In Dio «siamo, respiriamo, ci muoviamo» (At 17, 28) questo è il fondamento di tutta la realtà, la spiegazione dell'Essere, il significato stesso della vita e la fonte costante dell'amore.

Ciò che conta da parte nostra è di prenderne coscienza, avvertirla nella fede, approfondirla nella speranza, viverla nella carità.

E' la storia del bimbo che poco alla volta scopre la mamma e il papà, della donna che trova lo sposo, dell'uomo che trova l'amico. Ma la mamma, il papà c'erano già, lo sposo c'era già, l'amico già esisteva.

Dio c'era già. A noi di scoprirlo in noi, non di crearlo.

La presenza di Dio in noi, nel cosmo, nell'Invisibile, nel Tutto, è radicale. Tu non potrai mai trovarti in un luogo, in una situazione dove Lui non ci sia.

Io sono arrivato a sentirlo sempre e ovunque ed è la mia forza, come dice Paolo: «Questa è la forza che vince il mondo: la fede» (1 Gv5,4).

Lo vedo nella radice di ogni cosa, nello sfondo di ogni avvenimento, nella trasparenza di ogni verità, nel deposito di ogni amore.

Sempre!

Ed è per questo che sono felice.

E non mi sento mai solo.

La cosa che devo a Lui come presenza è che mi ha tolto ogni paura.

fr. Carlo Carretto, Ogni giorno, 6 gennaio

Sin dall'inizio della missione di Cristo la donna mostra verso di Lui e verso il suo mistero una speciale sensibilità che corrisponde ad una caratteristica della sua femminilità. Occorre dire, inoltre, che ciò trova particolare conferma in relazione al mistero pasquale, non solo al momento della croce, ma anche all'alba della risurrezione. Le donne sono le prime presso la tomba. Sono le prime a trovarla vuota. Sono le prime ad udire: «Non è qui. E risorto, come aveva detto» (Mt 28, 6). Sono le prime a stringergli i piedi (cf. Mt 28, 9). Sono anche chiamate per prime ad annunciare questa verità agli apostoli (cf. Mt 28, 1-10; Lc 24, 8-11). Il Vangelo di Giovanni (cf. anche Mc 16, 9) mette in rilievo il ruolo particolare di Maria di Magdala. E' la prima ad incontrare il Cristo risorto. All'inizio crede che sia il custode del giardino: lo riconosce solo quando egli la chiama per nome. «Gesù le disse: "Maria". Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbuní!", che significa: "Maestro". Gesù le disse: "Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va' dai miei fratelli e di loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria di Magdala andò subito ad annunciare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto» (Gv 20, 16-18). Per questo essa venne anche chiamata «la apostola degli apostoli» (Rabano Mauro, "De vita beatae Mariae Magdalenae," XXVII), Maria di Magdala fu la testimone oculare del Cristo risorto prima degli apostoli e, per tale ragione, fu anche la prima a rendergli testimonianza davanti agli apostoli. Questo evento, in un certo senso, corona tutto ciò che è stato detto in precedenza sull'affidamento delle verità divine da parte di Cristo alle donne, al pari degli uomini. (prosegue - fai il download nella nostra sezione Testi)
Grazie alla segnalazione di una nostra assidua lettrice, possiamo considerare la Solennità di oggi - la Trinità - come la "festa" del nostro sito, che dalla Trinità prende il nome. E' per noi tutti un grande onore!!


don Chisciotte

Signorina Avidità

di Massimo Gramellini

Nonostante un ingaggio non proprio miserabile (15 milioni di dollari), Sarah Jessica Parker ha svaligiato i camerini di «Sex and the City 2», portandosi a casa scarpe e borsette firmate, persino un set di bicchieri di cristallo. È tale l'identificazione fra l'attrice e il suo personaggio che la notizia esce dal cerchio del pettegolezzo per assumere un significato simbolico. Quando si farà del revisionismo televisivo, bisognerà affrontare il caso di quella serie amatissima, dove quattro ragazze dotate di senso dell'umorismo parlavano di sesso senza pudori. Per i maschi della mia età fu una rivelazione. Per le femmine una liberazione. In Carrie e nelle sue amiche vedevamo il frutto maturo del femminismo: donne in carriera, indipendenti e autosufficienti, che sguazzavano nel sistema con la stessa disinvoltura e gli stessi desideri di un uomo. Era un frutto puramente materialista, ma lì per lì nessuno volle farci caso. Storditi dall'ebbrezza del cambiamento, non perdemmo tempo a chiederci se avesse anche un valore. E nessuno si accorse che le quattro newyorchesi erano le sorelle ideali dei finanzieri di Wall Street, a cui le accomunava un'identica spinta: l'avidità.

L'avidità non è un prodotto del consumismo. Semmai del turbo-consumismo: la versione esasperata, che consiste nel volere sempre di più e sempre più in fretta. Così, a furia di accumulare borsette, sono crollate le Borse. E sotto le macerie non è rimasta Carrie, ma quelle che sognavano di assomigliarle e ora devono pagarle il conto dello shopping.
Il cuore del Dio che si comunica è trinitario; la assoluta dimensione del divino è una costellazione trinitaria. Già da sempre la vita divina è la storia delle Tre persone che si comunicano completamente tra loro: si rivelano e si manifestano pienamente l'una all'altra, si donano e si accolgono pienamente tra loro. La vita divina si caratterizza per la perfetta reciprocità della comunione e della intesa delle Tre Persone: il segno autentico del divino viene allora a essere l'assoluta loro reciprocità, la completa loro in-tesa (si comprendono e si amano): le Tre persone si «com-prendono» perfettamente, come comprensione cognitiva e come comprensione amorosa. Gli antichi termini per esprimere questo dinamismo intratrinitario sono ancora validi: pericòresis, circum-in-cessio: le divine Persone stanno l'una dentro l'altra, l'una attorno all'altra, l'una tesa all'altra. E proprio qui sta la ragione ultima della possibilità e della realtà dell'alleanza di Dio con gli uomini. Il Dio trino, che già al suo interno è aperta relazione d'amore, si apre all'alleanza con l'uomo. Egli spalanca se stesso e la propria vita all'uomo; si manifesta a lui e gli dà accesso alla sua vita d'amore. La natura stessa di Dio è «apertura di alleanza», è disponibilità al dono totale; su questa «base», Dio si apre alla creazione dell'universo e dell'umanità facendo loro spazio.

G. Mazzanti, I sacramenti, 112

Non ho difficoltà a credere che sia avvenuto... e non poche volte! Basta vedere come - spesso e volentieri - vengano "coperte", "insabbiate", questioni di non poco conto, ma non così drammatiche... che pure non avrebbero conseguenze disastrose se fossero portate alla luce e affrontate. E' un cattivo costume invalso tra noi ministri ordinati, per buonismo, servilismo, quieto vivere, pigrizia. E anche in questo modo perdiamo di credibilità.


don Chisciotte

«Succede spesso che, nell'esercizio quotidiano del nostro ministero apostolico, i nostri orecchi siano offesi sapendo ciò che dicono alcuni che, pur infiammati da zelo religioso, mancano di finezza nel giudizio e di ponderatezza nel modo di vedere le cose. Nella situazione attuale della società, non vedono che rovina e calamità; sono soliti dire che la nostra epoca ha peggiorato rispetto ai secoli passati; si comportano come se la storia, che è maestra di vita, non avesse nulla da insegnare loro e come se nel tempo dei Concili di una volta, tutto fosse stato perfetto, riguardo alla dottrina cristiana, ai costumi e alla giusta libertà della Chiesa. Ci sembra necessario dire il nostro totale disaccordo con tali profeti di sventure, che annunciano sempre disastri, come se il mondo si avvicinasse al suo termine».


Giovanni XXIII, discorso di apertura del Concilio Vaticano II

La scrittura sacra e il corpo a corpo fra l'uomo e Dio

di Erri De Luca

Chi legge da cima a fondo la scrittura sacra, Antico e Nuovo Testamento, si accorge di quanti fallimenti affronta la divinità con la creatura umana. Comincia subito, già dal momento che inventa la formula per fare l'Adàm, una manciata di polvere del suolo e un soffio suo. (...) Comincia il primo fiasco, la coppia non si attiene ai limiti, attinge al frutto della conoscenza del bene e del male e si ritrova nuda. Nessuna specie animale sa di essere nuda, ecco che i due non appartengono più al resto della natura. In cambio della conoscenza si sono snaturati dal resto delle specie viventi. Da loro in poi la divinità si misura con il guazzabuglio di bene e male, nel tentativo di guidare la loro condotta. Fallisce continuamente nell'impresa e con superiore oltranza ci riprova. Tutta la scrittura sacra si può leggere come il resoconto dell'ostinazione divina a correggere la specie umana. Non si rassegna alla slealtà, ai tradimenti, alle abiure. Ogni volta va pescare nel mazzo di una generazione empia, l'unico esempio integro sul quale fondare una nuova alleanza, dopo i frantumi della precedente. È così da Noè in poi. Fossi credente, chiederei alla divinità, napoletanamente: «Chi t'o fa fa'?», chi te lo fa fare? Da non credente posso solo cercare la risposta in qualche rigo della scrittura sacra. Isaia, miglior poeta dei profeti, rinfaccia alla divinità il difetto di fabbrica, del quale è responsabile: «Noi siamo l'argilla e tu il nostro artefice e opera di tua mano tutti noi» (64,7). Lo chiama Padre Nostro ma in senso accusativo, perché porta responsabilità di noi. Gli ricorda con termine legale di essere «nostro riscattatore», che è il membro di una famiglia in dovere di riscattare un parente caduto in schiavitù. Chi legge la scrittura sacra da cima a fondo si accorge dell'intimità brusca, perfino sconveniente, senza cerimonie, tra creatura e creatore. Il pronome 'tu' rimbalza tra loro due, fonda la loro burrascosa relazione sentimentale fondata sulla più potente energia del corpo umano, l'amore. La divinità esige prepotentemente di essere amata: «E amerai Iod tuo Elohìm in tutto il tuo cuore e in tutto il tuo fiato e in tutte le tue forze» ( Deuteronomio/Devarìm 6,5). Chiede la totalità dell'energia amorosa perché sa che solo il più completo svuotamento, senza risparmio, permette a quell'energia di ricostituirsi e aumentare. Chi trattiene amore lo spreca, come chi conserva la manna, che va consumata in giornata perché il giorno dopo marcisce. Da lettore ho fatto un salto sulla sedia quando Mosè, dopo la fabbrica del vitello d'oro, mette il suo corpo a sbarramento tra lui e l'intenzione della divinità di distruggere Israele: «E adesso solleverai il loro torto o cancellami dal tuo libro che hai scritto» (Esodo/Shmot 32,32). Il torto commesso è un peso che va sollevato altrimenti schiaccia. E spetta alla divinità l'infinito esercizio di sollevamento pesi dei torti commessi dalla specie umana. Nel tempo narrato dalla scrittura sacra c'era un Mosè che si metteva in mezzo. Ma la scrittura sacra smette e a chi legge resta la curiosità di sapere come va a finire questa partita doppia circa il bene e il male, tra la divinità e la sua creatura snaturata.

in “Avvenire” del 23 maggio 2010

Grazia tua, Padre, è il riposo,

grazia tua è il risveglio alla luce e alla preghiera;

la fresca e dolce chiarità mattutina

ci rassereni dopo le tenebre,

e la divina rugiada purifichi i cuori,

ispirando desideri di cielo.


prima orazione - Lodi ambrosiane - mercoledì quarta settimana





 


 

I profughi dello yacht

di Massimo Gramellini

Ai lettori che vivono con preoccupazione la crisi economica vorremmo segnalare un dramma nel dramma. Quello di Elisabetta Gregoraci, moglie di Flavio Briatore e mamma del di lui erede, Falco Nathan. «Al mio piccolo manca lo yacht», è il grido di dolore che la donna ha affidato a un settimanale. «Da quando siamo stati costretti ad abbandonare la barca, il bambino piange spesso, non è più sereno come prima». Segue un racconto dettagliato e crudele: dopo la nascita del pargolo, la famiglia Briatore è costretta ad accamparsi su uno yacht con 12 persone di equipaggio e 63 metri di parquet. Una sistemazione di fortuna, in attesa che finiscano i lavori della nuova abitazione, che sorgerà in località defilata: Montecarlo. Ma ecco sopraggiungere i finanzieri a sirene spiegate, con l'accusa di contrabbando e frode fiscale. I profughi dello yacht devono scendere a terra e riparare in un attico di Londra, dove il clima è meno mite e il pavimento neanche ondeggia.

