«Che lo vogliamo o no 
abbiamo solo tre alternative: 
ieri, il presente, e domani. 

E neppure poi tre,
perché come dice il filosofo 
ieri è ieri:
ci appartiene solo nel ricordo;
alla rosa che ha perso le foglie 
non puoi levarle un altro petalo. 
 
Le carte da giocare 
sono solo due: 
il presente e il giorno di domani. 
 
E neppure due,
perché è un fatto ben stabilito 
che il presente non esiste 
se non nella misura in cui si fa passato 
e già passò… 
come la gioventù. 
 
Riassumendo 
ci resta solo il domani
io sollevo la mia coppa 
per questo giorno che non arriva mai 
che però è l’unico 
di cui realmente disponiamo».
 
Nicanor Parra

«Come penetrare allora in questa conoscenza dell’uomo che non è disgiunta dalla rivelazione di Dio?
Certo non attraverso la scienza, nel senso delle nostre «scienze umane»,
che riconosceremo e approveremo,
ma attraverso la conoscenza cristiana che consiste in una conoscenza nella fede,
una conoscenza in cui l’organo non è una facoltà separata ma l’uomo nella sua intierezza,
una conoscenza che inizia e progredisce con la contrizione.
Sarebbe più esatto dire, con il Vangelo ed i Padri greci, metanoia,
nel significato di capovolgimento della nostra consapevolezza di esistere,
di passaggio copernicano dal geocentrismo dell’io (individuale o collettivo) all’eliocentrismo
che rivela, nella profondità degli esseri e delle cose, il sole divino».
Olivier Clément, Riflessioni sull’uomo, 10

