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"Il cuore del Dio che si comunica è trinitario; la assoluta dimensione del divino è una costellazione trinitaria. Già da sempre la vita divina è la storia delle Tre persone che si comunicano completamente tra loro: si rivelano e si manifestano pienamente l’una all’altra, si donano e si accolgono pienamente tra loro. La vita divina si caratterizza per la perfetta reciprocità della comunione e della intesa delle Tre Persone: il segno autentico del divino viene allora a essere l’assoluta loro reciprocità, la completa loro in-tesa (si comprendono e si amano): le Tre persone si «com-prendono» perfettamente, come comprensione cognitiva e come comprensione amorosa. Gli antichi termini per esprimere questo dinamismo intratrinitario sono ancora validi: pericòresis, circum-in-cessio: le divine Persone stanno l’una dentro l’altra, l’una attorno all’altra, l’una tesa all’altra. E proprio qui sta la ragione ultima della possibilità e della realtà dell’alleanza di Dio con gli uomini. Il Dio trino, che già al suo interno è aperta relazione d’amore, si apre all’alleanza con l’uomo. Egli spalanca se stesso e la propria vita all’uomo; si manifesta a lui e gli dà accesso alla sua vita d’amore. La natura stessa di Dio è «apertura di alleanza», è disponibilità al dono totale; su questa «base», Dio si apre alla creazione dell’universo e dell’umanità facendo loro spazio".
G. Mazzanti, I sacramenti, 112.
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Il re Davide, dopo aver sedotto Bersabea, chiama a Gerusalemme il marito di lei, Uria, soldato valente, affinché - senza dirglielo apertamente - egli tornasse a casa da lei e con lei dormisse, al fine di coprire il tradimento (cfr 2Sam 11).
Ma Uria - forse fiutando l'inganno - non passò da casa e non ebbe rapporti sessuali con sua moglie.
Questo gli costò la vita: Davide - non potendo giustificare altrimenti la gravidanza di Bersabea - lo fece mettere in una zona pericolosa della battaglia e Uria fu ucciso dal nemico.
Se fosse andato da sua moglie, Uria avrebbe messo una pezza al misfatto di Davide e forse non sarebbe morto in battaglia... ma sarebbero state in ogni modo compromesse la sua relazione coniugale, la sua paternità, la sua fortezza di soldato che non si allontana dall'esercito del suo re per starsene a letto.
Se fosse andato da sua moglie, Davide non avrebbe mai riconosciuto: «Gliel'ho comandato io di andarci!»; anzi, l'avrebbe considerata una scelta di Uria, magari da biasimare perché non era rimasto con la truppa.
Invece, disobbedendo alla mai espressa intenzione del re, Uria ha obbedito alla sua identità, al suo legame coniugale, all'austerità della vita militare, a Dio stesso.
don Chisciotte Mc
scritto il 20 maggio 2015
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«Quando vi consegneranno,
non preoccupatevi di come o di che cosa direte,
perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire:
infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi»
(dal vangelo della messa di oggi - rito ambrosiano - Mt 10,19-20).
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Trent'anni fa la strage di tifosi allo stadio Heysel durante la finale di Champion Juve-Liverpool.
Ero tifoso, ma non juventino, mai juventino.
Ero tifoso, appassionato come è nel mio DNA.
Ero tifoso, sanguigno fino ad accendermi nelle discussioni contro gli altri tifosi.
Ero tifoso, conoscitore della mia squadra al punto da acquistare la sua rivista.
Quella sera, come tante altre, io diciassettenne l'avevo passata tra amici.
La serata era stata semplice e piacevole.
Rispetto alla finale avevo solo il retropensiero che avrei saputo il risultato... e che la mattina seguente al liceo ci sarebbe stata bagarre con gli juventini.
Quando a casa ho visto le immagini della mattanza, ho sentito la voce di Pizzul,
tutta la mia persona reagì come le è caratteristico:
dolore, delusione, compassione, indignazione, rabbia.
La serata primaverile faceva sentire alla mia pelle il contrasto stridente tra il calore dell'amicizia e il gelo dell'odio e della stupidità.
Quando capii che la partita era stata giocata lo stesso,
non trovai sufficienti le ragioni di sicurezza o di opportunità:
quel mondo e quel modo non sarebbero più stati i miei.
