Vivere nella resistenza 
di Bruno Bignami 
"L'uomo libero e consapevole è sempre un resistente, qualunque siano i tempi e i regimi. Chi tira i remi in barca perché c'è bonaccia in aria, non sa o dimentica che in ogni momento la nostra coscienza morale e cristiana è posta davanti a delle scelte. La scelta crea la resistenza". Così scriveva don Mazzolari a un amico nel 1955.
La resistenza mazzolariana affonda le sue radici negli anni Venti, quando matura una viscerale avversione al regime fascista. L'antifascismo è legato al suo essere coscienza critica. Nel contesto dell'Italia di quella stagione don Primo è rimasto una voce fuori dal coro. Nel 1929 si chiedeva: "È proprio possibile che in un'Italia di 40 milioni di uomini, vi sia poi tal unanimità di pensiero e tale concordia nell'opera da non riscontrarsi neppur un dissidente che osi esprimere a mezza voce il proprio parere?". Il fascismo aveva già mostrato il suo vero volto, violento e repressivo.
È, però, con la seconda guerra mondiale che Mazzolari manifesterà l'esigenza di resistere al nazifascismo. La resistenza è da lui affrontata in due modalità complementari: assistenziale e di lotta.
A livello assistenziale la sua opera è diretta a soccorrere le famiglie dei militari, a mantenere contatti epistolari coi giovani soldati di Bozzolo, ad assistere i fuggiaschi e i prigionieri, a ospitare e salvare ebrei ricercati. Raccontava: "Per vari giorni la popolazione rinunciò al suo pane per darlo ai prigionieri che sui lunghi treni sostavano alla stazione, diretti verso il campo di concentramento di Mantova. Furono macellati dei bovini, distribuita uva e frutta a quintali, minestra e pane e altre vettovaglie". È stato un servizio di supplenza istituzionale.
Vi è anche un impegno nella lotta partigiana da parte del parroco di Bozzolo. Si espone personalmente. All'annuncio dell'armistizio, la sera dell'8 settembre, in Chiesa invita pubblicamente i tedeschi a "ripassare le Alpi", pena la ribellione degli italiani. Prende corpo a Bozzolo la Brigata Mantovana Fiamme Verdi: il movimento ribelle ha i suoi leader nei giovani Sergio Arini e Pompeo Accorsi, trucidati poi nell'agosto del 1944 a Verona, ma in ultima analisi il riferimento è proprio don Mazzolari. L'organizzazione clandestina assume anche una struttura militare, appoggiata o comunque tacitamente permessa dal parroco.
Il movimento della resistenza in Italia non ha avuto solo carattere patriottico-militare contro l'invasore tedesco, ma ha mantenuto anche la fisionomia di fenomeno politico-sociale: ha cercato cioè di rinnovare la società italiana e di dare contenuto democratico alle sue istituzioni. Il ruolo di don Primo si colloca 

Fa’, o Signore, che non perda mai il senso del sorprendente.
Concedimi il dono dello stupore!
Donami occhi rispettosi del tuo creato, occhi attenti, occhi riconoscenti.
Signore, insegnami a fermarmi: l'anima vive di pause; insegnami a tacere: solo nel silenzio si può capire ciò che è stato concepito in silenzio.
Ovunque hai scritto lettere: fa’ che sappia leggere la tua firma dolce nell'erba dell'aiuola pettinata, la tua firma forte nell'acqua del mare agitata.
Hai lasciato le tue impronte digitali: fa’ che sappia vederle nei puntini delle coccinelle, nel brillìo delle stelle.
Tutto è tempio, tutto è altare!
Rendimi, Signore, disponibile alle sorprese: comprenderò la liturgia pura del sole, la liturgia mite del fiore; sentirò che c'è un filo conduttore in tutte le cose...e salirà il voltaggio dell'anima.
Amen.
Michel Quoist
 

E liberaci dall'oblìo!


Dalla trasmissione "radio Milano Liberata". Oggi raccontiamo la storia di una trattativa, improbabile, disperata, ma tentata nel pomeriggio del 25 aprile dall'arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster. Nella sala rossa dell'Arcivescovado si incontrano Mussoli e alcuni capi della Resistenza. Per arrivare a cosa? Ascolterete anche i ritratti di due protagonisti di quella trattativa, Schuster e il leader democristiano del Cln Achille Marazza, una canzone e una rassegna stampa di quei giorni e la testimonianza diretta del 25 aprile '45 del signor Elio Oggioni.
 