Siamo sicuri che milioni di donne si immedesimeranno nell'incubo della signora Briatore. È tale il terrore che i loro figli possano soffrire il trauma della perdita dello yacht che hanno preferito abituarli fin da subito a condizioni di vita meno precarie: una culla ricavata nella stanzetta della nonna. Da parte nostra - oltre a offrire al piccolo Falco Nathan la più incondizionata solidarietà per i decenni a venire - ci domandiamo se la sua mamma abbia una minima percezione della realtà che la circonda. Ma forse sullo yacht si captava soltanto il Tg1.
Due religioni: l'Inter e la Sindone, ma le folle dei devoti sanno pensare?

di Enrico Peyretti

Sì, sabato sera ho visto la partita. Non me ne vergogno. Una o due volte l'anno guardo una partita di calcio che promette bel gioco. Per il resto, ho sempre cose più interessanti da fare. Poi, non so usare bene la tv, diventata più difficile col decoder. Ma non mi intendo affatto di tecniche, non conosco alcun nome di calciatori, non tifo per nessuna squadra, semmai contro la favorita. Sono rimasto ai termini tecnici di quando giocavo in pineta (due pini servivano da pali), prima di fare i compiti, durante il ginnasio, oltre 50 anni fa: portiere, terzini, mediani, centravanti, ali e mezze ali. Io facevo il centravanti, non male. Mai visti gli scarpini, si giocava con quel che avevi ai piedi, e senza arbitro, ci si regolava da soli, non c'erano scontri, solo qualche discussione. Il pallone di cuoio era il massimo dell'evoluzione. Ma si usava l'inglese (nel calcio) anche allora: offse (off-side), goal, e qualcos'altro. Ora lo guardo in tv, da solo. Mi fa pena l'intruppamento viscerale di enormi masse umane, trasformate in mandrie compattamente deliranti, ognuno un atomo in un amalgama, fuori di sé. La chiamano festa. Domenica



Ma come si fa a dire e a scrivere certe scemenze?!

don Chisciotte



 

Ospitate in voi l'ospitalità

di Enzo Bianchi

Oggi, praticare l'ospitalità nei modi in uso presso le popolazioni seminomadi che del Medioriente, di cui anche l'episodio di Abramo a Mamre è testimonianza, appare sempre più difficile: un'antica consuetudine, presente in tutte le culture come dovere sacro, si sta smarrendo soprattutto in quella che chiamiamo la civiltà "occidentale". Le cause di tale fenomeno sono certamente molteplici. In primo luogo, il declino della prassi dell'ospitalità è provocato dal carattere consumistico della società occidentale. Il mercato oggi si è impadronito anche dell'ospitalità strappandola alla gratuità e facendone un affare commerciale, un business. Bisogna inoltre mettere in conto la mutata tipologia della presenza degli stranieri nelle nostre società. Una presenza non più sporadica o stagionale ma consistente, stabile e - a differenza dei flussi migratori conosciuti a partire dal XIX secolo -"plurale": gli stranieri giungono tra di noi da paesi, culture e mondi religiosi distanti da noi e tra di loro. Di conseguenza, molti degli "autoctoni" si sentono minacciati nella loro identità culturale e religiosa, oltre che in termini di occupazione e di sicurezza, così che gli stranieri finiscono per incutere paura. La paura di chi è diverso e il ripudio di forme culturali, morali, religiose e sociali lontane da noi finiscono per spingerci sempre più velocemente verso la sfera del "privato", l'isolamento, la chiusura all'altro, magari mascherati da custodia della propria identità. Va anche riconosciuto che, poco per volta, questo atteggiamento di diffidenza e di difesa tende a inquinare tutti i nostri rapporti, al punto che finiamo per non praticare più l'ospitalità neppure nei confronti di chi possiamo definire, letteralmente il "prossimo", cioè chi è "più vicino", chi vive accanto a noi condividendo la stesse lingua e la stessa cultura. Così le nostre case assomigliano sempre più a fortezze protette da serrature, porte, cancelli, sistemi di allarme, telecamere, recinti e muri siamo diventati progressivamente succubi di una mentalità che si restringe e si chiude a ciò che appare come "altro", sconosciuto, nuovo, diverso. Finiamo allora per pensare l'ospitalità soltanto come indirizzata a quanti noi invitiamo: ma l'invitato non è un ospite, né le attenzioni usate verso di lui sono ospitalità... L'altro, il vero altro, infatti, non è colui che scegliamo di invitare in casa nostra - forse anche con il retropensiero di essere poi a nostra volta invitati (cf. Lc 14,12-14) bensì colui che emerge, non scelto, davanti a noi: è colui che giunge a noi portato semplicemente dall'accadere degli eventi e dalla trama intessuta dal nostro vivere, perché «l'ospitalità è crocevia di cammini». L'altro è colui che sta davanti a noi come una presenza che chiede di essere accolta nella sua irriducibile diversità; poco importa se appartiene a un'altra etnia, a un'altra fede, a un'altra cultura: è un essere umano, e questo deve bastare affinché noi lo accogliamo. In altre parole, perché dare ospitalità? Perché si è uomini, per diventare uomini, per umanizzare la propria umanità. O si entra nella consapevolezza che ciascuno di noi, in quanto venuto al mondo, è lui stesso ospite dell'umano, o l'ospitalità rischierà di restare tra i doveri da adempiere: sarà magari tra i gesti significativi a livello etico, ma si situerà su un piano fondamentalmente estrinseco e non diverrà un rispondere alla vocazione profonda dell'uomo, un realizzare la propria umanità accogliendo l'umanità dell'altro. Il considerarsi ospiti dell'umano che è in noi, ospiti e non padroni, può invece aiutarci ad avere cura dell'umano che è in noi e negli altri, a uscire dalla indifferenza e dal rifiuto della compassione che, sola può condurci a comprometterci con l'altro nel suo bisogno. Il povero, il senza tetto, il girovago, lo straniero, il barbone, colui la cui umanità è umiliata dal peso delle privazioni, dei rifiuti e dell'abbandono del disinteresse e dell'estraneità, incomincia a essere accolto quando io incomincio a sentire come mia la sua umiliazione e la sua vergogna, quando comprendo che la mortificazione della sua umanità è la mia stessa mortificazione. Allora senza inutili sensi di colpa e senza ipocriti buoni sentimenti, può iniziare la relazione di ospitalità che mi porta a fare tutte ciò che è nelle mie possibilità per l'altro. Ma dev'essere chiaro che l'ospitalità umanizza innanzitutto colui che la esercita: «Non ha ancora incominciato a essere un vero uomo chi non ha vissuto la pietà per l'umanità ferita e svilita nell'altro» (Pierangelo Sequeri). Scriveva Jean Daniélou: «La civiltà ha fatto un passo decisivo, forse il passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis) è divenuto ospite (hospes)... Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo». In effetti, il modo di concepire e vivere l'ospitalità è rivelativo del grado di civiltà di un popolo. Ospitare è uscire dalla logica dell'inimicizia, è fare del potenziale nemico un ospite. Dovremmo imparare a pensare il grado di civiltà in riferimento al livello dell'umanità e del rispetto dell'umanità dell'uomo, non solo in termini di tecnologia e di sviluppo. Nel praticare l'ospitalità si fa dunque più che mai opera di umanizzazione come aveva compreso con molta intelligenza già Benedetto, il quale nella sua Regola chiede che il monaco mostri all'ospite «ogni umanità», mostri cioè ciò che è proprio degli uomini.


in “Il Sole 24 Ore” del 23 maggio 2010

Servire una comunità

Abbi l'ansia dell'unità; niente è più importante di questo.

Porta pazienza con tutti perché anche il Signore porta pazienza con te.

Prega incessantemente:

chiedi uno spirito di comprensione, maggiore di quello che hai.

Sii instancabile nella preghiera.

Crea il dialogo con il singolo come fa Dio.

Porta su di te i problemi di tutti, come un atleta:

dove c'è più sofferenza ci sarà più guadagno.

Se ami tanto chi è buono, non c'è da dirti grazie:

ma sono i più malati che devi curare con dolcezza.

Sei di carne e spirito per trattare con dolcezza i problemi che percepisci:

i problemi che non percepisci cerca di capirli pregando.

Non impressionarti di chi sembrava fedele e poi tradisce:

sta saldo sotto i colpi come fa l'incudine.

E' proprio di un atleta resistere sotto i colpi.

E' soprattutto in vista di Dio che bisogna

che sopportiamo tutti, affinché anche Lui sopporti noi.

Diventa più zelante di quello che sei.

Nulla si faccia senza la tua approvazione.

Ma tu non far nulla senza quella di Dio.

s. Ignazio di Antiochia a Policarpo

Laici teologi, una porta ancora stretta nella Chiesa

di Isabelle de Gaulmyn

Può un laico pretendere di fare teologia? Porre così la domanda sembra aberrante al giorno d'oggi. Ma non è passato molto tempo da quando, nel 1953, padre Yves-Marie Congar riteneva che “i laici non faranno mai teologia come i preti (poiché) la teologia propriamente detta è per eccellenza un sapere di chierici, e perfino di preti”. Ma, dopo, c'è stato il Concilio Vaticano II, che ha fatto sorgere l'idea che la teologia potesse essere il fatto del “popolo di Dio”, cioè di tutti. Tuttavia, ancora nel 2010, la cosa non è così evidente. Perché, anche se la possibilità teorica esiste, diventare teologo per un laico assomiglia spesso ad un percorso ad ostacoli, e in generale nella Chiesa è ancora poco riconosciuto. Certo, esistono dei corsi di formazione in alcuni istituti per dei catechisti, o dei responsabili di pastorali diverse. Ma l'insegnamento teologico nel senso universitario, cioè conoscenza delle Scritture, della Tradizione, accesso alle fonti e riflessione critica, è ancora poco aperto ai laici. La separazione Stato-Chiesa (...) ha tolto la teologia dalle università pubbliche (...) fare teologia non significa quindi fare un tipo di studi coronato da una laurea statale. E gli sbocchi sono rari (...). Eppure, ogni anno, dei laici tentano l'avventura della teologia. (...) Chi sono questi laici? Grazie ad uno studio sociologico svolto a partire da un'inchiesta molto completa presso studenti ed ex studenti del ciclo C della Università Cattolica di Parigi, si ha ormai un'idea abbastanza precisa del loro profilo. La prima constatazione è che ci sono tanti uomini quante donne, e con una piramide delle età piuttosto giovane: il 70% ha tra i 30 e i 60 anni. Una proporzione poco abituale, sottolineano i due sociologi che hanno fatto l'inchiesta, Jean-François Barbier-Bouvet ed Eric Vinson, in una Chiesa in cui i “militanti” sono piuttosto anziani e di sesso femminile. Perché fanno teologia? Non prima di tutto per motivi di ordine del “servizio”, per la Chiesa o per dei movimenti. Seguono questo insegnamento innanzitutto per se stessi: per acquisire una migliore comprensione della propria fede (l'85%) e per una ricerca di arricchimento spirituale (il 70%). Per quanto riguarda il desiderio di assumere delle responsabilità nella Chiesa (o svolgervi dei compiti con maggiore competenza), solo l'8% lo adduce come motivazione. Del resto, solo il 16% degli ex studenti del ciclo C vede nella formazione in teologia di un numero maggiore di laici la soluzione di una condivisione più corretta ed efficace delle responsabilità nella Chiesa: come se, da subito, presentissero che, in quanto laici, le loro competenze in teologia sarebbero poco riconosciute. Tuttavia sono molti (il 60%) quelli che, una volta fatti questi studi, si impegnano nella Chiesa. Con una differenza che mette ben in luce l'ampiezza dei compiti svolti oggi dai laici: dall'animazione di corsi di formazione di ogni genere, alla preparazione al matrimonio, all'accompagnamento dei funerali, all'accompagnamento spirituale, alla partecipazione al consiglio pastorale della parrocchia, alla redazione di giornali, alle cappellanie di prigioni, di ospedali... Ma non sono per niente soddisfatti del mondo in cui la Chiesa trae profitto dalle loro conoscenze: il 29% ritiene che esse non vengano affatto o non vengano veramente utilizzate, e il 42% che vengano utilizzate soltanto poco, che è un riflesso senza dubbio di una Chiesa ancora abbastanza clericale nei suo modi di funzionamento. In compenso, questi studi hanno, in maniera inattesa, delle ricadute reali per la loro vita sociale. In fondo, riassume Jean-François Barbier-Bouvet, “le loro conoscenze sembrano loro talvolta sottoutilizzate nel mondo religioso rispetto a ciò che speravano, e utilizzabili invece nella società civile più di quanto immaginassero”. Dopo tutto, non si realizza in questo modo l'intuizione profonda del Vaticano II? Come sottolinea Brigitte Cholvy, teologa che dirige il ciclo C, “i tempi moderni hanno visto svilupparsi una teologia di seminario, preoccupata della formazione di un clero competente. È possibile che oggi sia necessaria una teologia laica, non tanto una teologia per dei laici e fatta da laici, ma una teologia del mondo, la cui sfida sarebbe, in una cristianità secolarizzata, che quest'ultimo venga sperimentato laicamente e pensato teologicamente”.


in “La Croix” del 19 marzo 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Lettera al direttore

"Caro direttore  ti chiedo di essere sollevata dalla mansione di conduttrice dell'edizione delle 20 del Tg1, essendosi determinata una situazione che non mi consente di svolgere questo compito senza pregiudizio per le mie convinzioni professionali. Questa è per me  una scelta difficile, ma obbligata. Considero la linea editoriale che hai voluto imprimere al giornale una sorta di dirottamento, a causa del quale il Tg1 rischia di schiantarsi contro una definitiva perdita di credibilità nei confronti dei telespettatori". (...)