Non ho più tifato, non ho più discusso dopo una partita, non ho più alzato la voce o le mani per una squadra.
don Chisciotte Mc
p.s. Tenuto conto che la passione è nel mio DNA,
quando essa è stata o sarà delusa da altro (oltre il calcio),
la mia reazione è stata e sarà la stessa.
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Quante persone sono corresponsabili della permanenza di questo uomo sulla scena politica:
chi lo ha votato, chi non lo butta fuori dal partito, chi non lo sospende dal senato, chi lo invita, chi lo applaude, chi suona e balla al suo fianco, chi ne approfitta...
Alcune sono persone interessate, altre ignoranti, altre non sono nelle condizioni di ribellarsi.
Ciascuno di questi penserà che qualcun'altro dovrebbe fare qualcosa...
fattostà che - col silenzio e la complicità di tanti - tipi come questo prolificano, in barba a tutti.
don Chisciotte Mc
Antonio Razzi in versione cantante sul palco del teatro degli Arcimboldi di Milano. E' l'ospite d'onore della rassegna "Abruzzo in Lombardia". Si esibisce con un corpo di ballo tutto al femminile e non tradisce alcuna emozione mentre intona " Famme canta'..."
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Il bagno di realtà
di mons. Diarmuid Martin
Le parole dell'arcivescovo di Dublino sull'esito del referendum irlandese che ha visto prevalere nettamente il sì ai matrimoni gay.
(traduzione di www.vinonuovo.it)
«Penso davvero che la Chiesa abbia bisogno di compiere un esame di realtà, un esame a tutti i livelli, per verificare quello che va bene, ma anche quegli ambiti sui quali dobbiamo cominciare a chiederci: "Attenzione, ci siamo allontanati del tutto dai giovani?".
Il risultato del referendum è stato un voto schiacciante in una direzione precisa. Ho apprezzato il fatto che gli attivsti dei movimenti gay e lesbiche abbiano accolto questo risultato come qualcosa che arricchirà la loro vita. Penso che siamo di fronte a una rivoluzione sociale, che non è cominciata oggi. È una rivoluzione sociale che sta andando avanti e forse nella Chiesa la gente non ha ancora piena consapevolezza di ciò che è in gioco.
È chiaro che se l'esito di questo referendum è l'affermazione di quanto i giovani pensano, allora di fronte a questa realtà la Chiesa ha un compito impegnativo nel cercare di trovare il linguaggio giusto per trasmettere e far giungere il suo messaggio ai giovani. Non solo su questo tema, ma in generale.
Come Chiesa è importante non cadere nella tentazione di negare la realtà. Non promuoveremo mai un senso di rinnovamento se andremo avanti semplicemente a negare questo stato di cose.
Quando incontrai papa Benedetto, subito dopo la mia nomina ad arcivescovo di Dublino, il Papa mi chiese quali fossero i punti di contatto tra la Chiesa cattolica e gli ambiti in cui si stava formando il futuro della cultura irlandese. Credo che la domanda che oggi la Chiesa deve porsi qui in Irlanda sia questa.
Molti di questi giovani che hanno votato Sì al referendum hanno studiato nelle nostre scuole cattoliche per dodici anni. C'è una grossa sfida da raccogliere ed è quella di verificare come trasmettiamo il messaggio della Chiesa. Dobbiamo chiederci con franchezza: "Stiamo perdendo del tutto i giovani?". Stiamo diventando una Chiesa di quelli che la pensano tutti allo stesso modo, una sorta di rifugio sicurio per quelli che la pensano come noi.
Questo non significa rinunciare a trasmettere il nostro insegnamento sui valori fondamentali del matrimonio e della famiglia. E non significa nemmeno scavare delle trincee.
Abbiamo bisogno di trovare un nuovo linguaggio che sia essenzialmente nostro ma allo stesso tempo parli, sia compreso e possa essere anche apprezzato dagli altri.
Tendiamo troppo a pensare al bianco e al nero, ma la maggior parte di noi viviamo nell'ambito del grigio; e dal momento che la Chiesa ha un insegnamento duro sembra che con questo condanni tutti coloro che non sono in linea.
