2023_01
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Oggi, nel 2007, cominciavo la pubblicazione regolare di post sul mio sito-blog (con le possibilità di 17 anni fa). Già da due anni pubblicavo in forma sporadica. Sono passati tanti anni; tante cose sono cambiate; non posso dire che questa mia opera sia stata utile o fruttuosa. E' stato un modo, con tanti materiali di altri nei quali mi ritrovo ancora (e dei quali spesso mi meraviglio). Riporto un mio testo di allora che presentava le mie intenzioni: «Questo sito non è un sito. Questo blog non è un blog. Non vuole “piazzare” nulla e non svela nessuna intimità. E’ un’antologia di pezzi scritti e di immagini incrociate, che rimandano ad ascolti, profumi, sapori, tocchi, visioni. Ogni giorno uno-due-tre colpi di carboncino e di sanguigna, che tratteggiano per il lettore fedele lo schizzo tutt’altro che indefinito di una vita che sorprende dall’interno colui che la vive. Altre vite si sono ritrovate in questi bytes e amano riprenderne i contenuti. Non chiedete a queste pagine più di quanto possano dare; non chiedete loro altro da quello che vogliono dare; aiutatele a dare sempre meglio. Buon approdo!».
Mc 240926
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Quante volte "fare la messa" o "dire il rosario" sono state le modalità per riempire il tempo di una "occasione" (preparazione alla festa patronale, cerimonia per le forze dell'ordine, anniversario istituzionale, avvio di un anno accademico, sagra di paese, raggiungimento di un obiettivo, accompagnamento del lutto...), dimenticando colpevolmente tutta la ricchezza che la storia della chiesa aveva formulato e che la spiritualità odierna ci offre: meditazioni, veglie, preghiera salmica, lectio divina, conferenze a tema, elevazioni musicali.... e anche il silenzio. Abbiamo "sprecato" la grazia sacramentale; abbiamo sminuito la grazia extra-sacramentale.
Mc 240918
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Immaginiamo di togliere dalle nostre città i volumi utilizzati dai veicoli... ecco lo spazio che resta ai pedoni. Opera di un disegnatore svedese, Karl Jilg.
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*Risorgere insieme dal dolore*
Nello Scavo per "Avvenire" ha intervistato due padri attivisti di "Parent’s Circle"; Rami è israeliano, Bassan palestinese: hanno perso le loro figlie in guerra e il 27 marzo 2024 sono stati ricevuti da Papa Francesco. Ecco alcuni passaggi dell'intervista perché sono testimonianza di una resurrezione possibile dal dolore più grande, quello di seppellire i propri figli.
«Parlo da palestinese: noi siamo vittime delle vittime dell’Olocausto». «Parlo da israeliano: la legittima autodifesa non dà diritto alla vendetta, e la vendetta israeliana è sproporzionata». Rami Elhanan è israeliano. Bassam Aramin, palestinese. Nessuno più di loro ha il diritto d’essere ascoltato. «Abbiamo pagato il prezzo più alto possibile e sappiamo e comprendiamo il significato della perdita», dicono. Il prezzo è stata la vita delle loro due bambine. Si sono conosciuti quando avrebbero dovuto essere così lontani, per colpa della guerra degli uni dichiarati agli altri. A Rami e Bassam è capitata la sorte peggiore. Avevano due figlie, Smadar e Abi. La bambina palestinese è stata uccisa dai proiettili di gomma dura sparati dall’esercito israeliano. La coetanea israeliana è stata travolta da un attentato dei palestinesi di Hamas. E si sono ritrovati così, Rami e Bassam. Due uomini rimasti padri, ma che non sarebbero più stati chiamati papà. A farli conoscere è stata la memoria del dolore, non solo quello dei propri lutti. Ma la consapevolezza e la necessità di far sapere che una stretta di mano vale più dell’indice che tiene il grilletto.
«Mio padre – racconta Rami – è sopravvissuto ad Auschwitz, perciò conosciamo il dolore e l’umiliazione, ma la legittima autodifesa non dà diritto alla vendetta. Il 7 ottobre siamo stati umiliati dai terroristi di Hamas. Ma la risposta non possono essere i civili uccisi in massa». Per non dire di «tutti quei muri di separazione e quei miliardi di dollari spesi per tecnologia di sorveglianza, e che il 7 ottobre non sono serviti a niente». La loro amicizia è stata raccontata in Apeirogon, il best seller internazionale dello scrittore irlandese Colum McCann (Feltrinelli), vincitore del Premio Terzani 2022. Sono tornati in Italia da dove vogliono rilanciare il loro messaggio di fratellanza e pace nonostante i torti subiti. Ma che spazio c’è per parole come le loro, ora che a dettare i tempi sono i fanatismi. L’apeirogon è un poligono dai lati infiniti, come la complessità della Terra Santa, dove il conflitto israelo-palestinese appare infinito e misterioso, eppure sorgono voci di speranza. «È difficile – ammette Bassam –, ma soprattutto ora dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi per diffondere questo messaggio: la pace è possibile, è necessaria, ma non si raggiunge con le vendette. L’unica soluzione è la fine dell’occupazione israeliana. Questo è il problema principale». Rami è d’accordo. E si spinge oltre: «I politici di entrambe le parti si stanno comportando come dei mafiosi, non rappresentano il popolo, ma solo una minoranza. La linea di demarcazione non è tra israeliani e palestinesi – osserva –, ma tra chi vuole la pace e chi no, tra chi è disposto a pagare un prezzo per la pace e chi no. Non ci sono due strade da percorrere: la gente capisce che il prezzo della mancanza di pace è orribile e quando lo capirà, ci sarà la pace».