"Amo questo giornale, dove lavoro da 21 anni. (...) Il giornale delle culture diverse, delle idee diverse. Le conteneva tutte, era questa la sua ricchezza. Era il loro giornale, il nostro giornale. Anche dei colleghi che hai rimosso dai loro incarichi e di molti altri qui dentro che sono stati emarginati. Questo è il giornale che ha sempre parlato a tutto il Paese. Il giornale degli italiani. Il giornale che ha dato voce a tutte le voci. Non è mai stato il giornale di una voce sola. Oggi l'informazione del Tg1 è un'informazione parziale e di parte. Dov'è il Paese reale? (...) Quell'Italia esiste. Ma il tg1 l'ha eliminata. (...) "L'Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un'informazione di parte (...) e l'infotainment quotidiano (...) Oltre che i cittadini, ne fanno le spese tanti bravi colleghi che potrebbero dedicarsi con maggiore soddisfazione a ben altre inchieste di più alto profilo e interesse generale".

"Un giornalista ha un unico strumento per difendere le proprie convinzioni professionali: levare al pezzo la propria firma. Un conduttore, una conduttrice, può soltanto levare la propria faccia, a questo punto.  Nell'affidamento dei telespettatori è infatti al conduttore che viene ricollegata la notizia. E' lui che ricopre primariamente il ruolo di garante del rapporto di fiducia che sussiste con i telespettatori". (...)

Quello che nutro per la storia del Tg1, per la mia azienda, mi porta a questa decisione. Il rispetto per i telespettatori, nostri unici referenti. Dovremmo ricordarlo sempre. Anche tu ne avresti il dovere".



Maria Luisa Busi


Ho voluto postare una parte di questa lettera perché nelle parole dell'autrice trovo tantissime analogie con situazioni presenti in altri ambiti di vita. Non escluse quelle della vita ecclesiale.


don Chisciotte

 



Invocazione allo Spirito Santo

di s. Simeone il Nuovo Teologo



Vieni, o vera luce. Vieni, mistero nascosto.

Vieni, tesoro senza nome. Vieni, felicità interminabile.

Vieni, luce senza tramonto.

Vieni, attesa di tutti coloro che devono essere salvati.

Vieni, risveglio di coloro che sono stati addormentati.

Vieni, o potente, che sempre fai e rifai

e trasformi con il tuo solo volere.

Vieni, o invisibile.

Vieni, tu che sempre dimori immobile

e in ogni istante tutto intero ti muovi

e vieni a noi coricati negli inferi,

o Tu, che sei al di sopra di tutti i cieli.

Vieni, o nome diletto e dovunque ripetuto;

ma a noi è assolutamente interdetto

esprimerne l'essere e conoscerne la natura.

Vieni, gioia eterna.

Vieni, porpora del gran re, nostro Dio.

Vieni, tu che hai desiderato e desideri

la mia anima miserabile.

Vieni, tu il Sole... poiché, tu lo vedi, io sono solo.

Vieni, tu che mi hai separato da tutto

e mi hai reso solitario in questo mondo.

Vieni, tu stesso divenuto in me desiderio,

tu che hai acceso il mio desiderio di te,

l'assolutamente inaccessibile.

Vieni, mio soffio e mia vita.

Vieni, consolazione della mia povera anima.

Vieni, mia gioia, mia gloria, senza fine.

“Più d'una volta sei apparso, dopo la Risurrezione, ai viventi. A quelli che credevano d'odiarti, a quelli che ti avrebbero amato anche se tu non fossi figliolo di Dio, hai mostrato il tuo viso ed hai parlato con la tua voce. Gli asceti nascosti tra le ripe e le sabbie, i monaci nelle lunghe notti dei cenobi, i santi sulle montagne, ti videro e ti udirono e da quel giorno non chiesero che la grazia della morte per riunirsi con te. Tu eri luce e parola sulla strada di Paolo, fuoco e sangue nello speco di Francesco, amore disperato e perfetto nelle celle di Caterina e di Teresa. Se tornasti per uno perché non torni, una volta, per tutti? Se quelli meritavano di vederti, per i diritti dell'appassionata speranza, noi possiamo invocare i diritti della nostra deserta disperazione. Quell'anime ti evocarono col potere della innocenza; le nostre ti chiamano dal fondo della debolezza e dell'avvilimento. Se appagasti l'estasi dei Santi perché non dovresti accorrere al pianto dei Dannati? Non dicesti d'esser venuto per gli infermi e non per i sani, per quello che s'è perduto e non per quelli che son rimasti? Ed ecco tu vedi che tutti gli uomini sono appestati e febbricitanti e che ognuno di noi, cercando sé, s'è smarrito e ti ha perso.  (

Perché lei è un uomo di speranza?

Perché credo che Dio è nuovo ogni mattina,

che crea il mondo in questo preciso istante, e non in un passato nebuloso, dimenticato.

Ciò mi obbliga a essere pronto in ogni istante all'incontro.

Perché l'inatteso è la regola della Provvidenza.

Questo Dio “inatteso” ci salva e ci libera da ogni determinismo

e sventa i foschi pronostici dei sociologi.

Questo Dio inatteso è un Dio che ama i suoi figli, gli uomini.

È questa la sorgente della mia speranza.

Sono un uomo di speranza

non per ragioni umane o per ottimismo naturale,

ma semplicemente perché credo che lo Spirito Santo

è all'opera nella Chiesa e nel mondo, che questi lo sappiano o no.

Sono un uomo si speranza

perché credo che lo Spirito Santo è sempre lo Spirito Creatore,

che dà, ogni mattina, a chi l'accoglie

una libertà nuova e una provvista di gioia e di fiducia.

Sono un uomo di speranza

perché so che la storia della chiesa è una lunga storia,

tutta piena delle meraviglie dello Spirito Santo.

Pensate ai profeti e ai santi,

che in ore cruciali sono stati strumenti prodigiosi di grazie

e hanno proiettato sulla via un fascio luminoso.

Credo alle sorprese dello Spirito Santo.

Giovanni XXIII ne fu una. Il Concilio pure.

Noi non ci aspettavamo né l'uno né l'altro.

Perché l'immaginazione di Dio e il suo amore sarebbero oggi esauriti?

Sperare è un dovere, non un lusso!

Sperare non è sognare, al contrario:

è il mezzo per trasformare un sogno in realtà.

Felici coloro che osano sognare

e che sono disposti a pagare il prezzo più alto

perché il sogno prenda corpo nella vita degli uomini


card. L. J. Suenens, Lo Spirito Santo nostra speranza, 11-12

Alcuni uomini osservano il mondo e si chiedono: "Perché?".

Altri invece osservano il mondo e si chiedono: "Perché no?".

Nel mondo trionfa soltanto chi si alza

e parte alla ricerca di soluzioni favorevoli

e, se non le trova, le crea.


George Bernard Show

«Invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, voi che mangiate un pane di fatica:

al suo prediletto egli lo darà nel sonno» (Salmo 126,2).


Sinodo 47°della Diocesi di Milano - 1995

132. Comunione e corresponsabilità nella Chiesa di oggi

§ 1. La Chiesa, in quanto «è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano»[1], è realtà di comunione. Ciò caratterizza essenzialmente la vita e missione del popolo di Dio nel suo insieme, ma anche la condizione e l'azione di ciascun fedele.

§ 2. La Chiesa è popolo di Dio in cui tutti i fedeli, in virtù del battesimo, hanno la stessa uguaglianza nella dignità e nell'agire, partecipando all'edificazione del Corpo di Cristo secondo la condizione e i compiti di ciascuno. Esiste, quindi, una reale corresponsabilità di tutti i fedeli nella vita e nella missione della Chiesa, perché ognuno partecipa nel modo che gli è proprio dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo.

§ 3. Il fatto che la Chiesa sia popolo di Dio, chiamato a essere realtà di comunione, in cui ogni battezzato è corresponsabile, comporta alcune conseguenze che meritano di essere sottolineate per il momento attuale della vita della Chiesa:

- ogni realtà in cui il popolo di Dio si articola e ogni struttura che in esso è presente si devono caratterizzare per essere realtà di comunione e luoghi per l'esercizio della corresponsabilità dei battezzati;

- ogni fedele deve sentirsi parte del popolo di Dio e chiamato a collaborare, secondo la propria vocazione, alla vita e alla missione della Chiesa in comunione con tutti gli altri fedeli e a servizio della stessa comunione;

- il ministero della presidenza presente nella Chiesa, si deve qualificare, in particolare, come servizio per la comunione tra tutti i fedeli e come impegno a rendere consapevole ogni battezzato della sua chiamata a un'effettiva corresponsabilità nella vita e nella missione del popolo di Dio;

- all'edificazione della Chiesa, anche nella cooperazione alle funzioni che ne costituiscono il governo, devono essere chiamati a partecipare tutti i fedeli, ciascuno secondo la propria vocazione e nelle forme precisate dalla disciplina ecclesiale.



Questo scritto ufficiale ed autorevole, porta bene i suoi quindici anni.

Eppure esistono ancora ministri ordinati della Chiesa (diaconi, preti, vescovi), che considerano i laici come degli "aiutanti" della gerarchia, dei "subordinati", delle esistenze a cui semmai concedere "spazi"... se proprio non se ne può fare a meno! Non temo smentite: gli esempi sono talmente tanti, disparati, evidenti.

Direbbe l'italiano forbito: "Non è chi non veda". E il popolo cristiano vede, vede bene... e spesso si indigna, si demoralizza, si abbatte, se ne va. Oppure sente la tentazione di non dare più credito alle parole autorevoli di posizioni sagge (come quelle del Sinodo appena citate), a causa di atteggiamenti superficiali e irresponsabili di non pochi ministri ordinati.

Con tristezza e tanta voglia di cambiare questa situazione!


don Chisciotte

Non ho l'età

di Massimo Gramellini

Appena scagliata a indice sguainato contro di lui dandogli del farabutto, il sindaco Alemanno ha spiegato che la direttrice del corpo di ballo dell'Opera di Roma ha fatto il suo tempo ed è giunto il momento di dare spazio ai giovani. Forse ignorava che il teatro di cui è presidente ha designato come successore della Fracci il coreografo belga Micha van Hoecke, che di anni ne ha 66. Ma forse non lo ignorava affatto. E 66 anni, in quest'Europa ingrigita, rappresentano l'età giusta per uscire finalmente allo scoperto, così come i 74 della signora Fracci non frenano le ambizioni e le indignazioni dell'interessata (d'altronde l'ex presidente delle Generali se n'è andato sbattendo la porta a 85).

Se la scienza promette di tenerci su questo pianeta fino a cent'anni, è inevitabile che tutte le altre tappe esistenziali debbano essere ritarate. Sta già succedendo: in silenzio, come nelle vere rivoluzioni. In giro si vedono adolescenti che non si avventurano ad attraversare la strada senza il sostegno rassicurante dei genitori. Precari rugosi che si trascinano da un lavoro all'altro, da un amore all'altro, chiedendosi cosa potranno fare da grandi. E signore obiettivamente anziane ma ancora figlie che gridano nel telefonino: «Mamma, ti ho già detto che non posso accompagnarti dal parrucchiere». Ci auguriamo che il sessantaseienne van Hoecke non debba pagare un prezzo troppo alto alla sua inesperienza.




Se, con il lavoro, l'uomo partecipa all'opera della Creazione e la prolunga, ed è così l'immagine del Dio creatore, con il riposo l'uomo diventa "contemplatore", immagine del Dio che si compiace della propria opera, esprime apprezzamento: E Dio vide quanto aveva fatto, ed era una cosa molto bella (Gen 1,31). La lode, in fondo, è il compimento necessario dell'opera della Creazione. Senza lode, la Creazione risulta per così dire incompiuta, ed è abbandonata alla disgregazione. Senza stupore, senza apprezzamento, senza contemplazione estatica, l'universo va in rovina.