Ma noi viviamo tutti nella zona grigia. Tutti sperimentiamo dei fallimenti. Tutti siamo intolleranti. Tutti compiamo degli sbagli. Tutti pecchiamo e ci rialziamo di nuovo proprio con l'aiuto di un'istituzione (la Chiesa) che dovrebbe essere lì proprio per questo.
E allora se l'insegnamento della Chiesa non è espresso con le parole dell'amore vuol dire che stiamo sbagliando».
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«Non è facile convivere con un santo».
p. Rutilio Sanchez, collaboratore di mons. Romero
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«Pienamente cosciente di dove viene la violenza, il 23 marzo monsignor Romero lanciò un grido angustiato ed esigente: «In nome di Dio e di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno, chiedo a voi, vi supplico, vi ordino: cessate la repressione».
Il giorno seguente, di sera, il suo sangue suggellò l'alleanza che aveva fatto con il suo Dio, col suo popolo e con la sua Chiesa.
Domenica 30 marzo avevano luogo i funerali del vescovo martire. Il popolo povero di El Salvador, vincendo difficoltà e fatiche, venne da tutto il Paese per assistere alla sepoltura di «monsignore». Molte persone vennero da fuori, fra loro più di venti vescovi di differenti luoghi del mondo. Il cardinale Corripio del Messico era presente in rappresentanza del Papa, l'inviato del CELAM (Consiglio episcopale latinoamericano) ebbe un contrattempo e non potè essere presente alla celebrazione. La tensione del momento fece sì che solo un vescovo di El Salvador fosse presente. Fatto senza dubbio doloroso, che però fa vedere la difficile e conflittuale situazione che si vive laggiù.
A pochi minuti dall'inizio dell'omelia del cardinale Corripio esplose una bomba e si produssero degli spari. Fu il panico per le 150.000-200.000 persone presenti, famiglie intere, numerosi bambini. La somma dei morti di questa incredibile provocazione fu da trenta a quaranta persone, molte di esse per asfissia.
La sera di quella domenica i vescovi presenti e altre persone si riunirono per mettere in comune ciò che avevano visto e tutto ciò che si sapeva della vicenda durante i funerali. Il risultato di questa analisi dettagliata fu scritto e firmato dai partecipanti. Si rifiutò così la versione dei fatti data dal governo salvadoregno e si indicò il Palazzo Nazionale come il luogo da cui si era lanciata la bomba e si era sparato sopra la moltitudine.
Monsignor Romero non potè allora essere sepolto se non nelle circostanze in cui vive quotidianamente il popolo salvadoregno: in mezzo alle pallottole, alla paura che si cerca di infondergli, però anche alla riaffermazione della volontà di liberazione e di crescita della speranza.
Monsignor Romero è un martire della opzione fatta dalla Chiesa a Medellin e a Puebla. A partire dalla sua morte il significato di questa opzione apparirà più chiaro. Un martire che dà testimonianza del Dio vivo in mezzo alla morte che seminano gli oppressori. Martire del nostro tempo, cristiano scomodo e forte, di vita chiara, umile e serena. La sua morte non è disgraziatamente un fatto isolato e ci permetterà di comprendere molti altri testimoni sparsi in questo continente di dolore e di oppressione, però anche di liberazione e di speranza, che è l'America Latina.
Sul sangue dei martiri si costruisce la Chiesa come comunità che annuncia nella Risurrezione la vittoria definitiva della vita sulla morte. Sul sangue dei martiri si sta costruendo nel nostro subcontinente una Chiesa in mezzo a un popolo che lotta per la sua liberazione. Monsignor Romero descriveva così il suo lavoro, in una omelia: «Il mio lavoro è consistito nel mantenere la speranza del mio popolo, se c'è un poco di speranza il mio dovere è di alimentarla». La sua vita e il suo martirio nutrono e sollevano la speranza del popolo povero, sfruttato e cristiano dell'America Latina e danno vita nuova e impongono nuove esigenze alla Chiesa presente laggiù».