I sette fratelli Cervi
Marco Paolini e i Mercanti di Liquore
 
C'erano sette fratelli
che andavano per il mondo:
sei erano sempre allegri,

Presepi di periferia 
di Flaviana Robbiati, maestra a Milano
Ci sono luci, a Natale, che brillano senza corrente. Penso a Maria, dieci anni, vado a prenderla nella baraccopoli in cui vive; andiamo a un’iniziativa a sostegno di un grande progetto della comunità di Sant’ Egidio per i bambini africani. Nel tragitto le parlo di questi bambini e di ciò che manca loro. 
Maria mi chiede: «Ma non hanno la casa?» «Nemmeno una baracca?» e continua «Ma allora perché non vengono nella mia baracchina?».
Cara Maria, i pochi metri in cui vivi con mamma, papà e i tuoi fratellini, senza acqua né luce, sono il luogo più bello del mondo, perché lì, nella povertà e nel freddo, c’è Gesù, ce l’hanno portato le tue parole. La tua baracchina è il presepe in cui Gesù abita
Penso a Camelia, che mi corre incontro con i suoi bambini appena vede spuntare la mia macchina. Ho portato alcuni sacchetti di cose utili, loro mi portano un sorriso aperto nonostante tutto.
E’ sempre così quando vengo qui: un caffè bevuto insieme in una baracca cresciuta insieme ad altre cento ai margini della città, i bambini che mi mostrano i quaderni e mi chiedono di aiutarli a finire i compiti, il racconto dei problemi di ogni giorno, ma soprattutto tanto affetto.
Nel lasciare quel luogo di miseria estrema porto sempre con me quegli abbracci, i sorrisi e l’ospitalità. Non hanno nulla, e mi regalano tutto. Anche lì ho incontrato il presepe. E’ strano, si va al presepe per portare doni, e lo si lascia rendendosi conto di essere arrivati a mani vuote e di ritrovarsele piene
Penso a Papa Francesco e a quando la scorsa estate, durante le Gmg, è stato accolto nella baracca di una favela. Non so se lui sa quanto quel gesto abbia riempito il cuore di noi volontari che delle baraccopoli rom abbiamo fatto una seconda famiglia. Abbiamo sorriso quando ha detto che il pastore deve avere l’odore delle sue pecore: ne sappiamo qualcosa! Di sicuro il papa sa quale ricchezza sia incontrare questi presepi, e quanto lo si debba fare con delicatezza, in punta di piedi, anzi, in ginocchio, come si farebbe se ci si trovasse davvero davanti alla capanna di Betlemme.
A questi poveri il nostro grazie per l’amicizia e la fiducia che ci donano. 
in “La Stampa” del 24 dicembre 2013
Invito a cena alla tavola di Gesù 
di Tomaso Montanari 
La prima cosa che gli uomini donarono a Gesù fu del cibo. Prima ancora dei simboli dei Re Magi (l’oro della regalità, l’incenso della divinità e la mirra del dolore), arrivarono infatti i formaggi e il latte dei pastori, nella notte di Betlemme. 
La cosa dovette fargli piacere, e, da grande, Gesù accettò volentieri gli inviti a cena. Almeno una volta fu lui a offrire un pranzo. Fece le cose in grande: a tavola c’erano almeno cinquemila persone. E si mangiò del pesce! 
Tanti artisti hanno rappresentato le affollate cene di Gesù da grande, ma quasi nessuno ci ha fatto vedere quelle private e intime: quando era un bambino, nella cucina della casa di Nazareth
Quasi quattrocento anni fa, ci ha provato Jacques Callot in questa dolcissima incisione: ordinata come un pensiero di Cartesio, illuminata come un quadro di Caravaggio. 
Questa piccola scena è proprio un quadro, ma dipinto in bianco e nero. Con una punta al posto del pennello. E non solo in un esemplare: ma in tantissimi. Così, più grazie ad un artista che ad un 
predicatore, molte persone hanno potuto capire che Gesù era proprio un essere umano normale: in una casa normale, seduto a una tavola normale
Maria e Giuseppe hanno già finito di mangiare (e la frutta è già in tavola), mentre Gesù, come tutti i bambini, è stato più lento. Ha ancora il piatto davanti, e il babbo lo aiuta a bere, da un bicchiere più 
grande di lui.
Ma cosa mangiava Gesù in casa sua? Cosa cucinava la sua mamma, Maria? 
Nessuno lo sa, ma ciascuno di noi può immaginare quella tavola speciale, magari facendosi guidare dalla cucina della terra di quella famiglia: Israele e la Palestina. 
Ma noi, in Italia, abbiamo una via tutta speciale a quella cucina. Penso alla tradizione degli ebrei di Roma: una comunità che affonda le sue radici proprio nel popolo e negli anni di Gesù. 
E siccome l'arte serve anche a far correre l'immaginazione, si può pensare che a quella tavola si siano appena consumati – che so – dei carciofi fritti. Fritti interi: quelli che a Roma si chiamano appunto «alla giudia», cioè fatti al modo della comunità ebraica. È bello fantasticare che, tra le rose e i gigli di Maria, non mancassero anche questi specialissimi fiori croccanti di carciofo. 
E se i cristiani avessero capito che dire «alla giudea» o dire «alla maniera della casa di Gesù» era la stessa cosa, la storia degli ultimi duemila anni sarebbe stata un’altra storia.
Jacques Callot, La Sacra Famiglia a tavola (incisione, 1628)
in “il Fatto Quotidiano” del 23 dicembre 2013
Un invito a cena
di Carlo Maria Martini
Abbiamo invitato a cena Khalil. È un amico egiziano. L'abbiamo aiutato qualche anno fa, quando era appena arrivato, con la sua povertà un po' spaventata, la sua dignità e serietà che ci avevano molto colpito. L'abbiamo aiutato a smontare i pregiudizi in cui resta impigliato chiunque riveli con il colore della pelle e con il suo italiano approssimativo di provenire da un paese povero.
Non è che abbiamo fatto molto per Khalil: solo gli abbiamo indicato un appartamentino che poteva prendere in affitto e gli abbiamo detto: "Se ti serve qualche cosa, noi siamo qui".
Non ha mai avuto bisogno di molto: qualche indirizzo, qualche spiegazione su usi, costumi, leggi, qualche aiuto per decifrare modi di dire, parole difficili, per sbrogliare qualche complicazione burocratica. Soprattutto ci ha chiesto un po' di tempo: per stare insieme, per passare pomeriggi di Domenica senza sentirsi troppo solo e troppo perso.
Così si è creata una certa familiarità e qualche volta lo invitiamo a cena. Ci ha aiutato a scoprire che cosa meravigliosa sia l'ospitalità. Eravamo - anche noi - piuttosto diffidenti ed esitanti: forse una certa indefinibile paura (di che cosa, poi?) o piuttosto l'imbarazzo di fronte a quell'universo sconosciuto fatto di deserto e di povertà, di lingue sconosciute e di un cielo senza nubi: tutto quanto stava scritto sul volto scuro di Khalil. Appena però è entrato e ha regalato pistacchi ai ragazzi e ha fatto i complimenti alla cuoca (che sarei poi io) per il profumino che veniva dalla cucina (Khalil di mestiere fa il cuoco) è sembrato che i mondi stranieri fossero fatti solo per incontrarsi. È stata una serata molto divertente quella prima volta in cui fu ospite da noi. E così anche stavolta l'abbiamo invitato, per scambiare gli auguri di Natale. Anche lui, 'sto pover'uomo, aveva un regalo per noi.
Ha scartato il suo pacchetto sotto lo sguardo incuriosito dei ragazzi. Deve aver subito intuito la loro delusione: era un'icona, di quelle a buon mercato, però ben fatta. Rappresentava la SS. Trinità, i tre angeli seduti a mensa.
Ma con il fascino del suo accento straniero e l'astuzia che lo caratterizza riuscì a tenere tutti incantati mentre la spiegava.
La spiegava press'a poco così:
Khalil. "Ditemi: che cosa rappresenta questa icona?".
Stefano: "Sono tre angeli".
Khalil: "E che cosa fanno?".
Stefano: "Niente, sono seduti".
Marco: "Sono seduti per bere: c'è una coppa; e tutt'intorno il deserto".
Laura: "No, stanno prendendo una decisione difficile. Si guardano negli occhi; sembrano anche un po' tristi e preoccupati!".
(continua - clicca su Read more qui sotto a destra)

