Qohelet, il lieve sussurro nel gran silenzio di Dio

di mons. Gianfranco Ravasi

Uno pseudonimo ebraico, Qohelet, rimanda al vocabolo qahal, «assemblea», in greco ekklesía, donde il greco-latino Ecclesiastes è divenuto la titolatura comune nell'Occidente cristiano di un'opera tuttora oggetto di differenti decifrazioni. Interpretato come testo pessimistico, scettico, considerato espressione dell'ideologia dell'aurea mediocritas, influenzato dalla filosofia greca del III secolo a. C., ritenuto una guida ascetica di distacco e disprezzo del mondo a parte della tradizione cristiana, è stato negli ultimi decenni da qualche esegeta riportato nell'alveo rassicurante dell'ottimismo a causa di alcuni passi, per la precisione sette (2,24-25; 3,12-13; 3,22; 5,17; 8,15; 9,7-9; 11,7-10), dai quali emergerebbe un appello al sereno godimento delle scarse gioie che la vita riserva. A questa interpretazione si accosterebbe, paradossalmente, anche lo scrittore francese Albert Camus quando, nel Mito di Sisifo, vede in Don Giovanni «un uomo nutrito dall'Ecclesiaste», «un pazzo che è un gran saggio» perché «questa vita lo appaga». (...) La tonalità dominante è quella dell'inconsistenza, emblematicamente incarnata dal vocabolo caro a Qohelet, hebel/ habel, che risuona ben 38 volte, talora nella forma superlativa habel habalîm, il celebre vanitas vanitatum della versione latina della Volgata: il termine allude al fumo, al vapore, al soffio e quindi definisce la realtà come vuoto, vacuità, caducità irreversibile. (...) L'incrinatura che fa scoprire la presenza dell'hebel nell'essere e nell'esistere si incontra anche nell'intelligenza umana. Qohelet è un sapiente, uno scriba, un intellettuale (12,9-10); disprezza la stupidità, per ben 85 volte introduce le sue riflessioni in prima persona, consapevole di un'originalità del suo pensiero. Eppure il risultato finale del conoscere è aspro: grande sapienza è grande tormento, chi più sa più soffre (1,13-18). «Anche il filosofo che crede di guidare il mondo

I luoghi meno abitati della Terra

(clicca sull'immagine per una breve galleria fotografica)

Una parola inequivocabile: è quella del Vangelo della Messa di oggi, nel rito ambrosiano.

Ma se invece che essere "firmata" da Gesù l'avesse scritta un altro autore, quante critiche feroci avrebbe raccolto?!

don Chisciotte


dal Vangelo secondo Matteo (15, 1-9)

Alcuni farisei e alcuni scribi, venuti da Gerusalemme, si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? Infatti quando prendono cibo non si lavano le mani!». Ed egli rispose loro: «E voi, perché trasgredite il comandamento di Dio in nome della vostra tradizione? / Dio ha detto: “Onora il padre e la madre” e inoltre: “Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte”. / Voi invece dite: “Chiunque dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è un'offerta a Dio, non è più tenuto a onorare suo padre”. Così avete annullato la parola di Dio con la vostra tradizione. / Ipocriti! Bene ha profetato di voi Isaia, dicendo: / “Questo popolo mi onora con le labbra, / ma il suo cuore è lontano da me. / Invano essi mi rendono culto, / insegnando dottrine che sono precetti di uomini”».

Obbligati alla speranza?

di Corinne Pasqua

Dove deporre i propri dispiaceri, in quale luogo di cui nessuno potrebbe sospettare l'esistenza, di cui nessuno potrebbe affliggersi? Dove mettere le proprie tristezze, dove abbandonare ciò che attanaglia il cuore, che attacca quello che abbiamo di più segreto, che alcuni chiamano anima, altri spirito, altri non sanno nominare? Come dissimulare le proprie ombre, improvvisamente tornate dal passato, ombre che si dispiegano come le ali di un uccello che si era troppo presto dimenticato annidato dentro di sé? In quale angolo recondito, in quale giardino segreto, quando sembra imperativo essere il riflesso solo della luce, e sembra urgente solo trasmettere il fuoco contro quei ghiacci che prendono dentro? E se esiste, quel luogo ove deporre le lacrime, bisogna proibirlo? Probabilmente, non si possono evitare questi dilemmi, quando si desidera portare speranza. Perché, per soccorrere colui che grida, per ascoltare il suo lamento, non bisogna forse sospendere il proprio? Quando l'amico comunica i suoi dubbi, lo stato delle sue insonnie, confida la sua ricerca di un riposo che non riesce a trovare, di un rifugio che appare sempre più lontano, non bisogna forse affermare la propria fiducia, pronti a dissimulare i propri tremori, a forzare la propria voce, la propria fede? Di fronte al turbamento, non bisogna forse essere saldi, per quanto fragili ci si senta dentro? Nella notte, quella notte che a miliardi abbiamo in comune senza per questo essere meno soli, non bisogna forse che uno di noi, almeno, venga a rendere percepibile la luce invisibile, a cominciare col suo gesto a ravvivarne l'ardore? La fiducia cieca dischiude quella breccia che non esisteva, che non esisteva ancora; solo la fiducia può farlo, spingendo la porta nel muro, squarciando la montagna, aprendo il mare. La speranza pesa come un fardello, talvolta. Sarebbe più facile liberarsene, sbarazzarsene. La vita se ne troverebbe semplificata, resa alla morte che sta in agguato, al male che si aggira in cerca di preda, sul punto di erodere le nostre convinzioni già pronte a cedere. Tuttavia, mostrare le proprie difficoltà, non negarle, può non essere nefasto né contrario all'intenzione di sostenere, alla vocazione della fede perfino, che nessuna difficoltà indebolisce, contro la quale le difficoltà più grandi sembrano scontrarsi... Quando dire “come te, conosco l'angoscia, come te, non ignoro nulla della desolazione”, quando fare eco a ciò che l'altro confida, può chiamare, sempre come eco, quello che porta, che trasporta al di là. Così, il dubbio non è vergognoso, né vergognosa l'angoscia, e tanto meno quella solitudine: proprio quello che ci isola, lo condividiamo. La paura non impedisce la fiducia, lo sconforto non toglie valore al senso e al cammino; ma lo contrassegnano, anzi lo costituiscono. Ne fa parte il dolore, come anche la gioia. Tutte le emozioni, tutte le esperienze umane. Essere “obbligati alla speranza” non dispensa da quelle ore buie, non ci esenta dalla fatica, dallo scoraggiamento. La speranza è una lotta di ogni giorno, contro la disperazione, contro se stessi. Essere obbligati dalla speranza significa continuare ad andare avanti, a resistere, ad attraversare. Esserne capaci. E testimoniarla, quella formidabile speranza, senza tacere quelle pene che ne mettono alla prova tutta la potenza.

in “www.temoignagechretien.fr” del 21 novembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Casco, zainetto, pantaloni di grisaglia arrotolati: il sindaco di Londra, il conservatore Boris Johnson, lascia in bicicletta il numero 11 di Downing Street dopo un incontro con il cancelliere George Osborne (Theodore Liasi/ LaPresse)

La crisi come opportunità

Tempo di crisi: economica, finanziaria, politica, e così via. Ma negli ultimi anni si sta parlando comunemente, e sempre più di frequente, della crisi della chiesa, nel suo complesso: in genere limitandosi a leggere in chiave sociologica questo concetto, mentre a ben vedere si tratta di una connotazione fortemente teologica. E senza considerare che la condizione di crisi, per i cristiani, dovrebbe essere una situazione - per dir così - normale. In un testo preparatorio alla conferenza del Consiglio missionario internazionale (IMC) di Tambaram del 1938, il missiologo evangelico olandese Hendrick Kraemer proponeva tale idea nei seguenti termini: "Rigorosamente parlando, si dovrebbe dire che la chiesa si trova costantemente in uno stato di crisi e che il suo più grave limite è che ne è consapevole soltanto di tanto in tanto". Cosa che avviene, proseguiva, a motivo della "tensione permanente fra la (sua) natura essenziale ela sua condizione empirica". Perché allora questo elemento di crisi e di tensione lo percepiamo solodi tanto in tanto? Perché - concludeva Kraemer - la chiesa "ha sempre avuto bisogno dell'insuccesso e della sofferenza manifesti per divenire pienamente cosciente della sua vera natura e missione". Se intende essere fedele alla sua vocazione, essa è chiamata dunque a fungere - come il suo Signore, del resto - da "segno di contraddizione" (Lc 2,34). (...) Da questo punto di vista, la crisi non è allora l'esaurimento delle circostanze favorevoli, ma piuttosto soltanto l'inizio, il punto in cui s'incontrano pericolo e opportunità, in cui il futuro è ancora in bilico e gli eventi possono orientarsi sia in un modo sia nell'altro. Il che è tanto più rilevante poiché spesso, negli ultimi anni, in ambito ecclesiale, è un dato assodato che non si stia vivendo un tempo di profezia; che mancano i maestri che c'erano ai giorni del Vaticano II, e in effetti moltissimi di quei protagonisti non ci sono più. E allora, proprio in un contesto simile, affrontare appieno la crisi può rappresentare un kairòs, un momento propizio alla salvezza: "in mancanza di maestri, - scrive Christiane Singer esaltando il buon uso delle crisi - nella società in cui viviamo, sono le crisi i grandi maestri che hanno qualcosa da insegnarci, che possono aiutarci a entrare nell'altra dimensione, nella profondità che dà senso alla vita". La crisi, ci pare, può essere colta come una sorta di rito di passaggio, e svolgere in tal modo un insostituibile ruolo pedagogico: ci fa uscire dal consueto, dal rassicurante e dal ripetitivo, ci obbliga a prendere coscienza della realtà e a uscire dalle illusioni, ci obbliga a una lettura sincera e, se necessario, impietosa di noi stessi e degli aspetti sociali, ecclesiali, economici, etici che ci eravamo dati. Come constata l'amico monaco di Bose Luciano Manicardi, che al tema ha dedicato un libretto prezioso ("Quando i giorni sono cattivi", Aliberti 2010), l'osservazione psicologica ha mostrato a più riprese che la crescita umana suppone rotture e separazioni, e dunque crisi: la crisi è vitale, cioè essenziale per crescere. Anzi, si potrebbe affermare che la prima e più radicale crisi che ogni persona vive è la nascita: "la crisi non è dunque uno spiacevole incidente, ma un necessario momento di passaggio nel divenire di una persona". Da questo punto di vista, l'oggettiva crisi della chiesa andrà ascoltata, accolta; e ci si dovrà lasciare interpellare da essa. Non si tratta di fuggirla odi rimuoverla, bensì di elaborarla. "Se è vero che ogni crisi è una crisi di identità - sostiene Manicardi - allora essa può essere colta e accolta come appello a ripensare se stessi, a ristrutturare i propri equilibri, a situarsi in una fase inedita della propria esistenza. Ma questo vale anche per un organismo comunitario: famiglia, società, chiesa".

Editoriale in “Qol” n. 149 del settembre 2011

Voglia di sagrato

di don Antonio Torresin

La celebrazione domenicale, e nelle feste principali, è forse il momento più importante per me, come prete e come parroco. Celebro il mistero di Gesù, ascolto la Parola di Dio insieme alla mia comunità, dono e ricevo la grazia di una comunione che ci rende Corpo di Gesù, Chiesa. Per questo cerco di prepararmi con cura ad ogni celebrazione. C'è una preparazione remota: leggo i testi della liturgia, prego la Parola di Dio fin dall'inizio della settimana, porto con me quella parola anche negli incontri e negli ascolti di tante persone che avvicino. Poi c'è una preparazione prossima: cerco di non arrivare in chiesa all'ultimo momento, per essere disponibile a qualcuno che chiede di confessarsi, per controllare che tutto sia pronto, ma soprattutto perché mi piace guardare l'inizio del radunarsi del popolo di Dio. C'è chi arriva con largo anticipo, prende posto, si mette a pregare; chi arriva giusto in tempo; chi affannato, perché la vita sembra incalzare e il tempo sfugge. Piano piano si forma l'assemblea che celebrerà il mistero della Pasqua di Gesù che ci raduna e ci nutre. Poi viene l'inizio vero e proprio: si dovrebbe compiere una breve processione, quasi un graduale avvicinarsi al mistero, sorretti dal canto, senza fretta, con timore e tremore. Il bacio dell'altare porta tutti a concentrarci sul centro della celebrazione, la presenza del Signore nel memoriale della sua cena. Infine mi volto e guardo l'assemblea raccolta.

È un momento particolare. La chiesa prende i volti delle persone, le voci di chi prega e canta... Non sono che tre mesi da quando celebro in questa parrocchia, ma comincio a riconoscere i volti; le persone, il più delle volte, scelgono gli stessi posti, come si fa a tavola, ed è bene, perché è un gesto che crea familiarità. Così posso riconoscere quella famiglia con due bellissimi bambini che si mette sempre nel transetto alla mia sinistra, la coppia di anziani che arriva a braccetto sulla navata di destra, la signora a metà della chiesa che una volta mi ha raccontato la sua storia... e devo stare attento, perché mi perdo! Mi vengono in mente mille cose, vorrei salutare qualcuno, chiedere come stanno familiari malati ecc. Ma devo restare concentrato sulla celebrazione, aiutare tutta l'assemblea a tendere il cuore all'ascolto. E la Messa riprende.