Il vero nome degli eventi
di Anna Foa
Le alte parole del Pontefice, pronunciate solennemente in occasione della messa in Vaticano per il centenario del genocidio armeno, hanno scombussolato le carte delle diplomazie e affermato senza possibilità di equivoci che quello commesso un secolo fa dai turchi contro gli armeni è stato un genocidio, il primo genocidio del Novecento. Dopo quello degli armeni c’è stato lo stalinismo e la Shoah e ancora il Ruanda, la Cambogia, la Bosnia. E le uccisioni di massa dei cristiani, che si configurano sempre più come un genocidio, in tanta parte del mondo di oggi. Mentre il governo turco reagisce con forza richiamando l’ambasciatore, le parole di plauso si levano da ogni parte.
Il termine di "genocidio", vogliamo ricordarlo, fu coniato nel 1944 da un giurista ebreo polacco, Raphael Lemkin, rifugiato negli Stati Uniti, proprio riflettendo sul genocidio armeno e su quello che ancora si stava svolgendo in Europa, il genocidio del popolo ebraico, la Shoah. Lemkin aveva cominciato a occuparsi del genocidio armeno nel 1921 in occasione del processo che aveva mandato assolto a Berlino Soghomon Tehlirian, uccisore del ministro dell’Interno turco Mehmet Talaat, uno degli ideatori principali dello sterminio. (...) Ma i legami fra i due genocidi, quello armeno e la Shoah, non si esauriscono qui. Il primo sostenitore della causa armena fu un altro ebreo, l’ambasciatore statunitense Henry Morgenthau, che scrisse per denunciarlo al mondo un importante "Diario" recentemente pubblicato in italiano. Gli ebrei furono sensibili a questa battaglia ben prima che venisse a riguardare direttamente anche loro. 
E sappiamo che Hitler, dando inizio alla sua guerra di conquista nel 1939, aveva dichiarato: «Chi si ricorda più dello sterminio armeno»? E più tardi, nei ghetti nazisti in Polonia, gli ebrei che vi erano rinchiusi si identificavano con il destino degli armeni e si passavano di mano in mano il romanzo di Franz Werfel "I quaranta giorni del Mussa Dagh". Come gli armeni, così gli ebrei. Dopo le parole del Papa nessuno potrà fingere di non sapere, ha commentato il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni.
Perché è, credo, difficile pensare ai genocidi senza tener presente l’intimo legame che li connette, isolandone uno solo, fosse pure il più importante dal punto di vista simbolico. Questo è anche quello che il Pontefice ha inteso, ricordando con gli armeni e la Shoah anche l’Holodomor, il genocidio staliniano dei kulaki ucraini e il Ruanda e Sebrenica, e guardando agli stermini di massa contro i cristiani oggi. Spero che la scelta fatta dal Papa di chiamare gli eventi con il loro nome, rinunciando ai riserbi del passato, sia imitata anche da quegli Stati come Israele, che ancora non hanno riconosciuto il genocidio armeno. E che la riflessione storica sui genocidi, da tempo avviata tra difficoltà e sfiancanti concorrenze di vittime, trovi nelle alte e coraggiose parole di Francesco uno stimolo e una spinta ad approfondirsi e a servire a uno scopo non solo teorico ma concreto, immediato: prevenire i genocidi, salvare le vite, dare ogni aiuto possibile alle vittime.
 
 
 

Oggi celebriamo san Giorgio, patrono dello scoutismo.
Quest'anno, a 70 anni dalla Liberazione dell'Italia dalla dittatura,
ricordiamo le "Aquile randagie", gruppo scout di Milano e Monza,
clandestino perché disobbediente alle leggi fasciste.
Nella loro promessa clandestina, esprimono la loro volontà di
resistere «un giorno in più del fascismo».


sito di riferimento: www.aquilerandagie.it

Qui un file pdf con alcune note storiche.

Qui il documentario trasmesso da Rai Storia il 17 aprile 2015:
 


L’odio feroce e le falsità di chi si nasconde dietro i nickname

«Nessuna pena, 700 zozzoni in meno da sfamare!», scrive in un post «Mladic», l’anonimo che per vomitare odio online si è scelto come nickname quello del generale serbo noto come «il boia di Srebrenica». E conclude: «Nessuno li ha chiamati, speriamo nel mare grosso sempre». Una ferocia raggelante. Ma niente affatto isolata.