https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2024-03/rami-bassam-terra-santa-udienza-papa-morte-figlie-pace-guerra.html
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Sguardo. Occhi che diventano nutrimento
“La parola sguardo, per il suo significato e per quanto la differenzia, per esempio, dal semplice vedere, ha attraversato l’intero arco del pensiero. Da quello filosofico a quello artistico e letterario. Probabilmente perché, come scrive J.-L. Nancy, «guardare significa anzitutto badare [garder], warden o warten, sorvegliare, custodire [prendre en garde] e fare attenzione [prendre garde]. Avere cura e preoccuparsi. Guardando veglio e (mi) sorveglio: sono in rapporto con il mondo, non con l’oggetto…; nello sguardo sono messo in gioco. Non posso guardare senza che ciò mi riguardi [ça me regarde]» (Il ritratto e il suo sguardo). (…)
Lo sguardo quindi che, mentre mi apre al mondo, mi coinvolge e mi interpella. Fino a farmi stabilire con l’oggetto dello sguardo una relazione, che passa – come conferma il significato del germanico wardōn, etimo della parola sguardo – dall’osservare con gli occhi al vigilare, all’aver cura e custodire. (…)
La sana cultura dell’incontro. Quella che vede nello sguardo l’atto gratuito che nutre la bellezza delle cose che esistono e sostiene la fragilità di quelle imperfette perché continuino a esistere.
Questo sguardo assume una valenza quasi religiosa. È lo sguardo amorevole e intimo, capace di caricare di senso nuovo tutto ciò che alla semplice vista sembra avere poco o nessun valore. E che, nello stesso tempo, può trasformare tutto ciò che guarda in nutrimento per la propria crescita. Fino a poter dire con Ferdinando Pessoa: «Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo». (…)
di Nunzio Galantino, in “Il Sole 24 Ore” del 28 aprile 2024
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I preti che pagano il ghiacciolo al bar dell'oratorio, il panino alla sagra parrocchiale, la birra alla patronale... pare non siano molti.
Mc 240901
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(…) ”Tutto questo favorisce e stimola una cultura della speranza. Chi ha un tale sguardo, lotta con amore per la giustizia, per un lavoro per tutti, per l'equilibrio dell'ambiente; si impegna per utopie realistiche come la visione di una nuova umanità, proposta dall'insegnamento sociale della Chiesa; si impegna per l'affermarsi, pur circoscritto, dei valori del Regno, con la certezza che essi rimangono in eterno, perché sono un'anticipazione di quanto attendiamo con fiducia da Dio solo, nella piena partecipazione della sua vita. In un momento storico particolarmente difficile come quello che viviamo, c'è un grande bisogno di speranza, soprattutto per coloro che, malgrado tutto, vogliono coraggiosamente impegnarsi per il miglioramento della vita sociale, economica, civile e politica. Dal canto suo, la comunità cristiana può e deve essere lievito di speranza, non solo con la proclamazione diretta delle verità eterne, e neppure limitandosi a promuovere iniziative di solidarietà, tuttavia assai urgenti. La comunità contribuirà a mantenere e ad accrescere la speranza anche curando ciò che appare più trascurato, ossia quel vincolo di alleanza, di mutua fiducia, di stupore, di accoglienza reciproca”.
Carlo Maria Martini, Sperare contro ogni speranza. Intervento al convegno per la Giornata della solidarietà, 30 gennaio 1993
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papa Francesco, *Catechesi. Mare e deserto*, 28.08.2024
(...) "Mare e deserto: queste due parole ritornano in tante testimonianze che ricevo, sia da parte di migranti, sia da persone che si impegnano per soccorrerli. E quando dico “mare”, nel contesto delle migrazioni, intendo anche oceano, lago, fiume, tutte le masse d’acqua insidiose che tanti fratelli e sorelle in ogni parte del mondo sono costretti ad attraversare per raggiungere la loro meta. E “deserto” non è solo quello di sabbia e dune, o quello roccioso, ma sono pure tutti quei territori impervi e pericolosi, come le foreste, le giungle, le steppe dove i migranti camminano da soli, abbandonati a sé stessi. Migranti, mare e deserto. Le rotte migratorie di oggi sono spesso segnate da *attraversamenti di mari e deserti, che per molte, troppe persone – troppe! –, risultano mortali*. Per questo oggi voglio soffermarmi su questo dramma, questo dolore. Alcune di queste rotte le conosciamo meglio, perché stanno spesso sotto i riflettori; altre, la maggior parte, sono poco note, ma non per questo meno battute.
Del Mediterraneo ho parlato tante volte, perché sono Vescovo di Roma e perché è emblematico: il mare nostrum, luogo di comunicazione fra popoli e civiltà, è diventato un cimitero. E la tragedia è che *molti, la maggior parte di questi morti, potevano essere salvati*. Bisogna dirlo con chiarezza: *c’è chi opera sistematicamente e con ogni mezzo per respingere i migranti – per respingere i migranti. E questo, quando è fatto con coscienza e responsabilità, è un peccato grave*. Non dimentichiamo ciò che dice la Bibbia: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai» (Es 22,20). *L’orfano, la vedova e lo straniero sono i poveri per eccellenza che Dio sempre difende e chiede di difendere*.
Anche alcuni deserti, purtroppo, diventano cimiteri di migranti. E pure qui spesso non si tratta di morti “naturali”. No. A volte *nel deserto ce li hanno portati e abbandonati*. Tutti conosciamo la foto della moglie e della figlia di Pato, morte di fame e di sete nel deserto. Nell’epoca dei satelliti e dei droni, ci sono uomini, donne e bambini migranti che nessuno deve vedere: li nascondono. Solo Dio li vede e ascolta il loro grido. E questa è una crudeltà della nostra civiltà.
In effetti, il mare e il deserto sono anche luoghi biblici carichi di valore simbolico. Sono scenari molto importanti nella storia dell’esodo, la grande migrazione del popolo guidato da Dio mediante Mosè dall’Egitto alla Terra promessa. Questi luoghi assistono al dramma della fuga del popolo, che scappa dall’oppressione e dalla schiavitù. Sono luoghi di sofferenza, di paura, di disperazione, ma nello stesso tempo sono luoghi di passaggio per la liberazione – e quanta gente passa per i mari, i deserti per liberarsi, oggi –, sono luoghi di passaggio per il riscatto, per raggiungere la libertà e il compimento delle promesse di Dio (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2024).
