima sta per sciogliere il rimmel.

Non credo di sbagliare immaginando un uomo anziano, pieno di acciacchi, disastrato nei rapporti familiari, privo di un rapporto equilibrato con la femminilità, alle prese con la decadenza fisica, che dedica molto tempo a guardarsi allo specchio.

Ciò spiega l'evidente ossessione che quest'uomo manifesta nei confronti di Rosy Bindi. Cioè una donna che certamente non corrisponde ai severi canoni estetici di “Vanity Fair” ma appare consapevole, quieta, risolta, naturale nell'accettazione della sua fisicità. Già Luigi Manconi ha interpretato acutamente l'ossessione del premier per la Bindi come ansia, generata dalla decadenza fisica, “l'usura del tempo e l'infiacchirsi e l'inflaccidirsi del corpo”. Posso ben capirlo io, di quasi vent'anni più giovane, eppure già consumato.

Ma temo che nella mentalità di Berlusconi ci sia un handicap generazionale che la sua elevata posizione di potere non lo aiuta a fronteggiare. Proteso invano alla ricerca del bello, egli contempla che una “racchia” qual è la Bindi dovrebbe andare a nascondersi, mortificata dalla sciagura di non piacere a uomini come lui. La eleva con pervicacia a archetipo della cultura che detesta, perché in verità lo inquieta la spigliatezza manifestata da quella donna nell'infischiarsene delle apparenze.

L'accanimento reiterato da Berlusconi nei confronti di Rosy Bindi, confida di isolarla e ridicolizzarla perché in tanti condividiamo le debolezze esistenziali del maschio declinante. Senza il di più della bestemmia con cui ha condito la sua ultima barzelletta, neppure saremmo qui a parlarne. Allo stesso modo, noi ebrei taceremmo sulle barzellette che ci riguardano, non sopportando l'idea di apparire poco spiritosi, non abbastanza “di mondo”, se a suffragare il nostro malessere non avesse provveduto un epigono del berlusconismo come il senatore Ciarrapico, con la sua imprecazione contro i portatori di kippà, alle cui cospirazioni il traditore Fini si sarebbe sottomesso.

Il becerume che assume il potere come canone estetico
La macchina del dolore

di Massimo Gramellini

Siamo tutti vittime della stessa macchina. La macchina del dolore, che si nutre di casi umani e in cambio macina numeri dell'Auditel, quelli che fanno la gioia e il fatturato dei pubblicitari. Loro, i burattinai. Gli altri - giornalisti, pubblico, ospiti - i burattini. Colpevoli, naturalmente, ma solo di non avere la forza di strappare il filo. Federica Sciarelli è una giornalista in gamba e una persona perbene, ma forse ha mancato di freddezza. Avuto sentore della notiziaccia, avrebbe dovuto mandare la pubblicità e soltanto dopo, lontano dalle luci della diretta, rivolgersi alla madre in pena, invitandola ad allontanarsi dal video e a chiamare i carabinieri. Una questione di rispetto, ma in questa società di ego arroventati chi ha ancora la forza e la voglia di mettersi nei panni del prossimo, guardando le situazioni dal suo punto di vista?

Noi giornalisti siamo colpevoli di abitare il mondo senza provare a cambiarlo ed è una colpa grave, lo riconosco. La consapevolezza del potere dei media accresce le nostre responsabilità, ma non può annullare completamente quelle degli altri. Mi riferisco anzitutto agli ospiti dei programmi. Il presenzialismo televisivo della mamma di Sarah ha l'attenuante della buona fede. Ma fino a qualche anno fa i parenti delle persone scomparse andavano in tv per il tempo minimo necessario a leggere un comunicato o pronunciare un appello. Poi si ritiravano nel loro sgomento. Adesso non trovano di meglio che bivaccare per giorni e giorni in tv: non davanti al video ma dentro. Spalancando alla prima telecamera di passaggio la stanza della figlia scomparsa e accettando di partecipare a una trasmissione come «Chi l'ha visto?» dalla casa del cognato, sul quale in quel momento già gravavano forti sospetti.

