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«Che lo vogliamo o no
E neppure poi tre,
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«Come penetrare allora in questa conoscenza dell’uomo che non è disgiunta dalla rivelazione di Dio?
Certo non attraverso la scienza, nel senso delle nostre «scienze umane»,
che riconosceremo e approveremo,
ma attraverso la conoscenza cristiana che consiste in una conoscenza nella fede,
una conoscenza in cui l’organo non è una facoltà separata ma l’uomo nella sua intierezza,
una conoscenza che inizia e progredisce con la contrizione.
Sarebbe più esatto dire, con il Vangelo ed i Padri greci, metanoia,
nel significato di capovolgimento della nostra consapevolezza di esistere,
di passaggio copernicano dal geocentrismo dell’io (individuale o collettivo) all’eliocentrismo
che rivela, nella profondità degli esseri e delle cose, il sole divino».
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I sette fratelli Cervi
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Cara Maria, i pochi metri in cui vivi con mamma, papà e i tuoi fratellini, senza acqua né luce, sono il luogo più bello del mondo, perché lì, nella povertà e nel freddo, c’è Gesù, ce l’hanno portato le tue parole. La tua baracchina è il presepe in cui Gesù abita.
Nel lasciare quel luogo di miseria estrema porto sempre con me quegli abbracci, i sorrisi e l’ospitalità. Non hanno nulla, e mi regalano tutto. Anche lì ho incontrato il presepe. E’ strano, si va al presepe per portare doni, e lo si lascia rendendosi conto di essere arrivati a mani vuote e di ritrovarsele piene.
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ma la tradizione cristiana orientale ha sempre raffigurato la nascita di Gesù
non in una capanna, bensì in una grotta,
molto simile al sepolcro dove sarebbe stato seppellito.
Nacque, dunque, come tutti, per morir
e la sua morte svelò il senso della sua vita.
Apprendiamo anche noi, presto, la grande arte del commiato
che ci scioglie dai legami terreni
e ci accompagna a ben più solide e durature realtà.
Liberi finalmente dalla logorante e falsa scelta fra prendere e lasciare,
prudenti e accorti rispetto a tutti i prò, ingnari d'ogni contro.
Egli solo E'».
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Credo, Signore,
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di Paolo Di Stefano
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«Arrivò senza essere aspettato, venne senza essere stato concepito. Solo la madre sapeva ch'era figlio di un annuncio del seme che sta nella voce di un angelo. Era accaduto ad altre donne ebree, a Sara per esempio.
Solo le donne, le madri, sanno cos'è il verbo aspettare. Il genere maschile non ha costanza né corpo per ospitare attese. Risento l'aggravante di ignorare fisicamente la voce del verbo aspettare. Non per impazienza, ma per mancanza di tenuta: neanche durante le febbri malariche mi veniva di ricorrere al repertorio delle immaginazioni di guarire, di stare in attesa di.
Nei risvegli mattutini scorrendo Isaia leggo: "Lieti quelli che aspettano lui» (Is 30,18). Non ho conosciuto questa saggia e fisica letizia. Ma più forte di questa notizia, nello stesso verso è scritto: «Perciò aspetterà Iod/Dio di farvi misericordia». C'è un'attesa prima, che spetta a Dio e ha lo stesso verbo ebraico hacchè. Nella sua riduzione al formato della specie umana, il Suo tempo infinito si contrae nel finito di un'attesa.
Dio aspetta: «Per farvi misericordia». Il tempo di Avvento sta a imitazione di, sta dirimpetto all'eternità di un Dio che accetta di farsi periodico, irrompendo nel mondo a mesi stabiliti con nascita, morte e risurrezione. Chi ha in corpo le risorse per concepire attese, conosce dal verso di Isaia l'immensità della corrispondente attesa di Dio».
Erri De Luca, Nocciolo d'oliva, 13-14
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«Ma se io dovessi rinascere
e ricominciare da capo,
io amerei all'infinito sempre
e comunque.