Per questo, alla fine della celebrazione, mi è caro ricucire le trame di questi pensieri e poter incontrare le persone. La vita corre in fretta, lungo la settimana le occasioni per scambiare due parole sono così rare, che la domenica rappresenta una possibilità unica. La chiesa vive in una trama delicata di relazioni che vanno curate, di rapporti che sono preziosi e fragili. Mi chiedo: cosa ci fa sentire a casa? Sentirsi conosciuti; da Dio certo, ma anche da qualcuno che ci rivolga una parola non formale. Questo vale per tutti, anche per me. Non riesco a pensare al mio ministero senza delle relazioni che superino l'anonimato e la formalità di un ruolo. E credo che sia vero anche per ogni fedele. A volte, le nostre chiese sono un poco fredde (e non solo per la temperatura segnata dal termometro), e la fruizione della celebrazione viene vissuta in modo individualistico, come se ciascuno prendesse un servizio in modo funzionale e il più asettico possibile. Questo, in realtà, stride con il senso della comunione che celebriamo. Non si vive la relazione con Gesù senza entrare nel corpo di una chiesa di cui ci si sente parte, senza riconoscersi fratelli e sorelle, senza curare i legami e le relazioni. Serve rompere quel clima di solitudine e d'individualismo che ci porta tutti a vivere chiusi in noi stessi. La comunità dovrebbe essere un segno di comunione, e questo passa proprio dalla gioia di incontrarsi, di salutarsi, di cantare e pregare insieme, ad una sola voce, perché le nostre vite si riconoscono legate le une alle altre. Senza, per questo, voler trasformare le nostre comunità in congreghe di amiconi, in gruppi perfettamente sintonici. Proprio questo è il bello delle nostre assemblee: siamo diversi, di età, cultura, sensibilità, ora anche di pelle e di lingua. Eppure il miracolo del Vangelo è che crea una lingua comune che permette di intenderci e di parlarci, costruisce una comunione che ci fa sentire non estranei gli uni agli altri, anche se viviamo vite diverse. E questo miracolo prende forma proprio nelle celebrazioni.

Per questo, alla fine della Messa, mi è caro - ed è una scelta che ho condiviso con gioia con altri preti - fermarmi a salutare le persone all'uscita della Messa. Come se non volessimo troppo in fretta scappare alle nostre faccende, perché quello che abbiamo vissuto è troppo bello per essere risucchiato dall'incalzare della vita. Mi piace soffermarmi con tutti, essere a disposizione di chi vuole anche solo dare un saluto. E sono contento quando vedo che anche altri lo fanno, quando si creano spontaneamente capannelli di chi si ferma per due parole in amicizia. La chiamerei: "voglia di sagrato". Non è solo un piazzale, un posto per parcheggiare una macchina quando serve, o per allestire un banchetto vendita. È uno spazio simbolico d'incontro, la necessità che la celebrazione trovi il suo prolungamento in una trama fitta di relazioni e di amicizia.

Liturgia: indietro tutta

di Andrea Grillo, docente di teologia sacramentaria e di liturgia

La recente Istruzione Universae Ecclesiae accentua ulteriormente i motivi di perplessità che il motu proprio Summorum Pontificum del 2007 aveva aperto in larga parte del corpo ecclesiale. Soprattutto perché inaugura una fase nuova, nella quale non si intende tanto rispondere a una domanda esistente, quanto addirittura suscitarne una per ora assente! Questo a me pare sia oggi l'elemento pastoralmente piú preoccupante. Se i vescovi non possono piú controllare la forma rituale delle celebrazioni nella propria diocesi e se, nel frattempo, un gruppo stabile può essere costituito da cristiani appartenenti anche a diocesi diverse, allora è evidente come il nuovo documento approfondisca il disagio e il disorientamento del popolo di Dio, a cominciare dai vescovi.

riformare la riforma

Da un certo punto di vista Universae Ecclesiae non sembra tener conto dei tre anni di sperimentazione che il motu proprio richiedeva. E qui occorre essere molto chiari: delle due l'una. O i vescovi che hanno mandato alla fine del 2010 le loro relazioni sui tre anni di esperimento del motu proprio si sono limitati a fare complimenti senza esprimere il disagio vissuto dalle loro diocesi; oppure gli organi preposti alla ricezione delle reazioni hanno registrato e valorizzato soltanto quelle (poche) favorevoli. In ogni caso si tratta di una grave sconfitta per la comunicazione e per la parresia all'interno della Chiesa, con l'affermarsi di uno stile clericale che separa realtà e rappresentazione, creando a dismisura finzioni giuridiche e fatti illusori. Oggi circola spesso l'espressione Riformare la riforma. Ed è legittimo chiedersi come si conciliano il motu proprio e l'istruzione Universae ecclesiae con il Vaticano II e la riforma liturgica che esso ha introdotto. A questi interrogativi debbo rispondere su due livelli. Sul primo debbo registrare che

Ecumenismo, la via della Bibbia

di Enzo Bianchi

«La Parola di Dio è simile a un grano di senape, sembra ben piccola prima d'essere coltivata. Ma quando è stata coltivata abbraccia il significato di tutti gli esseri»: così Massimo il Confessore applica alla Parola di Dio la similitudine che il Vangelo usa per indicare la realtà del regno di Dio. È con questa convinzione che la Chiesa indivisa ha saputo cogliere nella Parola di Dio contenuta nelle Scritture sante la fonte viva della vita spirituale del credente, l'autentica vita secondo lo Spirito. Spirito che, entrato nel credente attraverso il battesimo, nutre e fa crescere la vita divina nel cristiano alimentato dalla Parola. Gregorio Magno aveva espresso questa verità spirituale con una formula icastica: Scriptura crescit cum legente, la comprensione della Scrittura si accresce con la maturazione spirituale di colui che la legge e la interpreta.

Ma la lettura della Scrittura, soprattutto nella tradizione delle Chiese d'Oriente, è sempre una lettura nello Spirito, e quindi anche nella comunità dei credenti radunata dallo stesso Spirito, in unità vivente tra adempimento dei comandamenti, preghiera e rendimento di grazie nella liturgia. La lectio divina è l'incontro con una persona viva, con Dio stesso che parla, per questo, secondo i padri, presuppone un certo grado di maturità spirituale e non può essere svincolata da una vita di ascesi interamente orientata a Dio: «Qualunque cosa tu faccia, appoggiati sulla testimonianza delle sante Scritture», diceva Antonio, il padre dei monaci.

Se le parole della Scrittura sono “spirito e vita” (Gv 6,63), la conoscenza che scaturisce dalla Scrittura è “insegnamento dello Spirito”, è conoscenza rivelata ai “piccoli” (cf. Mt 11,25-27) ed è frutto di interpretazione spirituale. La Scrittura stessa rimanda il lettore allo Spirito santo come proprio principio ermeneutico. «È in essa che si comprende lo Spirito», scrive Massimo il Confessore indicando la Scrittura come principio di trasfigurazione, di divinizzazione. Dal canto suo, Gregorio Magno afferma che la Scrittura è “interprete di se stessa”, riprendendo un adagio caro alla tradizione comune all'Oriente e all'Occidente che Pietro Damasceno ben sintetizza: «Chi cerca il fine della Scrittura, ha come maestro, come dicono il grande Basilio e san Giovanni Crisostomo, la Scrittura stessa». Guglielmo di Saint-Thierry (1075 ca.-1148), monaco d'Occidente abbeverato alle fonti dell'Oriente, fa sua un'esortazione propria di Gerolamo che il concilio Vaticano II riprenderà nella costituzione dogmatica Dei Verbum: «occorre leggere le Scritture con quello Spirito con cui furono scritte, e con il medesimo Spirito occorre anche comprenderle» (cf. DV 12).

Se questo è l'approccio che ogni battezzato è chiamato ad avere nei confronti della Scrittura, vi è anche una indispensabile dimensione ecclesiale della Parola di Dio. Lo Spirito santo, fecondando le Scritture nel grembo della Chiesa, svela il volto del Cristo, guida all'incontro con lui e orienta le esistenze personali e comunitarie a una vita in obbedienza alla Parola emersa dallo “sta scritto”. «Per mezzo della Parola di Dio, tutta la santa Chiesa rimane nella fede, è confermata e salvata per l'aiuto di Colui che ha parlato per mezzo dei profeti e degli apostoli», affermava san Tichon di Zadonsk. Del resto è nell'assemblea liturgica e non altrove che la Parola di Dio risuona e giunge alle orecchie e al cuore dei credenti. È lì, dove la Chiesa si ritrova convocata dall'unico Signore che la Parola stessa edifica la comunità, plasmandola secondo il volere di Dio. Ed è perciò determinante adottare come criterio ermeneutico per comprendere la Scrittura la vita concreta della comunità cristiana. Esegesi in ecclesia significa innanzitutto questo: vivere concretamente la vita comunitaria,ecclesiale. È da questa reale vita in koinonia che possono nascere quell'esperienza umana e spirituale, quella sensibilità e quel discernimento che consentono una penetrazione della vita di cui i testi sono, appunto, i testimoni. La vita comune può così diventare esperienza della Parola, come afferma Giovanni Cassiano in una delle sue Conferenze: «Le Scritture si rivelano a noi più chiaramente e ci aprono il loro cuore e quasi il loro midollo, quando la nostra esperienza non solo ci permette di conoscerle, ma fa sì che ne preveniamo la stessa conoscenza, e il senso delle parole non ci è rivelato da qualche spiegazione, ma dall'esperienza viva che ne abbiamo fatto». In questo senso la Scrittura è sottratta alla “privata spiegazione” (2Pt 1,20) trovando nella liturgia e nella quotidiana, concreta vita cristiana due “luoghi esegetici” fra loro complementari.

Questa ecclesialità costitutiva della Scrittura fa sì che tutti i membri della Chiesa, dimore dello Spirito santo, siano chiamati a essere soggetto della sua interpretazione spirituale. La frequentazione assidua delle Scritture, l'immersione quotidiana in esse diviene così per ogni battezzato occasione di rinnovamento dell'immersione battesimale e di consolidamento della propria vocazione cristiana. È il primato della Parola allora che deve trasfigurare il volto della Chiesa, rendendolo luminoso come quello del suo Signore. Se le nostre comunità cristiane sapranno essere docili al magistero della Parola, anche il faticoso cammino verso l'unità dei cristiani conoscerà nuovo slancio e la nostra comune testimonianza ecclesiale sarà il più eloquente e credibile annuncio del Vangelo per gli uomini e le donne del nostro tempo.

Signore, noi non sappiamo parlare di te e le nostre parole sono sempre deboli, imprecise, approssimative. Tu solo sei la Parola, e ti chiediamo di essere Parola per ciascuno di noi. O Gesù, manifestati a noi come Parola di vita, affinché noi riconosciamo che tu sei il senso, il significato dell'esistenza, che tu ci doni la vocazione decisiva per il nostro cammino. Tu, che sei trasparenza del Padre, splendore e riverbero del Padre, fa' che contemplando il tuo volto di crocifisso risorto possiamo vedere il Padre; fa' che ascoltando te possiamo ascoltare il Padre, perché tu sei la Parola ultima, definitiva, nella quale c'è tutto ciò che l'uomo può desiderare. Manifestati a noi, Gesù, nella tua umanità e nella tua divinità. Concedici di cogliere in te l'Assoluto, il Perfetto, l'Eterno, l'Immenso, la Verità, l'Amore, la Giustizia, la somma di tutti i beni desiderabili, Colui a cui tendono le nostre speranze e da cui dipende tutta la nostra vita, ogni molecola del nostro corpo, ogni nostro pensiero, gesto, azione. Fa', Signore Gesù, Verbo di Dio fatto uomo, amico e fratello nostro, che in te ci si riveli il Dio Trinità, Colui che è tutto e che ha in mano la vita e la morte, il tempo e l'eternità, la gioia e il dolore, la notte e il giorno. Tu, Signore, sei lo scopo definitivo della nostra esistenza perché tu sei l'Amore.

Carlo Maria Martini, Le confessioni di Pietro, 50-51.