Il naufragio del peschereccio libico, col suo carico di anime inghiottite dal mare a poche ore di navigazione dalla terra dove sognavano una vita diversa, pare aver fatto emergere non solo il dolore di milioni di italiani ma anche il cinismo più becero di una minoranza di anonimi. Razzisti elettrizzati dalla possibilità di dare sfogo, nascosti dai «nickname», ai loro sfoghi biliosi.
Sia chiaro: non parliamo delle critiche alla gestione dell’emergenza. Ogni opinione ostile alle scelte degli ultimi governi e ogni rimpianto per il «cattivismo» di Bobo Maroni, i patti scellerati con Gheddafi e i respingimenti, per quanto possano risultare indigesti a chi s’appella agli accordi internazionali, ai diritti umani, alla Costituzione, ha diritto a essere espressa. Ovvio. Anche criticare pesantemente Renzi e Alfano, Orlando o Mattarella è del tutto legittimo. Ci mancherebbe. Così come sono sgradevoli ma legittime le ironie, dopo certe intercettazioni dell’inchiesta Mafia capitale («con gli immigrati si fanno molti più soldi») sul ruolo delle cooperative: «Mi associo con deferenza al lutto che coop rosse ed onlus vaticane e non, hanno subito…».
Negli sfiati di cui parliamo, però, c’è di più. «Si temono 700 morti... io avrei temuto di più 700 vivi da mantenere!», posta «Moshe» a commento di un pezzo sul Giornale titolato «Ecatombe nel Mediterraneo, si temono 700 morti». Ivano Colzani, uno dei pochi che si firma, fa i conti: «1.350 (costo mensile per profugo) x 700 (nr. presunto di profughi affondati) x 12 (numero di mesi di presenza e mantenimento sul suolo italico) = 11.340.000 Euro risparmiati». Che i numeri siano falsi perché sostenere provvisoriamente un profugo fino alla definizione del suo status costa molto meno, come spiega un documento contro i luoghi comuni del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’interno, non importa.
Conta lo sfogo: «Non capisco perché questi profughi che partono da Paesi sud-sahariani non si vadano a rifugiare nelle nazioni africane confinanti dove non c’è guerra e vengano dritti in Italia», sbuffa Parsifal1. Non sa che in realtà secondo l’Onu ci sono nel mondo 50 milioni di rifugiati e il Kenya ne ospita mezzo milione, la Repubblica del Congo quasi due di sfollati interni, il Sudan 743 mila esterni e 1,2 milioni interni, la Nigeria un milione e mezzo, il Sudafrica 2 milioni? Secondo Parsifal1, invece, vengono tutti in Italia «perché i nostri politici venduti hanno fatto leggi che garantiscono a questa gente una casa e uno stipendio che un giovane disoccupato italiano può solo sognarsi...». «Tersicore» conferma: «È chiaro che se si promette a tutti i poveri del mondo alloggio, vitto, e sanità gratis per tutta la vita, e senza dare nulla in cambio, e a nostre spese…». La casa? Lo stipendio? Il vitto? In regalo tutta la vita? L’importante è spararla…
È falso che «non danno nulla in cambio», come dimostra la fondazione Moressa secondo cui, ad esempio, esistono già 497 mila aziende fondate da immigrati che complessivamente contribuiscono con circa l’8% al Pil? Chissenefrega! «Sono “africani”», spiega sprezzante l’anonimo Rapax: «Non combattono, fanno lavorare le donne, si fanno predare... e hanno capito che è meglio non fare un c...o e farsi mantenere da dei cog...ni occidentali... almeno accettino i rischi».
«Avviso ai pescatori: stanno abbondantemente pasturando il Canale di Sicilia, si prevede che quelle acque saranno molto pescose questa estate», posta su Facebook il gruppo