Non accuso la signora: è cresciuta con questa tv che sembra onnipotente, nel vuoto che c'è. Una tv che è vita meglio della vita e in cui il Gabibbo ha preso il posto del poliziotto, «Forum» del pretore e «Chi l'ha visto?» del detective Marlowe. Mi limito a riconoscere in quelle come lei la vera carne da macello televisivo. Carne che si immola volontariamente, nella convinzione che oggi la televisione possa darti tutto, persino tua figlia. Giornalisti emotivi, tronisti del dolore. Il ritratto di famiglia è quasi completo. Manca l'ultimo tassello, forse il più importante. I telespettatori. Le tante prefiche guardone che sputano sentenze dal salotto di casa. Ah, quanta sacrosanta indignazione! Peccato che durante il melodramma il pubblico di «Chi l'ha visto?» sia più che raddoppiato. Erano talmente occupati a indignarsi che si sono dimenticati di compiere l'unico gesto che potrebbe davvero cambiare questo sistema fondato sul pigro consenso del popolo: spegnere il televisore.
Gesù non rideva? Eppure tutto il Vangelo è un inno alla gioia

Gesù ha mai riso? Cristo piange davanti alla tomba dell'amico Lazzaro, di fronte alla città santa, freme e soffre quando s'avvicina la sua ora finale. Conosciamo i suoi sentimenti. I Vangeli ci informano sul suo sdegno, che s'accende fino al punto di fargli impugnare una frusta. In sintesi, Gesù partecipa della natura umana amando, mangiando, provando tristezza e dolore. Ma si può dire che condivida con noi il riso e l'ironia? C'è qualche passo dei Vangeli in cui lo si oda ridere? Certo, partecipava volentieri ai banchetti, ma esiste una menzione del suo sorridere? Oppure il suo era sempre un volto severo come quello che ha rappresentato Pasolini nel suo Vangelo secondo Matteo?

«Flevisse lego, risisse numquam» ("Leggo che egli ha pianto, mai che abbia riso"). Così scriveva in modo lapidario un autore medievale, che si celava sotto il nome di Ambrogio, il celebre Padre della Chiesa (lo Pseudo-Ambrogio), negando che le labbra di Cristo siano state sfiorate dal sorriso. Certo, se ci attestiamo sul verbo rigoroso del ridere
Il futuro dei media

Rivoluzione digitale, il dovere dell'annuncio

La notizia corre sul web. O resta fissa sulla carta. Passa su schermi e onde radio. Finisce in archivi e database. Viene strizzata, ingigantita. a volte a scapito della realtà dei fatti. Insomma fluttua in quella dimensione che è stata definita crossmedialità, l'interazione tra i vari mass media. Quale spazio, quale stile e quale ruolo giocano la stampa cattolica in questo scenario caratterizzato dalla svolta digitale che a molti
Media cattolici spesso « inermi » a soccorrerli sarà la blogsfera

di Luigi Accattoli

Affermazione forte: «Quella cattolica è l'unica internazionale dei media che esista». La fa Angelo Paoluzzi, già direttore di Avvenire. Richiamo al principio di realtà: «Il messaggio veicolato dai media della Chiesa è controcorrente e inerme». Questo richiamo lo svolge il portavoce vaticano padre Federico Lombardi. Sono i due atteggiamenti che dominano il dibattito del Congresso della stampa cattolica mondiale che si tiene in Vaticano: oggi il Papa parla ai congressisti. Perché quel messaggio «inerme» possa essere ascoltato «con rispetto e attenzione» almeno da chi non ha prevenzioni
Le proposte di un vescovo per «riformare la chiesa»

intervista a mons. Giuseppe Casale

a cura di Mauro Castagnaro

«Chi non è contro di noi è con noi», «Probati viri uxorati», «Gay: dall'orgoglio alla consapevolezza», «Eluana ci parla ancora», «Divorziati risposati», «Chiesa povera tra i poveri», ecc. Basta scorrere l'indice per capire che il nuovo libro di monsignor Giuseppe Casale, vescovo emerito di Foggia-Bovino, esplicitamente intitolato Per riformare la Chiesa. Appunti per una stagione conciliare (La Meridiana, 2010, pp. 76,
Il mio coma, esperienza radicale dell'«essere straniero»