C’è un Salmo che, rivolgendosi al Signore, dice: «Sul mare la tua via / i tuoi sentieri sulle grandi acque» (77,20). E un altro canta così: «Guidò il suo popolo nel deserto, / perché il suo amore è per sempre» (136,16). Queste parole sante ci dicono che, *per accompagnare il popolo nel cammino della libertà, Dio stesso attraversa il mare e il deserto; Dio non rimane a distanza, no, condivide il dramma dei migranti, Dio è con loro, con i migranti, soffre con loro, con i migranti, piange e spera con loro, con i migranti. Ci farà bene, oggi pensare: il Signore è con i nostri migranti nel mare nostrum, il Signore è con loro, non con quelli che li respingono*.
Fratelli e sorelle, su una cosa potremmo essere tutti d’accordo: in quei mari e in quei deserti mortali, i migranti di oggi non dovrebbero esserci – e ce ne sono, purtroppo. Ma non è attraverso leggi più restrittive, non è con la militarizzazione delle frontiere, non è con i respingimenti che otterremo questo risultato. Lo otterremo invece ampliando le vie di accesso sicure e le vie di accesso regolari per i migranti, facilitando il rifugio per chi scappa da guerre, dalle violenze, dalle persecuzioni e dalle tante calamità; lo otterremo favorendo in ogni modo una governance globale delle migrazioni fondata sulla giustizia, sulla fratellanza e sulla solidarietà. E unendo le forze per combattere la tratta di esseri umani, per fermare i criminali trafficanti che senza pietà sfruttano la miseria altrui.
Cari fratelli e sorelle, pensate a tante tragedie dei migranti: quanti muoiono nel Mediterraneo. Pensate a Lampedusa, a Crotone … quante cose brutte e tristi. E vorrei concludere *riconoscendo e lodando l’impegno di tanti buoni samaritani, che si prodigano per soccorrere e salvare i migranti feriti e abbandonati sulle rotte di disperata speranza, nei cinque continenti*. Questi uomini e donne coraggiosi sono segno di una umanità che non si lascia contagiare dalla cattiva cultura dell’indifferenza e dello scarto: quello che uccide i migranti è la nostra indifferenza e quell’atteggiamento di scartare. E chi non può stare come loro “in prima linea” – penso a tanti bravi che stanno lì in prima linea, a Mediterranea Saving Humans e tante altre associazioni –, non per questo è escluso da tale lotta di civiltà: noi non possiamo stare in prima linea ma non siamo esclusi; ci sono tanti modi di dare il proprio contributo, primo fra tutti la preghiera. E a voi domando: voi pregate per i migranti, per questi che vengono nelle nostre terre per salvare la vita? E “voi” volete cacciarli via.
Cari fratelli e sorelle, uniamo i cuori e le forze, perché i mari e i deserti non siano cimiteri, ma spazi dove Dio possa aprire strade di libertà e di fraternità".
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“Che sarà mai questo vescovo?” e anch’io, pur conoscendo la mia Diocesi, mi pongo la domanda: “Che saranno mai i fratelli e le sorelle alle quali il Signore mi invia?”.
Mi viene in mente una bella storia.
C'era una volta un uomo seduto ai bordi di un'oasi all'entrata di una città del Medio Oriente.
Un giovane si avvicinò e gli domandò: “Non sono mai venuto da queste parti. Come sono gli abitanti di questa città?”.
Il vecchio gli rispose con una domanda: “Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?”.
“Egoisti e cattivi. Per questo sono stato contento di partire di là”.
“Così sono gli abitanti di questa città”, gli rispose il vecchio.
Poco dopo, un altro giovane si avvicinò all'uomo e gli pose la stessa domanda: “Sono appena arrivato in questo paese. Come sono gli abitanti di questa città?”.
L'uomo rispose di nuovo con la stessa domanda: “Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?”.
“Erano buoni, generosi, ospitali, onesti. Avevo tanti amici e ho fatto molta fatica a lasciarli”.
“Anche gli abitanti di questa città sono così”, rispose il vecchio.
Un mercante che aveva portato i suoi cammelli all'abbeveraggio aveva udito le conversazioni e quando il secondo giovane si allontanò, si rivolse al vecchio in tono di rimprovero: “Come puoi dare due risposte completamente differenti alla stessa domanda posta da due persone?”.
“Figlio mio”, rispose il vecchio, “ciascuno porta il suo universo nel cuore. Chi non ha trovato niente di buono in passato, non troverà niente di buono neanche qui.
Al contrario, colui che aveva degli amici nell'altra città troverà anche qui degli amici leali e fedeli.
Perché, vedi, le persone sono ciò che noi troviamo in loro”.
dal discorso di ingresso del nuovo arcivescovo di Firenze, don Gherardo Gambelli
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Un racconto dell'Estremo Oriente così narra:
A un signore scappa un cavallo. Tutti quelli del villaggio si recano da lui per dirgli: “Poverino, come ci dispiace”. E lui: “Chi vi dice che sia un male? È accaduto”.
Il giorno dopo il cavallo torna e porta indietro una mandria di cavalli. Tutti allora vanno da lui dicendo: “Oh, come sei fortunato che hai una mandria di cavalli”. E luì: “Chi vi dice che sia un bene? È accaduto”.
Il figlio il giorno dopo si mette a domare uno di questi cavalli selvaggi, cade e si rompe la gamba. E tutti a dirgli: “Poverino, il figlio con la gamba rotta”. E lui dice: “chi dice che sia un male? È accaduto”.