Dopo tanta disinformazione sui rom, ecco i dati del rapporto annuale
Lo sapete quanti rom e sinti vivono sul territorio italiano? Vi siete mai chiesti quanti di loro non hanno la cittadinanza italiana? Sono di più quelli che vivono in case o nei campi? Domande legittime, visto che la presenza di rom in Italia viene posta da alcuni come una delle emergenze nazionali. Si può, come fa Matteo Salvini, basare buona parte della propria politica sulla “guerra ai rom”, quando questi sono solo 180mila, cioè lo 0,25 per cento della popolazione italiana? E come si potrebbe «mandarli tutti a casa loro», se il 50 per cento di essi è cittadino italiano? Spianare i campi rom, poi, sembra la soluzione definitiva. Ma circa l’80 per cento di rom e sinti vivono in regolari abitazioni, mentre solo 40mila vivono nei campi. La verità, quindi, è che ci accorgiamo principalmente dei rom e sinti che abbiamo deliberatamente segregato e ghettizzato in aree che sono nella maggior parte dei casi baraccopoli. Li notiamo perché qualcuno ci punta sopra i riflettori, per portare alla luce le situazioni di disagio e di illegalità che danno più fastidio. Quelle delle piccole rapine, della criminalità che svaligia case. Mentre nella maggior parte dei casi non ci accorgiamo nemmeno della loro presenza, perché, appunto, sono cittadini come noi, che hanno una casa e un lavoro, e non hanno un cartello in fronte con scritto “rom” o “sinti”. I dati riportati provengono dal rapporto annuale redatto dall’Associazione 21 luglio sulla condizione di rom e sinti in Italia.
Sul fatto che la soluzione dei campi vada superata siamo tutti d’accordo. Non sulle modalità proposte da Salvini (avviso di sei mesi e poi via con le ruspe, chi c’è c’è), che non rappresentano una soluzione al problema degna di uno che si candida a decidere le politiche di un Paese. Peraltro, sempre in un’ottica di terrore in cui sembra che i nuovi campi spuntino come funghi sul territorio, va detto che di sgomberi se ne fanno già e con una certa frequenza. «Nel corso del 2014 a Roma sono stati documentati 34 sgomberi forzati, che hanno coinvolto circa 1.135 persone per una spesa stima di 1.315.000 euro», si legge nel rapporto. «Nel periodo gennaio – settembre 2014 a Milano sono stati eseguiti 191 sgomberi che hanno coinvolto 2.276 persone». Un bel po’ di ruspe (e di soldi) insomma, che hanno sicuramente il merito di radere al suolo aree che non sono degne di ospitare nessun essere umano, viste le condizioni in cui normalmente esse versano. Dall’altro però hanno la grave colpa di gettare queste persone su una strada, se non si offrono loro soluzioni abitative alternative. Spesso poi, con questo tipo di provvedimenti, famiglie e comunità vengono divise e collocate in centri di accoglienza per soli rom, il che ripropone il problema della discriminazione su base etnica, oltre a creare disagi dovuti alla separazione.
A pagare il prezzo più alto per la vita nei campi sono i più piccoli: «La condizione di vita di un minore rom che nel nostro Paese vive in un insediamento formale o informale è fortemente condizionata dal contesto abitativo che segna profondamente il suo presente e che orienta il corso del suo futuro. […] Avrà possibilità prossime allo zero di accedere ad un percorso universitario mentre le possibilità di poter frequentare le scuole superiori non supereranno l’1 per cento. In un caso su cinque non inizierà mai il percorso scolastico. Soprattutto in tenera età avrà fino a 60 volte la probabilità – rispetto ad un suo coetaneo non rom – di essere segnalato dal Servizio Sociale e di entrare a contatto con il sistema italiano di protezione dei minori. La sua aspettativa di vita risulterà mediamente più bassa di circa 10 anni rispetto al resto della popolazione, mentre da maggiorenne avrà 7 possibilità su 10 di sentirsi discriminato a causa della propria etnia».
Purtroppo, in una situazione di disagio che dovrebbe trovare nella politica un osservatore e interlocutore attento, è proprio quest’ultima ad alimentare campagne d’odio contro rom e sinti: «Nel 2014, secondo i dati raccolti dall’Osservatorio 21 luglio, dei 443 episodi di discorsi d’odio contro i rom registrati in totale l’87 per cento è riconducibile a esponenti politici». Questo dato è particolarmente grave perché può creare un senso di impunità nei cittadini il cui animo covi un sentimento più o meno latente di odio e repulsione verso queste persone. Ne possono nascere attacchi violenti ed episodi di “giustizia privata”. Giusto quindi andare oltre i campi rom, ma questa non è una guerra da combattere con i cingolati, bensì con le armi della solidarietà e della giustizia.
 
Rapporto annuale:
 