Gustavo Gutierrez, da "Il giorno", 26 aprile 1980
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«(...) La sensibilità ecclesiale si manifesta anche nelle scelte pastorali e nella elaborazione dei documenti - i nostri -, ove non deve prevalere l'aspetto teoretico-dottrinale astratto, quasi che i nostri orientamenti non siano destinati al nostro popolo o al nostro Paese - ma soltanto ad alcuni studiosi e specialisti - invece dobbiamo perseguire lo sforzo di tradurle in proposte concrete e comprensibili.
La sensibilità ecclesiale e pastorale si concretizza anche nel rinforzare l'indispensabile ruolo di laici disposti ad assumersi le responsabilità che a loro competono. In realtà, i laici che hanno una formazione cristiana autentica, non dovrebbero aver bisogno del vescovo-pilota, o del monsignore-pilota o di un input clericale per assumersi le proprie responsabilità a tutti i livelli, da quello politico a quello sociale, da quello economico a quello legislativo! Hanno invece tutti la necessità del vescovo pastore!
Infine, la sensibilità ecclesiale si rivela concretamente nella collegialità e nella comunione tra i vescovi e i loro sacerdoti; nella comunione tra i vescovi stessi; tra le diocesi ricche - materialmente e vocazionalmente - e quelle in difficoltà; tra le periferie e il centro; tra le conferenze episcopali e i vescovi con il successore di Pietro.
Si nota in alcune parti del mondo un diffuso indebolimento della collegialità, sia nella determinazione dei piani pastorali, sia nella condivisione degli impegni programmatici economico-finanziari. Manca l'abitudine di verificare la recezione di programmi e l'attuazione dei progetti, ad esempio, si organizza un convegno o un evento che, mettendo in evidenza le solite voci, narcotizza le comunità, omologando scelte, opinioni e persone. Invece di lasciarci trasportare verso quegli orizzonti dove lo Spirito Santo ci chiede di andare».
papa Francesco, prolusione alla CEI, 18 maggio 2015
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“Non fare piccoli progetti: non hanno la forza di entusiasmare gli uomini e probabilmente non si realizzeranno mai.
Fai grandi progetti: punta in alto nella speranza e nel lavoro,
ricordando che i progetti nobili e razionali una volta tramandati non moriranno mai, ma vivranno per lunghissimo tempo dopo la nostra morte riaffermandosi con rinnovato vigore.
Ricorda che i nostri figli e i nostri nipoti faranno cose che ci sbalordiranno.
Che ordine sia il tuo motto e bellezza il tuo obiettivo”.
Fai grandi progetti: punta in alto nella speranza e nel lavoro,
ricordando che i progetti nobili e razionali una volta tramandati non moriranno mai, ma vivranno per lunghissimo tempo dopo la nostra morte riaffermandosi con rinnovato vigore.
Ricorda che i nostri figli e i nostri nipoti faranno cose che ci sbalordiranno.
Che ordine sia il tuo motto e bellezza il tuo obiettivo”.
Daniel Burnham - Scuola di Chicago
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Tullio scrive da Keren nel 1915
di Mara Haregù Pagani
Caro Primo,
ti scrivo dalla mia nuova casa.
In queste terre c’è posto per altri 20 mila italiani e più.
I coloni saranno la nuova aristocrazia, ascolta un buon amico: affrettati!
Tullio
cartolina da Keren, 8 ottobre 1915
La figura della donna eritrea, così come l’ascaro, assumono nella propaganda di inizio novecento ruoli molto simili. Se l’eritreo veniva dipinto prima come un selvaggio, con l’ascaro servile e fedele, l’Italia regala l’immagine del buon soldato italiano impegnato in una campagna civilizzatrice che ha quindi buon esito. All’inizio dell’occupazione il rapporto con la donna eritrea è definito con il madamato, una sorta di contratto matrimoniale a scadenza, che prevedeva il mantenimento della prole con la fine del rapporto. Non mancheranno, in verità, gli abbandoni di madre e figli che venivano così affidati agli istituti gestiti dai missionari.
La propaganda fascista dipingeva le donne eritree come la bella e calda terra d’africa da conquistare. La donna eritrea divenne il simbolo dell’azione colonizzatrice dove l’uomo bianco la domina sia per razza sia per genere e ne può disporre come vuole. Si era radicata l’idea che in Africa davvero tutto fosse possibile.
Succede però qualcosa che cambia le carte in tavola.