Un altro mondo è possibile

di Agnese Moro

Un altro mondo è possibile? Personalmente ho la certezza che un altro mondo ci sia già, anche se non sempre ce ne accorgiamo. Un esempio è la vita di Izzeldin Abuelaish, da lui narrata nel libro «Non odierò». Nato nel campo profughi di Jabalia, a Gaza, nel 1955, primo di nove figli, in una famiglia palestinese fuggita dalle proprie terre dopo la proclamazione dello Stato di Israele, Izzeldin diventa medico; il primo medico palestinese in un ospedale israeliano. Bambino, studia in una scuola delle Nazioni Unite, dove incontra un maestro che gli fa capire come l'istruzione sia la strada per migliorare davvero la propria vita. Lui ci crede. E seguita ad andare a scuola, malgrado la difficoltà della sua vita: prima e dopo la scuola, da quando ha sette anni, fa ogni possibile lavoro (onesto) per aiutare la sua misera famiglia. E' il primogenito ed è logico che debba farlo. Se lo aspettano i suoi genitori, e se lo aspetta anche lui da se stesso. La povertà dei profughi a Gaza è profondissima, e terribili le condizioni igieniche e sanitarie. Il suo primo contatto con gli «altri»: una famiglia israeliana nella cui fattoria lavorerà un'estate. Scoprendo uomini e non mostri. La sua vita è un'epopea. Per le tante circostanze che lo conducono a costruirsi una vita piena e utile, e a specializzarsi in ostetricia e ginecologia in un ospedale israeliano, dove poi resterà a lavorare. Un'epopea anche per la incredibile difficoltà con la quale viene realizzata e vissuta ogni giorno questa vita, in mezzo agli assurdi legacci burocratici dell'una e dell'altra parte, alle improvvise chiusure delle frontiere, alle imprevedibili attese ai check-point, alle ripetute umiliazioni. Molti sono gli aiuti che gli vengono dai suoi colleghi e amici israeliani. Nella sua vita ci sono terribili dolori. La morte improvvisa della moglie e, poco dopo, l'uccisione, da parte dell'esercito israeliano, di tre delle sue figlie, di una delle sue nipoti e il grave ferimento di un'altra delle sue figlie nel bombardamento di Gaza il 16 gennaio 2009. Non c'era alcun motivo o pretesto per colpire la sua casa. E qui, con questo terribile episodio, una vita già di per sé decisamente fuori dell'ordinario, diviene qualcosa di più. Perché Izzeldin Abuelaish, invece di cedere all'odio, rafforza la sua convinzione che i due popoli possano convivere pacificamente, e i suoi sforzi perché ciò avvenga. Solo per farvi vedere come ragiona Izzeldin, ecco un brano del suo libro. «Le mie tre preziose figlie e mia nipote sono morte. La vendetta, una malattia endemica in Medio Oriente, non me le restituirà. E' importante provare rabbia dopo eventi del genere, rabbia che segnala che non accetti quello che è accaduto, che ti incita a fare la differenza. Ma bisogna stare attenti a non cadere nell'odio. Il desiderio di vendetta e di inimicizia servono solo ad allontanare il buon senso, accrescere le sofferenze e prolungare il conflitto. Quel qualcosa di buono che viene fuori da questo male terribile è che insieme potremmo superare le divisioni che ci hanno tenuti separati per sessant'anni. La tragedia della morte delle mie figlie e di mia nipote ha rafforzato la mia idea di come superare le divisioni. Nel profondo di me stesso so che la violenza è futile. È una perdita di tempo, di vite e di risorse, e non fa che generare altra violenza. Non funziona. Perpetua un circolo vizioso. C'è un solo modo per superare le differenze, per vivere insieme, per realizzare gli obiettivi dei due popoli: dobbiamo trovare la luce che ci guidi. Non sto parlando della luce della fede religiosa, ma della luce come simbolo di verità. La luce che ti permette di vedere, di dissipare la nebbia, di trovare la saggezza. Per trovare la luce della verità bisogna parlarsi, ascoltarsi e rispettarsi a vicenda. Invece di sprecare energie odiando, usarle per aprire gli occhi e vedere cosa sta accadendo realmente. Di certo se riusciamo a vedere la verità siamo in grado di vivere fianco a fianco». Il nuovo mondo è già qui.

in “La Stampa” del 30 ottobre 2011

«L'apertura del proprio cuore al legame affettivo in cui l'alterità di un Tu sessualmente differente si presenta interpellando la propria libertà senza che ci si possa impossessare di lui, non differisce, come tensione interiore, alla ricerca di un Tu assoluto da cui si attende non una parziale corrispondenza, ma una piena ed adeguata rivelazione della propria destinazione e del senso ultimo della propria vita. In questo attimo sospeso, in cui nell'innamorarsi ci si apre ad una nuova identità, quasi ad una riformulazione di se stessi a partire dall'altro, si assume l'atteggiamento tipico dell'umano di fronte al divino. (...) Da qui nasce la connotazione profondamente religiosa, quasi rituale che ogni innamoramento assume, almeno nel suo insorgere».

Claudio Giuliodori, Intelligenza teologica del maschile e del femminile, 47

«L'unità non è, in alcun modo, confusione, - come la distinzione non è separazione. (...) L'unione vera non tende a dissolvere gli uni negli altri gli esseri che riunisce, ma a perfezionarli gli uni con gli altri. Il Tutto non è dunque “l'antipodo, ma il polo stesso della Persona”. “Distinguere per unire”, si è detto, e il consiglio è eccellente, ma sul piano ontologico non s'impone con minor forza la formula complementare: unire per distinguere».

Henri De Lubac, Cattolicismo - 1938, p. 250



«Differire, anche profondamente, l'uno dall'altro non è affatto essere nemici: è essere. Riconoscere ed accettare la propria differenza non è orgoglio. Riconoscere ed accettare la differenza dell'altro non è debolezza. Se unione deve esserci, se l'unione ha un senso, essa non può che essere tra persone che sono differenti. E' in primo luogo nel riconoscimento e nell'accettazione che la differenza è superata e l'unione si realizza».

Henri De Lubac, Paradossi e nuovi paradossi - 1946, p. 77

Tempi della famiglia e della parrocchia

di Diego Andreatta

"La famiglia: il lavoro e la festa", un bel triangolo davvero, finora poco considerato. Il tema dell'Incontro mondiale di Milano 2012 ci fa sbattere contro "il problema" dell'organizzazione del tempo, terreno di sfogo ma anche di dialogo empatico con famiglie non "militanti". Accanto alle lamentazioni per un tempo libero ancora tutto da liberare o per la domenica sprecata nel consumo di massa, sarebbe utile anche una schietta autocritica infraecclesiale e interfamiliare. A partire dall'idea che "i tempi delle famiglie" sono solo una facile generalizzazione: nella realtà esistono invece i tempi "della" singola famiglia, che nascono da situazioni ed esigenze ben diverse. Spesso sconosciute (come molti disagi nascosti, legati a condizioni economiche o relazionali), ma sempre da rispettare. Ecco quindi il dovere di non imporre... doveri alle famiglie, semmai di offrire itinerari flessibili, adattabili alle variegate situazioni (...) Scendiamo nel concreto. Di fronte a famiglie numerose chiamate a moltiplicare gli appuntamenti per i figli, oppure - è il caso opposto - di fronte a madri o padri soli (senza nonni su cui contare), certi generici fervorini sulla necessità della partecipazione ecclesiale risultano quanto meno fuori luogo. Freniamo poi gli eccessi di appuntamenti diocesani domenicali che infittiscono l'agenda delle famiglie andando a sommarsi con quelli della parrocchia: andrebbero evitati fin nella fase di programmazione del calendario annuale - come già si fa in alcune diocesi - attraverso un'attenta Verifica di Impatto Familiare, per non ritrovarsi in periodi di overbooking. Pari attenzione si dovrebbe porre nel non sovraccaricare le "solite" coppie di genitori (un classico: lei è mamma catechista, lui papà animatore di oratorio, accompagnano i corsi per fidanzati e, tutto compreso, uno dei due è chiamato in Consiglio pastorale) costretti alla fine a scoprirsi - l'uno o l'altro - "fuori casa" tutte le sere. Sono esempi forse in via d'estinzione (il problema - si dirà - sono quelli che non vogliono saperne di uscire nemmeno una volta per andare in parrocchia) ma meritevoli di verifica nel rapporto tra Chiesa locale e Chiesa domestica. Il rischio evidente di uno stress pastorale, con bruciature che si fanno sentire poi sui singoli, sui rapporti fra i partner e inevitabilmente sui figli ("mio padre è fuori anche stasera - il lamento del figlio preadolescente - si fermasse a guardare la partita con me...") interpella la capacità di discernimento della coppia: è importantissimo trovare il tempo per questa riflessione - eccolo, di nuovo, il fattore tempo - , dicono i genitori esperti, così come tener conto che la sacrosanta dimensione comunitaria della festa non dovrebbe mai penalizzare il recupero di un sano clima interno alla propria famiglia: se si è guastato, curiamone subito la manutenzione. I sussidi biblico-pastorali approntati per il VII Incontro mondiale di Milano sono un utile "prelavaggio" per cominciare a togliersi qualche macchia nella celebrazione del "Giorno del Signore", ma meritano di essere messi nella centrifuga della concretezza e dell'autovalutazione. E allora si potrebbero ipotizzare (perché non farlo in questo blog?) altri interrogativi per le schede di verifica: quali sono i reali motivi per cui come famiglia ci costa soltanto fatica partecipare a certi eventi ecclesiali? come possiamo farci aiutare da altre famiglie o dagli stessi "don"? quante volte valorizziamo l'invito a cena di altri genitori o una breve vacanza insieme per crescere nelle comunione fraterna? dove collocare i paletti a difesa dell' intimità domestica? quali occasioni favorire per sperimentare come famiglia momenti di servizio? quanto siamo disposti a modificare il ritmo d'impegni a seconda dell'età dei figli? come dovremmo arrivare alla sera del dì di festa per gustarci un lunedì alla Fiorello, il più-grande-spettacolo-dopo-il-weekend?

«Il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell'ordine a una concezione più dinamica ed evolutiva» (Gaudium et Spes 5) (Genus humanum a notione magis statica ordinis rerum ad notionem magis dynamicam atque evolutivam transit). Nella prospettiva statica si pensava che tutta la realtà fosse già fissata nella sua natura, stabilita nella sua perfezione fin dall'inizio, per cui la storia consisteva in un eterno ritorno degli stessi eventi. Si ricordi la nota formula del Qoelet: “Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà: non c'è niente di nuovo sotto il sole. C'è forse qualcosa di cui si possa dire: guarda questa è una novità? Proprio questa è già stata nei secoli che ci hanno preceduto” (Qo 1,9-10). Le novità, quando apparivano, dovevano essere considerate corruzioni o degradazioni dell'esistente. Quanto ai viventi fino a metà del secolo XIX si pensava che ogni specie fosse sorta in modo indipendente dalle altre con atto speciale di creazione. Oggi invece si pensa che “tutti gli organismi viventi noti, siano essi batteri, piante, funghi o animali, compresi gli esseri umani, discendono da un'unica forma di vita. Noi tutti siamo costruiti con gli stessi componenti elementari, che assembliamo per mezzo degli stessi processi di biosintesi” (De Duve). (...) Oggi vediamo le cose in modo molto diverso: la perfezione sta alla fine perché le creature non sono in grado di accogliere il dono di Dio in modo compiuto in un solo istante. La storia perciò implica novità continue. Ma perché le novità corrispondano a un reale sviluppo è necessario che esprimano la Parola creatrice di Dio e facciano fiorire l'azione del suo Spirito.

Carlo Molari

Quale verità?

di Christian Albini

Una delle parole che ricorrono con maggiore frequenza nei discorsi legati alla sfera religiosa è «verità». Spesso la si usa come una sorta di arma per porre fine a una controversia: la posizione diversa dalla propria viene considerata illegittima «in nome della verità». Si squalificano così l'interlocutore e le sue ragioni, di solito con il ricorso a qualche documento magisteriale o alla parola di qualche alto prelato. Nei media, come in parecchi contesti ecclesiali, si incontrano cattolici che si esprimono per citazioni, ripetendo solo quanto già affermato e certificato da qualche testo «ufficiale».

Trovo che in questo modo di fare ci sia un grosso problema, soprattutto quando si accompagna a un atteggiamento polemico, aggressivo, di svalutazione degli altri. In nome della verità, naturalmente. Per la Chiesa cattolica è necessario produrre dei documenti che presentino autorevolmente il suo messaggio. Ciò non toglie che l'eccesso di tali documenti è una selva, dove non si distingue quel che è necessario e irrinunciabile dal provvisorio. (...) Il rischio è presentare il cristianesimo come qualcosa di pesante, statico, complicato e poco accessibile. Inoltre, si perdono di vista le zone grigie, inevitabili quando si passa dai principi generali alla loro applicazione nelle situazioni particolari (...). È invece necessario mantenere aperti la riflessione e il confronto, perché non abbiamo in tasca le risposte pronte a tutto.

C'è poi un altro aspetto, più profondo. La verità non è la «somma dei documenti», un insieme di affermazioni scritte. Per il cristiano, Gesù in persona è via, verità e vita. Verità è vivere in Cristo, diventare Cristo aprendosi allo Spirito. I documenti sono uno strumento di grande importanza che la Chiesa si dà, ma non un assoluto o un fine. La verità prende corpo nell'uomo, in tutto l'uomo. (...)

Come riconoscere questa verità? Ai tempi dei padri del deserto, Abba Macario disse: «Se quando rimproveri qualcuno ti lasci muovere dall'ira, soddisfi una tua passione». E un anziano chiese a un fratello: «Quanti giorni hai trascorso senza dir male di tuo fratello, senza giudicare il prossimo e senza far uscire dalle tue labbra una parola inutile?». Col pretesto di difendere Dio e la Chiesa, gli appelli alla verità all'insegna del conflitto e della condanna sono in realtà un modo per imporre se stessi e gratificare il proprio ego. È bello sentirsi paladini della verità contro qualcuno



Scacchi, moto, auto, guerrieri, mostri, insetti vari... costruiti con i pezzi di vecchie auto. Cliccando sulla foto, una selezione di immagini curiose.