 
Suonate le campane!
Speciale 22° Dies Natalis
Per tutta la mattinata del 20 aprile don Tonino non aveva più la forza di parlare, era stanco e soffriva, ma aveva il suo sguardo rivolto verso il quadro della madonna delle Grazie. L’agonia cessò alle 15.26 di quel 20 aprile 1993. Qualcuno ordinò: «Suonate le campane!». Don Tonino entrava in paradiso accompagnato dal suono a festa delle campane. All’udire il suono delle campane la gente capì, e solo dopo pochi attimi si riversò nei pressi del Palazzo Vescovile. 
Domenico Cives, medico personale di don Tonino, racconterà così nel suo libro-memoriale gli ultimi istanti di vita del vescovo: 
«All’improvviso don Tonino si mostrò agitato. Mi guardò con occhi sbarrati e sembrava volermi parlare. Notai che i dolori si erano volatilizzati, poiché compiva ogni movimento senza lasciarsi sfuggire alcun lamento. Piegò infine la testa all’indietro, mentre ancora gli cingevo le spalle. Guardò verso la finestra, poi fissò nuovamente il quadro della Madonna delle Grazie. In quel preciso istante si abbandonò sulle mie braccia e il torace fu sollevato da violenti sussulti. Il suo grande cuore stava cedendo. Mentre una moltitudine di persone si era disposta attorno al letto e pregava, io ero rimasto in disparte: ebbi modo di notare il momento in cui don Tonino esalò l’ultimo respiro, mentre Marcello gli teneva il polso destro e Trifone gli accarezzava e baciava la mano sinistra». 
Cominciò così una lunga attesa con la speranza di poter rendere omaggio alla salma del vescovo. Così come la triste notizia dell’avvenuta scomparsa di don Tonino Bello si era diffusa presto in ogni parte d’Italia e del mondo, specialmente negli ambienti dove il vescovo molfettese era conosciuto e stimato. Nel frattempo i familiari e pochi amici intimi si adoperavano per vestire e sistemare le spoglie mortali di don Tonino che, all’indomani mattina, dopo una lunga notte trascorsa in preghiera, furono portate in processione nella Cattedrale dove rimasero fino al giorno successivo, prima che si celebrassero le esequie. La Chiesa diventò immediatamente la meta di un ininterrotto pellegrinaggio: fedeli, amici, confratelli, politici, giovani, ragazzi, bambini, tutti rendevano omaggio all’amato vescovo. Fuori dalla Cattedrale, dietro le transenne, un fiume di gente lentamente avanzava fino ad entrare in chiesa. Un via vai interminabile, ma del resto prevedibile. La commozione delle persone era evidente. Nessuno poteva fare a meno dal trattenere le lacrime.
 

«E sappiate distinguere chi sa distinguervi da tutto il resto;
chi non vi tratta come "il primo che passa";
chi non gira l'angolo solo perché è più facile;
chi vuole voi perché siete voi
e senza voi tutto il resto non sarà mai abbastanza».
Massimo Bisotti

«Le mine vaganti servono a portare il disordine,
a prendere le cose e a metterle in posti dove nessuno voleva farcele stare,
a scombinare tutto,
a cambiare piani».
tratta da "Mine vaganti", regia di Ferzan Özpetek (2010)
«Vieni, Spirito santo!
Senza di te,
Dio è lontano, il Cristo resta nel passato, il Vangelo una lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l'autorità un potere, la missione una propaganda, il culto un arcaismo, l'agire morale un agire da schiavi.
Con te
il cosmo è nobilitato, il Cristo risorto si fa presente, il Vangelo si fa potenza e vita, la Chiesa diventa una comunione, l'autorità si trasforma in servizio, la liturgia è memoriale vivo, l'agire umano un paese di libertà».
Atenagoras
 