di don Giovanni Nicolini

Un tesoro molto personale. Forse troppo autoreferenziale. Forse vanitoso. Spero non solo così nell'affetto e nella considerazione dei lettori. Nel giugno scorso uno strano "incidente" mi ha messo in coma per nove giorni, esplodendo come all'improvviso. Di quei giorni non ricordo assolutamente nulla. Sono rimasto immerso in un mondo tutto mio, con qualche riferimento al reale, ma in gran parte del tutto fantastico, anche se pieno di pensieri, di avvenimenti e di sentimenti. Appena cominciato a uscirne, ho chiesto di avere qualche foglio e una penna e con molta fatica ho provato a commentare l'incidente, mettendo giù qualche parola in una grafia quasi indecifrabile. Quei nove giorni di totale assenza seguiti poi dal racconto delicato e paziente dei miei cari sono stati in questi mesi la fatica più grande della mente e del cuore. L'esser stato così vicino all'ultima soglia senza saperlo. L'esservi stato respinto. E tutto senza dolore fisico, senza alcuna consapevolezza di pericolo, senza la possibilità di preparare quella "buona morte" che ogni giorno chiedo nelle Avemaria del rosario alla potente protezione della Madre di Dio. Qui ho trovato il mio piccolo, prezioso "tesoro nel campo". Ho letto in quei fogli scritti male la memoria ormai distante degli anni in cui ho diretto la Caritas di Bologna, quando gli eventi, e una parola, mi hanno invaso e occupato: la parola «straniero». Tutto allora era emergente e drammatico. E' grande l'esperienza quotidiana dei miei limiti e delle resistenze che, dentro e fuori dalla Chiesa, rendevano arduo ogni tentativo di andare incontro al dramma di questi fratelli venuti da lontano. Nei momenti più difficili, quella parola «straniero» mi incalzava e mi sfidava a livelli sempre più profondi dello spirito. Straniero è parola di rilievo nella grande tradizione ebraico-cristiana, al punto che i padri della Chiesa nascente così amavano qualificarsi per dire di un cammino verso la vera «terra». «Parroco» è parola di origine greca che vuol dire «pellegrino». E «parroci» sono nella Lettera di Pietro tutti i cristiani. La parola «ebreo» trae forse la sua origine da un verbo che significa «passare». Perché non si è ancora arrivati! Allora, nella povertà e spesso nella sconfitta del mio lavoro, mi era istintivo pensare che se quasi niente riuscivo a fare per i miei fratelli stranieri, voleva dire che io mi dovevo fare «straniero» per loro e con loro, per essere io a ricevere da loro l'ultimo senso della mia piccola vita. Ho cominciato allora a farmi piacevolmente «pellegrino»: a piedi a Roma, a piedi a S. Giacomo di Campostella... un pellegrinaggio bello, ma certamente lontano dall'avventura drammatica di questi miei nuovi fratelli. Più sottile e profondo di tutto questo, più segreto e, devo dirlo, più angosciante, capivo che il termine dello straniero mi chiamava più lontano. Ho provato allora ad estraniarmi almeno un poco in «terre» meno attraenti: mangiare cibi decisamente cattivi; dormire con persone con le quali non avrei mai pensato di condividere una stanza. Ma anche questo si affacciava su un passo ulteriore, che insieme mi affascinava e mi spaventava. In un dibattito sottoculturale che invita a resistere allo straniero con la rivendicazione forte della propria «identità», capivo che c'era un ulteriore passo da compiere: il divenire «straniero» anche di me stesso. Ma non sapevo come fare. Il Signore me l'ha fatto scoprire. Quei nove giorni di coma provo dunque a coglierli come il modesto segno di quel «non essere più me stesso» che ha portato il Figlio di Dio all'esilio della carne e all'obbedienza della croce. Quando mi sono "risvegliato", alzando lo sguardo mi sono accorto che un giovane rabbino di Galilea chiamato Gesù gemeva e moriva per me.