«Va' prima a riconciliarti con il tuo fratello, ed allora verrai a presentare la tua offerta» (Mt 5,20-26).

Il Concilio Vaticano II ci ha offerto una splendida interpretazione pratica di questo passo. Infatti, dovendo presentare la propria «offerta all'altare» (Costituzione sulla Sacra Liturgia), ha sentito il bisogno di «uscir fuori» a riconciliarsi con l'umanità (schema XIII, La Chiesa nel mondo contemporaneo).

«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto, e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore... (La Chiesa) si sente realmente solidale con il genere umano e la sua storia» (Gaudium et spes, I). Non è un atto di riconciliazione in piena regola?

La pratica dei sacramenti non può dispensarci dalla fedeltà agli impegni terrestri. Non si arriva a Dio « saltando » il mondo. La religione diventa veramente un «oppio» quando ci dispensa dal mestiere di uomini. Chi, nell'illusione di arrivare a Dio, tradisce la terra, finisce per tradire anche Dio. (...) C'è una sola sicurezza che Dio non ci « volti la faccia » (Tob 4, 7): non voltare la nostra faccia a nessun uomo.

Alessandro Pronzato, Vangeli scomodi, 1967, p. 90

«Coloro che prendono le distanze dal mondo, coloro che prendono quota a partire dal mondo, abbassando il mondo, non s'innalzano. Rimangono alla stessa altezza. E la quota che s'illudono di aver raggiunto è in realtà uno sprofondare dall'alto in basso, l'abbassamento del mondo. È una quota al di sotto del punto comune di partenza. È questo che essi misurano. Infatti misurano l'altezza da cui hanno abbassato il mondo e non l'altezza a cui si sono innalzati. Coloro che si elevano veramente, coloro che prendono realmente quota, sono quelli che lasciano il mondo all'altezza in cui si trova, e di là salgono, di là prendono quota. L'uomo che lascia il mondo dove è e da questo livello si innalza, quest'uomo è sicuro di salire. Non basta abbassare il temporale per elevarsi nella categoria dell'eterno. Non è sufficiente abbassare la natura per elevarsi nella categoria della grazia. Non basta abbassare il mondo per salire nella categoria di Dio.

I membri del partito devoto perché non hanno la forza (e la grazia) di appartenere alla natura, credono di appartenere alla grazia. Perché non possiedono il coraggio temporale, credono di essere entrati nella penetrazione dell'eterno. Perché non hanno il coraggio di essere del mondo, credono di essere di Dio. Perché non hanno il coraggio di appartenere a uno dei partiti dell'uomo, si illudono di appartenere al partito di Dio. Perché non appartengono all'uomo, credono di appartenere a Dio. Perché non amano nessuno, credono di amare Dio».

Charles Péguy, Note conjointe sur M. Descartes et la philosophie cartésienne, passim

Incapaci di discutere

di Aldo Maria Valli

Dopo che su Vino Nuovo ho espresso le mie perplessità circa l'uso della pedana mobile da parte di Benedetto XVI e le spiegazioni fornite dalla Santa Sede per giustificarlo, sono stato sommerso di reazioni e commenti. Mi ha colpito la violenza di molti che sono arrivati fino all'insulto e, in qualche caso, alla minaccia. Non ne sono spaventato, anche perché è da molto tempo che ricevo improperi ogni volta che esprimo liberamente qualche opinione, ma penso che sulla vicenda sia il caso di fare qualche ragionamento. Quell'articolo terminava con una domanda: voi che cosa ne pensate? Era un invito esplicito a manifestare le proprie idee. Ma se molti l'hanno accolto, molti altri hanno preferito rispondere con l'invettiva e una sorta di "scomunica". Perché? A mio giudizio il motivo profondo sta nell'assenza di un vero e proprio dibattito intraecclesiale. Un'assenza che a sua volta deriva dalla mancanza di un'autentica opinione pubblica dei credenti cattolici.

I motivi di questa situazione andrebbero indagati con attenzione. Sono di natura storica, culturale ed ecclesiale. Con riferimento al post Concilio, ci sarebbe da ragionare su come e quanto incise il cosiddetto dissenso cattolico, fenomeno che di fatto, avendo segnato una rottura netta con la gerarchia, radicalizzò le posizioni e spaventò molti. Ma c'è anche un problema di conformismo dell'informazione. Si preferisce riferire senza commentare, oppure si commenta in modo superficiale, oppure ancora si tende quasi automaticamente a riverire e ossequiare.

Il risultato è evidente. La mancanza di un'opinione pubblica si traduce in un grave deficit per la vita ecclesiale. Tutti gli stimoli che potrebbero venire, in particolare, dai fedeli laici sono soffocati all'origine e quando qualcuno si comporta da cristiano adulto e osa pensare con la propria testa ecco scattare la reprimenda da parte di altri laici che si ergono a giudici e a difensori d'ufficio della tradizione e dell'autorità, mentre in molti casi sono soltanto difensori dell'abitudine e del potere.

La libertà di esprimere le proprie idee senza paura è la precondizione dell'esistenza di un'opinione pubblica, ma se di fronte ai commenti più liberi scattano subito le accuse, gli insulti e l'emarginazione, come si può immaginare di avere un'opinione pubblica? Avremo piuttosto, molto più facilmente, schiere di adulatori.

Oggi alla Chiesa "manca il respiro" dicono nel loro bel libro Saverio Xeres e Giorgio Campanini. E manca anche perché il Concilio, a quasi cinquant'anni dalla sua apertura, è sempre più dimenticato, svalutato e negletto. Uno dei risultati più tragici di questa situazione è che si dice "Chiesa" e si pensa automaticamente a "gerarchia". Si dice "Chiesa italiana" e si pensa a "Cei" o addirittura a "presidenza della Cei". E in questo quadro il laicato è tenuto in una condizione di infantilismo culturale. Va bene, ed è accettato, fino a quando è funzionale all'istituzione. Ma se osa rendersi autonomo e pensante (e, ripeto, stiamo parlando di questioni opinabili, non di verità di fede), ecco scattare, molto spesso proprio da parte di altri laici, l'insulto, l'intimidazione, la soperchieria. La comunicazione, all'interno della Chiesa, è ormai soltanto unidirezionale: scende dal papa e dai vescovi verso gli altri, ma dal popolo non sale nulla. O, quando sale qualcosa, il messaggio incontra tanti di quegli ostacoli e di quei disturbi da vanificare ogni tentativo. Mancano luoghi di confronto paritario e quelli che potrebbero svolgere questo compito sono diventati megafoni della gerarchia, contribuendo così non alla formazione di un'opinione pubblica ma, al contrario, a un sempre più marcato processo di clericalizzazione.

Era il 1976 quando, al convegno di Roma su Evangelizzazione e promozione umana, si accennava a questi temi. Sono passati trentacinque anni e ci ritroviamo con un laicato non solo scoraggiato, ma ormai disabituato al confronto e quasi incapace di libera elaborazione culturale. E tutto questo proprio mentre le tecnologie ci permettono di far circolare informazioni e idee molto più ampiamente e velocemente di prima.

Voi che cosa ne pensate?...

Bocconi di normalità

di Massimo Gramellini

Si leggono inni assai poco sobri alla sobrietà di questo governo di bocconiani, politecnici e larga Intesa. Sobrietà sembra il nome con cui, dopo un ventennio di villaggio-vacanze, abbiamo deciso di ribattezzare la normalità. Un Paese che in questi anni avesse avuto una classe politica decente non avrebbe avuto bisogno di ricorrere ai sacerdoti del Capitale. Di sicuro un Paese siffatto non considererebbe Monti un uomo sobrio, ma semplicemente uno normale. Perché è normale che un primo ministro abbia il fascino di un sindaco dell'Engadina: mica deve fare l'imbonitore o la rockstar. Che dopo il lavoro vada a vedersi una mostra pagando il biglietto, invece di aprire la porta di casa a prostitute e ricattatori. Che i ministri del governo italiano vestano abiti italiani (preferibilmente scuri) e viaggino su auto italiane (preferibilmente scure). Che non regalino slogan ai giornali e spunti alla satira, che non parlino di calcio e di donne, non raccontino metafore sui leopardi smacchiati, non inciampino sui congiuntivi alla molisana e non mostrino il dito medio a favore di telecamera.

Insomma, dovrebbe essere considerato normale che chi ci governa non sia proprio uno di noi, ma uno meglio di noi. Che un borghese del Nord-Ovest, e in questo governo ce ne sono parecchi, sia una persona seria e magari noiosa, ma non una macchietta. La delega alle barzellette va tolta ai governanti e restituita ai legittimi titolari: i frequentatori dei bar. Anche questa, in fondo, è democrazia.

Dunque, fratelli, noi che siamo in attesa del natale del Signore, ripuliamoci da ogni residuo di colpa! Colmiamo i suoi tesori di doni diversi, perché nel giorno santo si possa accogliere i forestieri, ristorare le vedove, vestire i poveri! Infatti che cosa succederebbe, se in una stessa casa dei servi dello stesso padrone uno vestisse orgoglioso abiti di seta, un altro fosse coperto di stracci; uno fosse rimpinzato di cibo, un altro patisse fame e freddo; quegli fosse tormentato da indigestione per le gozzoviglie del giorno prima, questi invece non riuscisse a placare la fame del giorno prima? Oppure quale sarebbe il valore della nostra preghiera? Chiediamo di essere liberati dal nemico (cf. Mt 6,13) noi che non siamo liberali verso i fratelli. Imitiamo nostro Signore! Se infatti egli vuole che i poveri siano insieme con noi partecipi della grazia celeste, perché non dovrebbero essere con noi partecipi dei beni terreni? E non siano privi di nutrimento quelli che sono fratelli nei sacramenti, se non altro per meglio difendere per mezzo loro la nostra causa davanti a Dio, cosi che noi li manteniamo a nostre spese ed essi rendano grazie a lui. Quanto più poi il povero benedice il Signore, tanto più gioverà a chi gli fa benedire il Signore. E come sta scritto: Guai all'uomo per il quale viene bestemmiato il nome del Signore (cf. Gc 2,7), cosi sta scritto: Pace all'uomo per il quale è benedetto il nome del Signore e Salvatore. Ma qual è il merito di colui che dona? Egli fa sì che pur essendo solo ad agire nella casa, la Chiesa attraverso molti possa pregare il Signore, e anche se forse non osa chiedere alla divinità, grazie alle preghiere dei più che chiedono ripetutamente, riceve anche quello che non sperava. Per questo, ricordando il nostro aiuto, il beato apostolo dice: Affinché siano rese grazie per noi da parte di molti (2Cor 1,11); e ancora: Perché la vostra divenga una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo (cf. Rm 15,16).

san Massimo di Torino (morto nel 420 circa), Sermo 60, 3-4

Verso spiagge nuove

Dio è sorpresa.

Dio è novità.

Dio è creatività.

Quando, dopo il mio lungo soggiorno nel deserto del Sahara, ebbi la gioia di rivedere papa Giovanni XXIII, mi chiese fissandomi con quei suoi occhietti vivaci e penetranti: «Dimmi, prima di andare laggiù in Africa, ci avevi pensato? Era stata una cosa premeditata? Nella tua vita, durante il tuo impegno qui a Roma in Azione Cattolica, non avevi qualche volta intravisto la possibilità di farti piccolo fratello; non avevi mai intuito che la tua vita sarebbe cambiata, che ti saresti fatto religioso... eccetera?».

No, gli risposi, proprio no. Fu di sorpresa che Dio mi ha chiamato ed è in pochi giorni che decisi l'accettazione di ciò che credevo sua volontà partendo per l'Africa... Non avevo mai pensato prima di allora a questa svolta.

E il Papa, fissandomi con un sorriso: «Capita sovente così. Si va a finire là dove non s'era mai pensato... Anche a me è capitata la stessa cosa... non ci avevo mai pensato». E continuò a sorridere guardando lontano, da una finestra che dava sul lago di Castelgandolfo.

fratel Carlo Carretto, Ogni giorno, 23 gennaio

Declino degli ordini religiosi È la fine di una grande storia?

di Vittorio Messori

Ottimi affari, negli ultimi anni ma ancor più nei prossimi, per gli agenti immobiliari romani che trattano «grandi edifici di pregio». Dopo il Concordato

Io sono come la Maddalena

di Alda Merini

Ospedale San Paolo, Milano, 28 ottobre 2009

a Sua Santità Benedetto XVI

Santo Padre, mentre La ringrazio, La prego di tenere conto dei continui omaggi molto belli fatti da alcuni miei allievi, fra i quali Giuliano, i quali, pur onorandoLa, sono assai lontani da Lei. Noi poveri peccatori cerchiamo di onorarLa con disegni e preghiere, ma non vorremmo toccare l'ambito della superbia in cui è facile cadere

Grazie a Dio il Cristianesimo trionfa ma attenti alle false meretrici e peccatrici perché Dio ama i peccatori come noi.

Io sono un guado pieno di errori che ho fatto e di cui mi pento.