Una risata vi beatificherà 
(...) Il riso fa parte dell'emotività divina (come lo sdegno, la gelosia, l'angoscia, la tenerezza e così via), al punto tale che Dio è pronto ad opporre al riso scettico di una donna, Sara, moglie del patriarca Abramo, un suo riso vivo echeggiante in un bambino, il figlio inatteso Isacco, che in ebraico significa appunto «Il Signore ha riso» (si legga Genesi 18 e 21). (...) Nell'Antico Testamento non di rado dilaga sulla faccia della terra la risata divina, espressa con un antropomorfismo piuttosto ardito: «Ride Colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe» dei nemici del suo Messia, dice il Salmista (2,4). Alla bocca famelica del malvagio che «digrigna i denti» lo stesso Salmista oppone la bocca divina che «se ne ride perché vede arrivare il giorno» del giudizio degli empi (37,13). Anche quando contro i fedeli ebrei sta avanzando l'armata dei gójim, gli stranieri oppressori, è una risata colossale di Dio a bloccarli: «Tu, Signore, ridi di loro, ti fai beffe di tutte le genti» (59,9). «È un riso che disarma nel senso più vero, che priva di forza ogni apparente potentissimo predominio», commentava il teologo Gerhard Ebeling. Giobbe, però, nel suo crescendo accusatorio contro Dio, indifferente alla sua tragedia, rasenta la bestemmia quando urla: «Se una catastrofe semina all'improvviso morte, Egli sghignazza sulla tragedia degli innocenti» (9,23). (...) Vasta è anche la registrazione del ridere umano, incredulo, stupido, crudele ma anche santo, giusto, sereno e festoso.
C'è, però, un'obiezione che parte da un dato sconcertante così sintetizzato da un autore cristiano ignoto rubricato in passato sotto un s. Agostino apocrifo: «Dominum nunquam risisse, sed flevisse legimus», cioè, leggiamo nei Vangeli che il Signore Gesù pianse, ma mai che abbia riso.
Nel Nuovo Testamento il verbo ghelào, "ridere", è usato solo per le prefiche che irridono Cristo che considera "addormentata" la figlia morta di Giairo, capo della sinagoga di Cafarnao (Matteo 9,24). Gesù nelle «Beatitudini» presenti in Luca (6,21.25) dichiara «beati voi che ora piangete», ma anche minaccia: «Guai a voi che ora ridete perché piangerete». E s. Giacomo nella sua Lettera (4,9) assume toni da predicatore: «Gemete, o peccatori, sulla vostra miseria, fate lutto e piangete; il vostro riso si muti in lutto e la vostra allegria in tristezza».
Tuttavia non si può ignorare che tutto l'annuncio di Gesù è "evangelo", cioè notizia buona e gioiosa di salvezza e liberazione, che la sua nascita è avvolta nella festosità celeste, che egli prega «esultando nello Spirito Santo» (Luca 10,21), che la tragedia della croce approda alla luce della felicità pasquale. Questa gioia della risurrezione, tra l'altro, ha dato origine al curioso fenomeno medievale del risus paschalis, studiato da Caterina Jacobelli in un saggio del 1990 (Queriniana): nelle celebrazioni pasquali si introducevano elementi di allegria così festosa ed eccessiva da rasentare la scurrilità!
È, perciò, possibile tentare - attraverso l'intera Bibbia - una teologia del riso e persino del comico, come hanno provato a fare ovviamente con tagli differenti sia Kierkegaard sia Chesterton, mentre al tema un teologo tedesco, Werner Thiede, ha dedicato un intero saggio, L'ilarità promessa (Paoline 1989). La simbologia ludica è stata assunta spesso nella tradizione cristiana come analogia teologica: lo attesta, ad esempio, l'Homo ludens di Hugo Rahner (Paideia 1969) e molte pagine dell'americano Harvey Cox. Il monaco Notker di S. Gallo (IX sec.) dipingeva la Chiesa come immersa in una sorta di gioco eterno e paradisiaco nella vigna di Dio: Ecce sub vite amoena, Christe, ludet in pace omnis Ecclesia tute in horto . E il pur serioso Lutero descriveva così l'escatologia: «L'uomo giocherà con cielo, terra e sole e con tutte le creature. E le creature proveranno un piacere, un amore, una gioia lirica e rideranno con te, Signore».
mons. Gianfranco Ravasi, in “Il sole 24 Ore”, 5.04.2015
 

«Venendo poi a considerare gli aspetti critici, devo constatare che una prima difficoltà interessa la lettura della situazione ambientale (contesto sociale e culturale, vissuto etico-spirituale, analisi dei bisogni e delle risorse). Anche laddove ci si è impegnati in una ricognizione di tipo sociologico, si registra non di rado una scollatura fra tale ricostruzione e la successiva ripresa sul fronte del progettare e dell'agire.
Ho potuto inoltre constatare l'esistenza di alcune zone d'ombra, che indicano nelle nostre comunità un'eccessiva concentrazione sul 'fare', così che spontaneamente il discorso finisce per attardarsi sulle tante iniziative esistenti, dimenticando non di rado di raccogliere la sfida delle nuove frontiere della missione. Mi riferisco, ad esempio, all'attenzione ancora insufficiente dimostrata per scelte qualificanti della vita diocesana, quali la Scuola della Parola, il metodo della lectio divina, le Scuole diocesane, ecc.; ma il discorso deve includere anche la mancata programmazione del momento di verifica che concerne obiettivi, strumenti e iniziative pastorali; o, ancora, registrare lacune croniche, quali l'approntamento di strategie per arginare i fenomeni del "post-cresima", della dilagante indifferenza religiosa, del crescente disinteresse etico-politico.
La segnalazione di queste difficoltà vuol essere di monito per tutti gli operatori pastorali, affinché prendano le distanze da un malaccorto attivismo che, foss’anche sostenuto dall'ansia di reagire alle difficoltà presenti, comunque produce ultimamente una prassi sterile e miope. Come ho avuto modo di ricordare nel discorso per la solennità di sant'Ambrogio dello scorso anno, non si tratta di moltiplicare velleitariamente gli sforzi, ma occorre - fuori da ogni piagnucolosità e nostalgia del passato - farsi carico delle urgenze dell'oggi e prepararsi alle sfide del domani, facendo affidamento sull'assistenza dello Spirito di Gesù che non ci lascia soli e che insieme ci sollecita a un autentico discernimento culturale e spirituale».
Carlo Maria Martini, dalla Lettera ai membri dei Consigli pastorali parrocchiali, 7.12.1999
qui puoi fare il download dell'intera Lettera.