Alessandro Pronzato, La Domenica festa dell'incontro, 53

Lo Spirito Consolatore

di p. Raniero Cantalamessa

Nel Vangelo Gesù parla dello Spirito Santo ai discepoli con il termine di Paraclito che significa ora consolatore, ora difensore, ora le due cose insieme. Nell'Antico Testamento, Dio è il grande consolatore del suo popolo. Questo “Dio della consolazione” (Rom 15, 4), si è “incarnato” in Gesù Cristo che si definisce infatti il primo consolatore o Paraclito (Gv 14, 15). Lo Spirito Santo, essendo colui che continua l'opera di Cristo e che porta a compimento le opere comuni della Trinità, non poteva non definirsi, anche lui, Consolatore, “il Consolatore che rimarrà con voi per sempre”, come lo definisce Gesù. La Chiesa intera, dopo la Pasqua, ha fatto un'esperienza viva e forte dello Spirito come consolatore, difensore, alleato, nelle difficoltà esterne ed interne, nelle persecuzioni, nei processi, nella vita di ogni giorno. Negli Atti leggiamo: “La Chiesa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma della consolazione (paraclesis!) dello Spirito Santo” (At 9, 31).

Dobbiamo ora tirare da ciò una conseguenza pratica per la vita. Bisogna diventare noi stessi dei paracliti! Se è vero che il cristiano deve essere “un altro Cristo”, è altrettanto vero che deve essere un “altro Paraclito”. Lo Spirito Santo non solo ci consola, ma ci rende anche capaci di consolare a nostra volta gli altri. La consolazione vera viene da Dio che è il “Padre di ogni consolazione”. Viene su chi è nell'afflizione; ma non si arresta in lui; il suo scopo ultimo è raggiunto quando chi ha sperimentato la consolazione se ne serve per consolare sua volta, il prossimo, con la consolazione stessa con cui lui è stato consolato da Dio. Non contentandosi, cioè, di ripetere sterili parole di circostanza che lasciano il terreno che trovano (“coraggio, non avvilirti; vedrai che tutto si risolverà per il meglio”!), ma trasmettendo l'autentica “consolazione che viene dalle Scritture”, capace di “tener viva la speranza” (cfr. Rom 15,4). Così si spiegano i miracoli che una semplice parola o un gesto, posti in clima di preghiera, sono capaci di operare accanto al capezzale di un ammalato. È Dio che sta consolando quella persona attraverso di te!

In occasione dell'Anno Sacerdotale, in vari interventi (a partire dalla predicazione domenicale) ho ripreso questo argomento, ponendomi in ascolto della Parola, di Autori qualificati, della vita del popolo cristiano.

Ho anche ricevuto numerosi feedback circa la natura, i compiti, gli atteggiamenti, le osservazioni propri dei ministri ordinati della e nella Chiesa (diaconi, presbiteri, vescovi): si vede proprio che i cristiani hanno davanti agli occhi e nel cuore la sorte e la santità dei ministri ordinati!

Visto che l'anno dedicato particolarmente alla santificazione dei ministri ordinati sta per concludersi, raccoglierò qua e là alcuni spunti che via via mi sono stati offerti. Non sono i più importanti che si possano dire, anzi credo proprio che i più importanti siano già stati detti: queste sono solo "briciole" - "quisquilie" dirà qualcuno -, che però su una tavola imbandita, anche la migliore, attirano l'occhio e rovinano la bellezza, la bontà, la verità di ciò che vi sta sopra.



Oggi mi soffermo su un fenomeno spiacevole: diversi cristiani "impegnati" nella comunità cristiana hanno la percezione di vivere dei fenomeni di vero e proprio "rimbalzing" (neologismo) da parte dell'autorità ecclesiastica. Con questa espressione - che in parte si rifà alla definizione pur fluttuante di mobbing, ma senza quella dimensione di aggressività attiva - vogliono dire che non è raro trovare dei "capi" della comunità (a diverso livello) che non affrontano direttamente le questioni pressanti, centrali, nodali che pure vengono suscitate da molti cristiani, bensì le ignorano, le fanno rimbalzare contro un muro di gomma, rimandano, formano "commissioni" senza potere, inventano cavilli degni del dottor Azzeccagarbugli di manzoniana memoria...

In fondo chi si accorge delle improcrastinabili questioni che toccano oggi la comunità cristiana e crede dal profondo del cuore a ciò che dice, propone, porta avanti con passione... si trova disarmato, poiché c'è una pressione non manifesta, ma reale, che taglia le gambe dell'entusiasmo, della creatività, della volontà di essere attivi, propositivi, co-protagonisti. Tanti si allontanano dall'impegno nella comunità cristiana; tanti si raffreddano; tanti lasciano cadere le loro migliori idee ed energie, e si appiattiscono sulla "normalità". E così il gioco di chi ama il "rimbalzing" è fatto; loro si lavano la coscienza dicendo: «Se ne sono andati... Non propongono nulla... Chissà perché se la sono presa... Non sanno dire bene le cose...». E così la "questione" è rimbalzata via ed è stata rovesciata su qualcun'altro!



don Chisciotte

L'arma disarmante

di Massimo Gramellini

La settimana scorsa, la maestra napoletana Maria Marcello si era tuffata in una zuffa di bambini per separarli ed era stata colpita da un calcio che le aveva fracassato la milza. Al risveglio dall'operazione, le sue prime parole erano state irrituali: voleva rivedere il piccolo che l'aveva mandata all'ospedale e perdonarlo. Ieri il bambino le ha spedito una lettera di scuse, un mazzo di fiori e il vangelo della sua prima comunione. Libro Cuore? Può darsi.

Per me quella maestra è una rivoluzionaria e ha raccolto il frutto di un gesto non buonista, ma anticonformista. Esiste oggi qualcosa di più banale che vendicarsi delle offese subìte? Pare sia rimasta l'unica regola morale accettata da tutti: ogni torto va riequilibrato con un'offesa di segno uguale e contrario. Centinaia di film gialli e di curve ultrà non fanno che ripetercelo di continuo: l'onore, la giustizia e il rispetto si ottengono soltanto con la ritorsione. Un bambino ti spacca la milza? Che sia cacciato dal consesso urbano, umiliato lui e la sua famiglia. Così il bimbo crescerà avvelenato contro il mondo, in preda a un astio vittimista che i familiari non mancheranno di alimentare. Poi arriva una maestra da 1100 euro al mese che dice: «Ti perdono». E lo scenario di colpo si ribalta. Perché come fai a sentirti ancora vittima della società, quando la «tua» vittima ti chiede di stringerle la mano? Il perdono è l'arma disarmante. Non puoi farci nulla: ti vince, ti conquista, ti redime. Ed è una medicina che alleggerisce il cuore di chi lo riceve, ma ancor più quello di chi lo offre.
6/5/2010

I Mondiali e la "tratta": no delle chiese. La prostituzione in Sud Africa durante i prossimi mondiali.

di Marco Tosatti

Le esperienze dimostrano che ogni grande evento sportivo, attirando numerosi turisti, si traduce in un aumento della domanda di prestazioni sessuali. Per i Mondiali di Calcio 2010 (11 giugno - 11 luglio 2010), si prevede che saranno centinaia di migliaia i tifosi di calcio che arriveranno in Sud Africa: le organizzazioni a tutela dei bambini e dei diritti umani hanno avvertito che la situazione potrebbe peggiorare con il contrabbando di adulti e bambini che dall'Asia, dall'Europa orientale e da altre parti dell'Africa giungeranno nel Paese per alimentare l'industria del sesso. In questa occasione, la Chiesa cattolica si prepara a ospitare le squadre e i visitatori, naturalmente, ma implementa anche varie iniziative per combattere il rischio di sfruttamento (vedi il sito Churchontheball.com). Il Cardinale Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban, spiega le attività che la Chiesa mette in campo in favore dei diritti umani, sostenendo che l'iniziativa di una più ampia distribuzione di preservativi non può funzionare nell'arginare la diffusione dell'HIV: «E' come dire che l'unico modo per curare l'alcolismo è quello di dare bevande gratuite a tutti gli alcolisti». Eminenza, qual è il suo parere sul rischio che in occasione della Coppa del Mondo possa aumentare la prostituzione minorile? Card. Napier: Esistono dei segnali che dimostrerebbero come i cartelli e le mafie dedite alla tratta degli esseri umani si sono già messi in azione. Così come crescenti sono anche le segnalazioni di bambini scomparsi e i casi di ragazzini e giovani adulti che restano intrappolati in opportunità lavorative "troppo belle per potervi resistere". Ci sono attività specifiche che la Chiesa vorrebbe promuovere per questo evento? Card. Napier: Stiamo facendo molto per sensibilizzare le persone, utilizzando
Perché sono cristiano?

di Marie-Dominique Chenu op

Nella misura in cui la fede della mia infanzia è diventata adulta, cioè consapevole di se stessa e del proprio contenuto al di là della ingenua spontaneità, è diventata per ciò stesso "critica". Non soltanto ho cercato di discernere i motivi del mio credere, ma ho provato piacere a nutrire la mia fede d'intelligenza, in modo tale che essa si tendesse fra due poli: un acconsentire amorevole alla Parola di Dio e un rimettere sempre tutto in questione. La fede genera allora una "teologia", cioè una conoscenza del mistero nella quale la ricerca s'intreccia alla certezza, in una dialettica permanente. Più sono affascinato dal mio acconsentire, più la mia curiosità è stimolata dall'amore del mistero che così mi ha conquistato. Questa strana forma di conoscenza si esercita in tutto il campo dell'economia giudeo-cristiana, in un messianismo che comincia con la vocazione di Abramo e continua giorno dopo giorno a partire dalla resurrezione di Cristo, che lo prolunga al di là di ogni previsione per opera dello Spirito inviato da Lui. Il centro nevralgico di questo "mistero" si trova, non in una qualche verità eterna, ma in un "evento": Dio entra nella storia, ma in un modo tale che l'oggetto della mia comunione divinizzante non è direttamente Dio in se stesso, nella sua trascendenza, ma un Uomo-Dio. All'intervistatore che gli domandava chi era Dio per lui, l'arcivescovo ortodosso d'Inghilterra rispose categoricamente: È un uomo, fin nella sua dimensione politica, secondo la stessa logica dell'incarnazione. Così, è un uomo che m'insegna come l'uomo può diventare Dio (Clemente d'Alessandria, III sec.). Se dunque io sono cristiano, non è perché credo in un Dio-Dio, come un essere assoluto, eterno, immutabile, inconoscibile. Il limite degli enunciati del Concilio Vaticano I è quello di essere completamente guidati dall'ossessione di provare l'esistenza di Dio con motivazioni che avrebbero dovuto confutare l'ateismo allora agli inizi. In quella metafisica sacra si sviluppava un deismo autoritario, nel quale la religione cristiana difficilmente poteva evitare di trasformarsi in un apparato ideologico, in contrasto con la storia e con l'autonomia dell'uomo. Lo si vide presto: Dio diventava insopportabile agli uomini, se non si faceva uomo. Indizio di questo mutamento di prospettiva: non si parlava più di teologia, ma di "teodicea", una teologia senza mistero, se così si può dire. Il Concilio Vaticano II ritrova la presenza umana di Dio; questo è senz'altro il comune denominatore di tutte le sue posizioni, a cominciare dalla sua stessa costituzione. La resistenza che la sua ispirazione e il suo dinamismo, ancor più dei suoi decreti, incontrano oggi in alcune forme di integralismo, viene proprio da questo imperialismo, sotteso alla Chiesa, a partire da Costantino fino alla Santa Alleanza. Ecco che ritorna il Vangelo, la buona notizia dell'Uomo-Dio; la parola ritorna più di duemila volte nei testi, mentre nel Vaticano I era pronunciata solo due volte. Si realizza l 'annuncio del profeta Sofonia che mette nella bocca di Jahvè queste parole: Mi sono innamorato di voi, e voglio venire a vivere con voi: allora danzerò di gioia. Che scompaia, secondo la decisione di Giovanni XXIII, la Chiesa degli anatemi! Se l'istituzione è necessaria, anche con la sua dimensione politica, secondo la logica stessa dell'incarnazione, allora essa non sarà altro che un servizio, un insieme di "ministeri". Ecco perché e come io sono cristiano, adepto di un Dio coinvolto nei mutamenti del mondo, nel nodo del mistero di Dio e del mistero dell'uomo, in una Chiesa che traccia la sua strada nell'uomo (Giovanni Paolo II).

in “Koinonia” n. 352 del maggio 2010

La Chiesa cattolica ha bisogno di riforma totale

di mons. Pat Power, vescovo ausiliare di Camberra

L'attuale crisi che affronta la Chiesa cattolica (...) Non è solo una questione del pentimento individuale, ma è necessaria una riforma sistemico-totale delle strutture della Chiesa. Un ambiente ecclesiastico che ha consentito tale comportamento aberrante non può più essere tollerato. Il Vescovo Geoffrey Robinson, nel suo libro “Confronting Power and Sex in the Catholic Church” del 2007, è giunto alla convinzione incrollabile che all'interno della Chiesa cattolica ci deve essere assolutamente un profondo e duraturo cambiamento. Difficilmente passa un giorno senza che senta un grido dal cuore per tale cambiamento dal popolo che ama veramente la Chiesa, giovani e vecchi, uomini e donne, laici, sacerdoti e religiosi. Durante questo Anno Sacerdotale, molti dei miei colleghi in tutta l'Australia chiedono a gran voce una leadership credibile da parte della gerarchia che si senta coinvolta coinvolge al di là di semplici parole. (...) Eppure, spesso le persone sentono che nessuno ascolta le loro preoccupazioni. I Gruppi che invocano la riforma sono regolarmente respinti come fomentatori di disordini con poco amore per laChiesa, mentre in realtà i loro cuori sono spezzati per la Chiesa, perché vedono che la Chiesa si sta allontanando sempre più dal messaggio di Gesù. Forse questa crisi che ha portato tutti noi a rinvenire ai nostri sensi.