Si scatena una guerra nell'impero, con la conseguente chiamata alle armi dei giovani idonei, e il figlio non parte perché ha la gamba rotta. E tutto il villaggio: “Che fortuna che ti è capitata”. E il vecchio: “Chi l'ha detto che è una fortuna? È capitata”.
E via dicendo...
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*«Abusi spirituali, diffidate dei sacerdoti a caccia di like»*
Alla Facoltà teologica del Triveneto un corso diretto da don Giorgio Ronzoni, teologo pastorale e parroco: il più pericoloso è il leader carismatico che vuole piacere a tutti.
"Come riconoscere l’abuso spirituale? Come mettere in guardia le potenziali vittime da guru che sembrano convincenti e affascinanti? Che rapporto c’è tra abuso spirituale e abuso sessuale? (...)
L’abuso di potere – risponde don Ronzoni che, dopo il dottorato il teologia si è specializzato in pastorale giovanile e catechetica presso l’Università Pontificia Salesiana - si concretizza solitamente nell’ambito di una relazione di accompagnamento spirituale. La relazione può essere tra due persone, per esempio un direttore spirituale e la persona che ha chiesto aiuto. Ma anche tra un gruppo e una persona che viene accompagnata. Quando si verifica l’abuso, la persona che chiede aiuto diventa la vittima nelle mani un carnefice-manipolatore che, appunto, abusa del potere accordatogli e rovina la vita della persona che gli è stata affidata.
Chi è l’abusatore? Spesso è un sacerdote, un religioso, ma anche un fondatore o una fondatrice, un gruppo di persone che fanno parte di movimento, un parroco, una maestra delle novizie. Fuori dall’ambito ecclesiale, un “santone”, una presunta veggente. Direi qualunque persona a cui viene riconosciuta autorevolezza morale. L’elenco sarebbe davvero vastissimo".
(continua a leggere:
https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/abusi-spirituali-siamo-tutti-a-rischiodiffidate?fbclid=IwY2xjawEpGVFleHRuA2FlbQIxMQABHQBxEMzavrTOizqdbxuSRcSex4rPinEZC-RtfDrPbQLmiBlKM184NASVGQ_aem_muAlU8YCzc1c59qIwWcGjw
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Appunti di un dialogo prendendo un aperitivo con don Giussani, prima di partire per le ferie (da Tracce, luglio-agosto 1997)
Dai primissimi giorni di Gioventù Studentesca abbiamo avuto un concetto chiaro e semplice: tempo libero è il tempo in cui uno non è obbligato a fare niente, non c’è qualcosa che si è obbligati a fare, il tempo libero è tempo libero.
Siccome discutevamo spesso coi genitori e coi professori sul fatto che GS occupava troppo il tempo libero dei ragazzi, mentre i ragazzi avrebbero dovuto studiare o lavorare in cucina, in casa, io dicevo: «Avranno ben il tempo libero, i ragazzi!». «Ma un giovane, una persona adulta» mi si obiettava «lo si giudica dal lavoro, dalla serietà del lavoro, dalla tenacia e dalla fedeltà al lavoro». «No» rispondevo, «Macché! *Un ragazzo si giudica da come usa il tempo libero*». Oh, si scandalizzavano tutti. E invece... *se è tempo libero, significa che uno è libero di fare quello che vuole. Perciò quello che uno vuole lo si capisce da come utilizza il suo tempo libero*.
Quello che una persona - giovane o adulto - veramente vuole lo capisco non dal lavoro, dallo studio, cioè da ciò che è obbligato a fare, dalle convenienze o dalle necessità sociali, ma da come usa il suo tempo libero. *Se un ragazzo o una persona matura disperde il tempo libero, non ama la vita: è sciocco*. La vacanza, infatti, è il classico tempo in cui quasi tutti diventano sciocchi. Al contrario, la vacanza è il tempo più nobile dell’anno, perché è il momento in cui uno si impegna come vuole col valore che riconosce prevalente nella sua vita oppure non si impegna affatto con niente e allora, appunto, è sciocco. (…)
Il valore più grande dell’uomo, la virtù, il coraggio, l’energia dell’uomo, il ciò per cui vale la pena vivere, sta nella gratuità, nella capacità della gratuità. *E la gratuità è proprio nel tempo libero che emerge e si afferma* in modo stupefacente. Il modo della preghiera, la fedeltà alla preghiera, la verità dei rapporti, la dedizione di sé, il gusto delle cose, la modestia nell’usare della realtà, la commozione e la compassione verso le cose, tutto questo lo si vede molto più in vacanza che durante l’anno. In vacanza uno è libero e, se è libero, fa quello che vuole.
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Eppure tanti cristiani - in nome del rispetto delle leggi che loro dicono provenire da Dio - non sentono il dolore altrui.
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70 anni fa, prima del Concilio Vaticano II.
I tempi in cui c'era la morale e si faceva quel che dice il Vangelo.
(N.B.: sono ironico, tristemente ironico).
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(...) "Se viviamo bene la dinamica degli Esercizi, questa assimilazione, nelle nostre concrete esistenze umane, della vita di Cristo avverrà spontaneamente. La nostra contemplazione sarà, secondo la felice espressione del teologo americano Walter Burghardt, «un lungo sguardo amoroso al reale»[14]. Ci accosteremo ai misteri della vita di Cristo e alle nostre esperienze con lo stesso sguardo contemplativo. Avrà luogo così una sorta di reciprocità, per cui osserveremo l’esperienza esistenziale di Cristo attraverso la lente della nostra, e la nostra esperienza vitale attraverso la lente di Cristo.