«Leggo, non predico.
Le Beatitudini non si predicano: sono per me e per tutti; non sono per gli altri.
Nessuno può darle a parole.
Se le predico, tutti notano che io ne sono fuori.
Cristo, no: Lui solo parla dal di dentro di ogni Beatitudine: Lui, il Povero, il Puro, il Mite, il Misericordioso, il Pacifico, il Percosso, il Morente...
Che non si possano predicare, l'ho capito bene in un lontano Ognissanti, quando mi fu imposto, dietro minaccia: "Tu, prete, oggi non predicherai".
E quel giorno, il "prete" ha letto soltanto: ma, nel leggere, egli piangeva e gli altri piangevano.
Le parole che hanno la virtù di far piangere, o di gioia o di vergogna, non si predicano.
Leggo le Beatitudini.
Sono comandato a leggere le Beatitudini.
E v’accorgete che mi trema la voce mentre ripeto: "Beati i poveri... Beati i puri…"».
don Primo Mazzolari, Impegno con Cristo, 50

«Signore, donaci il tuo Spirito perché possiamo conoscere la via per la quale camminare.
Noi tutti abbiamo bisogno di te, Spirito santo, perché il nostro cuore sia aperto, inondato dalla tua consolazione al di là delle parole e dei concetti che ascoltiamo.
Concedici di cogliere la tua presenza nella Chiesa, in ciascuno di noi, tu che sei l'ospite permanente che continuamente modella in noi la figura e la forma di Gesù.
Fa' che possiamo intuire la tua azione nella storia dell'umanità, nei suoi cammini incerti verso la conoscenza della verità.
Tu che costruisci il corpo di Cristo nella storia, che promuovi la testimonianza di fede, riempici di fiducia e di pace anche in mezzo alle tribolazioni e alle difficoltà».
Carlo Maria Martini, Le confessioni di Pietro, 69
Quanto è offensivo dichiarare "semplicemente consultivo" il valore della parola di un uomo, di una donna?
A maggior ragione se "tempio dello Spirito Santo" e "membro del corpo di Cristo"?!

 
Ecco cosa scrive un uomo intelligente: "Il voto consultivo assume una forza vincolante che gli deriva dalla natura intrinseca della comunione (...). In quanto espressione giuridica possibile di una dinamica insita alla natura costituzionale della Chiesa, il voto consultivo acquista una valenza non molto dissimile da quella del voto deliberativo, sia perché esprime istituzionalmente un rapporto di reciprocità necessaria, sia perché non esprime una posizione giuridica di potere, ma una testi¬monianza di fede, la cui forza vincolante non può essere misurata e delimitata adeguatamente in termini giuridici. Infatti, la verità della fede può emergere con evidenza intrinsecamente vincolante anche dalla testimonianza di un semplice fedele, di cui i pastori devono tener conto, a meno di mancare in modo grave alla loro funzione ministeriale» (mons. Eugenio Corecco, «Ontologia della sinodalità», 327).
don Chisciotte Mc
 
"In Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte e gli disse: «Chiedimi ciò che io devo concederti». Salomone disse: «Tu hai trattato il tuo servo Davide mio padre con grande benevolenza, perché egli aveva camminato davanti a te con fedeltà, con giustizia e con cuore retto verso di te. Tu gli hai conservato questa grande benevolenza e gli hai dato un figlio che sedesse sul suo trono, come avviene oggi. Ora, Signore mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide mio padre. Ebbene io sono un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che ti sei scelto, popolo così numeroso che non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male, perché chi potrebbe governare questo tuo popolo così numeroso?»" (1Re 3,5-9).
 

 


«Stasera ho chiesto al caso 
che cosa devo fare 
sono stanco del mio ruolo 
e ho voglia di cambiare 
non so se andare avanti 
o se e' il caso di scappare 
o se e' solo il bisogno 
di un nuovo sogno da sognare. 
 
Adesso che ho quello 
che ho sempre voluto 
mi sento un tantino legato, 
vorrei sparire 
per ricominciare da capo 
con un nuovo mazzo di carte 
un nuovo gioco. 
 