«Vi sembrerà un pensiero poco 'natalizio'...
ma la tradizione cristiana orientale ha sempre raffigurato la nascita di Gesù
non in una capanna, bensì in una grotta,
molto simile al sepolcro dove sarebbe stato seppellito.
Nacque, dunque, come tutti, per morir
e la sua morte svelò il senso della sua vita.
Apprendiamo anche noi, presto, la grande arte del commiato
che ci scioglie dai legami terreni
e ci accompagna a ben più solide e durature realtà.
Liberi finalmente dalla logorante e falsa scelta fra prendere e lasciare,
prudenti e accorti rispetto a tutti i prò, ingnari d'ogni contro.
Egli solo E'».
Paolo Branca, FB, 131221

Credo, Signore,
che alla fine della notte
non c'è più notte
ma l'aurora.
Credo, Signore,
che alla fine dell'inverno
non c'è più inverno
ma la primavera.
Credo, Signore,
che dopo la disperazione
non c'è ancora disperazione
ma la speranza.
Credo, Signore,
che al termine dell'attesa
non c'è ancora attesa
ma l'incontro.
Credo, Signore,
che dopo la morte
non c'è ancora morte
ma la vita.
 
Jules Folliet

Non auguratemi più buon Natale via mail
Per le feste la casella di posta si intasa con un diluvio di Babbi Natale neogotici e presepi postmoderni (alcuni animati).
di Paolo Di Stefano
 

«Arrivò senza essere aspettato, venne senza essere stato concepito. Solo la madre sapeva ch'era figlio di un annuncio del seme che sta nella voce di un angelo. Era accaduto ad altre donne ebree, a Sara per esempio.
Solo le donne, le madri, sanno cos'è il verbo aspettare. Il genere maschile non ha costanza né corpo per ospitare attese. Risento l'aggravante di ignorare fisicamente la voce del verbo aspettare. Non per impazienza, ma per mancanza di tenuta: neanche durante le febbri malariche mi veniva di ricorrere al repertorio delle immaginazioni di guarire, di stare in attesa di.
Nei risvegli mattutini scorrendo Isaia leggo: "Lieti quelli che aspettano lui» (Is 30,18). Non ho conosciuto questa saggia e fisica letizia. Ma più forte di questa notizia, nello stesso verso è scritto: «Perciò aspetterà Iod/Dio di farvi misericordia». C'è un'attesa prima, che spetta a Dio e ha lo stesso verbo ebraico hacchè. Nella sua riduzione al formato della specie umana, il Suo tempo infinito si contrae nel finito di un'attesa.
Dio aspetta: «Per farvi misericordia». Il tempo di Avvento sta a imitazione di, sta dirimpetto all'eternità di un Dio che accetta di farsi periodico, irrompendo nel mondo a mesi stabiliti con nascita, morte e risurrezione. Chi ha in corpo le risorse per concepire attese, conosce dal verso di Isaia l'immensità della corrispondente attesa di Dio».
Erri De Luca, Nocciolo d'oliva, 13-14


«Ma se io dovessi rinascere

e ricominciare da capo,
io amerei all'infinito sempre
e comunque.