Questa è la conditio sine qua non per una buona e sana elezione. Il nostro mondo e la nostra vita sono la materia prima di ogni elezione, mentre Cristo, la sua vita e il suo insegnamento ne costituiscono il paradigma e la norma. Queste due realtà devono andare insieme e devono interagire. Questo è il compito della contemplazione: lo sguardo compassionevole e amoroso che abbraccia al tempo stesso Dio rivelato in Cristo e noi stessi, fatti a immagine e somiglianza di Dio. Una simile contemplazione è l’unica via che conduce a far sì che la nostra decisione finale venga presa sotto la guida dello Spirito, unendoci più strettamente a Cristo e vivendo così la nostra vita in armonia con la volontà di Dio.
(...) Questo è l’orizzonte che ci attira. Per Ignazio, trovare Dio in tutte le cose non è il punto di partenza, ma il risultato di una vita spesa alla ricerca di Dio, una vita di misticismo quotidiano. Trovare Dio in tutte le cose non è il punto di partenza nemmeno per noi, ma il nostro obiettivo. Questa grazia richiede in noi molta purificazione, illuminazione e, quasi certamente, sofferenza, prima di divenire capaci di riceverla. Se affermiamo prematuramente di riuscire a trovare Dio in tutte le cose, è più probabile che non stiamo trovando Dio, ma noi stessi. O, in altre parole, troviamo un dio fatto a nostra immagine piuttosto che il Dio trascendente rivelato in Gesù Cristo. Questa esperienza allora è demoniaca, piuttosto che divina[18]. Di qui l’esigenza cruciale del discernimento.
(...)
L’interiorità, o misticismo quotidiano, non è una fuga dal nostro ambiente culturale e dagli aspetti dannosi dell’influsso che esso ha su di noi. L’interiorità non è solipsistica e nemmeno egocentrica. Al contrario, essa è il prerequisito per il nostro inserimento nel mondo delle relazioni, della cittadinanza attiva e della pastorale cristiana. Determina la qualità della nostra presenza nel mondo, la fecondità e l’efficacia dell’influsso che possiamo esercitarvi. Ricordiamo che il cardinale Martini parla dell’interiorità come dell’ambito del cuore, delle intenzioni profonde, delle decisioni che partono dal di dentro. Ha in mente le persone che attraversano una vita umana piena con tutte le sue fatiche e le sue sfide, ma la vivono nel profondo del proprio io, assumendosi la responsabilità delle proprie scelte, portando i valori del Vangelo nella società, facendosi guidare dallo Spirito che abita in loro.
(...)
Il noto aforisma di Karl Rahner, secondo cui «il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà neppure cristiano»[22], giunge qui a proposito. Dovrebbero tenerlo presente non soltanto quanti cercano Dio, ma tutti coloro che si stanno impegnando per rinnovare la Chiesa e per migliorare il mondo".
p. Brian O'Leary, gesuita, articolo su "La Civiltà Cattolica" anno 2022
https://www.laciviltacattolica.it/articolo/mistica-quotidiana-e-cultura-contemporanea-ignazio-di-loyola/?fbclid=IwY2xjawEXFNlleHRuA2FlbQIxMQABHV2HejoBYoiJtyKKdYo2jOZfl2rLYE-OoR51_OIg_8g7j7oZzpMY_dBZhQ_aem_Dj6Ded3ySEfZBCZc_ST93w
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Preghiera per sopravvivere alle celebrazioni religiose
"Sì, ci sono celebrazioni che amo, che interpellano il cuore e la mente, illuminano la fede e fortificano la speranza, nutrono la tenerezza e portano a vivere secondo il Vangelo, e avvicinano a Dio – sia lodato il cielo.
Ma ce ne sono tante altre, ahimè…
Signore, tu che hai avuto pietà di un sordomuto e lo hai guarito come Dio solo sa fare, abbi pietà di me che, pur non essendo afflitto dalle stesse infermità, soffro spesso di non essere sordo mentre sono in chiesa e di non essere muto quando ne esco.
Quante volte sono sconsolato per ciò che sento durante il culto: la solita solfa di inni ampollosi, di penosi brani d’organo, di abborracciate spiegazioni delle Scritture, di preghiere e omelie che non sono altro che imposture a forza di non impegnare a nulla.
Non essendo cieco, vi subisco pure uno spettacolo deprimente: in un’ambientazione vecchio stile che trasuda noia, la routine mette in scena un cerimoniale pretenzioso tratto dalle idolatrie di questo mondo, introducendo perfino trono o cattedra.
E il peggio deve ancora venire, perché, quando esco dopo aver subito una celebrazione che costituisce un’offesa alla tua memoria, Signore, e a chiunque è venuto per parteciparvi, io maledico, e capita che la mia delusione si trasformi in sdegno…
Quanti fedeli restano affezionati alle celebrazioni così come sono, in ricordo delle emozioni della loro infanzia o per una indefettibile convinzione, è il loro diritto e rispetto le consolazioni che il culto offre loro, ma questo non cambia nulla alla mia pena.
Non posso accettare di sopportare indefinitamente queste prove che hanno già fatto fuggire tanti credenti, e tuttavia non voglio rinunciare ad unirmi a coloro che continuano a raccogliersi per celebrarti con i poveri mezzi di cui disponiamo.
Allora, Signore, tu che hai aperto le orecchie al sordo, gli occhi al cieco e la bocca al muto, abbi pietà di me: quando il culto minaccia la mia fede, la mia speranza e il mio desiderio di amare, usa la tua onnipotenza per concedermi quei miracoli in senso opposto…
Ma, Signore, non è forse vero che tu soffri più di chiunque di tante cose indegne che si fanno nel tuo nome, che le cerimonie religiose sono ancora tra le meno importanti, e che tu hai bisogno di noi per porvi rimedio?
Aiutaci, allora, Signore, a vivere queste prove condividendo la tua compassione per i tuoi fedeli, e stimola in noi i sensi che il Creatore ci ha donato perché li usiamo per dar forma con te al regno che tu hai annunciato.
Donaci la chiaroveggenza e il coraggio necessari per rendere più abitabili le case dove i credenti si riuniscono in tuo nome, facendovi pulizia con discernimento e delicatezza e accogliendovi a braccia aperte la vita che viene da fuori.