Ma il libro mi ha detto: 

Chi pensa di essere un buon figlio o una buona figlia, pensa di non aver bisogno di un salvatore.
Chi si ritiene un buon padre o una buona madre, pensa di non aver bisogno di un salvatore.
Chi sa sempre bene quali sono le scelte ottimali per far andar bene l'Italia o il suo paese, pensa di non aver bisogno di un salvatore.
Chi sa come "lasciarli a casa loro e non farli venire qui da noi" questi immigrati, pensa di non aver bisogno di un salvatore.
Chi si accontenta di ciò che fa e di come è, pensa di non aver bisogno di un salvatore.
Chi "non ho grandi peccati sulla coscienza", pensa di non aver bisogno di un salvatore.
Chi ha soldi in abbondanza per il presente e per il futuro, pensa di non aver bisogno di un salvatore.
Chi saprebbe sistemare tutti i problemi del mondo, ISIS compreso, pensa di non aver bisogno di un salvatore.
Chi dice "abbiamo sempre fatto così", pensa di non aver bisogno di un salvatore.
Chi è soddisfatto del suo aperitivino al bar, pensa di non aver bisogno di un salvatore.
Chi non vuole far evolvere la sua comunità, civile ed ecclesiale, pensa di non aver bisogno di un salvatore.
 
Io ho bisogno di un salvatore.
don Chisciotte Mc
 

 
«Ne deriva la necessità di considerare il rapporto effettivo di un pastore con una comunità, come una delle condizioni essenziali che legittimano la sua posizione particolare nella chiesa. Le condizioni formali della validità della sua ordinazione e della legittimità della sua missione hanno senso in quanto informano una certa materia, cioè l’effettiva operosità carismatica del pastore nella comunione della sua chiesa. Il titolo della legittimità della missione condiziona l’esercizio del sacramento validamente ricevuto, perché intende garantirgli un legame di comunione con un’istanza superiore, quella gerarchica. Ma ugualmente gli dovrebbe essere garantito il legame di comunione con l’istanza inferiore, quella comunitaria. Come la mancanza di comunione di un prete con il suo vescovo non invalida il sacramento, così la mancanza di comunione di un pastore con la sua comunità e la dissoluzione di fatto dei suoi rapporti pastorali non cancellano in lui il carattere ricevuto con l’imposizione delle mani. Però, come il primo titolo di legittimità condiziona la sua posizione nella chiesa, così anche il secondo la dovrebbe condizionare. Un pastore di chiesa non può essere imposto perennemente ad una comunità, anche se di fatto non vuole o non riesce a stare in essa come principio della sua comunione, semplicemente perché è stato validamente ordinato e perché di quel compito, che non attua, è stato legittimamente investito».
Severino Dianich, Teologia del ministero ordinato, 281
 
 
«La capacità di ben consigliare. Non esiste decisione saggia, prudente, se precedentemente non c'è stato un processo di consiglio. Questo processo implica due cose: la capacità di ben consigliare in coloro che sono chiamati a dare consiglio, e la docilità in coloro che devono rendersi disponibili a quanto viene consigliato. (...) Nessuno, infatti, è in grado di avere sempre la conoscenza sufficiente e globale della situazione su cui deve decidere e per questo ha bisogno della collaborazione di persone sperimentate e prudenti che lo aiutino.
E poiché, sempre secondo san Tommaso, la prudenza e la capacità di consigliare sono proprie di tutti i cristiani, anche i nostri Consigli fanno appello a tale capacità di consigliare, per il bene della comunità. (...)
Il consigliare è il momento della indagine e della creatività. Bisogna istruire la causa non rapidamente, esprimendo il primo parere che affiora alla mente, bensì indagando sulle situazioni, condizioni, soluzioni già date in altri luoghi. La creatività e il gusto dell'indagine per l'istruzione della causa sono dunque caratteristiche del consigliare. Parecchi dei nostri consigli pastorali parrocchiali sbagliano su questo punto: propongono un tema, chiedono il parere dei singoli membri, ciascuno dice la prima idea che gli viene in mente, e poi si vede la maggioranza. “Istruire la causa” significa domandarsi: qual è il problema? Come lo comprendiamo? (...) Ogni causa si istruisce accuratamente attraverso la cosiddetta ponenza: vengono incaricate una o più persone di preparare un dossier che serve ad andare a fondo di ciò di cui si tratta - quali le soluzioni già date, quali le possibili, quali le ragioni pro e contro. Non dunque una semplice raccolta di pareri, ma una istruzione di causa, che richiede indagine e creatività.
Infine, e concludo, vorrei sottolineare l'importanza della contemplazione del volto di Gesù e del volto della chiesa a cui si tende. Se il decidere nella chiesa ha lo scopo di configurare sempre meglio il volto del suo Signore, dobbiamo contemplare il volto di Gesù e poi regolarci in conseguenza per il consigliare.
Carlo Maria Martini, Il consigliare nella Chiesa, 15 aprile 1989