Se un giorno tornerò alla vita,
la mia casa non avrà chiavi,
sempre aperta,
come il mare, il sole, l'aria.

Che entrino la notte e il giorno,
la pioggia azzurra, la sera,
il pane rosso dell'aurora, la luna:
mia dolce amante.

Che l'amicizia non trattenga
il passo sulla soglia,
né le rondini in volo,
né l'amore le labbra.

Nessuno.

La mia casa,
il mio cuore, mai chiusi.
Che passino gli uccelli,
gli amici, l'amore e l'aria». 


Marcos Ana


Quei passi della Bibbia sulla neve che oggi imbianca Gerusalemme
di Marco Garzonio 
I turisti han ragione di gioire al Muro del Pianto, alla Spianata delle Moschee, alla Valle di Giosafat trasformati in scenari nordici. E di incuriosirsi davanti ai pupazzi dei bambini nella Città Vecchia o all’imbarazzo dei fedeli ortodossi con le larghe falde dei neri cappelli imbiancate. Da sempre città unica e speciale Gerusalemme lo è pure per i significati che la neve racchiude e rivela. Anche per l’antichità era evento raro, ricco di valenze simboliche, capace di stimolare l’immaginazione degli autori del testo biblico alla ricerca d’un senso da dare alle cose. Luminosa, candida, eccezionale la neve evoca la trascendenza e, insieme, la potenza delle forze naturali che possono essere ostili come il gelo, la grandine, il vento, la tempesta. La Sapienza confonde Giobbe: «Sei mai giunto ai serbatoi della neve, hai mai visto i serbatoi della grandine che io riserbo per il tempo della sciagura?». Ma dal cielo viene anche la continua promessa di vita e nutrimento: materiale e spirituale. Dice Isaia: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà la parola uscita dalla mia bocca». Grazie a immagini straordinarie rilanciate dai media echeggia nella Gerusalemme sotto la neve la potenza della Parola biblica, la sua forza nell’unire natura e cultura, terra e cielo, storia e futuro; ricorda all’uomo tout court come sia perdita secca fermarsi alla superficie degli eventi piccoli e grandi e non andare alla ricerca di che cosa essi dicono, che significato possono avere, la memoria e i progetti cui possono rimandare. Un’icona molto cliccata mostra Netanyahu e Kerry con alle spalle il panorama della Città Santa bianca. Chissà se nelle loro orecchie è giunta eco del Salmo che invoca la lode cosmica anche da «governanti e giudici della terra»: «Lodate il Signore... neve e nebbia, vento di bufera che obbedisce alla sua parola». La via della pace passa da atteggiamenti nuovi. Sotto la neve il seme cresce. Se gli uomini lo accudiscono dà frutti. Certo debbono cambiare mentalità, purificarsi: «Lavami e sarò più bianco della neve», recita un altro Salmo. Le mura della Città di Davide ammantate di inverno oggi fanno eco. 
in “Corriere della Sera” del 14 dicembre 2013

«Non aver paura dell'amore.
Posa la tua mano lentamente sul petto della terra
e senti respirare i nomi delle cose che lì stanno crescendo:
il lino e la genziana, la verzura odorosa e le campanule blu;
la menta profumata per le bevande dell'estate
e l'ordito delle radici di una pianticella d'alloro
che si organizza come un reticolo di vene nella confusione di un corpo.
Mai la vita
è stata solo inverno».
Maria do Rosario Pedreira
Sinodo diocesano di Milano
77 § 2. I fedeli siano abituati a non confessarsi durante la messa.
Ogni celebrazione liturgica, infatti, richiede una partecipazione attiva e quindi esclusiva,
così che ad essa non debbano sovrapporsi altre celebrazioni o devozioni. 
«Perché?
Perché dico sempre la verità,
anche quando non ce n’è bisogno?
Sempre. È una malattia. 
Come se avessi un cane nella pancia 
che si mettesse ad abbaiare con la mia bocca. 
Ma ho i miei vantaggi. 
Ognuno mi detesta per quel che gli dico in faccia 
e ognuno mi vuol bene per quel che dico in faccia agli altri. 
E cosí, un poco amata, un poco detestata secondo i momenti, 
non ho mai trovato chi mi voglia bene due giorni di seguito».
Luigi Pirandello
 