Nel 1996, ho tenuto un discorso nel quale ho espresso le mie speranze per la Chiesa Cattolica. Erano: a) una Chiesa più umana; b) una Chiesa più umile; c) una Chiesa meno clericale; d) una Chiesa più inclusiva (e quindi veramente più cattolica); e) una Chiesa più aperta; f) una Chiesa che trova l'unità nella diversità; g) una Chiesa che scopre la sua intera tradizione; h) una Chiesa che riflette realmente la persona di Gesù e dei Suoi valori.

Ho ribadito queste speranze molte volte, anche al Sinodo dei Vescovi dell'Oceania a Roma nel 1998 alla presenza di Papa Giovanni Paolo II, del futuro Papa Benedetto XVI e dei miei fratelli vescovi. Certamente tali aspirazioni sono ancora più urgenti oggi. Il Concilio Vaticano II (1962-65) chiamato da Papa Giovanni XXIII ha fornito molte opportunità di riforma dando importanza ai laici come parte del popolo di Dio, impegnandosi con il mondo contemporaneo, le altre Chiese e le Religioni non-cristiane, promuovendo la libertà religiosa, incoraggiando una maggiore partecipazione alla liturgia, consentendo a tutti di avere un rapporto più profondo con Dio. Purtroppo, in questi giorni noi siamo probabilmente più circospetti quanto agli “eccessi che derivano dal Concilio Vaticano II" e avvertiti quanto alla necessità di una "riforma della riforma" riguardo alla liturgia o alla “re-interpretazione del Concilio Vaticano II”. La riforma di cui la Chiesa ha bisogno oggi richiederà molto di più che contentarsi di "ritoccare i bordi". Le questioni che riguardono la natura autoritaria della Chiesa, il celibato obbligatorio per il clero, la partecipazione delle donne nella Chiesa, l'insegnamento sulla sessualità in tutti gli aspetti non possono essere ignorati. L'ascolto deve essere un elemento chiave della riforma e, alle volte, ciò richiederà ascoltare verità sgradevoli. Occorre riconoscere che tutta la saggezza non risiede esclusivamente nell'odierna leadership tutta maschile della Chiesa e che la voce dei fedeli deve essere ascoltata. A Pasqua ho fatto notare che erano in gran parte i discepoli di Gesu' di sesso femminile che stavano presso di lui al Calvario, che Maria Maddalena è stata la prima testimone della risurrezione e che avrebbe potuto legittimamente essere chiamata apostolo, essendo lei incaricata di portare la buona novella ai altri seguaci di Gesù. Mi sono domandato ad alta voce se la Chiesa sarebbe nel suo stato attuale di crisi se le donne avessero fatto parte del processo di decisione nella vita della Chiesa. Ci possono essere delle persone pronte a discutere il mio punto di vista, ma vorrei riaffermare che vi è un intero corpo di fedeli cattolici che dicono "ne ho abbastanza" e che tutti noi dobbiamo cogliere questa occasione per permettere alla Chiesa di essere al meglio di sé nel portare il messaggio di Gesù ai suoi membri e al resto della società.

in “Koinonia-Forum” - n. 204 del 9 maggio 2010

originariamente pubblicato in “The Times Camberra” del 23 aprile 2010

La nuova Chiesa? È del Terzo Mondo

di Giacomo Galeazzi

Il Sacro Collegio modello Onu. Per il quinto anniversario di pontificato, Benedetto XVI ha indicato l'esigenza di «un collegio cardinalizio che potrebbe essere chiamato in termini orientali quasi il sinodo del Papa, la sua compagnia permanente che lo aiuti, l'accompagni, lo affianchi nel suo lavoro». Per adeguarsi all'epoca «global», quindi il «senato di Sua Santità» avrà più volti stranieri a scapito dell'antica prassi di conferire automaticamente la porpora al primo concistoro utile ai titolari delle diocesi italiane tradizionalmente cardinalizie come Torino e Firenze. «Questo riconoscimento non è più scontato al cento per cento - sottolineano nei Sacri Palazzi -. La geopolitica della Chiesa è in continua evoluzione e un secolo fa la porpora era «dovuta» per diocesi italiane che non sono più cardinalizie come Imola, Perugia, Ravenna, Benevento, Viterbo». Per il pontificato globalizzato di Benedetto XVI il Sacro Collegio deve garantire maggiore rappresentanza alle Chiese emergenti del Terzo Mondo, mentre è ancora troppo sbilanciato sull'Italia e per adeguarlo ai tempi vanno messi in discussione consolidati automatismi. L'estensione culturale e geografica della Chiesa universale (che oggi conta 4500 vescovi) non consente più raffiche di neo-cardinali italiani. Per fare in modo che il Sacro Collegio sia una fotografia più fedele del XXI secolo ci sono due strade: internazionalizzare la Curia diminuendo gli italiani nei ruoli cardinalizi e ridurre in Italia le sedi i cui titolari ricevono subito la porpora. (...). Benedetto XVI non vuole che si spenga la fiamma della fede cristiana in Europa, ma ci tiene ad accentuare l'universalità della Chiesa, a valorizzare le Chiese emergenti dell'Africa, dell'Asia, dell'America Latina e a non dare un'impostazione incentrata esclusivamente sull'Occidente». Insomma, le cattedre «storiche» non garantiranno più automaticamente la berretta cardinalizia (...) Ora, in pratica, l'unico scranno che assicura «ipso facto» il cardinalato è quello occupato dai prefetti delle congregazioni». Ossia, dai «ministri di serie A» della Santa Sede. Le creazioni cardinalizie stanno diventando di «totale discrezione del Pontefice», contrariamente alla prassi invalsa nei secoli in virtù della quale hanno subito ricevuto la porpora al primo concistoro utile tutti i titolari delle sedi cardinalizie italiane. Molti paesi del Terzo Mondo rappresentano ormai il «granaio» della Chiesa mondiale per vocazioni e numero fedeli, ma la loro forza d'urto si ferma alle porte del Sacro Collegio. Anche qui, come nella lotta agli abusi, Benedetto XVI intende voltare pagina. (...) Nelle diverse zone del pianeta e nelle varie correnti ecclesiastiche, gli aspiranti cardinali sono molti, perciò alcuni resteranno al palo per non sbilanciare troppo la mappa delle gerarchie ecclesiastiche da cui uscirà la Chiesa di domani. Il Pontefice deciderà probabilmente di derogare al tetto massimo stabilito dalle norme vigenti di 120 cardinali elettori.


in “La Stampa” dell'8 maggio 2010




Il peso delle parole

di Bernard Rivière

Leggendo l'Ecrit intérieur di Jacques Noyer di qualche settimana fa [ndr. “Bisogna credere alla resurrezione?” del 23 aprile 2010], mi è sembrato utile offrire qualche chiarimento sul linguaggio, in particolare sulle parole usate nella Chiesa cattolica oggi. Fortunatamente, noi sappiamo leggere, scrivere, discutere, dialogare, polemizzare. Le idee ci abitano, sappiamo valutare il peso delle parole sentite o lette, valutare la finezza delle immagini, registrare l'impatto dei colori. Il nostro cervello percepisce e registra ogni giorno migliaia e migliaia di segni, di messaggi, di impulsi diversi. Molto spesso, troppo spesso forse, restiamo schiacciati dalla valanga visiva o sonora di questi messaggi. Li facciamo nostri, li rigettiamo, li ignoriamo? La nostra scelta non importa molto, qualunque essa sia, essi si imprimono e ci modellano e in maniera più o meno insidiosa trasformano il nostro giudizio e i nostri atti. Ma cosa succedeva 200, 300 anni fa, o prima ancora? La stragrande maggioranza delle persone non sapeva né leggere né scrivere. Non c'erano manifesti sui muri delle città e dei paesi, non c'erano giornali (o quasi), non c'era pubblicità, ecc. Le “notizie” passavano di bocca in bocca, di casa in casa, avare di parole, che però, per il fatto stesso di essere povere e semplici, avevano un grande impatto sulle popolazioni poco istruite. Il clero godeva di una certa istruzione e quindi si sforzava, nelle campagne, di trasmettere in termini adeguati qualche rudimento della fede cristiana. Quei preti, certamente generosi, hanno dato ai loro fedeli ciò che loro stessi avevano ricevuto dalle generazioni precedenti. Nel Medio Evo, le vetrate e le sculture delle nostre chiese e cattedrali raccontavano i grandi misteri della fede, le scene bibliche, le storie di certi santi locali. I parroci, i monaci di ogni ordine che percorrevano le campagne, predicavano, con consapevolezza, la buona notizia con le parole e i concetti propri della loro epoca. È stato così per secoli. La fede fu incarnata in un tempo determinato, con certe parole, con il peso delle parole. Leggendo la Bibbia, facilmente si scopre che il Libro di Isaia non è dello stesso tipo del Libro dei Proverbi o del Vangelo di Luca. Ad ogni epoca della vita corrispondono delle parole, delle immagini, dei concetti, che “dicono” un periodo. Alcuni esempi molto semplici possono chiarire questa affermazione. Quando Giovanni (1,29) fa dire a Giovanni Battista, parlando di Gesù: “Ecco l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”, sapeva che i suoi lettori (o ascoltatori) erano in grado di collegare questa espressione con il libro dell'Esodo (capitolo 12,1 e seguenti), dove si parla delle offerte che il popolo di Israele doveva fare a Pasqua. Chi, ai nostri giorni, sentendo durante la messa il prete che mostra l'ostia e dice “Ecco l'Agnello di Dio”, capisce cosa c'entri quell'agnello in una chiesa di periferia stretta in una foresta di casermoni? Chi conosce la ragione per cui il vescovo ha nelle mani un grosso bastone (il pastorale) durante le grandi cerimonie religiose? Chi può dire che cosa significa la nozione di “resuscitare dai morti” per una coscienza di oggi? Chi, davanti ai drammi che sconvolgono il mondo, può dire senza batter ciglio “Dio Padre Onnipotente”? (...) Allora, non bisogna più aprire la Bibbia e cancellare per sempre le parabole di Gesù? Il vescovo dovrà indossare un completo con giacca e cravatta per assomigliare al suo popolo riunito attorno alla cattedra per la festa di Pasqua? Affermeremo che Gesù non è resuscitato? O che Dio non c'entra niente con quello che succede nel mondo? Che la Chiesa deve essere messa sullo stesso piano della setta animista sperduta in qualche giungla dell'Amazzonia? Tali domande poste in questo modo, come molte altre, hanno una evidente risposta. Chi vi risponderebbe in maniera affermativa? Sembra importante e urgente che i cristiani, e con questa parola intendiamo tutti i cristiani, che si tratti del papa, dei padri o delle madri di famiglia, dei giovani o dei vecchi, dei vescovi, degli uomini o delle donne o non so chi altro, osino porsi con lucidità questa domanda: la fede in Gesù Cristo viene veramente proposta agli uomini e alle donne del 2010, a degli esseri che sono quello che sono, ricchi delle loro ricchezze, poveri delle loro povertà, che desiderano sentire delle parole udibili e comprensibili per loro oggi? In nome di una sedicente tradizione fatta di sedimenti accumulati, accatastati gli uni sugli altri nel corso dei secoli, non dimentichiamo forse la meraviglia della Tradizione, della ricerca di Dio descritta lungo tutto il Primo e il Nuovo Testamento? Questa Tradizione è viva, evolve pur restando fedele e dinamica, aperta al mondo in fedeltà alla Parola. La Parola reca in sé un peso di vita, un peso di saggezza e di verità. Ma bisognerà, se vogliamo trasmettere a nostra volta la Tradizione della fede alle generazioni future, accettare di spogliarci dei nostri linguaggi di un'altra epoca. Se ci rifiutiamo di cambiare radicalmente certe parole usate, diventate prive di valore e di peso oggi, è evidente che il “testimone” non circolerà più. Questa conversione è divenuta urgente.

in “www.temoignagechretien.fr” dell'11 maggio (traduzione: www.finesettimana.org)

Parole e volgarità - Così degrada la nostra lingua

L'italiano e i registri violati

L'insegnamento della lingua italiana e il documento diffuso dalle accademie della Crusca e dei Lincei

Ha avuto giusta risonanza il documento diffuso dalle accademie della Crusca e dei Lincei sull'insegnamento della lingua italiana, che i giovani conoscono malissimo. Ma uno dei fatti che denunciano la crisi mi pare la mancanza di selettività riguardo ai cosiddetti registri. Questa parola, che i linguisti moderni hanno tratto dalla terminologia musicale, indica tutte le varietà di una lingua, impiegate a seconda del livello culturale e sociale dell'interlocutore e del tipo di situazione. Si parla di registro aulico, colto, medio, colloquiale, familiare, popolare, ecc. Sappiamo che ci si esprime diversamente parlando a un re o a uno straccivendolo, in un'assemblea o all'osteria, a un superiore o a un compagno di bisbocce; o anche a un vecchio o a un bambino. Cambia la scelta delle parole: sventurato, sfortunato, scalognato, iellato, sfigato hanno, più o meno, lo stesso significato, ma appartengono a registri diversi. Cambia la sintassi: nel Nord il passato remoto si usa solo nei registri più alti, e l'indicativo tende a sostituire il congiuntivo; gli per «a lei» è condannato, ma usato a livello colloquiale; i dialettalismi, che insaporiscono la lingua, sono inopportuni ai livelli alti. Chi non sa usare i registri crea situazioni d'imbarazzo, e può persino offendere, quasi ricusasse le differenze tra le categorie e le funzioni sociali. Certo, si può far violenza ai registri per polemica o per esibizionismo, ma anche in quel caso occorre conoscerli; non ci si può certo appellare allo stile postmoderno, che ha già portato più equivoci che chiarimenti. I giovani sono quelli che sembrano ignorare di più i registri, e con ciò stesso si mettono in condizione d'inferiorità, perché mostrano di non aver rilevato, nel parlare, che la scelta linguistica denota la loro attitudine a posizionarsi rispetto ai propri simili, e a riconoscere il ruolo o i meriti degli interlocutori.