Santo Padre ho sentito la Terra Santa perché ho incontrato faccia a faccia il Signore. Io sono vissuta nella sporcizia, ho servito San Francesco e avrei voluto venire da Lei ma me lo hanno proibito per la mia salute e per riguardo ad Ella.

«Peccatore come sono» ma madre sicura che non meritava 4 figli. Sono belli ma non cattolici, alcuni di loro non sanno di essere battezzati. Vanno a derubare la loro mamma ma sono sempre doni caro Santo Padre. Questi buoni ladroni sono la mia consolazione e moriranno con me, con i miei dolori. Hanno pianto, non avevano la mamma.

Ma la mamma è sempre stata con loro, non li ha mai abbandonati. Oh dolce è stato il mio destino al quale ho lasciato i miei anni. Come è vera la storia di Maddalena, anche io come Maddalena.

Abbracci le donne sono fredde come il ghiaccio. Per la malattia e la guarigione di Alda Merini.


in “Il Sole 24 Ore” del 13 novembre 2011

Babele, fallimento di una sola cultura e Dio sparse i semi della diversità

di Erri De Luca

Dopo il diluvio e la scialuppa di salvataggio di Noè, l'umanità ricresce e si raccoglie nella valle di Scin'ar. Costruisce una montagna a forma di torre per abitare in cielo. Nelle illustrazioni dell'episodio si vede un'opera incompiuta, ma secondo la lettera della scrittura sacra l'edificio ha raggiunto il suo culmine. L'impresa di abitare il cielo non viene interrotta, è invece fallita. E' il più fantastico edificio mai concepito da una storia, degno perciò di un grandioso insuccesso. La divinità interviene dopo l'ultima pietra. Sulle labbra dei costruttori spiccano a zampillo le innumerevoli lingue del mondo, napoletano compreso. Non è un castigo ma un dono. L'umanità, fornita di un solo indirizzo e di una sola lingua, si era ridotta alla concordia di un termitaio, di un alveare. Il fervore dell'opera aveva cancellato le scelte e le diversità. Erano diventati maestranze di una sola impresa. La divinità con la consegna delle lingue restituisce la varietà, il viaggio, l'arbitrio. Babele è la parola che riassume il balbettio frenetico di una lingua sbriciolata in mille altre nuove. Così la divinità disperde la specie umana «sopra i volti di tutta la terra». Il progetto è chiaro: la sparge a seme dai ghiacciai ai deserti per farla attecchire ovunque, inestirpabile. Si allontanarono dall'ombelico di una valle, si moltiplicarono i suoi centri. Il dono delle lingue non servì solo a disperdere ma pure a attecchire. I nostri emigranti impararono le parole delle patrie seconde per radicarsi in fretta nella terra nuova. Sovrapposero ai loro affettuosi dialetti i vocabolari delle nazioni, generose con loro più della patria matrigna che non li riconosceva per figli. Scrive Garcìa Màrquez in Cent'anni di solitudine: «Non si è di nessun posto finché non si ha un morto sottoterra». Penso diversamente che non si è di nessun posto finché non se ne cantano le canzoni, finché non si è invitati a ballare a una festa di nozze. Ho imparato a scuola il latino e il greco. Ho poi aggiunto per mio conto altre grammatiche, alfabeti. Quando inizio una nuova lingua mi sembra di piantare un albero dal seme. Lentamente affiora dal silenzio, come da sottoterra e avvia la sua lenta crescita. A volte non arriva a farsi albero e resta cespuglio. Mezza vita fa ascoltavo e parlavo kiswahili in un villaggio della Tanzania, di sera sotto un gran mandorlo indiano. Come allora mi accorgo che una lingua è un albero e pronunciarla è stare nel campo della sua ombra.

in “Corriere della Sera” del 10 novembre 2011

La Messa, una festa aperta all'umanità della povera gente

di Giovanni Nicolini

Quando la parabola domenicale (Mt 22,1-14) mi metteva davanti alla vicenda di quell'uomo «che non indossava l'abito nuziale» nella sala delle nozze piena di commensali, m'è venuto in mente il vecchio Luigi: abitava davanti alla chiesa dove per quasi 25 anni ho fatto il prete di campagna. Arrivavo la domenica per la Messa e lui stava tagliando l'erba per i conigli sulla riva del fosso. Mi diceva: «Don Giovanni, adesso mi preparo e arrivo anch'io». E arrivava. Tirato a lucido, con il suo elegantissimo abito blu. Abito di nozze, che ancora gli andava a pennello perché dopo tanti anni non aveva aggiunto una libbra di peso alla sua snellezza giovanile. Su quest'abito nuziale della parabola avevo avuto parecchie telefonate prima di domenica: consolazione per un vecchio parroco, preoccupato di non aver saputo regalare alla sua gente il gusto e la curiosità del Vangelo. Che cosa vuol dire questo abito? Perché lo butta fuori? È poi così grave non avere l'abito delle nozze? Luigi è nato nel 1900: era facile calcolare la sua età. È andato in paradiso negli anni Novanta. Ho chiesto a lui di aiutarmi e di chiedere al Signore qualche luce. Quella parabola è una meraviglia: la Chiesa che si sogna. La Chiesa che dovremmo essere. Una festa nuziale alla quale sono stati invitati quelli che non erano stati invitati. Invitati non invitati, e chiamati all'ultimo momento. Gente stupita di trovarsi nella bellezza di una festa d'amore. C'è di tutto tra quella gente. Andati alla cerca urgente e frettolosa per riempire la sala, i servi hanno raccolto di tutto: «Trovarono cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì». Non era mai stato così! E non vuole esserlo veramente nemmeno adesso: dentro i buoni, ma fuori i cattivi. Qui no. Nella sala del banchetto nuziale del Figlio di Dio con l'umanità, nella Messa dunque, tutti. E neanche buoni e cattivi, ma prima i più numerosi: cattivi e buoni (infatti, dove mai saranno i buoni?). Un nuovo criterio morale per la partecipazione alle nozze. Nozze dove la sposa non è nominata, perché la sposa è tutta questa povera umanità di povera gente. Che bella la parabola di Matteo 22. Solo lui tra gli evangelisti la ricorda così! Un banchetto per i poveri. Un banchetto per i peccatori. Una sorpresa per gente che non era stata invitata. Ma noi sappiamo che allo Sposo la Sposa piace così. Se si continua a selezionare e a prendere solo i buoni, tra un po' basterà una saletta piccola piccola. Ma soprattutto non sarà contento lo Sposo, e nemmeno suo Padre. Ma allora, perché rovinare tutto con la faccenda dell'abito nuziale? Qual è il male del commensale che non aveva l'abito adatto? E che cosa vuol dire questo abito? Eravamo arrivati a domenica mattina con molte domande. E anche sant'Agostino non ci aveva convinto. Lui dice che l'abito nuziale è la carità, e che i buoni sono quelli che hanno la carità. E i cattivi? Dunque, quelli che non hanno la carità sono fuori? E poi, ne è stato trovato uno, ma la sala è piena di cattivi. Alla fine, forse con l'aiuto di Luigi dal cielo, s'è pensato così: forse quel pover'uomo pensava di avere il diritto di stare in quel posto. L'abito delle nozze, che ricorda l'abito battesimale, è invece l'umile consapevolezza di un dono immeritato. Forse l'abito nuziale è la consapevolezza che possiamo far festa anche noi proprio perché siamo stati rivestiti della misericordia divina. E questa misericordia è Gesù. Non è un nostro diritto, né un nostro merito. È solo dono.

in “Jesus” del novembre 2011

Adesso si guarda al futuro.

Buona Attesa!

don Chisciotte

12/11/2011

Buonanotte

di Massimo Gramellini

Oggi è il giorno che chiude un ventennio, uno dei tanti della nostra storia. E il pensiero va al momento in cui tutto cominciò. Era il 26 gennaio 1994, un mercoledì. Quando, alle cinque e mezzo del pomeriggio, il Tg4 di Emilio Fede trasmise in anteprima la videocassetta della Discesa In Campo. La mossa geniale fu di presentarsi alla Nazione non come un candidato agli esordi, ma come un presidente già in carica. La libreria finta, i fogli bianchi fra le mani (in realtà leggeva da un rullo), il collant sopra la cinepresa per scaldare l'immagine, la scrivania con gli argenti lucidati e le foto dei familiari girate a favore di telecamera, nemmeno un centimetro lasciato al caso o al buongusto. E poi il discorso, limato fino alla nausea per ottenere un senso rassicurante di vuoto: «Crediamo in un'Italia più prospera e serena, più moderna ed efficiente... Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano». Era la televendita di un sogno a cui molti italiani hanno creduto in buona fede per mancanza di filtri critici o semplicemente di alternative. Allora nessuno poteva sapere che il set era stato allestito in un angolo del parco di Macherio, durante i lavori di ristrutturazione della villa. C'erano ruspe, sacchi di cemento e tanta polvere, intorno a quel sipario di cartone. Se la telecamera avesse allargato il campo, avrebbe inquadrato delle macerie. Oggi è il giorno in cui il set viene smontato. Restano le macerie. La pausa pubblicitaria è finita. È tempo di costruire davvero.



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Il frate

di Francesco Guccini

Album: L'Isola Non Trovata (1971)

Lo chiamavano "il frate", il nome di tutta una vita, / segno di una fede perduta, di una vocazione finita.

Lo vedevi arrivare vestito di stracci e stranezza, / mentre la malizia dei bimbi rideva della sua saggezza...

Dopo un bicchiere di vino, con frasi un po' ironiche e amare, / parlava in tedesco e in latino, parlava di Dio e Schopenhauer.

E parlava, parlava, con me che lo stavo a sentire / mentre la sera d'estate non voleva morire...

Viveva di tutto e di niente, di vino che muove i ricordi, / di carità della gente, di dei e filosofi sordi...

Chiacchiere d' un ubriaco con salti di tempo e di spazio, / storie di sbornie e di amori che non capivano Orazio...

E quelle sere d' estate sapevan di vino e di scienza, / con me che lo stavo a sentire con colta benevolenza.

Ma non ho ancora capito mentre lo stavo a ascoltare / chi fosse a prendere in giro, chi dei due fosse a imparare...

Ma non ho ancora capito, fra risa per donne e per Dio, / se fosse lui il disperato o il disperato son io...

Ma non ho ancora capito con la mia cultura fasulla / chi avesse capito la vita chi non capisse ancor nulla...







Un'altra economia è possibile

di Philippe Clanché

Isabelle Jonveaux ha da poco pubblicato Le monastère au travail: le Royaume de Dieu au défi de l'économie (Il monastero al lavoro: il Regno di Dio alla sfida dell'economia), nel quale studia “come i monaci operino la delicata integrazione dell'economia e del lavoro in un'utopia che è loro refrattaria per definizione”.

Che cosa possono insegnarci i monaci con le loro pratiche economiche?

Mostrano che un modello fondato su valori diversi da quelli del mondo

Anche il “conservatore” Schuster voleva la messa in italiano

di Agostino Giovagnoli

Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano dal 1930 al 1954, è stato molto amato dai milanesi ma poco capito dagli storici. (...) Schuster, infatti, fu un grande vescovo e, aspetto finora sconosciuto, un convinto animatore di quel rinnovamento cattolico del XX secolo che ha poi ispirato il Concilio Vaticano II. È quanto emerge dal bel volume Ildefonso Schuster e il rinnovamento cattolico (1880-1929) (Guerini, pp. 254, euro 23,50) di Elena Nobili, studiosa dell'Università Cattolica (...). Il libro




La Chiesa oggi e la tentazione di voler vincere

di Enzo Bianchi

In una recente intervista, il card. Carlo Maria Martini, interrogato sulla situazione della chiesa oggi e sulle sue tentazioni più manifeste, ha espresso poche ma significative parole: “Una chiesa che vuole vincere”. Per un cristiano della mia generazione, questa tentazione non è nuova: si può anche dire che siamo cresciuti con quell'anelito nel cuore che ci faceva desiderare una chiesa vincitrice e per questo forte, grande, imponente... Poi venne un'ora, inaugurata da papa Giovanni ma da tempo in maturazione in molti spazi della vita ecclesiale: il fuoco del vangelo resta infatti sempre vivo nella comunità dei credenti, anche se coperto di cenere. Alcuni profeti e molti cristiani anonimi e santi seppero scoprire la brace, gettare qualche pezzo di legno e... il fuoco riprese ad ardere. La chiesa si rendeva conto della sua povertà e delle sue mancanze, voleva rinnovarsi con un “aggiornamento” che fosse obbediente alla grande tradizione e ai segni dei tempi, scrutati ascoltando l'umanità, la storia con le sue opacità e i suoi faticosi cammini di umanizzazione. La chiesa reimparò ancora una volta che nella debolezza manifesta la grazia di Dio, che nella povertà è arricchita dalla povertà di Cristo, cioè dalla sua presenza, che quando non gode privilegi mondani la chiesa è più libera e più capace di profezia. Per tutti noi fu una chiamata a una migrazione, a una conversione di sguardi e giudizi. Certo, in questo scoprire la brace e riattizzare il fuoco del vangelo ci fu chi patì scandalo e inciampò, chi non riuscì a sopportare il cambiamento e anche chi, abbagliato, si perse su strade anche generose ma non più munite di fede e di comportamento cristiano. Ma oggi questa stagione è passata e appaiono le vecchie e, oserei dire, abituali e normali tentazioni delle religioni e dunque delle chiese. Così si dà tanta importanza a iniziative che non vanno certo condannate ma che non andrebbero sopravvalutate: ormai la vita ecclesiale sembra ritmata da “grandi manifestazioni”, “estese adunanze” in cui si cerca di unire numero, identità e potere vincente. In verità, per un cristiano che lascia che il suo sguardo sia formato dal vangelo, non è decisivo che a un raduno ci sia un milione di giovani né il loro numero (sovente accresciuto ad arte, sintomo di un confidare nella grandezza delle cifre) autorizza a dire che hanno ragione o che sono portatori di autentiche ragioni cristiane: proprio la mia generazione ha conosciuto tirannie che radunavano giovani e meno giovani in adunate oceaniche, senza contare che ancora oggi numeri così elevati di giovani li si possono trovare anche ai concerti degli “idoli” della musica. Perché a noi cristiani di oggi dovrebbe accadere il contrario di quello che è accaduto a Gesù, la cui venuta al mondo è stata riconosciuta da pochi poveri e anziani, e la cui predicazione ha avuto sì folle di ascoltatori alle quali tuttavia egli si rivolgeva chiamandoli pusillus grex, piccolo gregge di pochi discepoli disposti a seguirlo. Il gusto del numero va di pari passo con la negazione della relazione, del dialogo, del confronto: non si dimentichi che nella celebrazione dei sacramenti