in “Jesus” n. 10 dell'ottobre 2010

San Francesco che contestatore

Vediamolo, san Francesco, come contestatore. Badate che questo non faccio per una condiscendenza ai tempi. Negli ultimi anni anche le maggiori riviste francescane, abbandonato il tradizionalismo, si sono accorte che san Francesco era un contestatore, e i maggiori studiosi di san Francesco han cominciato a vederlo da questo punto di vista. Anzitutto fu un rivoluzionario, perché cambiò totalmente la vita religiosa, quale da secoli si intendeva, ed era. In realtà san Francesco voleva fondare, e fondò, un primo «istituto secolare». All'inizio i suoi compagni primi erano laici; frate Leone, che fu l'unico sacerdote (ed era nello stesso tempo confessore e medico di san Francesco) venne più tardi. Ma l'intenzione di Francesco era veramente quella di fondare
Dalla «Regola pastorale»

di san Gregorio Magno, papa


(I pastori del popolo di Dio) non attendono più alla custodia del gregge con amore di pastori, ma come mercenari. Fuggono all'arrivo del lupo, nascondendosi nel silenzio.

Il Signore li rimprovera per mezzo del Profeta, dicendo: «Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare» (Is 56, 10), e fa udire ancora il suo lamento: «Voi non siete saliti sulle brecce e non avete costruito alcun baluardo in difesa degli Israeliti, perché potessero resistere al combattimento nel giorno del Signore» (Ez 13, 5). Salire sulle brecce significa opporsi ai potenti di questo mondo con libertà di parola per la difesa del gregge. Resistere al combattimento nel giorno del Signore vuol dire far fronte, per amor di giustizia, alla guerra dei malvagi.

Cos'è infatti per un pastore la paura di dire la verità, se non un voltar le spalle al nemico con il suo silenzio? Se invece si batte per la difesa del gregge, costruisce contro i nemici un baluardo per la casa d'Israele. (...)

La parola di Dio li rimprovera di vedere cose false, perché, per timore di riprendere le colpe, lusingano invano i colpevoli con le promesse di sicurezza, e non svelano l'iniquità dei peccatori, ai quali mai rivolgono una parola di riprensione.

Il rimprovero è una chiave. Apre infatti la coscienza a vedere la colpa, che spesso è ignorata anche da quello che l'ha commessa. Per questo Paolo dice: «Perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono» (Tt 1, 9). E anche il profeta Malachia asserisce: «Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l'istruzione, perché egli è messaggero del Signore degli eserciti» (Ml 2, 7).

Per questo il Signore ammonisce per bocca di Isaia: «Grida a squarciagola, non aver riguardo; come una tromba alza la voce» (Is 58, 1).


(Lib. 2, 4 PL 77, 30-31)

Barzelletta del premier con insopportabile bestemmia

Un più alto dovere di sobrietà e di rispetto


di Marco Tarquinio

Ci mancava solo la bestemmia dentro la barzelletta del presidente. Un video
Il dilemma della preghiera