Nel 1933 appare la Legge Organica per l’Eritrea e la Somalia, in base alla quale potevano diventare cittadini italiani tutti quelli che, nati da genitori ignoti, avevano le caratteristiche somatiche che potevano farli ritenere figli almeno di un genitore di razza bianca. Nel 1936 le applicazioni di inaspriscono, non si ammetteva più che il meticcio figlio di un genitore italiano e di genitore suddito, potesse ottenere la cittadinanza italiana. La donna eritrea, da bella “faccetta nera” che attendeva ”la liberazione dalla schiavitù”, diventa causa dell’inquinamento della razza. E L’italia si troverà a fare i conti con un vero e proprio popolo di figli meticci.
Si cerca in tutti i modi di non incentivare la relazione coniugale con le donne eritree, invitando i soldati a portare con sé le proprie mogli e fidanzate. Avviene in questo periodo una vera e propria segregazione razziale che impediva agli eritrei di usare e frequentare gli stessi mezzi pubblici, bar, ristoranti, scuole e ospedali dei bianchi.
Per saperne di più:
Faccetta nera dell’Abissinia. Madame e meticci dopo la conquista dell’Etiopia – M. Strazza
Il diritto di fronte all’infamia nel diritto. A 70 anni dalle leggi razziali – a cura di L. Garlati e T. Vettor
La legalità del male. L’offensiva mussoliniana contro gli ebrei nella prospettiva storico-giuridica (1938-1945) -
S. Gentile
La ricostruzione dell’immaginario violato in tre scrittrici italofone del Corno D’Africa : aspetti teorici, pedagogici e percorsi di lettura – Igiaba Scego
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Si parla della necessità di un "nuovo umanesimo".
"Umanesimo": ascolto, rispetto, attenzione, promozione della persona.
"Nuovo": perché questo atteggiamento è una cosa "nuova", da scoprire, sia nella società che nella chiesa.
don Chisciotte Mc
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Da qualche mese sentivo di essere considerato come un
un Dead Man Walking...
ora ne ho avuto conferma!
don Chisciotte Mc
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La salvezza è per tutti. E l'apostolo accettò una religione «laica»
di Salvatore Natoli
Il capitolo 10 degli Atti degli apostoli racconta dell’incontro tra Pietro e il centurione Cornelio. Ciò che il racconto mette in scena è la nota controversia se i pagani potessero essere ammessi nelle comunità cristiane – in senso lato nella Chiesa – senza che venissero sottoposti alle prescrizioni giudaiche, oppure l’osservanza dei precetti era la precondizione per poterli accogliere. La controversia è antica – già presente nella Lettera di Paolo ai Galati – e precede la redazione degli Atti stessi. La natura della controversia indica le seguenti cose:
1) che i primi cristiani – specie la comunità di Gerusalemme – erano certo seguaci di Cristo, ma anche assolutamente ebrei. Se così non fosse, non si sarebbero minimamente posti il problema se estendere o no ai pagani i precetti del giudaismo;
1) che i primi cristiani – specie la comunità di Gerusalemme – erano certo seguaci di Cristo, ma anche assolutamente ebrei. Se così non fosse, non si sarebbero minimamente posti il problema se estendere o no ai pagani i precetti del giudaismo;
2) che i primi cristiani, per quanto si ritenessero ebrei, venivano mano a mano fuoriuscendo dal giudaismo. Gesù, come si legge in altro luogo, era pur venuto per raccogliere le pecorelle perdute d’Israele, ma il suo era un annuncio di salvezza per tutti e in particolare il lieto annuncio ai poveri;
3) che le prime comunità cristiane, pur pensandosi ancora in termini di popolo ebraico, tendono sempre più a riconoscersi più semplicemente come popolo di Dio. E Dio stesso, pur rimanendo il Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe, è soprattutto il «Dio di tutti». Un universalismo, questo, che era già auroralmente presente nella tradizione profetica che vedeva radunarsi in Gerusalemme tutti i popoli;
4) che il giudaismo storicamente ha sempre preservato e ribadito la propria identità, ma in generale non ha praticato il proselitismo. Ciò non vuol dire che non ci si possa convertire al giudaismo, ma nel cristianesimo è accaduto esattamente il contrario; in quanto evangelium, «buona novella», si è formulato fin dalle origini come messaggio universale di salvezza e perciò si fatto da subito predicazione ad extra: andate e predicate, «mi sarete testimoni a Gerusalemme, nella Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» ( Atti 1,8).