Drunkoressia e binge drinking: le nuove «cattive» abitudini dei ragazzi

Giovani a rischio per l'abuso di superalcolici

Aumentano in tutto il Paese i casi di cancro correlati. I superalcolici in eccesso possono causare il cancro

Alcol e cancro: un binomio finora troppo spesso sottovalutato che sta invece assumendo proporzioni preoccupanti. A tornare sull'argomento (in una discussione pubblicata sul Canadian Medical Association Journal) è questa volta un gruppo di studiosi francesi, sostenuto

Acqua alla gola coscienze sporche

di Claudio Magris

Ci sono momenti in cui la realtà costringe a prendere alla lettera le metafore, spesso con effetti assai spiacevoli. Mettere con le spalle al muro un avversario in una discussione, diceva Karl Kraus, può finire prima o dopo per portarlo al muro di un'esecuzione. La natura

«La carità è la porta della gnosi (= conoscenza) ». E' il principio ben conosciuto della tradizione contemplativa dell'Oriente. I Russi lo giustificano con la necessità di superare l'opposizione tra soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto. (...) Al di fuori dell'amore, non si può conoscere né l'unità, né la libertà, né la verità. Tutte queste cose sono profondamente unite, non si separano se non nel momento in cui l'amore fa difetto. E' esattamente questa necessità dell'amore che fonda il carattere ecclesiale della conoscenza. (...) Questo stesso principio è così riassunto da Florenskij: «La conoscenza effettiva della Verità è nell'amore e non è concepibile che nell'amore. Viceversa, la conoscenza della Verità si manifesta come amore». E' per la forza di questo amore che tutta la realtà appare unita come una tuttunità .

p. Thomas

«Oggi primo giorno di visita alle famiglie in occasione del Natale. Un aneddoto:

Una signora sarda ammirata del fatto che don Elia, prete africano di Borgolombardo, in italia da cinque anni e ormai molto bravo in italiano, predichi durante le messe con don Gijo, prete indiano di Borgoest arrivato qui da un mese, mi dice: "E' mottu bellu videre che dn Elia c'impara l'italianu a dn Gijo". "Ah ah! Certu!", rispondo io».

scritto da suor Silvia, 7 novembre 2011

Perché il «prossimo tuo» ha rivoluzionato la fede

di Massimo Cacciari

È necessario iniziare dai testi decisivi in cui risuona il mandatum novum: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e tutta la tua anima e tutte le tue forze e tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Luca 10,27). Il verbo agapán viene usato per indicare sia l'amore che è dovuto al Theós, che quello verso il prossimo, plesios. Anche la traduzione latina, proximus, rende bene l'importanza del termine: proximus è infatti un superlativo. Non può trattarsi di un semplice «vicino». Il plesios in quanto proximus ci riguarda con una intensità che nessuna vicinanza, nessuna contingente contiguità potrebbero raggiungere. Neppure si tratta, certo, di una voce inspiegabilmente nuova, venuta da qualche misterioso altrove. Anche questo mandatum è pleroma, non katalysis della Legge, salvezza del nomos stesso nel suo radicale rinnovarsi. Il precetto del pieno rispetto dei diritti dell'ospite, così come del compagno, dell'alleato, dell'amico era stato affermato, infatti, con pieno vigore dai profeti (...) Il timbro del mandatum evangelico «eccede» completamente questa dimensione. Già il fatto di accostare immediatamente l'amore per il Signore a quello per il prossimo costituirebbe vera novitas, anche se plesios qui traducesse esattamente rea‘. Ciò che veniva comandato insieme ad altri doveri, qui completa addirittura la Prima Parola! Il Logos che sta a fondamento dell'intera vita di Israele non si esprimerebbe compiutamente, resterebbe imperfetto, se non significasse in se stesso amore per il prossimo. È evidente che plesios è chiamato, allora, in questo contesto, ad assumere una pregnanza in-audita

Quello che stavolta ad Assisi non c'era

di Roberto Beretta

Io c'ero, 25 anni fa ad Assisi. Sì, ho avuto il privilegio - giovane giornalista di «Mondo e Missione» (testata non certo «progressista», ma che sull'evento aveva costruito addirittura un bellissimo numero monografico) - di far parte della pattuglia di cronisti di tutto il mondo che hanno potuto gustare da un palco privilegiato quel primo incontro delle religioni in preghiera per la pace. Dico subito che in quell'evento non ho trovato proprio nulla di sincretistico, anche se ricordo di aver partecipato al rito del calumet del capo indiano Pretty-on-top e al sacrificio delle galline consumato in un prato dagli animisti africani. Basti un particolare: c'era anche Madre Teresa, quel giorno, ovvero una che non aveva certo timore di citare Gesù Cristo ad ogni piè sospinto né può essere accusata di «relativismo» o «buonismo»... È stato dunque inevitabile per me fare il confronto tra allora e oggi, misurare la distanza (non solo temporale) tra la Assisi del 1986 e quella del 2011: perché i gesti e le immagini parlano, i simboli significano. E quello che ho visto, questa volta alla televisione, è per l'appunto - lungi da me il giudizio, pur se il mio parere personale mi sembra evidente - una diversità palpabile: non solo nei prodromi un po' polemici e un po' allarmistici dell'evento (non mi è piaciuta la lettera in cui il Papa confessava che non si poteva non celebrare l'anniversario di Assisi...); non solo nell'organizzazione concreta della Giornata; ma nell'idea di Chiesa che ne è uscita. Guardate le foto di Giovanni Paolo II davanti alla Porziuncola nel 1986 con i rappresentanti delle fedi e quelle di Benedetto XVI nell'identica posa pochi giorni fa: che cosa notate? Non solo gli esponenti di altre religioni sono drasticamente diminuiti di numero, ma è anche aumentata la distanza fisica tra loro e il Papa. Allo stesso modo, non esiste alcuna immagine paragonabile a quelle della grande preghiera finale del 1986 sul piazzale della basilica inferiore, semplicemente perché... quella cerimonia non c'è stata, sostituita dalla preghiera dei singoli nel chiuso delle celle loro assegnate: un atto certo meritorio ed efficace, ma di sicuro di significato simbolico assai diverso dal precedente. In compenso, i membri delle delegazioni sono stati ricevuti il giorno dopo in Vaticano dal Papa: gesto cortese, ma che forse rimarca un «primato romano» che nell'Assisi del passato Giovanni Paolo II aveva tenuto fortemente a non sottolineare. I confronti potrebbero essere molti altri (allora il digiuno, oggi il pranzo frugale; all'epoca solo gli uomini delle religioni, oggi anche i non credenti) e si sa che i confronti sono sempre antipatici. Non è questo lo scopo. Di certo possiamo dire che Benedetto XVI ha costruito la «sua» Assisi, a misura della preoccupazione di verità che sostiene il suo pontificato; bisogna però nello stesso tempo constatare che le sue scelte hanno comportato la perdita di altri significati nient'affatto secondari, anche in rapporto alla chiarezza della missione della Chiesa nel mondo. Qualcuno ha obiettato che - nel frattempo - è anche drasticamente cambiata la temperie culturale del mondo: dalla divisione in due blocchi contrapposti, in mezzo ai quali le religioni potevano senza dubbio incunearsi come strumento di pace, alla globalizzazione attuale. Ma è altrettanto vero che - sempre nel frattempo - l'11 settembre ha rimesso di prepotenza le fedi al centro della questione della convivenza tra i popoli: e la preghiera separata e individuale di uomini di religioni diverse è la risposta migliore che si poteva dare alle attese del pianeta in questo senso? Il 26 ottobre 1986 ricordo che fu una giornata gelida e nuvolosa; ma alla fine si rivelò in cielo un arcobaleno che sembrò a tutti un segno parlante. Io lo porto ancora negli occhi.

Quanti sacerdoti sono dei ripetitori della «mistica del papa»! È facile accorgersene. Le espressioni sono esatte, ma la verità, invece di essere lo svolgimento logico di altre verità, che ne fanno da sostegno e da guida, è lasciata sola, campata in aria, così da parere più inaccessibile e fuori del comune di quanto non sia. E poiché si avvedono di ciò, senza darsene una chiara ragione, invece di ritornare su se stessi e di richiedersi un nuovo lavoro di rielaborazione interiore della dottrina onde tramutarla in parola viva, la contornano di un alone di retorica, ché non so altrimenti nominare la fiumana di parole o di immagini in uso presso parecchi. Non quindi insincerità o mancanza di vera devozione verso il pontefice, ma insufficienza d'intelletto, o intelletto troppo astratto, a cui si supplisce in qualche modo con le parole, le quali, quando non sono incastonate nella chiarezza dell'idea, confondono e impediscono lo stesso sentimento. È doveroso ricordare che, in quest'ordine, i sentimenti non nascono spontanei e indipendenti dalla conoscenza di altre fondamentali verità. Cristo lo si può anche amare di un amore intuitivo; ma la mia esperienza mi dice che si va dal Cristo al papa. Riconosco e amo il papa perché riconosco e amo Gesù; come riconosco e amo il prossimo per Gesù. Le ragioni storiche hanno un valore di conferma o di controprova: perciò non bisogna appoggiarvisi esageratamente, ma adoperarle con discernimento, non perché si debba avere riguardi alla verità, ma perché essa va fatta e detta con carità. Nell'esposizione di qualsiasi verità bisogna badare che il nostro gusto personale non sopravanzi mai i confini dell'ortodossia. Se il restringere è diminuire la verità, quindi fare opera contro di essa, l'aggiungere dei margini non vuole sempre dire arricchimento di essa. I contorni, benché frutto di lodevole fervore, non sempre si addicono e non sempre giovano all'intelligenza del dogma. Come accanto al comandamento sta il consiglio, senza confondersi con quello, poiché Dio ha fatto diversa la capacità delle anime e la distribuzione delle sue grazie, così, accanto alla definizione scrupolosa dell'autorità spirituale del papa, possiamo spontaneamente aggiungere una sottomissione personale che oltrepassa la sfera ordinaria del dovere, senza pretendere che altri facciano altrettanto e senza credere che quello che noi facciamo possa domandarsi e imporsi come regola comune. (...) Certo linguaggio fervoroso, ma poco prudente, non accresce l'amore verso il papa, né avvicina i dissidenti, i quali possono essere portati più lontano da queste esagerazioni. Per voler bene al papa non è necessario rompere i confini, né dimenticare che egli pure è un uomo. A me pare che una venerazione, la quale tiene fissi gli occhi anche su quello che vi è di umano - e ce n'è tanto nella storia della Chiesa - e non lo veli per falsa devozione quando è indegno, né lo esalti troppo quando è magnifico, sia affetto più virtuoso e virile. Perché esaltarci con considerazioni pseudomistiche per dire: «Santità, sono un vostro figliuolo: parlate. Vi obbedirò come obbedisco a Cristo»? Ritroviamo il tono semplice, filiale, non servile; il tono di chi sente che non tutta la sollecitudine della Chiesa deve gravare su due spalle, ma deve essere presa e portata anche da ognuno dei credenti, pregando e operando nell'obbedienza e nell'unità del papa. Il cerimoniale, giacché c'è, lasciamolo cerimoniale.

don Primo Mazzolari, Lettere al mio parroco, 99-102. L'originale è degli anni '30.