di Emanuele Severino

Alla fine del Vangelo di Marco (16,16-17) Gesù dice: «Chi crederà sarà salvo, chi non crederà sarà condannato». Ma, prima di questa sentenza, il testo racconta come Gesù abbia unito strettamente e sorprendentemente il tema del credere a quello della preghiera. In quanto inseparabile dalla fede, la preghiera sta, dunque, al centro di ciò che più conta: la salvezza eterna. In quel testo Gesù dice: «Abbiate fede in Dio. In verità vi dico che se qualcuno dirà a questa montagna: "Togliti di lì e gettati nel mare" e non avrà alcun dubbio nel suo cuore, ma crederà che quel che dice s'abbia a compiere, questo gli accadrà. Perciò vi dico: tutte le cose che chiederete nella preghiera abbiate fede di ottenerle e le otterrete. E quando vi accingete a pregare, perdonate, se avete qualcosa contro qualcuno, affinché il Padre vostro che è nei cieli perdoni i vostri peccati». Chiedere a Dio qualcosa è pregare. Se si prega Dio di avere da lui qualcosa che egli non vuol dare, non si potrà mai essere esauditi. A Dio si può chiedere, dunque, solo quel che egli vuol dare. Si può volere solo quel che egli vuole. Se Gesù dice che chi crede sarà salvo, egli vuole la salvezza dell'uomo. Quel suo dire è, cioè, un comandare all'uomo di credere. Non lo lascia solo, dunque, a trovare la forza che lo porti a credere. Vuole che creda. E quindi, pregando, l'uomo deve innanzitutto chiedere, senza aver dubbi, di credere e otterrà di essere un credente, cioè salvo. E nemmeno spezza in due il Padre nostro, come se nella prima parte volesse che sia fatta la volontà di Dio, ma nella seconda gli dicesse quel che vuole lui, il pane quotidiano, la liberazione dal male ecc. Infatti, se Gesù gli comanda di chiedere il pane, è perché sa che il Padre vuole che l'uomo abbia il pane. Lo stesso si dica per gli altri doni richiesti. Anche per quello espresso dalle parole: «e perdona a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Infatti nella preghiera autentica l'uomo può chiedere di essere perdonato solo se sa che Dio vuole perdonarlo. La preghiera di Gesù contiene dunque anche l'implicazione, vincolante e compromettente, tra il perdono per i propri debiti, che un uomo chiede a Dio, e il perdono, da parte di quest'uomo, dei debiti che gli altri hanno nei suoi confronti. Perdonami come io perdono, dice quell'uomo. Egli chiede perdono perché sa che Dio vuole perdonarlo. Ma il suo perdonare i debiti che gli altri hanno contratto nei suoi confronti? Non può essere un gesto che riguardi soltanto lui, cioè dove Dio lo lasci solo a compierlo! Tutto questo significa che, quando, nella preghiera di Gesù, l'uomo chiede a Dio di perdonare i propri debiti come egli perdona quelli dei propri debitori, è necessario che l'uomo creda che Dio vuole che egli abbia la forza di perdonarli. Anche il perdono delle offese è, dunque, qualcosa che l'uomo chiede a Dio, sapendo che anche questa sua capacità di perdonare è voluta da Dio e che, quindi, egli la otterrà. L'uomo è salvo solo se ha fede nel Figlio di Dio. Ma la fede è inseparabile dalla volontà che vuole quello che è voluto da Dio e la preghiera è quel mettersi in rapporto con Dio, dove non solo si dice di volere quel che Dio vuole, ma lo si vuole effettivamente, cioè si perdona il prossimo, lo si ama e si fa tutto ciò che Dio prescrive. E, volendo tutto questo, si è convinti di ottenerlo, giacché chi crede di volere quel che è voluto da Dio non può pensare che Dio non sia capace di ottenere quel che vuole. (...)

in “Corriere della Sera” del 30 settembre 2010

La parrocchia deve tornare ad essere lo strumento efficiente di una carità senza limiti, come senza limiti sono i bisogni dei parrocchiani, dei vicini - che sono pochi - e dei lontani, che sono molti.


don Primo Mazzolari, La parrocchia, 75

 