La Pace di Natale
di padre Carlo Maria Martini
Mi sono sempre sentito a disagio con la facilità con cui a Natale e poi a Capodanno si fanno gli auguri di beni grandiosi e risolutivi, auspicando che le feste che celebriamo portino pace, salute, giustizia, concordia.
Quando diciamo queste parole sappiamo bene che per lo più non si avvereranno e passata l'euforia delle feste ci troveremo più o meno con gli stessi problemi.
Non è questa l'intenzione della Chiesa nel celebrare la festa del Natale.
Essa intende ricordare con gratitudine il piccolo evento di Betlemme che, per chi crede, ha cambiato la storia del mondo e ci permette di guardare con fiducia anche ai momenti difficili della vita, in quanto illuminati e riscattati dal senso nuovo dato dalle vicende umane dalla presenza del figlio di Dio.
Ma non ci si limita al ricordo commemorativo. Si proclama la fiducia nella venuta di Colui che «tergerà ogni lacrima dai loro occhi», per cui «non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né affanno» (Apocalisse 21,4) e si rinnova la speranza con al quale «noi aspettiamo nuovi cieli e una nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2 Pietro 3,13). Per questo il grido dei primi cristiani, riportato nella pagina conclusiva dell'Apocalisse, era: «Vieni, Signore Gesù!».
Ma questa attesa non è passiva: essa è ispiratrice di tutti quei gesti che pongono fin da ora segnali di giustizia, di riconciliazione e di pace di questa nostra terra pur così tormentata da lacerazioni e ingiustizie. In questo senso anche lo scambio di auguri di contenuto alto può esprimere la volontà di impegnarsi e la fiducia nella forza dello Spirito Santo che guida gli sforzi umani.
 
tratto da "La Repubblica", 24 dicembre 2003

 

«Guidami, Luce gentile,
in mezzo alla tenebra che mi circonda,
guidami Tu innanzi!
Buia è la notte, ed io sono lontano da casa.
Guidami Tu innanzi!
Rendi saldi i miei piedi: io non chiedo di vedere
l’orizzonte remoto, mi basta un solo passo.
Non fui sempre così, ne pregai sempre che Tu
mi conducessi innanzi.
Mi piaceva scegliere e vedere la mia strada;
ma ora guidami tu innanzi!
Amavo il giorno splendente e, più forte del timore,
l’orgoglio dominava il mio volere:
non ricordare gli anni passati!
Così a lungo m’ha la tua potenza benedetto,
che certo ancora
vorrai guidarmi innanzi,
oltre lande e paludi, oltre rocce e torrenti,
fino a quando la notte sia trascorsa;
e con il mattino mi sorrideranno gli angelici volti
che ho per lungo tempo amati e per un tratto perduti».
 
J.H. Newman

 

 

 

Immacolata:
nulla da nascondere,
per grazia di Dio.
don Chisciotte

«(...) Il Salmo 72 è un'esperienza religiosa, sì, ma diremmo quasi ai limiti della perdita di fede, dell'abbandono di Dio.
E' interessante cogliere come la Scrittura non ha paura di queste esperienze; anzi, ce le presenta, le riporta, le registra perché sono esperienze di chi veramente cammina nell'amicizia con Dio, di chi ha rischiato tutto.
E' chiaro che chi non rischia molto non vive queste esperienze: sono le esperienze di chi gioca la propria vita. Spesso i santi vivono al limite queste esperienze perché hanno rischiato davvero tutto.
Questa esperienza drammatica è anche l'esperienza del Figlio di Dio; è l'esperienza di chi ama fino in fondo, di chi rischia fino in fondo, e quindi di chi assapora il gusto della prova. Non è l'esperienza di chi cammina sulle vie piane, facili, di chi non rischia nulla, ma l'esperienza di chi ama molto.
Questo salmo nasce da un grandissimo amore, e proprio per questo esprime con molta libertà la propria sofferenza.
Ci sembra strano, ma non viene chiusa la bocca di chi si lamenta così; anzi, il lamento viene portato avanti con amarezza. Quest'uomo confronta la propria vita con quella di altri e dice: «Per poco non inciampavano i miei piedi, per un nulla vacillavano i miei passi». Cioè, sono stato a un pelo dalla disperazione».
Carlo Maria Martini, Il desiderio di Dio. Pregare i salmi, 93-103
Tra le nostre Newsletters trovi il file completo.