La “trascendenza” dell'iCloud

Pubblicato il 12 ottobre 2011 da Antonio Spadaro

Oggi è il giorno di iCloud. Nel mondo Apple si passa oggi dai contenuti residenti nei singoli dispositivi ai contenuti che risiedono “nella nuvola”, cioè in server centrali. Essi così restano sempre disponibili e scaricabili dall'alto verso il basso. La logica del cloud computing è quella di centralizzare tutto. I dati da un punto vanno a finire tutti in una “nuvola” (cloud) nella quale restano sempre aggiornati e salvati, e dalla quale sono scaricati, usati,

Questa sera, sabato 5 novembre, dalle 21 alle 23, sul palco montato davanti alla chiesa di San Lorenzo a Milano, Davide Bernasconi, in arte Davide Van de Sfroos, il cantore dei laghée e delle vite clandestine, eseguirà alcuni pezzi in versione acustica. La sua perfomance si alternerà con quella dell'umorista e scrittore Flavio Oreglio, che interpreterà monologhi e canzoni del suo vasto repertorio. Al termine della serata, a conclusione della manifestazione, saranno assegnati i premi ai due vincitori del concorso artistico.

Qui la presentazione della manifestazione della Caritas ambrosiana

«Io, occidentale, e i miei 66 schiavi»

Un'applicazione permette di calcolare quante persone sono sfruttate per sostenere il nostro stile di vita

di Alessandra Farkas

Io ho ben 66 schiavi che lavorano per me. Proprio come la giornalista della MSNBC Suzanne Kantra e l'assistente editoriale della Rizzoli a New York, Serena Deni. Abbiamo fatto la scioccante scoperta visitando il sito internet Slavery Footprint. Si tratta di un'applicazione web che promette di rivelare quanti schiavi, senza saperlo, abbiamo ogni giorno alle nostre dipendenze in base allo stile di vita, abitudini e dimensioni del nucleo famigliare. L'innovativo sito internet è stato creato da Call+Response, organizzazione non profit che si batte da anni per porre fine alla schiavitù, in collaborazione con l'Ufficio per Monitorare e combattere il Traffico di Persone del Dipartimento di Stato Usa diretto da Hillary Clinton. «La schiavitù purtroppo è ovunque - punta il dito Justin Dillon, responsabile di Slavery Footprint -, ogni oggetto della nostra quotidianità viene realizzato sfruttando in maniera disumana ed illegale manodopera a basso costo». L'iniziativa ha come finalità quella di incentivare le multinazionali a far luce sulle loro pratiche «schiaviste», rendendo i consumatori più consapevoli su una piaga sociale che oggi affligge 27 milioni di persone, molte delle quali bambini. Nonostante sia stata messa al bando un po' ovunque e sia stata ufficialmente proibita con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, la schiavitù resta uno dei problemi più drammatici e allo stesso tempo meno discussi. Forme contemporanee di sfruttamento coinvolgono innumerevoli persone, senza distinzione di età, sesso e razza. Basti pensare alle donne dell'Europa dell'Est costrette a prostituirsi, ai bambini venduti in Africa al pari di merce qualsiasi, e agli uomini forzati a lavorare in condizioni estreme nelle fazende brasiliane. «E' un fenomeno drammatico di cui bisogna ricordarsi quando si va a fare shopping e si acquista qualcosa», continua Dillon. Se volete conoscere quante persone sono state ridotte in schiavitù per realizzare il vostro computer, la bici, la borsa firmata oppure le scarpe all'ultima moda, la procedura è molto semplice. Basta rispondere a un questionario di 11 pagine con domande sull'età, il numero di figli, la dieta, l'attività sportiva, la tipologia della vostra abitazione e persino cosa avete nell'armadietto delle medicine. (...)

Per la festa del 4 Novembre si evitino sprechi di denaro ed esibizione di armi da guerra, veri strumenti di morte

di Rete Italiana per il Disarmo

In occasione delle celebrazioni del 4 novembre

La religione, un bene rifugio per rispondere alla crisi

di Franco Garelli

Altro che società incredula, crisi del sacro, insignificanza della fede! Il «brusio degli angeli» abita ancora la nostra epoca, così densa di incertezze e paure, di esistenze precarie, di domande di senso. La modernità avanzata non spegne il bisogno di Dio, anche se non riempie necessariamente le chiese. L'inquietudine spinge alcuni verso nuove mete spirituali, ma i più ricercano certezze e rassicurazioni nella religione della tradizione, anche se il loro cammino in questo campo è incerto e altalenante. Ciò vale in particolare in un'Italia in cui l'appartenenza cattolica è ancora rilevante, nonostante la presenza sempre più marcata di altre fedi e tradizioni religiose. In che cosa consiste oggi la voglia di sacro, l'esperienza diretta del trascendente? Quote crescenti di italiani (anche non particolarmente coinvolti nella pratica religiosa) sembrano vivere in un mondo «straordinario», che si manifesta nell'avvertire la benevolenza di Dio nella propria vita, nella sensazione che di tanto in tanto Dio fa capolino nella propria esistenza, nella percezione di aver ricevuto una grazia o un favore divino, nell'idea di far parte di un mondo di spiriti e di mistero che trascende l'esperienza terrena. Non da oggi, ovviamente, la gente presta attenzione ai segni del soprannaturale, anche se nel passato essi venivano percepiti e ricercati più all'esterno (nei luoghi della «rivelazione», nei santuari, nelle Madonne che piangono) che nelle pieghe della coscienza. Ciò per dire che non si tratta soltanto di un'eco attuale (o di un restyling) della religiosità popolare, in quanto queste sensazioni e emozioni coinvolgono anche persone ben inserite nella modernità avanzata. Saremmo dunque di fronte ad una tendenza moderna, che si è accentuata in Italia negli ultimi anni, in parte collegabile ai tempi non facili di crisi economica che stiamo vivendo. Tuttavia, il fenomeno non è solo italiano, e la sua diffusione ha spinto alcuni studiosi a parlare di un «reincantamento del mondo». Un'immagine che contrasta l'idea che l'epoca attuale sia segnata dalla «deprivazione spirituale»; o che gli uomini e le donne del nostro tempo - parafrasando Peter Berger - non siano più in grado di «parlare con gli angeli». In sintesi, molti avvertono il bisogno di «una sacra volta» che li protegga; anche se non è detto che questo sentimento abbia a tradursi in un cammino di ricerca spirituale. L'immagine di una «sacra volta» familiare sotto cui ripararsi rimanda ad un altro tratto di fondo: il ruolo svolto dal cattolicesimo nel Paese, a cui ancor oggi dichiara di appartenere oltre l'80% degli italiani; e ciò pur in una stagione in cui aumenta sia il pluralismo religioso, sia la ricerca di spiritualità alternative. Anche l'appartenenza cattolica ha una funzione rassicurante per la nazione? Perché molti continuano a identificarsi - pur in modo ambivalente - con il cattolicesimo, mentre in altri paesi europei cresce (assai più di quanto avviene da noi) il gruppo dei «senza religione» e di quanti si ancorano ad altre fonti di salvezza? L'idea di fondo è che per molti italiani il cattolicesimo sia un affare troppo di famiglia per liberarsene a cuor leggero, per confinarlo nell'oblio; o troppo intrecciato con le vicende personali per farne a meno nei momenti decisivi dell'esistenza. Ovviamente il mondo cattolico italiano si compone anche di una minoranza di fedeli particolarmente impegnati (circa il 20% della popolazione), in cui rientrano i praticanti regolari e i membri delle molte associazioni i cui rappresentanti si sono riuniti alcuni giorni fa a Todi a parlare di politica. Tuttavia, richiamando un'immagine del cardinal Martini, oltre ai «cristiani della linfa», vi sono quelli «del tronco, della corteccia e infine coloro che come muschio stanno attaccati solo esteriormente all'albero». Per cui, a fianco di credenti convinti e attivi, è larga la quota di popolazione che continua ad aderire alla religione della tradizione più per i buoni pensieri che essa evoca che come criterio di vita, più per l'educazione ricevuta che per specifiche convinzioni spirituali. Nella società dell'insicurezza, può essere ragionevole non spezzare i legami con la religione prevalente, ritenendola un serbatoio di risorse a cui attingere in caso di necessità; anche per non avventurarsi in percorsi religiosi che mal si conciliano con la propria cultura e abitudini. Parallelamente, l'adesione al cattolicesimo rappresenta per molti una sorta di difesa di un'identità nostrana in un'Italia via via più multiculturale, soprattutto di fronte a un islam assai visibile sul territorio e enfatizzato dai mass media. Un rapporto flessibile, selettivo, «su misura» è dunque la cifra prevalente dell'adesione di molti italiani alla fede della tradizione. Un cattolicesimo con propri tempi e ritmi, in alcuni casi più orecchiato che vissuto, evocato anche da chi ha confinato la fede in una «memoria remota». La persistenza di questo cattolicesimo delle intenzioni o della forma (o anagrafico, o di famiglia) è il dato più paradossale dell'epoca attuale. L'avvento del pluralismo culturale e religioso non produce necessariamente l'abbandono dei riferimenti di fede, anche se ne condiziona l'espressione. Si può essere convinti che non c'è più una fede esclusiva, che detiene il monopolio della verità; o che ogni credo umano e religioso sia legittimo e plausibile se professato con serietà e coerenza; ma nello stesso tempo rimanere ancorati alla propria tradizione religiosa se essa è in grado di offrire una risposta culturalmente collaudata alle questioni decisive dell'esistenza. Qui emerge forse un limite della cultura laica pur ben presente nel Paese, che da un lato accusa la chiesa di attribuire un' anima cattolica anche agli italiani che vivono come «se Dio non ci fosse», ma dall'altro è in difficoltà ad offrire un set di risorse (conoscitive, simboliche, esperienziali) sufficientemente competitive circa il significato ultimo del vivere e del morire.

in “La Stampa” del 1° novembre 2011

Anatalone, Calimero, Gervasio e Protasio... A che Santo votarsi?

di Armando Torno

I santi milanesi sono tanti. Oltre quelli celebri e venerati, alcuni presentano vite brulicanti di «forse»; per altri le indicazioni perse sono superiori a quelle rimaste. Si prenda, per esempio Sant'Arsacio, la cui vita si fa risalire

«Le parole di Gesù: "Non prenderanno moglie né marito" sembrano affermare che i corpi umani, recuperati e insieme rinnovati nella risurrezione, manterranno la loro peculiarità maschile o femminile e che il senso di essere nel corpo maschio o femmina verrà nell'«altro mondo» costituito e inteso in modo diverso da quello che fu "da principio" e poi in tutta la dimensione dell'esistenza terrena. (...) Le parole pronunziate da Cristo sulla risurrezione ci consentono di dedurre che la dimensione di mascolinità e femminilità verrà nuovamente costituita insieme con la risurrezione del corpo nell'"altro mondo"».

Neppure le parole di Lc 20,27-40 («quelli che sono giudicati degni dell'altro mondo e della risurrezione dei morti... nemmeno possono più morire perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio») possono essere intese come una svalutazione della corporeità sessuata nell'«altro mondo»: «Questo enunciato consente soprattutto di dedurre una spiritualizzazione dell'uomo secondo una dimensione diversa da quella della vita terrena... E' ovvio che non si tratta qui di trasformazione della natura dell'uomo in quella angelica, cioè puramente spirituale. Il contesto indica chiaramente che l'uomo conserverà nell'«altro mondo» la propria natura umana psicosomatica. Se fosse diversamente, sarebbe privo di senso parlare di risurrezione».

'A Livella

Antonio De Curtis (in arte Totò)



Ogn'anno,  il due novembre, c'é l'usanza

per i defunti andare al Cimitero.

Ognuno ll'adda fà chesta crianza;

ognuno adda tené chistu penziero.



Ogn'anno, puntualmente, in questo giorno,

di questa triste e mesta ricorrenza,

anch'io ci vado, e con dei fiori adorno

il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza.



St'anno m'é capitato 'navventura...

dopo di aver compiuto il triste omaggio.

Madonna! si ce penzo, e che paura!

ma po' facette un'anema e curaggio.



'O fatto è chisto, statemi a sentire:

s'avvicinava ll'ora d'à chiusura:

io, tomo tomo, stavo per uscire

buttando un occhio a qualche sepoltura.



"Qui dorme in pace il nobile marchese

signore di Rovigo e di Belluno

ardimentoso eroe di mille imprese

morto l'11 maggio del'31".



'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto...

...sotto 'na croce fatta 'e lampadine;

tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto:

cannele, cannelotte e sei lumine.



Proprio azzeccata 'a tomba 'e stu signore

nce stava 'n 'ata tomba piccerella,

abbandunata, senza manco un fiore;

pe' segno, sulamente 'na crucella.



E ncoppa 'a croce appena se liggeva:

"Esposito Gennaro - netturbino":

guardannola, che ppena me faceva

stu muorto senza manco nu lumino!



Questa è la vita! 'ncapo a me penzavo...

chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!

Stu povero maronna s'aspettava

ca pur all'atu munno era pezzente?



Mentre fantasticavo stu penziero,

s'era ggià fatta quase mezanotte,

e i'rimanette 'nchiuso priggiuniero,

muorto 'e paura...nnanze 'e cannelotte.



Tutto a 'nu tratto, che veco 'a luntano?

Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia...

Penzaje:stu fatto a me mme pare strano...

Stongo scetato...dormo, o è fantasia?



Ate che fantasia;era 'o Marchese:

c'o' tubbo, 'a caramella e c'o' pastrano;

chill'ato apriesso a isso un brutto arnese;

tutto fetente e cu 'nascopa mmano.