Ma soprattutto, Signore, riempici di generosità e di audacia per unirci agli uomini e alle donne là dove tu cammini con loro, fuori dai santuari, per condividere il pane, il vino e la tua parola, per spezzare i nostri corpi con il tuo per il mondo, e lavorare con impegno con tutti per rendere più abitabile questa terra che è la nostra sola e comune dimora.
di Jean-Marie Kohler
in “www.garriguesetsentiers.org” del 23 novembre 2020 (traduzione: www.finesettimana.org)
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*Saluto alle serate conclusive degli Oratori Estivi 2024*
Tutti noi desideriamo viaggiare, anzi: in queste settimane lo aspettiamo più di ogni altro momento dell'anno.
Sembra che l'unica questione scottante sia: "Quanto costa?". Come se chi ha i soldi, parte facilmente e felicemente.
In realtà, come dice il proverbio: "Partire è un po' morire".
Altre volte "partire è un po' fuggire", per rifiutare le condizioni reali nelle quali una persona vive. I cosiddetti "paradisi artificiali": i luoghi sempre più belli dei nostri, l'erba del vicino sempre più verde della nostra.
Per viaggiare così ci vuole una crociera, un aereo... o forse una tastiera e un display.
Quanti di noi non volentieri se ne starebbero a casa ogni mattina, ogni sera?
Fare un passo fuori assume i tratti di un rischio: il rischio di incrociare qualcun altro, con le sue domande, i suoi problemi, le sue paranoie.
Chi me lo fa fare? Se ho un tetto sopra la testa quando piove; se ho il climatizzatore quando fa caldo; se ho un contratto con una pay-tv... perché dovrei sporgermi sulla vita reale di qualcun altro?!
E' coraggio parlare della importanza di prendere la decisione di uscire di casa; è saggezza prepararsi bene al viaggio, pensando in modo solidale, non solo per sé; è forza mettersi in cammino, arrischiando un passo dopo l'altro; è gioia arrivare alla meta, senza fermarsi prima, ma nemmeno continuando a girovagare mai fermi.
Lo abbiamo vissuto coi piccoli, lo abbiamo suggerito ai grandi; siamo felici di avervi qui, con la speranza che muovendovi da casa abbiate trovato un po' di quella serenità che tutti cerchiamo.
Ci sono persone che devono uscire dalle loro case perché le case non ci sono più; devono lasciare la loro terra perché arida; devono camminare perché non è permesso loro prendere aerei.
Noi ci auguriamo che per voi la meta mattutina di tutti questi giorni sia stata non tanto un luogo (le mura dell'oratorio), quanto una comunità di persone.
Una comunione gioiosa di amici che ci aspetta al termine definitivo di questo cammino che chiamiamo vita.
Buoni passi!
_don Marco_
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Siamo una Chiesa piena di donne (benissimo!!)... e ci sono anche tante primedonne (uomini)!
Abbasso il narcisismo imperante!
Mc 240627
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"Nulla c'è di più nobile del canto.
Virtù salvatrice d'umanità sempre più rara è il cantare.
Per questo quando un popolo canta, c'è da sperare ancora.
E sarà perfino inutile disperare quando non si udranno più canti.
Nulla fonde animi e caratteri quanto un coro, quando è un vero coro;
quando sentirsi componenti di un coro:
allora l'appuntamento, il ritrovarsi e il sentirsi presenza necessaria a cantare
è come convenire di innamorati.
Allora il sacrificio diventa spontaneamente gioia e stima per vivere".
David Maria Turoldo
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In vista delle ordinazioni presbiterali e del nuovo Consiglio Pastorale.
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Per un certo periodo della vita ho frequentato i luoghi del Senese: li trovo stupendi e molto "parlanti".
Tante persone sono straordinariamente amabili ed accoglienti.
Ho giocato anche a calcio contro la squadra parrocchiale e volavano tranquillamente parole che il vocabolario definisce "bestemmie".
Gli amici toscani si sono detti tra loro innumerevoli volte: "grullo", tra sorrisi e battute. E innumerevoli volte l'hanno detto a me.
Una volta sola, dopo giorni e giorni passati insieme, ho detto la stessa cosa a un amico toscano... se l'è presa non poco.
Chi ha insegnato al milanese la parola "grullo"? Chi ha insegnato al milanese il significato (nell'intreccio tra tono, volume, contesto, ecc)?
Chi ha insegnato all'argentino certe parole italiane? Chi le ha usate davanti a lui, magari ridendo?
Chi non ha ascoltato nient'altro di quel discorso a porte chiuse tra vescovi, tranne quella parola, e ha spalancato la sua boccuccia appena uscito?
In questa vicenda, chi si deve vergognare? Chi è l'ipocrita? Chi è la serpe?
Mc 240529
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Una Chiesa indietro di 200 (e più) anni. Per fare un po' di penitenza, ho ascoltato in questi giorni dei consacrati (vescovi, preti, frati, suore...) mainstream. Confermo:
- dicono cose incredibili in un modo incomprensibile, mentre dicono di seguire un Dio che vuole rivelarsi;
- vivono "fuori da questo mondo", mentre annunciano di credere in un Dio incarnato;
- sono autocentrati, mentre affermano che Dio è un Altro, non loro stessi;
- sono rimasti nella polvere di almeno un secolo fa, mentre corrono dietro ai like;
- fanno credere di sapere tante cose e non fanno mai riferimento alle Sacre Scritture.
E mi domando: tutti sanno che le cose stanno così... allora perché ne scrivo? Perché anch'io faccio parte di quella famiglia... e mi spiace tanto.
Mc 240503
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Fu il 17 aprile 1915 che il padre fondatore dei Celtic, fratello Walfrid, morì all'età di 74 anni.