Se un giorno tornerò alla vita,
la mia casa non avrà chiavi,
sempre aperta,
come il mare, il sole, l'aria.
Che entrino la notte e il giorno,
la pioggia azzurra, la sera,
il pane rosso dell'aurora, la luna:
mia dolce amante.
Che l'amicizia non trattenga
il passo sulla soglia,
né le rondini in volo,
né l'amore le labbra.
Nessuno.
La mia casa,
il mio cuore, mai chiusi.
Che passino gli uccelli,
gli amici, l'amore e l'aria».
Marcos Ana
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Quei passi della Bibbia sulla neve che oggi imbianca Gerusalemme
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Ogni celebrazione liturgica, infatti, richiede una partecipazione attiva e quindi esclusiva,
così che ad essa non debbano sovrapporsi altre celebrazioni o devozioni.
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«(...) Il Salmo 72 è un'esperienza religiosa, sì, ma diremmo quasi ai limiti della perdita di fede, dell'abbandono di Dio.
E' interessante cogliere come la Scrittura non ha paura di queste esperienze; anzi, ce le presenta, le riporta, le registra perché sono esperienze di chi veramente cammina nell'amicizia con Dio, di chi ha rischiato tutto.
E' chiaro che chi non rischia molto non vive queste esperienze: sono le esperienze di chi gioca la propria vita. Spesso i santi vivono al limite queste esperienze perché hanno rischiato davvero tutto.
Questa esperienza drammatica è anche l'esperienza del Figlio di Dio; è l'esperienza di chi ama fino in fondo, di chi rischia fino in fondo, e quindi di chi assapora il gusto della prova. Non è l'esperienza di chi cammina sulle vie piane, facili, di chi non rischia nulla, ma l'esperienza di chi ama molto.
Questo salmo nasce da un grandissimo amore, e proprio per questo esprime con molta libertà la propria sofferenza.
Ci sembra strano, ma non viene chiusa la bocca di chi si lamenta così; anzi, il lamento viene portato avanti con amarezza. Quest'uomo confronta la propria vita con quella di altri e dice: «Per poco non inciampavano i miei piedi, per un nulla vacillavano i miei passi». Cioè, sono stato a un pelo dalla disperazione».
Carlo Maria Martini, Il desiderio di Dio. Pregare i salmi, 93-103
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«La salvezza di cui noi esseri umani abbiamo bisogno
è di essere liberati dalle tenebre che ci avvolgono,
che ci rendono inquieti, preoccupati, timorosi.
Nella tenebra, simbolo del caos e della morte,
sorge improvvisamente una luce.
Questa luce è un bambino mandato da Dio».
Carlo Maria Martini
da giovedì 5 dicembre,
con Famiglia Cristiana n. 49,
il libro "Verso la Luce",
le riflessioni sul Natale del cardinale Martini.
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«Noi siamo ancora, o Dio, stranieri e pellegrini sulla terra,
ma tu sorreggi la nostra incostanza
perché la fiducia nella gloria sperata sia viva sino alla fine,
quando lieti e rasserenàti
entreremo nel tuo riposo.
Per Cristo tuo Figlio, nostro Signore e nostro Dio,
che vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli».
Prima orazione della Messa
Lunedì della III settimana di Avvento - rito ambrosiano
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(...) Le espressioni conclusive del "Discorso di Mileto" di At 20 ben si addicono anche a noi: siamo addolorati di non poterci più arricchire della paternità del card. Martini per noi.
Non mancano le pubblicazioni dei suoi interventi, con la loro passione, sapienza, acume, genialità... ma ci mancano il suo volto eloquente, la sua voce sicura, i suoi occhi profondi, le sue dita lunghissime, la sua postura signorile, il suo modo di fare il segno della croce... che valeva un'intera vita spirituale.
Così ci diceva nel 2002, a pochi mesi dalla conclusione del suo servizio episcopale: vi sono
«motivi particolari che rendono straordinariamente ricco di emozioni questo momento di rilettura dei fondamenti della nostra comunione di presbiterio. Si tratta infatti probabilmente dell'ultima Messa crismale che celebro con voi come vostro Arcivescovo. E (...) provo una immensa gratitudine per tutti voi» (Messa Crismale - 2002).