E chillo certamente è don Gennaro...

'omuorto puveriello...'o scupatore.

'Int 'a stu fatto i' nun ce veco chiaro:

so' muorte e se ritirano a chest'ora?



Putevano sta' 'a me quase 'nu palmo,

quanno 'o Marchese se fermaje 'e botto,

s'avota e tomo tomo..calmo calmo,

dicette a don Gennaro:"Giovanotto!



Da Voi vorrei saper, vile carogna,

con quale ardire e come avete osato

di farvi seppellir, per mia vergogna,

accanto a me che sono blasonato!



La casta è casta e va, si, rispettata,

ma Voi perdeste il senso e la misura;

la Vostra salma andava, si, inumata;

ma seppellita nella spazzatura!



Ancora oltre sopportar non posso

la Vostra vicinanza puzzolente,

fa d'uopo, quindi, che cerchiate un fosso

tra i vostri pari, tra la vostra gente".



"Signor Marchese,  nun è colpa mia,

i'nun v'avesse fatto chistu tuorto;

mia moglie è stata a ffa' sta fesseria,

i' che putevo fa' si ero muorto?



Si fosse vivo ve farrei cuntento,

pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse

e proprio mo, obbj'...'nd'a stu mumento

mme ne trasesse dinto a n'ata fossa".



"E cosa aspetti, oh turpe malcreato,

che l'ira mia raggiunga l'eccedenza?

Se io non fossi stato un titolato

avrei già dato piglio alla violenza!"



"Famme vedé..-piglia sta violenza...

'A verità, Marché, mme so' scucciato

'e te senti;e si perdo 'a pacienza,

mme scordo ca so' muorto e so mazzate!...



Ma chi te cride d'essere...nu ddio?

Ccà dinto, 'o vvuo capi, ca simmo eguale?...

...Muorto si'tu e muorto so' pur'io;

ognuno comme a 'na'ato é tale e quale".



"Lurido porco!...Come ti permetti

paragonarti a me ch'ebbi natali

illustri, nobilissimi e perfetti,

da fare invidia a Principi Reali?".



"Tu qua' Natale...Pasca e Ppifania!!!

T''o vvuo' mettere 'ncapo...'int'a cervella

che staje malato ancora e' fantasia?...

'A morte 'o ssaje ched''e?...è una livella.



'Nu rre, 'nu maggistrato, 'nu grand'ommo,

trasenno stu canciello ha fatt'o punto

c'ha perzo tutto, 'a vita e pure 'o nomme:

tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?



Perciò, stamme a ssenti...nun fa''o restivo,

suppuorteme vicino-che te 'mporta?

Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:

nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"

La fede? Un dono senza copyright

di Gerolamo Fazzini

«Come cristiano, vorrei dire (che): sì, nella storia anche in nome della fede cristiana si è fatto ricorso alla violenza. Lo riconosciamo, pieni di vergogna». È una delle frasi più citate dai media tra quelle pronunciate da Benedetto XVI ad Assisi settimana scorsa. E certamente è una di quelle che più lasciano il segno. Ma qui vorrei tornare su un'altra parte del discorso del Papa non meno provocatoria che, però, mi pare sia rimasta un po' in ombra. A differenza di Giovanni Paolo II, Papa Ratzinger (quello che, secondo molti, non crederebbe allo "Spirito di Assisi") ha voluto che partecipassero al "pellegrinaggio della verità e della pace" anche alcuni non credenti. Una pattuglia che rappresentasse le tante persone che «non affermano semplicemente: "Non esiste alcun Dio"» ma che «soffrono a motivo della sua assenza e, cercando il vero e il buono, sono interiormente in cammino verso di Lui». Di costoro il Papa ha dato una definizione "provvidenziale", in quanto - ha detto - «pongono domande sia all'una che all'altra parte», dal momento che «tolgono agli atei combattivi la loro falsa certezza, con la quale pretendono di sapere che non c'è un Dio, e li invitano a diventare, invece che polemici, persone in ricerca, che non perdono la speranza che la verità esista». Ma - ha aggiunto Benedetto XVI - i non credenti «chiamano in causa anche gli aderenti alle religioni, perché non considerino Dio come una proprietà che appartiene a loro così da sentirsi autorizzati alla violenza nei confronti degli altri. Queste persone cercano la verità, cercano il vero Dio, la cui immagine nelle religioni, a causa del modo nel quale non di rado sono praticate, è non raramente nascosta. Che essi non riescano a trovare Dio dipende anche dai credenti con la loro immagine ridotta o anche travisata di Dio. Così la loro lotta interiore e il loro interrogarsi è anche un richiamo a noi credenti, a tutti i credenti a purificare la propria fede, affinché Dio - il vero Dio - diventi accessibile».

Queste parole del Papa mi hanno fatto venire in mente la stagione della Cattedra dei non credenti, lanciata alcuni anni fa dal cardinale Carlo Maria Martini a Milano e, non di rado, irrisa come un tentativo "snob" o persino di un'esperienza a forte tasso di relativismo. Così non è. Quell'iniziativa muoveva esattamente dagli stessi presupposti, ovvero che il credente porta la responsabilità della fede che ha ricevuto in quanto dono. Il che significa che non ne possiede il copyrigth, non è sua "proprietà", né può brevettarne un modello (e invece quante volte passiamo, anche involontariamente, l'idea che una certa forma di cristianesimo sia "la fede" tout court). Ancora: se la fede è innanzitutto un dono che Dio gratuitamente ci fa, si può (si deve) testimoniarla, annunciarla. Mai brandirla. Perché non è "cosa nostra". Se lo facessimo, compiremmo anche noi un atto di violenza: certo meno sanguinaria del kamikaze islamista che semina terrore al grido di "Allah Akhbar", ma comunque violenza, prevaricazione sull'altro. Di più: se la fede è un dono, tutti abbiamo la responsabilità di condividerla con gli altri in modo che sia "leggibile" da chi credente non è, al netto delle nostre fragilità e debolezze che ovviamente esistono ed esisteranno sempre. Il Papa ci ricorda che «il Dio in cui noi cristiani crediamo è il Creatore e Padre di tutti gli uomini, a partire dal quale tutte le persone sono tra loro fratelli e sorelle e costituiscono un'unica famiglia. La Croce di Cristo è per noi il segno del Dio che, al posto della violenza, pone il soffrire con l'altro e l'amare con l'altro. Il suo nome è "Dio dell'amore e della pace"». Ciò significa che tutte le volte in cui i non credenti intravedono nelle nostre parole, azioni e omissioni un volto di Dio diverso da questo noi stiamo dando contro-testimonianza al Dio vero, stiamo diventando scandalo per loro: un inciampo. E il Vangelo ci ricorda quale destino terribile sarebbe preferibile per chi semina scandalo...

Dico tutto questo perché mi pare che il discorso di Assisi introduca un nuovo paradigma col quale leggere anche il rapporto tra i cristiani e il mondo che ci circonda. Non arrivo a dire "benedetta secolarizzazione", ma credo che il Papa, con quello che ci ha detto, ci invita a chiamare "fratello" l'ateo che cerca con cuore sincero. Di più: il Papa, rilanciando il dialogo come dimensione irrinunciabile, fa capire che esso, quando autentico (ossia ancora alla propria radice ma aperto con sincerità al'altro) ci cambia tutti in meglio. È l'esperienza che ho sentito raccontare da tanti missionari in giro per il mondo e che sulle pagine di "Mondo e Missione" spesso raccontiamo. Vorrei qui concludere citando poche righe di un'intervista della collega Chiara Zappa con padre Jean-Marie Ploux, 74 anni, teologo, già vicario generale della Mission de France. Padre Ploux, che ha compiuto studi approfonditi di arabo e islamistica, è impegnato in prima persona in esperienze di dialogo interreligioso ed ecumenismo, ha da poco pubblicato da Qiqajon il volume "Il dialogo cambia la fede?". Scrive: «Che il dialogo cambi le persone è un fatto sperimentato da quelli che lo praticano. Penso ai monaci cristiani e buddhisti che si incontrano ormai da anni, o alle comunità interconfessionali, o a tutti coloro che hanno fatto il primo passo per andare verso l'altro. Il dialogo ci rende prima di tutto molto più coscienti della complessità delle situazioni umane e degli stessi uomini: è una bella scuola d'umiltà e rispetto! Esso ci aiuta inoltre a riscoprire la dimensione mistica della nostra fede: Dio è sempre al di là di ciò che possiamo afferrare o esprimere di lui».

Halloween di casa nostra

di Maria Teresa Pontara Pederiva

Quando si dice lo spirito di Francesco d'Assisi: non quello zuccheroso e un po' ingenuo di certa agiografia, bensì quello del Santo che accettava ogni cosa come dono, a partire dalla povertà, perché ogni cosa o situazione veniva letta come "segno" di Altro e perché egli stesso era "un uomo fatto preghiera". Così capita che in quel di Sanzeno, in valle di Non (Trentino), ormai da 4-5 anni si cerchi di vivere la vigilia della Festa di Ognissanti, il tanto vituperato da qualcuno 31 ottobre - alias festa di Halloween di origine irlandese - in modo quantomeno innovativo. "A noi non interessa proprio entrare nella polemica Halloween sì-Halloween no", mi spiega il parroco, Fabio Scarsato francescano conventuale (cui spetta anche la custodia dell'attiguo Santuario di san Romedio). Tutti i ragazzi dei gruppi di catechesi sono chiamati la sera del 31 ottobre a vestire le sembianze del santo di cui portano il nome con un'attenzione particolare ai segni che lo identificano. Mamme e catechiste hanno accolto la proposta, ma ad una condizione precisa, e molto francescana: neanche l'ombra di consumismo, tipo comperare abiti pronti e costosi; tutto deve essere realizzato con le proprie mani o recuperato in casa, magari dai bauli dei nonni. (...) A Sanzeno, dunque, si prende spunto da una festa che per molti è vista un po' come l'anticamera del satanismo, ma che invece può rivelarsi occasione per un'azione pedagogico-catechetica, o "un'opportunità pastorale" come scrive p. Mauro Pizzighini su Settimana: "Lungi dal rappresentare un'occasione per lanciare altre invettive contro i 'neopagani' del terzo millennio, Halloween può costituire una singolare opportunità pastorale, soprattutto in preparazione alla celebrazione del mistero della comunione dei santi, nelle festività del 1 e 2 novembre". Se questo diventasse lo stile ecclesiale in merito a mille altre questioni, forse certe contrapposizioni, spesso alimentate da noi cattolici - come quelli che in Francia lanciano in questi giorni uova marce agli spettatori di alcuni spettacoli che ritengono offesa alla religione - svanirebbero come neve al sole.

Ma, tornando alla festa di Halloween, ci sarebbe anche un'altra considerazione. "Chi la fa l'aspetti", ci diceva con ironia don Cleto Corrain, docente di antropologia ed etnologia a Padova (...) Era solito citare le tante feste pagane preesistenti al cristianesimo di cui la Chiesa, in epoca dopo-Costantino, si era appropriata, ma ciò che era uscito dalla porta, sarebbe prima o poi rientrato dalla finestra. In questo caso l'antica festa dei popoli del nord, festa che faceva parte del cosiddetto "ciclo invernale" caratterizzato da cortei notturni mascherati volti ad esorcizzare la morte e la paura riguardo alla propria sorte. Maschere e streghe hanno avuto una grande diffusione anche da noi e sono sopravvissute per secoli se è vero che ancora oggi gli anziani della Valsugana ricordano feste con le zucche illuminate; per non parlare della strega per eccellenza, sopravvissuta nella casa stessa del papato, la befana dei romani. La "festa delle strenne", di origine latina, nel giorno del Sole venne scelta come ricorrenza della nascita di Gesù, il Natale, cui qualcuno in alcune zone del nostro Paese ha aggiunto - bella commistione - quell'idea così anti-evangelica dei "doni portati da Gesù Bambino" (sono i pastori e i magi che "hanno portato i doni al Bambino", tanto per non dimenticare). Intrecci di culture e tradizioni che si sono andati accavallando lungo i secoli e che oggi ritornano, tra globalizzazione e consumismo, in un vuoto di prospettive per il futuro. Tanto che Edward W Schimdt, gesuita di "America", mette in guardia nell'ultimo numero dalle modalità di oggi di esorcizzare timori e incognite sul nostro destino che appare sempre più cupo e senza speranza. Se Halloween può essere ancora considerata tutto sommato una festa divertente, a patto di non scadere nella massificazione, la nostra fede può rivelarsi una risorsa ancora più grande. Quando Gesù risorto appare ai discepoli, questi lo credono un fantasma e lui "non abbiate paura". "Piuttosto che guardare alle potenze del male - scrive p. Edward - andiamo alla ricerca del bene, perché lui ci dice che le forze del male non prevarranno. E allora, dopo i fantasmi di Halloween, andiamo ad incontrare i Santi del 1 novembre, quanti hanno accolto il Vangelo nella loro vita: essi sono nella nostra memoria, senza bisogno di maschere o trucchi". Proprio come fanno i bimbi di Sanzeno. Semplicemente, senza polemiche. Senza demonizzare quanti faranno altro.