«La salvezza di cui noi esseri umani abbiamo bisogno
è di essere liberati dalle tenebre che ci avvolgono,
che ci rendono inquieti, preoccupati, timorosi.
Nella tenebra, simbolo del caos e della morte,
sorge improvvisamente una luce.
Questa luce è un bambino mandato da Dio».
Carlo Maria Martini

da giovedì 5 dicembre,
con Famiglia Cristiana n. 49,
il libro "Verso la Luce",
le riflessioni sul Natale del cardinale Martini.


«Noi siamo ancora, o Dio, stranieri e pellegrini sulla terra,
ma tu sorreggi la nostra incostanza
perché la fiducia nella gloria sperata sia viva sino alla fine,
quando lieti e rasserenàti
entreremo nel tuo riposo.
Per Cristo tuo Figlio, nostro Signore e nostro Dio,
che vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli».
Prima orazione della Messa
Lunedì della III settimana di Avvento - rito ambrosiano


(...) Le espressioni conclusive del "Discorso di Mileto" di At 20 ben si addicono anche a noi: siamo addolorati di non poterci più arricchire della paternità del card. Martini per noi.
Non mancano le pubblicazioni dei suoi interventi, con la loro passione, sapienza, acume, genialità... ma ci mancano il suo volto eloquente, la sua voce sicura, i suoi occhi profondi, le sue dita lunghissime, la sua postura signorile, il suo modo di fare il segno della croce... che valeva un'intera vita spirituale.
Così ci diceva nel 2002, a pochi mesi dalla conclusione del suo servizio episcopale: vi sono

«motivi particolari che rendono straordinariamente ricco di emozioni questo momento di rilettura dei fondamenti della nostra comunione di presbiterio. Si tratta infatti probabilmente dell'ultima Messa crismale che celebro con voi come vostro Arcivescovo. E (...) provo una immensa gratitudine per tutti voi» (Messa Crismale - 2002).

Noi rinnoviamo in questo momento la nostra gratitudine a p. Martini.
Se nel titolo di questo intervento troviamo la parola "visione" non è certo per evocare una sorta di disincarnato o astratto modo di vedere le cose; Martini ha una "vision", secondo l'uso inglese del termine: «come se vedesse l'invisibile» (Eb 11,27), seguiva questo "intuito nello Spirito del Signore".
Lo seguiva per sé, in quanto discepolo; lo seguiva per guidare il suo popolo "di giorno e di notte", in quanto vescovo; lo indicava ad altri, in quanto educatore.
E nella dimensione ascetica e mistica del suo essere "servo", ha accettato di perdere la vita: da persona schiva ha dovuto diventare personaggio pubblico; da timido è stato chiamato ad essere forte in prima fila; da religioso a guida del presbiterio diocesano; da studioso a pastore.
Possiamo dire che in lui l'ordinazione episcopale ha realmente modificato il suo essere - diremmo trasfigurato - esaltandone i tratti migliori per il servizio alla Chiesa.

Per questo le sue parole e il suo stile hanno convinto anche un tipo come me a pensare fosse possibile e gioioso servire in questo modo la Chiesa di Dio: se quelle che abbiamo descritto - riascoltando la voce di p. Martini - sono davvero le coordinate del ministero ordinato, vale la pena di viverlo.
E questo non è solo uno slogan che può illuminare la pastorale vocazionale: è anzitutto una Buona Notizia per me.

Voglio quindi concludere il mio intervento con una confessio laudis che uscì nel 2002 dalla stessa bocca del card. Martini, che magari ora la ripete con noi:

«Noi ti lodiamo o Signore, perché tu ci hai posti come sigillo sul tuo braccio e hai stampato la tua immagine nel nostro cuore. Il segno della tua gloria brilla anche nel nostro presbiterio, al di là di tutte le nostre povertà e inadeguatezze» (Mileto).
«La posta in gioco è alta (...): si tratta di regalare al nostro tempo il segno autentico della Chiesa di Gesù, facendola esistere e crescere nelle sue componenti essenziali» (Mileto - 2002).
«Il Signore ci chiede d'essere uomini che si aprono ad orizzonti grandi e che cercano con lucidità e passione di capire sempre meglio il senso e i modi del ministero oggi a Milano» (Mileto - 2002).
Amen.