La macchina della paura

di Roberto Saviano

(...) Ormai la politica in Italia è una cosa buia, che non appassiona più nessuno, né chi la fa, né chi la segue. Su questa affermazione mi hanno scritto in tanti, che credo abbiano condiviso con me questo sentimento di impotenza, avvertito talvolta come un impedimento, la denuncia di qualcosa che ostruisce la partecipazione, il normale rapporto che un cittadino deve avere con la vita pubblica del suo Paese. E insieme, c´è un altro sentimento in chi mi scrive: rabbia e ribellione per sentirsi espropriati dalla politica come strumento di impegno e di cambiamento, rifiuto di accettare che questa stagnazione prevalga. Chi analizza fatti, episodi e metodi della politica italiana, in questo momento, non può che avere una reazione di spavento e pensare: non è per me. Ricatti, timori, intimidazioni. Tutti hanno paura. Anche io ho paura: non ho nulla da nascondere, con la vita ridotta e ipercontrollata cui sono costretto, ma sento questo clima di straordinaria ostilità, e vedo l´interesse a raccoglierlo, eccitarlo, utilizzarlo. Mi guardo intorno e penso: come deve sentirsi un giovane italiano che voglia usare in politica la sua passione civile, il suo talento? La politica di oggi lo incoraggia o lo spaventa? E qual è il prezzo che tutti paghiamo per questa esclusione e per questa diffidenza? Qual è il costo sociale della paura? Chi fa già parte del sistema politico nel senso più largo del termine, o ha comunque una responsabilità pubblica e sociale, sa che oggi in Italia qualsiasi sua fragilità può essere scandagliata, esibita, denunciata ed enfatizzata. Non importa che non sia un reato, non importa quasi nemmeno che sia vera. Basta che faccia notizia, che abbia un costo, che faccia pagare un prezzo, e che dunque serva come arma di ammonimento preventivo, di minaccia permanente, di regolamento dei conti successivo. Ma la libertà politica, come la libertà di stampa, si fonda sulla possibilità di esprimere le proprie idee senza ritorsioni di tipo personale. Se sai che esprimendo quell´opinione, o scrivendola, tu pagherai con un dossier su qualche vicenda irrilevante penalmente, magari addirittura falsa, ma capace di rovinare la tua vita privata, allora sei condizionato, non sei più libero. Siamo dunque davanti a un problema di libertà, o meglio di mancanza di libertà. Siamo davanti a uno strano congegno fatto di interessi precisi, di persone, di giornalisti, di mezzi, di strumenti mediatici, che tenta di costruire un vestito mediaticamente diffamatorio; ha i mezzi per farlo, ha l'egemonia culturale per imporlo, ha la cornice politica per utilizzarlo. Nella società del gossip si viene colpiti uno per volta, e noi siamo spettatori spesso incapaci di decodificare gli interessi costituiti che stanno dietro l´operazione, i mandanti, il movente. Eppure la questione riguarda tutti, perché mentre la macchina infanga una persona denudandola in una sua debolezza e colpendola nel suo isolamento, parla agli altri, sussurrando il messaggio peggiore, antipolitico per eccellenza: siamo tutti uguali, dice questo messaggio, non alzare la testa, non cercare speranze, perché siamo tutti sporchi e tutti abbiamo qualcosa da nascondere. Dunque abbassa lo sguardo, ritraiti, rinuncia. Come si può spezzare questo meccanismo infernale, pericoloso per la democrazia, e non solo per le singole persone coinvolte? L´antidoto è in noi, in noi lettori, spettatori e cittadini, se preserviamo la nostra autonomia culturale, se recuperiamo la nostra capacità di giudizio. L´antidoto è nel non recepire il pettegolezzo, nel non riproporlo, nel non reiterarlo. Nel capire che ci si sta servendo di noi, dei nostri occhi, delle nostre bocche come megafoni di pensieri che non sono i nostri. Nel non passare, come fanno molti addetti ai lavori, le loro giornate su siti di gossip che mentono a pagamento, che costruiscono con tono scherzoso la delegittimazione, che usano informazioni personali soltanto per metterti in difficoltà. È il metodo dei vecchi regimi comunisti, delle tirannie dei paesi socialisti che volevano far passare i dissidenti per viziosi, ladri, nullafacenti, gentaglia che si opponeva solo per basso interesse. Mai come nell´Italia di oggi si trova realizzato nuovamente, anche se con metodi differenti, quel meccanismo delegittimante.  (...) Ogni essere umano fa errori ed ha debolezze. Ogni politica, ogni scelta ha in sé delle contraddizioni. E si può sbagliare sempre. Ma oggi bisogna affermare con forza che se ogni essere umano sbaglia e ha debolezze non tutti gli errori e non tutte le debolezze sono uguali. Una cosa è l´errore, altro è il crimine. Una cosa è la debolezza umana, un´altra il vizio che diviene potere in mano ad estorsori. Comprendendo e smontando la diffamazione che viene costruita su chiunque decida di criticare o opporsi a questo potere, si può resistere, si può persino difendere la libertà, la giustizia, la legalità. Non dichiarandoci migliori, ma semplicemente diversi. Rifiutando l´omologazione al ribasso, per salvare invece le ragioni della politica e le sue speranze: salvarle dal buio in cui oggi affondano, con le nostre paure.


in “la Repubblica” del 29 settembre 2010