Una statua del sacerdote marista si trova fuori dal Celtic Park, un riconoscimento del suo ruolo fondamentale nella formazione del Celtic Football Club e un ricordo permanente alle future generazioni di sostenitori sia del suo importante posto nella storia del club, sia delle radici caritatevoli del club.
Tra la povertà, l'incuria e l'intolleranza di Glasgow vittoriana, un uomo aveva un sogno. Il suo sogno è fiorito e ora innumerevoli migliaia condividono la sua visione di una squadra di calcio che apre le porte a tutti.
Nacque Andrew Kerins a Ballymote, Contea di Sligo il 18 maggio 1840, e si avventura sulla via divina facendo giuramento della Fratellanza Marista.
E mentre migliaia di irlandesi fuggirono dalla privazione della loro terra natia navigando verso Glasgow, fratello Walfrid fu assegnato alla Sacred Heart School nell'East End della città per soddisfare i loro bisogni spirituali ed educativi.
Aveva già insegnato presso la vicina St Mary prima di trasferirsi al Sacred Heart nel 1874, ma quando si era trasferito a Spitalfields di Londra nel 1892, i primi germogli della sua visione avevano iniziato a svolgersi.
Gli immigrati irlandesi si sono presto resi conto che le strade di Glasgow non erano lastricate d'oro e non per la prima volta nella storia scozzese l'orco che è intolleranza religiosa ha alzato la sua brutta testa.
Walfrid aveva quindi due obiettivi principali: nutrire i nuovi arrivati che trovavano un lavoro difficile da raggiungere e integrarli nel mainstream della vita scozzese, dove due religioni erano sempre più alle prese tra loro.
Dare da mangiare ai poveri è stato un problema con una risposta relativamente semplice: una guida di beneficenza. Abbattere i muri dell'intolleranza religiosa, tuttavia, era una questione un po' più spinosa e quella di presentare insidie su entrambi i lati del divide.
La sua idea di raccogliere fondi era di entrare nel mondo embrionale del calcio formando un club che avrebbe attirato clienti paganti e, per caso o per design, il nuovo club è stato utilizzato per alleviare l'altro dilemma.
Anche se formato per raccogliere fondi per i bisognosi dell'East End che erano principalmente cattolici e irlandesi, il nuovo club non sarebbe né esclusivamente cattolico né irlandese.
Molti club irlandesi erano emersi negli anni 1880 e i loro nomi significavano istantaneamente la loro origine - Hibernian, Shamrock, Emmett, Harp, Erin, Emerald - ma Walfrid era desideroso di costruire un ponte ecumenico e culturale tra Irlanda e Scozia, quindi il nome più probabile, Hibernian, venne abbandonato.
In precedenza aveva fondato una squadra di calcio minore chiamata Columba ed era intenzionato a usare qualcosa di simile significativo sia per scozzesi che per irlandesi.
Così, il Celtic Football Club è nato calciando e urlando in un ambiente incerto sia nel senso del calcio che culturale.
Il nome Celtic era intrinseco ai valori e agli obiettivi del club nello stabilire un legame in quantificabile tra gli scozzesi indigeni e i nuovi arrivati i cui discendenti sarebbero nati scozzesi.
Da allora il club ha sempre aperto le porte a tutti, indipendentemente dalla fede, dal colore, dal credo o dalla razza. È sempre stato così sin dalla sua fondazione e continuerà ad essere così.
La visione di un uomo e un incontro alla St Mary's Hall in Abercromby Street il 6 novembre 1887 crescevano ben oltre le strade acciottolate del Calton e quel sogno vive nei cuori dei sostenitori celtici di ogni fede e colore, credo e razza in ogni angolo della globo.
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(...) "L’escalation in corso – dall’Ucraina a Gaza – ha portato a livelli record la spesa militare: 2.240 miliardi di dollari nel 2022, l’ultimo con rilevazioni ufficiali - i profitti dei colossi delle armi. Per la prima volta, gli investimenti europei hanno superato quelli dei tempi della Guerra fredda. Le 15 maggiori aziende mondiali per la difesa hanno visto schizzare il proprio portafoglio ordini a quota 777 miliardi di dollari, oltre 76 in più rispetto a due anni prima. E in due anni, d'altronde, sono stati investiti quasi mille miliardi di dollari in armamenti, per gli ordigni è stato impiegato il 2,2% del Pil mondiale. Con un aereo F35 che costa come 3.244 letti in terapia intensiva, un sottomarino come 9.180 ambulanze (e sono in alternativa). Ancor più della corruzione, i conflitti sono capaci di concentrare i benefici in un’esigua minoranza e di ripartire i costi sul resto della società". (...)
"Agire appunto. Non subire. Troppo spesso il rifiuto delle armi è associato all’inerzia o, peggio, alla resa. Al contrario, ci vuole impegno, ostinazione, coraggio per rifiutare di ridurre l’altro a corpo da soggiogare o eliminare. Ci vorrebbe coraggio da parte del mondo finanziario per rifiutare i profitti dell’industria delle armi. Ci vorrebbe coraggio da parte della politica internazionale per dare seguito alla proposta fatta da Francesco in “Fratelli tutti” di impiegare il denaro delle spese militari per costituire un Fondo mondiale per lo sviluppo dei Paesi più poveri. La pace è una scelta. Incompatibile con il business delle armi".
di Lucia Capuzzi, 29.02.2024
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/il-profitto-delle-guerre-editoriale
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Io chiamo presso di me: un amico, un idraulico, un rider, un medico, un cane, una pianta... o anche un oggetto.
Io lo faccio arrivare fino alla porta di casa.
Io decido di lasciarlo fuori, senza giustificazioni.
Io lo lascio al suo destino, se vuole, se può.
Io non ne rispondo a nessuno.
Io non c'entro.
Sarò semplificante, ma non trovo che sia un mio diritto costituzionale.