Il rispetto dei registri è uno di quegli atti di cortesia che rendono più scorrevoli i rapporti umani. (...) La nostra classe politica, che in tempi lontani annoverava ottimi parlatori e oratori, tende sempre più ad abbassare il registro, perché pensa di conquistare più facilmente il consenso ponendosi a un livello meno elevato. È la tentazione, strisciante, del populismo. Naturalmente questo implica il degrado anche delle argomentazioni, perché, ai livelli alti, il linguaggio è molto più ricco e duttile. Le conseguenze sono disastrose: da una parte si finisce per ridurre qualunque dibattito a uno scontro fra slogan contrapposti, dall'altra si favorisce la trasformazione di contrasti d'opinione in alterchi, nei quali le passioni, o i preconcetti, annullano il confronto delle idee. Non si tiene conto del fatto che la capacità di usare il registro alto (...) è uno degli elementi che contribuiscono alla «maestà», poca o tanta, di un personaggio politico. Il quale, mettendosi invece al livello dell'ascoltatore medio, sarà magari guardato con simpatia, ma perderà qualunque aura: cosa che alla lunga può provocare perdita di autorità. Uno degli elementi costitutivi dei registri più bassi è il turpiloquio. Purtroppo il pessimo costume di abbandonarsi al turpiloquio (a partire dal «me ne frego» fascista) si sta diffondendo ovunque, molto meno disapprovato della diffusione degli anglismi, che se non altro non feriscono il buon gusto. Forse si teme che questa disapprovazione sia considerata bacchettoneria; si dovrebbe invece formulare una condanna esclusivamente estetica. Anche qui, molti giovani si mettono alla testa del peggioramento.  (...)


Cesare Segre

«Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente, non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore per un giovane prete. Eppure è l'unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo.

Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del giovedì santo, non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale.

Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie con l'aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di camice d'oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d'argento(mons. Tonino Bello).



Questi riferimenti, semplici ed espliciti, allo stile di Gesù, il Figlio di Dio, pronunciano una parola chiara sulla qualità evangelica di certi modi di esprimere oggi la propria spiritualità.


don Chisciotte


 



 

Rabbia repressa nemica del cuore

Chi ha problemi cardiovascolari e trattiene la rabbia corre più rischi di avere un infarto

Chi soffre di malattie cardiovascolari farebbe bene a non sottovalutare le dinamiche con cui gestisce i propri stati emotivi, in particolar modo la rabbia. Secondo uno studio olandese, pubblicato online sull'American Journal of Cradiology, le persone con problemi di cuore che trattengono la rabbia rischiano, infatti, ben tre volte di più di avere un infarto o di andare incontro a eventi fatali. I ricercatori olandesi, coordinati da Johan Denollet della Tilburg University, hanno preso in considerazione 644 pazienti con problemi cardiaci e li hanno seguiti mediamente per sei anni. In questo arco di tempo il 20 per cento dei soggetti considerati è andato incontro ad un evento cardiaco grave o addirittura fatale. Il 27 per cento del campione era costituito da individui con «personalità di tipo D», ovvero persone che hanno la tendenza a sperimentare emozioni negative e soprattutto a inibirne l'espressione nelle interazioni sociali. In pratica la descrizione del tipo D corrisponde a quello che comunemente appare come un individuo cronicamente stressato, sempre pervaso da preoccupazione e insicurezza, che alberga sentimenti di tensione, ansia, rabbia e tristezza. Andando ad analizzare la relazione tra come i pazienti gestivano la rabbia e gli incidenti cardiovascolari, gli esperti olandesi hanno chiaramente notato che i pazienti che avevano la tendenza a reprimere la rabbia erano quelli più a rischio di eventi cardiaci gravi, se non addirittura fatali. Non solo, hanno evidenziato che ben il 20 per cento dei pazienti con una personalità di tipo D presentava una notevole tendenza a reprimere la rabbia contro il 4 per cento dei pazienti che non aveva una personalità di tipo D. Studi precedenti hanno chiaramente evidenziato che gli scatti eccessivi di ira possono far male al cuore perché sono in grado di indurre una sorta di «strangolamento» dei vasi che lo ossigenano e quindi favorire un infarto. L'attuale ricerca mette, invece, in risalto gli effetti deleteri che derivano dal modo opposto di gestire le proprie emozione, cioè di reprimerle. «La rabbia è una delle emozioni che ci dice che quello che sta accadendo non è in sintonia con le nostre aspettative
L'alleluia pasquale

La meditazione della nostra vita presente deve svolgersi nella lode del Signore, perché l'eterna felicità della nostra vita futura consisterà nella lode di Dio; e nessuno sarà atto alla vita futura, se ora non si sarà preparato. Perciò lodiamo Dio adesso, ma anche innalziamo a lui la nostra supplica. La nostra lode racchiude gioia, la nostra supplica racchiude gemito. Infatti ci è stato promesso ciò che attualmente non possediamo; e poiché è verace colui che ha promesso, noi ci rallegriamo nella speranza, anche se, non possedendo ancora quello che desideriamo, il nostro desiderio appare come un gemito. E' fruttuoso per noi perseverare nel desiderio fino a quando ci giunga ciò che è stato promesso e così passi il gemito e gli subentri solo la lode. La storia del nostro destino ha due fasi: una che trascorre ora in mezzo alle tentazioni e tribolazioni di questa vita, l'altra che sarà nella sicurezza e nella gioia eterna. Per questo motivo è stata istituita per noi anche la celebrazione dei due tempi, cioè quello prima di Pasqua e quello dopo Pasqua. Il tempo che precede la Pasqua raffigura la tribolazione nella quale ci troviamo; invece quello che segue la Pasqua, rappresenta la beatitudine che godremo. Ciò che celebriamo prima di Pasqua, è anche quello che operiamo. Ciò che celebriamo dopo Pasqua, indica quello che ancora non possediamo. Per questo trascorriamo il primo tempo in digiuni e preghiere. L'altro, invece, dopo la fine dei digiuni lo celebriamo nella lode. Ecco perché cantiamo: alleluia. Infatti in Cristo, nostro capo, è raffigurato e manifestato l'uno e l'altro tempo. La passione del Signore ci presenta la vita attuale con il suo aspetto di fatica, di tribolazione e con la prospettiva certa della morte. Invece la risurrezione e la glorificazione del Signore sono annunzio della vita che ci verrà donata. Per questo, fratelli, vi esortiamo a lodare Dio; ed è questo che noi tutti diciamo a noi stessi quando proclamiamo: alleluia. Lodate il Signore, tu dici a un altro. E l'altro replica a te la stessa cosa. Impegnatevi a lodare con tutto il vostro essere: cioè non solo la vostra lingua e la vostra voce lodino Dio, ma anche la vostra coscienza, la vostra vita, le vostre azioni. Noi lodiamo il Signore in chiesa quando ci raduniamo. Al momento in cui ciascuno ritorna alle proprie occupazioni, quasi cessa di lodare Dio. Non bisogna invece smettere di vivere bene e di lodare sempre Dio. Bada che tralasci di lodare Dio quando ti allontani dalla giustizia e da ciò che a lui piace. Infatti se non ti allontani mai dalla vita onesta, la tua lingua tace, ma la tua vita grida e l'orecchio di Dio è vicino al tuo cuore. Le nostre orecchie sentono le nostri voci, le orecchie di Dio si aprono ai nostri pensieri.


Dai «Commenti sui salmi» di sant'Agostino

(Sal. 148, 1-2; CCL 40, 2165-2166)

Se il corpo (come sottolinea la concezione biblica) è il crocevia delle relazioni del singolo con gli altri, con la società, con il creato e con Dio stesso, ciò ha una ricaduta precisa sull'esistenza di ciascun uomo: dovremmo cioè ricordare che noi siamo anche la storia del nostro corpo, a partire dalla sua origine, la condizione fetale. La nostra storia personale non data semplicemente dal giorno in cui siamo "venuti alla luce", in cui siamo stati partoriti, ma risale al concepimento e ai mesi di vita intrauterina! Il corpo è portatore di una sua memoria profonda: esso conserva tracce invisibili ma realissime di ciò che l'uomo ha vissuto, provato e sofferto. Questa memoria viene fatta emergere e "portata in superficie" dalle esperienze che ciascuno vive: il corpo, infatti, è il libro del tempo, il libro su cui restano registrate emozioni, sofferenze ed esperienze di un passato che non è dietro a noi, ma dentro di noi; le posture del nostro corpo non sono innocenti, ma sono il frutto di una storia, sono rivelazione ed eloquenza. Il nostro corpo porta inscritta in sé la memoria della nostra origine, del grembo da cui proveniamo. Posture e gestualità del nostro corpo, il modo con cui lo trasciniamo o lo portiamo ben eretto, il nostro essere incurvati o ciondolanti, il modo di camminare, le rigidità, sono un linguaggio che riflette il nostro psichismo e i nostri vissuti e che attende interpretazione. Il corpo parla, e parla un linguaggio che anticipa e trascende l'espressione verbale. Merleau-Ponty sostiene che noi impariamo la nostra lingua materna attraverso il corpo, non mentalmente, e Nietzsche giunge ad affermare: "Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza".

E dunque essenziale ascoltare il proprio corpo. La vigilanza e la preghiera trovano qui il loro umanissimo fondamento (che certo non può esaurirle, ma che pure è essenziale): ascoltare il proprio corpo consente di decifrare anche il corpo dell'altro, o quantomeno di porsi in una condizione in cui si può entrare in comunione con la storia dell'altro, che sempre affiora nel suo corpo.


Luciano Manicardi, Il corpo, 21-22

Dal «Trattato sulla Trinità»

di sant'Ilario

Io sono consapevole che tu, o Dio Padre Onnipotente, devi essere il fine principale della mia vita, in maniera che ogni mia parola, ogni mio sentimento, esprima te.

L'esercizio della parola, di cui mi hai fatto dono, non può avere ricompensa più ambita che quella di servirti facendoti conoscere, di mostrare a questo mondo che ti ignora o all'eretico che ti nega, che tu sei Padre, Padre cioè dell'Unigenito Dio. Questo solo è il fine che mi propongo.

Per il resto bisogna invocare il dono del tuo aiuto e della tua misericordia, perché tu col soffio del tuo Spirito possa gonfiare le vele della nostra fede e della nostra lode e guidarci sulla rotta della proclamazione intrapresa. Non viene meno infatti alla sua parola colui che ci ha fatto questa promessa: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto» (Mt 7, 7).

Allora noi, poveri come siamo, ti chiederemo ciò che ci manca e scruteremo con zelo tenace le parole dei tuoi profeti e dei tuoi apostoli, e busseremo a tutte le porte che sbarrano il riconoscimento della verità. Ma dipende da te concedere l'oggetto della nostra preghiera, essere presente a quanto si chiede, aprire a chi bussa.

La natura è presa da una strana pigrizia e non possiamo capire ciò che ti riguarda per la debolezza della nostra intelligenza. Ma lo studio dei tuoi insegnamenti ci mette in grado di intendere la tua divinità, e la sottomissione alla fede ci innalza al di sopra della conoscenza naturale. Attendiamo dunque che tu dia slancio agl'inizi di questa impresa, causa per noi di trepidazione, che la consolidi con crescente successo e ci chiami a partecipare dello spirito dei profeti e degli apostoli, perché possiamo capire le loro parole nello stesso senso con cui essi le hanno pronunziate e le interpretiamo nel loro significato.