Il Tao preso sul serio
di Gianfranco Ravasi

Ha la copertina un po' sgualcita e reca la polvere del tempo, ma ho ritrovato il volume Cammini di contemplazione che avevo acquistato nel 1972. A tradurlo dall'originale francese del 1969 era stato Enzo Bianchi, l'attuale priore di Bose, allora certamente ignoto ai più, ma già attento ai temi della vita spirituale. Autore di quel testo era un gesuita, Yves Raguin, nato nel 1912 nei pressi di quel delizioso villaggio medievale che è Chinon, dominato da un grandioso castello, uno dei tanti della Loira. Già durante i suoi studi di teologia, egli era stato attratto dal fascino dell'Oriente cinese, tant'è vero che nel 1946 era a Harvard per perfezionarsi in quella cultura e nel 1949 migrava a Shanghai ove allora prosperava una comunità cattolica, dotata anche di un'università. Ma sulla Cina stava per abbattersi l'onda rossa maoista e, così, padre Raguin fu costretto nel 1953 a migrare a Taiwan. Da quell'isola egli irradierà non solo il messaggio ma anche la sua presenza viaggiando in Vietnam, Cambogia, Filippine, Macao, Corea, Hong Kong, compiendo una serie di soggiorni che si concluderanno di nuovo a Taiwan. Qui condurrà in porto un poderoso dizionario, detto Le Grand Ricci, che sarà completato solo nel 2002, quattro anni dopo la sua morte avvenuta nel 1998. Questo monumento linguistico, composto di 7 volumi, 9mila pagine, 15mila caratteri cinesi con 300mila significati, recava il nome di quello straordinario gesuita marchigiano, Matteo Ricci (1552-1610), che aveva stabilito il primo ponte tra cattolicità e mondo cinese.
Di Raguin appare ora un'opera di particolare suggestione: essa ha una matrice orale perché nasce da un corso da lui tenuto tra il 1977 e il 1982 a Taipei, la capitale di Taiwan, su impulso dell'arcivescovo locale. Lo scritto rivela quest'impronta didattica e, quindi, risulta utile per il lettore profano occidentale (non solo cristiano) che vuole scoprire – attraverso una sinossi ideale – le due vie della spiritualità, quella del Tao nel suo sfrangiarsi tematico secondo le molteplici forme orientali, ma anche quella del cristianesimo. Essa ha, certo, una radice evangelica, cresciuta però successivamente in un albero lussureggiante, a partire da sant'Agostino discendendo «per li rami» fino a Meister Eckhart, Teresa d'Avila, Giovanni della Croce e così via.
Questa comparazione tra le due spiritualità – bisogna marcarlo subito – non è meramente accademica, anche se ogni pagina rivela in filigrana una rigorosa matrice filologica e storico-critica (non per nulla alla fine il sinologo Matteo Nicolini-Zani allega un glossario dei caratteri cinesi usati dall'autore, con la relativa accezione). La ricerca di Raguin ha una dimensione anche esistenziale e si allinea a quella di altre importanti figure della mistica e della teologia cattolica contemporanea, che hanno anche vissuto in contatto e spesso in comunione con le esperienze spirituali orientali. Ne hanno respirato l'anima, cercandone le sintonie, registrandone le discrasie, ammirandone la purezza e autenticità: si pensi, ad esempio, a Thomas Merton, a Raimon Panikkar, a Henri Le Saux, a Bede Griffiths o a Jules Monchanin, solo per citare i più noti.
Siamo, dunque, in presenza di una navigazione nei mari dello spirito, del divino, del mistero, procedendo secondo il contrappunto (non necessariamente dialettico) fra trascendenza e immanenza. E come affermava un autore poetico-spirituale del Cinquecento spagnolo, Fray Luis de León, «en Dios se descubren nuevos mares cuanto más se navega». I nuovi mari sono appunto quelli delle tradizioni orientali che spaziano dal buddhismo al taoismo, dallo zen allo yoga fino al confucianesimo. Ma per navigare senza sbandare o, peggio, incagliarsi nello scoglio del sincretismo, scoglio avvolto nella nebbia di una banale "con-fusione" di religioni, è necessario impugnare saldamente una mappa nautica. È ciò che Raguin offre nella prima anta del trittico in cui è articolato il suo corso, dedicata proprio alla «struttura del mondo spirituale». Sono pagine di un'intensità inattesa ove si dipanano le questioni centrali tematiche, teoriche ed esistenziali, che fanno subito comprendere quanto sia falsa la vulgata diffusa a livello colto e popolare secondo la quale la mistica è una sorta di decollo sentimental-emotivo verso cieli eterei, esoterici, alienanti.
Chi leggerà questi capitoli s'accorgerà anche quanto suoni falsa e fin banale certa spiritualità orientale che miscela yoga e yogurt, messaggio e massaggio, fitness e ascetica, spiritualità contrabbandata da alcuni guru d'Oriente, accolti con gridolini di ammirazione in certi salotti borghesi, pronti a immergersi nel gioco della "meditazione". Muniti, invece, di una mappa seria, giunge il momento di salpare.
La seconda tavola del trittico è appunto intitolata «Viaggio nel mondo spirituale»: qui si propone l'attrezzatura per la navigazione lungo alcune traiettorie, come lo sono "la via dello Yoga" e "la via del Chan" (termine cinese equivalente al sanscrito dhyana, ossia «visione, meditazione»), ma anche "la via delle forme", quella "verso l'intimo", "la via espressiva" e "dell'illuminazione". L'ultimo passo, quando si compie «il vedere il sé e il vedere Dio», è la santità che ha profili differenti nel Tao e nel cristianesimo, pur in una consonanza di fondo o forse più di sfondo. Ecco perché è necessaria l'ultima pala del trittico, quella che dipinge i ritratti dei differenti maestri di spirito, a partire da Cristo, Paolo e Giovanni fino ai citati autori della mistica classica sia cinese sia cristiana. Qui forse si potrebbero avanzare alcune riserve nella rilettura che Raguin delinea di queste figure e delle loro opere. Questo, però, non inficia la bellezza sostanziale della terza tavola, dedicata alla concreta declinazione delle esperienze spirituali e dei loro linguaggi espressivi, spesso simili a stampi rigidi che vanamente cercano di comprimere l'incandescenza vitale delle pratiche mistiche, delle parole e dei simboli che devono esprimere l'ineffabile. Ma la ricchezza esemplificativa, dispiegata dalla straordinaria competenza del gesuita franco-cinese, aiuta anche il neofita a varcare la soglia del "mistero", termine greco che ha paradossalmente per radicale il verbo del silenzio, il myein che è «tacere», un silenzio che non è, però, mutismo bensì rivelazione.