Mc 240304
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*Dio non si è stancato di noi*. Accogliamo la Quaresima come il tempo forte in cui la sua Parola ci viene nuovamente rivolta: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2). È tempo di conversione, tempo di libertà. Gesù stesso, come ricordiamo ogni anno la prima domenica di Quaresima, è stato spinto dallo Spirito nel deserto per essere provato nella libertà. Per quaranta giorni Egli sarà davanti a noi e con noi: è il Figlio incarnato. A differenza del Faraone, *Dio non vuole sudditi, ma figli*. Il deserto è lo spazio in cui *la nostra libertà può maturare in una personale decisione* di non ricadere schiava. Nella Quaresima troviamo nuovi criteri di giudizio e una comunità con cui inoltrarci su una strada mai percorsa.
Questo comporta una *lotta*: ce lo raccontano chiaramente il libro dell’Esodo e le tentazioni di Gesù nel deserto. Alla voce di Dio, che dice: «Tu sei il Figlio mio, l’amato» (Mc 1,11) e «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3), si oppongono infatti le *menzogne* del nemico. Più temibili del Faraone sono gli *idoli*: potremmo considerarli come la sua voce in noi. Potere tutto, essere riconosciuti da tutti, avere la meglio su tutti: ogni essere umano avverte la seduzione di questa menzogna dentro di sé. È una vecchia strada. *Possiamo attaccarci così al denaro, a certi progetti, idee, obiettivi, alla nostra posizione, a una tradizione, persino ad alcune persone. Invece di muoverci, ci paralizzeranno. Invece di farci incontrare, ci contrapporranno*. Esiste però una nuova umanità, il popolo dei piccoli e degli umili che non hanno ceduto al fascino della menzogna. Mentre *gli idoli rendono muti, ciechi, sordi, immobili* quelli che li servono (cfr Sal 114,4), i poveri di spirito sono subito aperti e pronti: una silenziosa forza di bene che cura e sostiene il mondo.
dal messaggio di papa Francesco per la quaresima 2024: *Attraverso il deserto Dio ci guida alla libertà*
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Ogni guerra è guerra contro il proprio fratello
Si può dire basta, senza se e senza ma, alla guerra, a tutte le guerre e non passare per “anime belle”? Come facciamo a sopportare questo dolore dell’umano? Puoi immaginare di sederti, a cena, davanti la tv e mangiare e bere vino davanti a questo spettacolo di distruzione? Tu mangi, loro patiscono la fame, tu bevi vino, loro non hanno acqua. E i cani, i gatti, perfino gli uccellini chiusi nella loro gabbia che fine faranno?
Corpi distesi nella strada come un mucchio di cenci, cadaveri sotto le macerie, bambini che urlano a ogni scoppio di bombe. E i Grandi della Terra, con le loro cravatte e i colletti inamidati, che dissertano su come stanno andando le cose. Quali cose? Le morti; dovrebbero parlare dei morti; perché sono morti? Di quali colpe si sono macchiati per meritare questa sorte? Hanno combattuto contro fratelli e hanno ucciso i fratelli, le loro mogli e i loro bambini. Non avrebbero voluto farlo; ce li hanno costretti i loro mandanti assassini, chiusi nelle loro case dorate, al caldo; vanno a dormire con pigiami di seta. Magari hanno paura di prendere il raffreddore; la mattina si alzano e chiedono quanti sono stati i morti nella notte e fanno macabri bilanci: quanti armi servono ancora? Quanti altri morti ci vorranno per finire questa disgraziata guerra? Profitti che, a ogni morto, salgono per i distruttori di pace.
Alla fine qualcuno griderà: Abbiamo vinto! Vinto che cosa? Lo diciamo ai morti che sono rimasti sul campo? Quale vittoria e contro chi? E coloro che perderanno avranno per anni da pensare ai loro morti, morti per niente, per i capricci dei loro governanti e dei fabbricanti di armi.
Si chiama guerra, oppure mantenimento dell’ordine liberale mondiale; nessuno vince e tutti perdono. No, mi sbaglio, qualcuno vince, magari fa soldi con i cadaveri dei morti, con la vendita di armi; i nostri costruttori di armi e i loro complici governanti.
Muovono le persone come fossero birilli pronti a cadere: Andate e combattete per la Patria, è il grido. La Patria di chi? La loro Patria non la nostra, quella dei poveri, dei miserabili, di coloro che erano già stati scartati dal mondo. Bisognerebbe disubbidire agli ordini dei nostri governanti, non prendere il fucile davanti il proprio fratello; semmai guardarlo negli occhi e scorgervi la nostra paura. Paura giusta, questa sì, perché la guerra è solo distruzione, sovvertimento del senso comune, libertà di uccidere il fratello senza provare senso di colpa alcuno.
E dei morti che ne facciamo? Cosa diciamo loro? Possiamo solo ringraziarli per essere a loro sopravvissuti, noi al loro posto. Non potremo neppure piangere sulle loro tombe, forse non ne avranno, sono solo dispersi in qualche pozzanghera, sotto qualche carro, in terre non loro, come è sempre successo ai soldati. Faremo manifestazioni per la pace, diranno che siamo anime belle, che non capiamo, che non abbiamo mai capito niente; noi, il popolo, carne da macello, inviato al fronte per difendere i nostri governanti e per ingrassare i venditori di armi.
Basta con le guerre, almeno digiuniamo per un giorno come ha chiesto il papa, appendiamo le nostre bandiere arcobaleno ai balconi di casa, per sentirci più vicini a loro che patiscono la fame e altri tormenti, dimostriamo noi di essere i più forti, senza armi, indifesi ma convinti che ogni guerra è guerra civile, guerra contro il proprio fratello.
di Enzo Scandurra
in “L’Osservatore Romano” del 2 marzo 2022
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Dal vangelo di oggi, Matteo 5
"Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti".
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Dalla seconda lettura della messa di domenica scorsa, lettera di san Paolo apostolo agli Efesini 4,1-7:
"Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace".