Un saluto a tutti! Ho valutato che sia meglio che ci sia una sospensione della pubblicazione dei post. Alla prossima!


Tra i "tipi" più pericolosi e dannosi per la società e la chiesa
ci sono coloro che restano immobili a causa della loro pigrizia, della loro negligenza, della loro ignoranza, della loro insensibilità, della loro grettezza...
e - con la loro mollezza (e a volte facendo pure i risentiti) vogliono costringere anche altri (la chiesa tutta, la parrocchia, il sottoscritto) a rimanere immobili come loro.
Sono "tipi" che tolgono l'aria, che soffocano, che spengono ogni entusiasmo e persino la voglia di fare e di vivere.
Ma io non ci sto, mi divincolo da questa stretta mortifera
e vorrei riuscire a continuare a muovermi.
Con affetto e rispetto, ma mi muovo.
don Chisciotte Mc
«Poi gli ho chiesto di sorridere»: ecco come cambiano i volti con un sorriso
La prima impressione è fondamentale. Tuttavia, può anche ingannare, come dimostra il progetto fotografico di Jay Weinstein. Tre anni fa, l’australiano trasferitosi a Mumbai si trovava in viaggio in India e stava scattando delle foto ai passeggeri in una stazione ferroviaria molto affollata nel Rajasthan, quando incontrò un uomo dallo sguardo severo, diffidente, che lo intimidiva. Dopo qualche esitazione gli chiese se poteva fargli una foto. E d’improvviso l’espressione dello sconosciuto si trasformò in un viso gioviale, genuino, empatico. In quel momento Weinstein aveva anche trovato il tema per il suo lavoro: «So I asked them to smile» (Poi gli ho chiesto di sorridere). Da allora il fotografo viaggia per il mondo (ma soprattutto in India) e chiede agli sconosciuti di posare per lui. Scatta due foto: una senza sorriso e l’altra col volto irradiato da un sorriso. 
Gli scatti “prima e dopo” sono semplici ma molto potenti. Un progetto contro gli stereotipi e la paura persistente e spesso ingiustificata verso gli sconosciuti. Volutamente il fotografo non aggiunge il nome, l’età, la religione, l’etnia, l’occupazione dei suoi soggetti. Solo persone. Con e senza sorriso. E il luogo dove sono state scattate. «Il mio obiettivo è quello di mostrare quanto un semplice sorriso sia sufficiente a mettere in discussione le nostre prime impressioni» (Jay Weinstein/Instagram).

«Arrivò senza essere aspettato, venne senza essere stato concepito. Solo la madre sapeva ch'era figlio di un annuncio del seme che sta nella voce di un angelo. Era accaduto ad altre donne ebree, a Sara per esempio.
Solo le donne, le madri, sanno cos'è il verbo aspettare. Il genere maschile non ha costanza né corpo per ospitare attese. Risento l'aggravante di ignorare fisicamente la voce del verbo aspettare. Non per impazienza, ma per mancanza di tenuta: neanche durante le febbri malariche mi veniva di ricorrere al repertorio delle immaginazioni di guarire, di stare in attesa di.
Nei risvegli mattutini scorrendo Isaia leggo: "Lieti quelli che aspettano lui» (Is 30,18). Non ho conosciuto questa saggia e fisica letizia. Ma più forte di questa notizia, nello stesso verso è scritto: «Perciò aspetterà Iod/Dio di farvi misericordia». C'è un'attesa prima, che spetta a Dio e ha lo stesso verbo ebraico hacchè. Nella sua riduzione al formato della specie umana, il Suo tempo infinito si contrae nel finito di un'attesa. Dio aspetta: «Per farvi misericordia». Il tempo di Avvento sta a imitazione di, sta dirimpetto all'eternità di un Dio che accetta di farsi periodico, irrompendo nel mondo a mesi stabiliti con nascita, morte e risurrezione.
Chi ha in corpo le risorse per concepire attese, conosce dal verso di Isaia l'immensità della corrispondente attesa di Dio».
Erri De Luca, Nocciolo d'oliva, 13-14
Fragilità, la virtù dimenticata
di Eugenio Borgna
La parola alta e luminosa di Blaise Pascal ci immerge immediatamente nelle fondazioni esistenziali della fragilità. «L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura, ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quando l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe anche allora più nobile di ciò che lo uccide, perché egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui. L’universo non ne sa nulla».
La fragilità negli slogan mondani dominanti è la immagine di una esperienza inutile e antiquata, immatura e malata, inconsistente e destituita di senso, estranea allo spirito del tempo, e invece nella fragilità si adombrano valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza e di dignità, di comunione con il destino di sofferenza di chi sta male. La psichiatria, a sua volta, quando sia psichiatria umana e gentile, psichiatria della interiorità, non può considerare la fragilità come sintomo di un disturbo psichico – ancora oggi talora si sostiene questo – ma come una forma di vita donatrice di senso: cosa che mi è stato possibile constatare (anche) nel cuore della follia, testimonianza di una stremata e ultima fragilità, nei miei anni di lavoro in un ospedale psichiatrico femminile: quello di Novara.
Come definire la fragilità? Fragile è una cosa (una situazione) che si può rompere, e fragile è un equilibrio emozionale che si può frantumare, ma fragile è anche una cosa che non può se non essere fragile: questo è il suo destino. Sono fragili, e si possono rompere, non solo quelle che sono le nostre emozioni e le nostre ragioni di vita, le nostre speranze e le nostre

“Autoironia, una cura contro l’egocentrismo” 
intervista all'arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi
Che Dio abbia il senso dell’umorismo, oltre al Papa, lo pensa anche l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, che ricorda un suo predecessore illustre, il cardinal Biffi, e ne cita una battuta fulminante: «La distinzione non è tanto tra credenti e non credenti, ma tra credenti e creduloni». E allora, nel commentare le parole di Francesco sul rapporto fra sense of humour e grazia divina, monsignor Zuppi osserva che «quando il Signore ci prende in giro, spesso pensiamo che faccia sul serio, mentre quando fa sul serio pensiamo che scherzi». Un gioco di equivoci che nell’Antico Testamento prende la forma della caricatura, nell’episodio di Giona che si arrabbia per la pianta di ricino, prima fatta crescere per fare ombra e poi mandata in malora altrettanto velocemente dal Creatore: «Una storia paradossale, che vuole far sgonfiare i nostri atteggiamenti esagerati». Il ricordo va ancora all’ironia puntuta di Biffi, a cui si deve anche una celebre definizione dell’Emilia rossa di allora, bollata come «sazia e disperata»: «A lui l’umorismo piaceva molto, anch’io credo che dovremmo saper ridere e sorridere, cosa che facciamo poco. Bisognerebbe cercare di metterlo in pratica anche con noi stessi, l’autoironia aiuta a non prendersi sul serio nei difetti e a relativizzare situazioni che altrimenti diventano troppo importanti».
Ma non finisce qui, perché secondo l’arcivescovo di Bologna «nell’umorismo si rivela una simpatia e una vicinanza umana che aiuta a liberare da contrapposizioni rigide: in questo caso è una forma di sana relativizzazione del nostro egocentrismo, e non parlo della relativizzazione denunciata da Benedetto XVI…». E pensare che un tempo si diceva scherza coi fanti ma lascia stare i santi, invece adesso si fa riferimento a sant’uomini che nella predicazione hanno fatto ricorso all’arte di evocare il sorriso: «San Filippo Neri era un grande umorista, come dimostra l’episodio della comare chiacchierona cui chiede di portargli le piume di un pollo, paragonandole alle parole sparse al vento – dice monsignor Zuppi –. Aggiungerei San Francesco. E Don Camillo di Guareschi. Nell’umorismo c’è una leggerezza verso noi stessi che ci aiuta a vedere le cose in modo più diretto. Erano i Farisei che ridevano poco… In realtà il Signore è molto più vicino di quanto noi pensiamo, e ci crea situazioni curiose». 
in “La Stampa” del 25 ottobre 2016
Ampio sconcerto hanno suscitato in questi giorni le infelici parole di padre Cavalcoli, autore di punta di Radio Maria. Accogliendo  le suggestioni di un ascoltatore, infatti, egli ha associato il verificarsi di catastrofi naturali (come gli eventi sismici di questi mesi) al concetto di castigo divino per il peccato.
 

«Ero straniero e mi avete accolto»punto
«Ero straniero e non mi avete accolto»punto

 

"Non conosco nulla che possa eguagliare in gloria il tuo viso quando ridi.
Quella luce del tuo volto in me, la morte non potrà prendersela come farà con tutto il resto.
Essa prenderà il resto perché l'avrà già tenuto tra le braccia nel corso della vita.
Questo viso, non riuscirà a prenderlo, e se si avvicinasse, si brucerebbe le dita".
Christian Bobin, Il distacco dal mondo, 27

La fatica che è fonte di vita 
di Nunzio Galantino 
Lavoro, dal latino labor, indica sia l’operosità dell’uomo, sia la fatica e la sofferenza connessi con il lavoro. La parola corrispondente nella lingua francese è travail e comprende più significati: oltre all’attività lavorativa dell’uomo, indica anche lo stato d’animo di una persona che soffre per qualche motivo; ancora, la si ritrova per indicare la sala adibita al travaglio della donna prima del parto (salle de travail); quasi a dire – mi piace pensare - che la vita è frutto di travail e che la fatica, quella vera, è sempre fonte di vita. Infine, in ambito scientifico, travail designa «un’azione continua, progressiva (da una causa naturale), che si conclude con un effetto che si può osservare» (Le Petit Robert). Ad esempio, si parla del “lavoro della fermentazione”, del “lavoro di una macchina”. In senso astratto, travail si riferisce all’azione esercitata dal tempo sulla vita dell’uomo e che produce i suoi effetti sul volto: Le temps avait fait son travail et rendu à ce visage la fatigue qui l’habitait au moment de la photo (Ben Jelloun). Anche la lingua tedesca ci aiuta a comprendere il significato pieno della parola “lavoro”: se da una parte, il termine Arbeit pone l’accento sull’attività umana connotata dalla fatica, dall’altra con Beruf, la lingua tedesca collega il lavoro dell’uomo alla chiamata (berufen, chiamare), dal momento che, in qualche modo, il lavoro “chiama” ciascuno a svolgere una determinata professione per il bene comune, e l’aggettivo beruflich sottolinea l’essere “professionale”. Chi ama la sua 

Un ritratto della povertà quello che emerge dal Rapporto 2016 della Caritas. Sono soprattutto gli stranieri  (con una percentuale del 57,2%), a chiedere aiuto ai Centri di Ascolto della Caritas (1.649, dislocati su 173 diocesi), ma per la prima volta al Sud la percentuale degli italiani (66 %) ha superato di gran lunga quella degli immigrati.
Rispetto al genere, il 2015 segna un importante cambio di tendenza; per la prima volta risulta esserci una sostanziale parità di presenze tra uomini (49,9%) e donne (50,1%), mentre in precedenza l’utenza femminile era quella maggioritaria. L'età media delle persone che si sono rivolte ai Centri Caritas è 44 anni.
Tra i beneficiari dell'ascolto e dell'accompagnamento prevalgono le persone coniugate (47,8%), seguite dai celibi o nubili (26,9%). Il titolo di studio più diffuso è la licenza media inferiore (41,4%); a seguire, la licenza elementare (16,8%) e la licenza di scuola media superiore (16,5%). I disoccupati e inoccupati insieme rappresentano il 60,8% del totale. I bisogni più frequenti che hanno spinto a chiedere aiuto sono perlopiù di ordine materiale: spiccano i casi di povertà economica (76,9%) e di disagio occupazionale (57,2%), ma non sono trascurabili anche i problemi abitativi (25,0%) e familiari (13,0%). E sono frequenti le situazioni in cui si cumulano due o più ambiti problematici. E se un tempo erano gli anziani i più indigenti oggi la povertà assoluta diminuisce man mano che aumenta l’età. La persistente crisi del lavoro ha infatti penalizzato e sta ancora penalizzando soprattutto i giovani e giovanissimi in cerca di occupazione e gli adulti rimasti senza impiego.
Sono 7.770 i profughi e richiedenti asilo che si 

La libertà nasce dalla lotta interiore 
di Enzo Bianchi 
I termini «asceta» e «atleta» non solo condividono la stessa etimologia, ma riguardano una cerchia ben più ampia di quanti mettono alla prova anche il proprio corpo nella ricerca di Dio o nelle competizioni sportive. L’agone, la lotta riguarda ciascuno di noi, chiamato ad affrontare il duro mestiere di vivere e l’esigente sfida del proprio essere «animale sociale». E se «agonismo» può indicare un’istanza di competitività, a volte eccessiva nel suo pretendersi criterio esclusivo, la lotta spirituale ne è il sano contrappunto.
Esigenza radicale per una vita interiore robusta, presente in tutte le religioni e in numerose scuole filosofiche, la lotta spirituale nella tradizione ebraico-cristiana appare fin dalle prime pagine della Bibbia: chiamato a «dominare» all’interno del creato, l’essere umano deve esercitare un dominio su di sé, sul male che lo minaccia: «Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo» (Genesi 4,7). Si tratta dunque di una lotta interiore, non rivolta contro esseri esterni a sé, ma contro le tentazioni, i pensieri, le suggestioni e le dinamiche che portano alla consumazione del male.
L’apostolo Paolo, servendosi di immagini belliche e sportive (la corsa, il pugilato… riemerge l’accostamento atleta/asceta), parla della vita cristiana come uno sforzo, una tensione interiore a rimanere nella fedeltà a Cristo, che comporta lo smascheramento delle dinamiche attraverso le quali il peccato si fa strada nel cuore umano, così da poterlo combattere al suo sorgere. Il cuore, infatti, è il luogo di questa battaglia. Il cuore inteso nel senso, derivato dall’antropologia biblica, dell’organo che meglio può rappresentare la vita nella sua totalità: centro della vita morale e interiore, sede dell’intelligenza e della volontà, il cuore contiene gli elementi costitutivi di quella che noi chiamiamo la «persona» e si avvicina a ciò che definiamo «coscienza». Ma tutto questo, nel cristianesimo, non è affatto semplicemente un movimento di «discernimento e di aggiustamento psicologico»: questa, dice Paolo, è «la lotta della fede» (1 Timoteo 6,12), l’unica lotta che può essere definita «buona». È cioè la