Sono queste le coordinate entro cui s’inscrive la storia del centurione Cornelio. Il racconto prende avvio da due visioni il cui significato è semplice quanto decisivo: l’iniziativa dell’incontro non parte né da Cornelio né da Pietro, ma è un’iniziativa diretta di Dio. Perché? Perché Dio è panton Kurios, è il «Signore di tutti» e «non fa preferenze di persone, ma chi
Leggi tutto: Un modo di comportarsi che non sia diverso da quello di Cristo
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Emporio della solidarietà: una risposta concreta nata dalla Caritas Ambrosiana all’emergenza povertà (vecchie e nuove).
di Luca Brunello
“Emporio della solidarietà”, ovvero un supermercato dove poter reperire gratuitamente generi di prima necessità “a misura di famiglia”, per arginare una situazione che negli ultimi anni si è trasformata in un’emergenza sociale. L’Emporio della Solidarietà è una realtà concreta, già affermata in diverse diocesi italiane, che nasce per volontà e lavoro della Caritas Nazionale. Presente, in particolare, in centro Italia per far fronte al bisogno alimentare delle famiglie (...) Negli ultimi anni la Caritas ha avuto modo di conoscere situazioni di indigenza gravi anche nelle famiglie cosiddette “normali”, che spesso provengono da zone periferiche della città, che non hanno mai preso contatti con i servizi sociali del proprio territorio, perché non abituati e spesso, a ragion veduta, poco fiduciosi nella burocrazia e nei mezzi. (...) Con lo scopo di essere un aiuto concreto alle famiglie ed ai singoli, fornendo i generi di prima necessità, anche per l’infanzia, ma in modo temporaneo. La famiglia bisognosa ha infatti accesso all’Emporio – attraverso l’importante lavoro dei Centri di Ascolto delle Parrocchie sul territorio, che ne valuta le condizioni di vita e necessità – per un arco temporale utile alla stessa per trovare soluzione autonoma alle proprie difficoltà. Un aiuto dunque mirato e a misura, che non si vuole sostituire all’iniziativa del singolo per il miglioramento della condizione sua e della propria famiglia. Nell’ambito dell’attività quotidiana di ascolto dell’utenza, verificata l’esistenza di una condizione di disagio socio-economico, gli operatori Caritas rilasciano un’autorizzazione per l’attribuzione di un credito di spesa. Le persone in possesso dei requisiti fissati per il riconoscimento del credito di spesa saranno dotate di una tessera, rilasciata dall’Emporio della Solidarietà, su cui sarà memorizzato il proprio codice personale, che consentirà loro di accedere all’Emporio Caritas. Uno strumento che dona dignità a chi chiede: non sei in coda nella tua parrocchia, non ti viene dato un pacco ma scegli tu (fra i prodotti che ci sono) riempendo il carrello della spesa e “pagandoli” scaricando i punti che ti vengono assegnati: con la responsabilità di come spendi i punti. (...)
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di Enzo Bianchi
Dio ha voluto creare un mondo in cui i viventi potessero, appunto, vivere e quindi potessero nutrirsi. Le prime pagine della Genesi, dove in una sinfonia si tenta di raccontare la creazione, Dio affida all’umanità nella polarità uomo-donna il cibo: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è sulla terra, e ogni albero che dà frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto bella e buona» (Gen 1,29).
Tutti i frutti della terra sono donati all’uomo ma c’è un’insistenza sull’erba e sugli alberi che fanno seme, rivelando subito che quel seme non è destinato solo a essere mangiato con il frutto, ma può cadere a terra e questa è anche un’azione umana: la semina richiede la cura, la cultura da parte dell’uomo. Questa pagina svela una grande verità: la terra è madre, ci nutre, ma noi dobbiamo esercitare una 'cultura' nel senso più vero, cioè coltivarla. La terra madre ci è data come un giardino da coltivare e, infatti, sta scritto: «Il Signore Dio prese l’umanità e la fece riposare nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15). Natura e cultura hanno qui la celebrazione del loro legame, per sempre indissolubile: un legame nella custodia che è rispetto, protezione, cura intelligente e amorosa. Sì, Madre terra! Qui possiamo avvertire la presenza, anche se non esplicita, di un comandamento: «Ama la terra come te stesso! ». Questa terra va lavorata con il sudore della fronte, ma da essa l’uomo trae il cibo (Gen 3,17-19), è terra madre che genera cibo e vita, è terra che accoglierà alla fine i nostri corpi mortali, perché dalla terra siamo stati tratti.