Parleremo, infatti, di quanto essi predicarono per tua ispirazione. Annunzieremo cioè te, Dio eterno, Padre dell'eterno e unigenito Dio. Confesseremo che tu solo sei senza nascita con l'unico nostro Signore Gesù Cristo, generato da te fin dall'eternità e da non annoverarsi fra gli dèi. Generato da te, che sei l'unico Dio e non da diversa sostanza. Crederemo che è veramente Dio colui che è nato da te, che sei veramente Dio e Padre.

Aprici dunque l'autentico significato delle parole, e donaci luce per comprendere, efficacia di parola, vera fede. Fa' che possiamo esprimere ciò che crediamo, che proclamiamo te, unico Dio Padre, e l'unico Signore Gesù Cristo, secondo quanto ci è stato trasmesso dai profeti e dagli apostoli. Fa' che contro gli eretici, che lo negano, sappiamo affermare che tu, o Padre, sei Dio insieme al Figlio, e sappiamo predicarne senza errori la divinità.
Europol, allarme per 24 nuove droghe

"Numero record mai raggiunto prima"

Chimiche, psicoattive, "spice" ma soprattutto sintetiche. L'Osservatorio europeo passa in rassegna le nuove sostanze stupefacenti in commercio nel 2009, tutte individuate nel Nord d'Europa. Per allargare il mercato si escogitano nuove formule, e online l'Mda si spaccia per "concime"

di Giulia Cerino

Un numero record mai raggiunto prima. Sono ventiquattro le nuove sostanze stupefacenti apparse sul mercato nel solo 2009. Pasticche coloratissime o polveri cristalline. Chimiche, psicoattive o "spice". Tutte diverse ma rigorosamente sintetiche. Nove si fumano perché, anche se appartengono a quattro gruppi chimici differenti, sono composte da cannabinoidi. Le altre si assumono per bocca, come l'ecstasy. Le ultime due droghe, invece, sono a base di sostanze farmacologiche, quelle contenute nei classici medicinali. Denunciati dal sistema d'allerta dell'Unione europea, i nomi delle sostanze sono stati ufficialmente notificati nel 2009 all'Europol e appena pubblicati nel rapporto annuale dell'Osservatorio europeo delle droghe e dei tossicodipendenti (Oedt). Una rassegna, questa, che rivela numeri da capogiro: le sostanze stupefacenti individuate nel 2009 sono il doppio di quelle notificate nel 2008.

L'allarme "chimico" è scattato soprattutto nel Nord Europa, dove le nuove droghe sintetiche vengono prodotte in maggiori quantità. In testa alla classifica la Danimarca e la Germania. Ad Oslo si compra e si vende il Metamfepramone, l'Etaqualone, il Ppp e il Tma-6. A Berlino va forte l'Odt, il Jwh-250 e tre tipologie di Cp 47. Segue la Finlandia "invasa" dall'3-Fma e dalla Pregabalin. In coda la Gran Bretagna, Paese in cui il commercio si "limita" all'Hu-210 e al'JWH-398. Agli ultimi posti, il Belgio, la Svezia e la Lituania.

Disponibili in rete, queste bombe chimiche sono spesso smerciate come "legal high", vale a dire alternativa "legale" alla cocaina e all'ectasy. E anche le tecniche di marketing si rinnovano facendo spazio a nuove e ingannevoli strategie. Confezionate in barattoli con su scritto "Non per uso umano", le polverine bianche passano per "concime per piante", "sali da bagno" o  "materiali chimici di ricerca". Un modo, questo, per eludere i controlli della Polizia postale e abbattere le frontiere tra Paesi, allargando il commercio. Dalla Cina all'Italia. E' infatti recentissima la notizia dell'arrivo a Roma del nuovo stupefacente allucinogeno cinese sequestrato per la prima volta in un locale notturno. Conosciuta come Kfen, questa droga a base di chetamina ha degli effetti allucinogeni anche a distanza di alcuni giorni dall'assunzione. Un grammo di questa sostanza arriva a costare fino a 200 euro. (...)
E c'è chi infila il codice iban perfino nelle partecipazioni

Per gli sposi meglio i contanti

Tramonta la tradizionale lista di nozze, sempre più i futuri coniugi preferiscono buste con denaro sonante

Una batteria di pentole o il solito servizio da the? Non si fa più. Oggi anche i matrimoni si adeguano alla crisi economica e così, laddove una volta c'era la classica lista nozze, adesso c'è la «lista viaggi» o l'assai meno convenzionale (ma amatissima soprattutto dai più giovani) «busta» con denaro contante. E c'è persino chi infila il codice IBAN nelle partecipazioni per far capire il concetto che «cash is better». Non a caso, è un sondaggio della rivista inglese «Wedding» a sollevare il velo sui desideri degli sposini del nuovo millennio e se il 29% degli intervistati si è detto comunque favorevole alla lista nozze, un ragguardevole 27% ha optato, invece, per il «voucher luna di miele». «Chiedere soldi anziché la classica lista nozze è un fenomeno in continuo aumento

Le due maledizioni di Totti

di Massimo Gramellini

Il calcio di Francesco Totti a Mario Balotelli. Ma chi è Totti? Il sorriso da bravo ragazzo che traspare negli spot in cui lui e la moglie ripropongono Casa Vianello in versione meno alfabetizzata? Oppure il ghigno da posseduto che oscura lo schermo, mentre la regia lavora di replay sul calcione a tradimento con cui ha appena steso un avversario? E non un avversario qualsiasi, ma Balotelli, altra icona double-face: provocatore strafottente (un nero che grida «romani di m...» con accento bresciano è un sintomo inoppugnabile di integrazione) e però anche vittima emblematica del razzismo strisciante.

Chi è dunque Totti? È la prova di quanto un puledro di razza possa essere azzoppato dalle due maledizioni dell'identità italiana: la famiglia iperprotettiva e lo spirito di fazione. A trentaquattro anni, il miglior calciatore del nostro Paese resta un pupo di mamma e di curva, incapace di reggere alle pressioni del ruolo di capobranco a cui è stato issato più dal talento che dal carattere. Ingozzato di coccole, nella vita ha sofferto troppo poco per essere un leader, al punto che ogni volta che è chiamato a diventarlo sbraca.

La salvezza, per lui, sarebbe stata emigrare ad almeno mille chilometri dalle sottane della sua Roma. Perché solo lontano da quell'amore che lo vizia e lo giustifica avrebbe potuto diventare finalmente adulto. Ha scelto di non rischiare, cioè di non crescere. Ed è rimasto fermo. Fermo allo sputo con cui rinfrescò le guance del danese Poulsen agli Europei del 2004. Anche allora era stato provocato. Ma i campioni vengono sempre provocati, per definizione. Quanti insulti intimi riceverà Messi in ogni partita? L'eroe è tale se sa dominare le sue emozioni. È l'auriga di se stesso, che mette le redini ai cavalli dell'ego. Totti invece è il prodotto di una società isterica, dominata da un senso malinteso dell'onore.

Ancora ieri, prima di chiedere genericamente scusa (senza mai nominare Balotelli né Milito, colpito a freddo all'inizio del secondo tempo) aveva spiegato che la sua era stata una reazione a «offese dirette a infangare una città e un popolo intero». Un popolo offeso dal barbaro invasore, capite? Per chi non lo sapesse, si sta parlando di una partita di pallone. Ma il capitano della Roma ha preso molto sul serio il ruolo attribuitogli dai tifosi. Lui è il Gladiatore di Russell Crowe, «a un mio cenno scatenate l'inferno». La differenza è che l'eroe cinematografico incarnava i valori trasmessigli da Marco Aurelio, non da Er Patata.

"Per imparare le lezioni importanti nella vita

ogni giorno bisogna superare una paura".



Ralph Waldo Emerson
Wojtyla: la rivoluzione del corpo

di Luigi Accattoli

Finalmente un libro che racconta in dettaglio la rivalutazione della corporeità operata da papa Wojtyla: (...) indica la wojtyliana teologia del corpo come «uno dei doni più grandi» di quel Papa. Quella teologia
Laici e sacerdoti oggi

di mons. Luigi Bettazzi

Quando si parla di "vocazione", nella Chiesa si intende normalmente la chiamata (in latino vocatio) al sacerdozio, o, quasi per affinità, la chiamata alla vita religiosa. E questo corrisponde alla mentalità diffusa che i sacerdoti sono l'espressione tipica, qualificata, della Chiesa. Lo si vede oggi anche dal clamore che si fa come sfida alla Chiesa per le mancanze di suoi sacerdoti. V'è quasi l'idea che "la Chiesa sono i preti" (tanto più i vescovi), mentre la massa dei fedeli costituirebbe l'insieme dei beneficiari dell'azione (magisteriale e ministeriale) della gerarchia. Ora, è vero che la gerarchia è indispensabile per la garanzia della vita della Chiesa, per la certezza della dottrina e l'efficacia della trasmissione della grazia; e per questo dobbiamo pregare perché il Signore chiami tanti alla vita sacerdotale (e religiosa) e perché chi vi è chiamato risponda con generosità. Tutto questo però poneva la condizione del clero su di un livello di superiorità, che si traduceva poi in una specie di promozione o di difesa di "casta". Forse certi silenzi e coperture di cui si parla anche oggi corrispondono a questo atteggiamento di difesa e di riguardi, evidente anche nella espressione che si usava per il sacerdote che lasciava la sua condizione e che veniva "ridotto allo stato laicale". Il concilio Vaticano II ha richiamato una verità che è tipica della Rivelazione, che nel Nuovo Testamento parla di Gesù come l'unico mediatore tra Dio e l'umanità, il sommo ed eterno sacerdote. Se ogni cristiano, col battesimo, viene inserito in Gesù Cristo, morto e risorto, dobbiamo concludere che ogni cristiano è sacerdote, portatore del divino nel mondo e consacratore della realtà creata. Perché questo si realizzi, e in modo sempre più pieno, ci sarà bisogno di un sacerdozio ministeriale, continuatore ed estensore del ministero degli Apostoli, ma l'efficacia della loro funzione sarà proporzionale alla comprensione e alla dedizione del loro servizio (in latino ministerium). Questa precisione di visuale è sollecitata dall'impostazione stessa che i Padri conciliari hanno voluto per la costituzione sulla Chiesa (la Lumen gentium): mentre la prima stesura dopo una riflessione sulla natura della Chiesa affrontava il tema della gerarchia e al terzo posto quello dei fedeli laici, i vescovi del concilio hanno voluto che, dopo la trattazione sulla natura della Chiesa (come "mistero" che attinge la Santissima Trinità) si parlasse invece dell'intero popolo di Dio, e al terzo posto della gerarchia, che è appunto al servizio del popolo di Dio. È così che il "magistero" dovrà sentirsi in funzione non solo o non tanto dell'esattezza delle formule dogmatiche quanto della "profezia" dei cristiani, della loro comprensione della Parola di Dio e della loro coerenza nel viverla, come ci è stato raccomandato dalla costituzione Dei Verbum. E il sacerdozio ministeriale non dovrà solo guardare alla solennità e all'esattezza della liturgia, ma dovrà preoccuparsi che essa diventi realmente la preghiera vissuta della gente, "culmine e sorgente della vita cristiana", come dice la costituzione sulla liturgia (Sacrosanctum Concilium). Questo farà sì che la gerarchia colga sempre più l'invito conciliare alla "collegialità" che, se si esprime compiutamente nella collaborazione dei vescovi col Papa e dei vescovi tra di loro, si ritrova a ogni livello della Chiesa nello spirito e nella prassi della "comunione". La costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (la Gaudium et spes) ci invita peraltro a considerare quanti "semi del Verbo" ci sono nel mondo, quanta diffusione di grazia ci sia nel creato anche al di fuori delle strutture ecclesiali. La presenza di dialogo e di confronto col "mondo" qualifica la "vocazione" dei cristiani laici, a cui il battesimo affida il compito di lievitare la società e l'intera umanità verso il "regno di Dio", cioè verso un mondo di coscienza e di amore quale Dio lo vuole. E questo qualifica anche la "vocazione presbiterale" in ordine a una missione aperta e fiduciosa, che valuti il primato delle persone sulle strutture (pure indispensabili nella loro funzionalità), e che dia la priorità - come fece Gesù - non ai vertici sociali, ai notabili, fossero anche quelli esteriormente più in vista (com'erano allora i farisei e i dottori della Legge), bensì ai piccoli, ai poveri, ai sofferenti, agli emarginati. Con felice intuizione la Conferenza episcopale italiana, nel 1981, affermava che bisogna "partire dagli ultimi". Tutto questo non attenua l'impegno di santificazione dei presbiteri. Al contrario, se una guida autoritaria, fatta in prevalenza di comandi, si basa sul valore delle cose comandate e sulla prevalenza del comando, una guida autorevole, basata cioè sulla persuasione e sull'esempio, esige in chi guida "un supplemento di umanità e di santità".


in “L'Osservatore Romano” del 25 aprile 2010



Maria è presente in tutte le scene dell'infanzia di Gesù,

ma non dice una parola e non compie un gesto, come in ombra.