Yves Raguin, Il Tao della mistica, Introduzione di Maciej Bielawski, traduzione di Riccardo Larini, Fazi editore, Roma, pagg. 452, € 18,00

in “Il Sole 24 Ore” del 1 dicembre 2013

«Siamo, Padre, davanti a te all'inizio di questo Avvento.
E siamo davanti a te insieme,
in rappresentanza anche di tutti i nostri fratelli e sorelle
di ogni parte del mondo.
In particolare delle persone che conosciamo;
per loro e con loro, Signore,
noi ti preghiamo.
Noi sappiamo che ogni anno si ricomincia
e questo ricominciare
per alcuni è facile, è bello, è entusiasmante,
per altri è difficile,
è pieno di paure, di terrore.
Pensiamo a come si inizia questo Avvento
nei luoghi della grande povertà,
della grande miseria;
con quanta paura la gente guarda
al tempo che viene.
O Signore, noi ci uniamo a tutti loro;
ti offriamo la gioia che tu ci dai di incominciarlo,
ti offriamo anche la fatica,
il peso che possiamo sentire nel cominciarlo.
Questo tempo che inizia nel tuo nome santo,
vissuto sotto la potenza dello Spirito,
sia accoglienza della tua Parola.
Te lo chiediamo per Gesù Cristo,
tua Parola vivente che viene in mezzo a noi e viva qui,
insieme con Maria, Madre del tuo Figlio,
che con lo Spirito Santo e con Te
vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen».
card. Carlo Maria Martini, Quotidianità luogo di Dio, 2006

Mi ricorda lo stile di tanti ambienti che frequento.

don Chisciotte