Il cibo è innanzitutto voluto da Dio, è cosa buona e bella, è ciò che l’uomo si guadagna con il lavoro, è ciò che l’uomo renderà sempre più capace di nutrirlo e di renderlo più uomo! Non a caso l’inizio della cultura si registra nello spazio del mangiare, non a caso il linguaggio è nato intorno a una pietra che come tavola radunava attorno a sé gli uomini e le donne che avevano deciso di mangiare insieme e non più come gli animali. Proprio nell’atto del nutrirsi, che instaura un giusto rapporto tra bisogno-desiderio-soddisfazione, viene impressa la giusta relazione tra l’umano e le altre creature: relazione fondata sul riconoscimento, sul rispetto della loro alterità, sul valore e sulla dignità di ogni alimento. Il modo di vivere l’azione del mangiare ne determina il senso e fissa il
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L'espressione originaria "nessuno tocchi" si ispira al libro della Genesi: «Il Signore impose a Caino un segno, perché nessuno, incontrandolo, lo colpisse» (4,15).
Da qui l'associazione internazionale "Nessuno tocchi Caino" (www.nessunotocchicaino.it), dedicata alla lotta contro la pena di morte.
Venerdì è apparso l'hashtag #nessunotocchimilano, ma questa espressione ha il sapore di una minaccia: guai a chi tocca chi mi sta a cuore.
Tutto sommato l'espressione non è molto diversa dall'atteggiamento corporativo o "mafioso" o leghista di chi dice: guai a chi tocca "cosa nostra", "famiglia mia", "terra dei padri".
Un abbraccio invece a chi dedicherà energie a rendere più bella e ordinata la propria casa, la propria città, la propria terra,
oggi, domani, dopodomani,
a favore di tutti quelli che la abiteranno.
E quando torneranno gli idioti malviventi, trovino bellezza, efficienza, fermezza, ma anche sapienza e affetto avvolgente,
uniche forze che possano convertire e far cambiare il cuore e la testa.
don Chisciotte Mc
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Trovo insopportabile la demagogia:
"atteggiamento di chi cerca di accreditare le proprie tesi con affermazioni di facile presa, retoriche e propagandistiche".
Prediche, lezioni, discorsi, comizi... fatti di parole vuote, senza radici, senza contenuto, senza concretezza;
intanto i minuti passano, la verità viene offuscata, la possibilità di cambiare è soffocata.
Non siamo stati capaci di preparare Expo bene, per tempo, tutta, nella legalità.
E' un "modo di fare italiano" che dobbiamo stigmatizzare, non nasconderlo o farci un sorrisino sopra.
Nonostante le parole dell'affabulatore,
ieri non è cominciato nessun futuro,
non abbiamo né cuore largo né braccia grandi per abbracciare il mondo,
non ce l'abbiamo fatta nemmeno questa volta.
E non ditemi: "Meglio quello che abbiamo fatto, che non fare nulla":
meglio sarebbe stato progettare il fattibile,
realizzare quanto promesso,
imparare dagli sbagli passati.
Preferisco dirmelo,
mettermi nel numero di coloro che potevano e possono fare di più e meglio,
invocare maggior saggezza nello scegliere il possibile e il buono,
stare con umiltà davanti a vicini e lontani.
don Chisciotte Mc
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Ma credi davvero che
un miliardo di cinesi (per esempio),
con una civiltà millenaria e un'economia in espansione,
abbia bisogno di venire ad imparare da quel puntino nel mondo che è l'Italia?!
Siamo proprio eurocentrici,
milanocentrici,
ombelicocentrici.
don Chisciotte
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«Prima di essere ammessi a un partito
ci vorrebbe la promozione a uomo».
don Primo Mazzolari, 1945