Non occupa mai il posto centrale, la sua posizione è accanto al Figlio,

condividendone la situazione e il destino, il rifiuto e l'accoglienza.

Una nota essenziale del discepolato evangelico, soprattutto quello di Maria,

è di essere alla sequela, ma sempre all'ombra del Figlio.

La sua grandezza sta tutta, e soltanto, nell'obbedire al Signore,

nell'essere a servizio di quel bambino.

C'è un posto più luminoso all'ombra di Gesù?



Bruno Maggioni, I personaggi della natività, 33-34

Quella donna che riempie le nostre chiese ogni domenica

di Giovanni Nicolini, prete della diocesi di Bologna

Il mio "tesoro nel campo" di questo periodo lo conoscete certamente tutti. O quasi tutti. È quella signora che abbiamo incontrato domenica 21 marzo nelle nostre assemblee domenicali. Il giorno prima ho compiuto settant'anni e lei è stata il regalo bello con il quale il Signore mi ha festeggiato. Ricorderete bene la sua vicenda. Sorpresa in adulterio e portata davanti a Gesù per creargli qualche fastidio con la dirigenza del Tempio. La Legge mosaica stabilisce la lapidazione per casi come questo. Cosa ne pensa il giovane rabbino di Galilea che negli ultimi tempi ha fatto molto parlare di sé? Come se la caverà tra la sua pretesa di essere l'interprete autentico della tradizione e l'ipotesi che quella donna sia condannata? Non risponde e si estrania da tutti mettendosi a scrivere con il dito per terra. Che cosa scrive? Si potrebbe maliziosamente pensare che voleva dare autorevolezza di scrittura a quello che stava per dire: qualcosa che certamente non era nelle Sacre Scritture e che l'Altissimo non si era mai sognato di pretendere. «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». Detto così, con una certa solennità, l'impressione è tale, che tutti se ne vanno, a partire dai più vecchi. E così il giovanotto arriva dove suo Padre non si era mai spinto: mai si era pretesa l'innocenza del boia! Ma non basta! Perché a questo punto rimangono soli Lui e la donna. Lui, l'Innocente, che potrebbe avere in mano quel famoso primo sasso contro di lei. «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?» «Nessuno, Signore». E qui appunto il colmo: «Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più». Come puoi dire questo? Perché non sei coerente con quello che hai preteso dagli altri? Perché non applichi la Legge di Mosè? Ed ecco il tesoro prezioso che sta dentro alla sua rinuncia a dare la morte. È perché le vuole molto bene. Un "bene da morire"! Lei non sarà condannata a morte perché Lui morirà per lei. Lui è venuto non a giudicare ma a salvare. Lei è la prima di tutti quelli che, incontrati da Lui, non saranno buttati fuori o fatti fuori, ma amati e perdonati. Lei è immagine di quella Chiesa che non può condannare nessuno e che nel nome dello Sposo crocifisso annuncia la salvezza alla quale tutti sono chiamati. Ma per essere perdonati non bisogna che prima cambino? No! Se mai, cambieranno perché sono stati amati e perdonati. La Chiesa è santa perché è capace di accogliere e di tenere insieme tutti i suoi figli, che sono tutti peccatori. Qui da noi quella donna peccatrice e benedetta si è portata dietro un sacco di gente. Tutti come me, peccatori incalliti, convinti da lei che prima di noi ha trovato non la condanna ma le nozze nel sangue dello Sposo. La mia chiesa di periferia ne era piena alla Pasqua di quest'anno.


in “Jesus” n. 5 del maggio 2010

La contemplazione di Cristo ha in Maria il suo modello insuperabile. Il volto del Figlio le appartiene a titolo speciale. È nel suo grembo che si è plasmato, prendendo da Lei anche un'umana somiglianza che evoca un'intimità spirituale certo ancora più grande. Alla contemplazione del volto di Cristo nessuno si è dedicato con altrettanta assiduità di Maria. Gli occhi del suo cuore si concentrano in qualche modo su di Lui già nell'Annunciazione, quando lo concepisce per opera dello Spirito Santo; nei mesi successivi comincia a sentirne la presenza e a presagirne i lineamenti. Quando finalmente lo dà alla luce a Betlemme, anche i suoi occhi di carne si portano teneramente sul volto del Figlio, mentre lo avvolge in fasce e lo depone nella mangiatoia (cfr Lc 2, 7).

Da allora il suo sguardo, sempre ricco di adorante stupore, non si staccherà più da Lui. Sarà talora uno sguardo interrogativo, come nell'episodio dello smarrimento nel tempio: « Figlio, perché ci hai fatto così? » (Lc 2, 48); sarà in ogni caso uno sguardo penetrante, capace di leggere nell'intimo di Gesù, fino a percepirne i sentimenti nascosti e a indovinarne le scelte, come a Cana (cfr Gv 2, 5); altre volte sarà uno sguardo addolorato, soprattutto sotto la croce, dove sarà ancora, in certo senso, lo sguardo della 'partoriente', giacché Maria non si limiterà a condividere la passione e la morte dell'Unigenito, ma accoglierà il nuovo figlio a Lei consegnato nel discepolo prediletto (cfr Gv 19, 26-27); nel mattino di Pasqua sarà uno sguardo radioso per la gioia della risurrezione e, infine, uno sguardo ardente per l'effusione dello Spirito nel giorno di Pentecoste (cfr At 1, 14).

Giovanni Paolo II, Rosarium Virginis Mariae, 10

Il 1°maggio dei vescovi

Allarme della Chiesa italiana per l'occupazione giovanile

di
Giacomo Galeazzi

La crisi rischia di «bruciare» sul fronte del lavoro un'intera generazione, quella dei giovani. L'allarme arriva dai vescovi italiani che, alla vigilia della Festa dei lavoratori e proprio nel giorno in cui arrivano i nuovi dati sulla disoccupazione in Italia, scendono in campo parlando di «gravissimi problemi». E suggeriscono anche una «rivisitazione» dello statuto dei lavoratori - facendo comunque salvi i diritti fondamentali - e «nuove forme di tutela» da parte dei sindacati. A parlare a nome dei vescovi italiani, è stato mons. Arrigo Miglio, presidente della Commissione per il lavoro e problemi sociali della Cei, che - dai microfoni di Radio Vaticana - ha sottolineato come «abbia ancora senso celebrare il primo maggio». È infatti «un' occasione importante per puntualizzare e fissare l'attenzione sui gravissimi problemi che riguardano il mondo del lavoro e direi, il lavoro, in modo particolare» ha aggiunto il vescovo di Ivrea puntando il dito sul «numero dei cassaintegrati con poche o scarse speranze di poter rientrare al lavoro in tempi ragionevoli». Ma anche sul «numero delle persone in ansia per il futuro delle famiglie» e su una «disoccupazione che cresce, come testimoniano i dati». E anche se «abbiamo qualche linea in meno di disoccupazione rispetto ad altri Paesi europei», il dato preoccupante «è quello dei giovani, con un tasso del 25% di disoccupazione: mi pare - ha aggiunto il responsabile del lavoro della Cei - davvero il dato enorme da tenere presente». E mentre anche il Papa oggi è intervenuto sulla crisi finanziaria mondiale sottolineando come questa abbia dimostrato che il mercato da solo, senza l'intervento pubblico, non sia in grado di autoregolarsi, mons. Miglio spiega come lo tsunami «imponga» una riflessione sugli strumenti a tutela dei lavoratori. Come lo 'Statuto che va - dice - «rivisitato» per «poter rendere sostenibile e anche competitiva la situazione dei nostri» occupati. «Ci sono comunque - spiega - diritti fondamentali che assolutamente non possono essere messi in discussione: bisognerebbe fare un discorso differenziato, senza mettere in discussione quelli che sono i diritti fondamentali». «Molte voci fanno notare che il rischio per i sindacati è quello di difendere chi è già garantito. E di non riuscire sufficientemente a difendere chi non ha nessuna garanzia», aggiunge poi Miglio ricordando che l'ultima enciclica papale 'Caritas in Veritatè dedica alcuni paragrafi alle parti sociali per invitarle «ad allargare la propria attenzione anche ai non iscritti, per avere una visione globale dei problemi del mondo del lavoro e dei lavoratori. A studiare anche nuove forme di tutela», ribadisce spiegando che «da una parte c'è qualche critica, legata alla situazione che cambia, dall'altra c'è questa voce autorevolissima della Chiesa che incoraggia i sindacati a rinnovarsi ed a svolgere sempre di più una funzione sociale molto importante». «Siamo in un Paese che ha bisogno» ma anche «voglia di crescere». «Ci sono tante potenzialità: che il primo maggio diventi la festa di tutte le potenzialità che il nostro Paese ha e che lo fanno ancora ricco, nonostante la crisi», è l'augurio finale dei vescovi.
Dal «Dialogo della Divina Provvidenza»

di santa Caterina da Siena

O Deità eterna, o eterna Trinità, che, per l'unione con la divina natura, hai fatto tanto valere il sangue dell'Unigenito Figlio! Tu, Trinità eterna, sei come un mare profondo, in cui più cerco e più trovo; e quanto più trovo, più cresce la sete di cercarti. Tu sei insaziabile; e l'anima, saziandosi nel tuo abisso, non si sazia, perché permane nella fame di te, sempre più te brama, o Trinità eterna, desiderando di vederti con la luce della tua luce.

Io ho gustato e veduto con la luce dell'intelletto nella tua luce il tuo abisso, o Trinità eterna, e la bellezza della tua creatura. Per questo, vedendo me in te, ho visto che sono tua immagine per quella intelligenza che mi vien donata della tua potenza, o Padre eterno, e della tua sapienza, che viene appropriata al tuo Unigenito Figlio. Lo Spirito Santo poi, che procede da te e dal tuo Figlio, mi ha dato la volontà con cui posso amarti.

Tu infatti, Trinità eterna, sei creatore ed io creatura; ed ho conosciuto perché tu me ne hai data l'intelligenza, quando mi hai ricreata con il sangue del Figlio, che tu sei innamorato della bellezza della tua creatura.

O abisso, o Trinità eterna, o Deità, o mare profondo! E che più potevi dare a me che te medesimo? Tu sei un fuoco che arde sempre e non si consuma. Sei tu che consumi col tuo calore ogni amor proprio dell'anima. Tu sei fuoco che toglie ogni freddezza, e illumini le menti con la tua luce, con quella luce con cui mi hai fatto conoscere la tua verità.

Specchiandomi in questa luce ti conosco come sommo bene, bene sopra ogni bene, bene felice, bene incomprensibile, bene inestimabile. Bellezza sopra ogni bellezza. Sapienza sopra ogni sapienza. Anzi, tu sei la stessa sapienza. Tu cibo degli angeli, che con fuoco d'amore ti sei dato agli uomini.

Tu vestimento che ricopre ogni mia nudità. Tu cibo che pasci gli affamati con la tua dolcezza. Tu sei dolce senza alcuna amarezza. O Trinità eterna!


(Cap. 167, Ringraziamento alla Trinità; libero adattamento; cfr. ed. I. Taurisano, Firenze, 1928, II pp. 586-588)

«Il direttore parlava benissimo: era uno di quegli oratori fenomenali che riescono a snocciolare mezzo milione di belle parole senza dir niente. Sono gli oratori che più piacciono alla folla, perché la gente li ascolta come se fossero cantanti e non ha la minima preoccupazione di seguire il senso del ragionamento».


Giovannino Guareschi, Lo spumarino pallido, "Ricordando una vecchia maestra di campagna"

 


Anche oggi ho fatto un'esperienza così. E mi rattrista tantissimo: fin quando ne va di mezzo il valore del singolo prete-pseudoratore che parla così, non mi interessa molto (sono poco caritatevole, lo so!); già me la piglio di più quando ne va di mezzo il valore di tutti i ministri ordinati; me la prendo tantissimo quando ne va di mezzo il valore di tutti i credenti in Cristo, misurati sulle parole di quell'oratore che non dice nulla; infine sono prostrato se ci va di mezzo il Signore Gesù e il suo Vangelo, che diventano stantii, vecchi, polverosi... nelle parole di quell'oratore e nelle orecchie di chi le sente.


don Chisciotte


 

Adoriamo Cristo, nostro Dio,

chiamato figlio del lavoratore, alleluia.


Questa è l'antifona al salmo invitatorio di oggi. Credo sia molto bello definire così il nostro Signore! 

E credo debba restare un punto d'onore che ci si possa definire "figli di lavoratori". Ma anche "padri di figli che lavoreranno".


don Chisciotte