Noi rinnoviamo in questo momento la nostra gratitudine a p. Martini.
Se nel titolo di questo intervento troviamo la parola "visione" non è certo per evocare una sorta di disincarnato o astratto modo di vedere le cose; Martini ha una "vision", secondo l'uso inglese del termine: «come se vedesse l'invisibile» (Eb 11,27), seguiva questo "intuito nello Spirito del Signore".
Lo seguiva per sé, in quanto discepolo; lo seguiva per guidare il suo popolo "di giorno e di notte", in quanto vescovo; lo indicava ad altri, in quanto educatore.
E nella dimensione ascetica e mistica del suo essere "servo", ha accettato di perdere la vita: da persona schiva ha dovuto diventare personaggio pubblico; da timido è stato chiamato ad essere forte in prima fila; da religioso a guida del presbiterio diocesano; da studioso a pastore.
Possiamo dire che in lui l'ordinazione episcopale ha realmente modificato il suo essere - diremmo trasfigurato - esaltandone i tratti migliori per il servizio alla Chiesa.
Per questo le sue parole e il suo stile hanno convinto anche un tipo come me a pensare fosse possibile e gioioso servire in questo modo la Chiesa di Dio: se quelle che abbiamo descritto - riascoltando la voce di p. Martini - sono davvero le coordinate del ministero ordinato, vale la pena di viverlo.
E questo non è solo uno slogan che può illuminare la pastorale vocazionale: è anzitutto una Buona Notizia per me.
Voglio quindi concludere il mio intervento con una confessio laudis che uscì nel 2002 dalla stessa bocca del card. Martini, che magari ora la ripete con noi:
«Noi ti lodiamo o Signore, perché tu ci hai posti come sigillo sul tuo braccio e hai stampato la tua immagine nel nostro cuore. Il segno della tua gloria brilla anche nel nostro presbiterio, al di là di tutte le nostre povertà e inadeguatezze» (Mileto).
«La posta in gioco è alta (...): si tratta di regalare al nostro tempo il segno autentico della Chiesa di Gesù, facendola esistere e crescere nelle sue componenti essenziali» (Mileto - 2002).
«Il Signore ci chiede d'essere uomini che si aprono ad orizzonti grandi e che cercano con lucidità e passione di capire sempre meglio il senso e i modi del ministero oggi a Milano» (Mileto - 2002).
Amen.
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Il Tao preso sul serio
di Gianfranco Ravasi
Ha la copertina un po' sgualcita e reca la polvere del tempo, ma ho ritrovato il volume Cammini di contemplazione che avevo acquistato nel 1972. A tradurlo dall'originale francese del 1969 era stato Enzo Bianchi, l'attuale priore di Bose, allora certamente ignoto ai più, ma già attento ai temi della vita spirituale. Autore di quel testo era un gesuita, Yves Raguin, nato nel 1912 nei pressi di quel delizioso villaggio medievale che è Chinon, dominato da un grandioso castello, uno dei tanti della Loira. Già durante i suoi studi di teologia, egli era stato attratto dal fascino dell'Oriente cinese, tant'è vero che nel 1946 era a Harvard per perfezionarsi in quella cultura e nel 1949 migrava a Shanghai ove allora prosperava una comunità cattolica, dotata anche di un'università. Ma sulla Cina stava per abbattersi l'onda rossa maoista e, così, padre Raguin fu costretto nel 1953 a migrare a Taiwan. Da quell'isola egli irradierà non solo il messaggio ma anche la sua presenza viaggiando in Vietnam, Cambogia, Filippine, Macao, Corea, Hong Kong, compiendo una serie di soggiorni che si concluderanno di nuovo a Taiwan. Qui condurrà in porto un poderoso dizionario, detto Le Grand Ricci, che sarà completato solo nel 2002, quattro anni dopo la sua morte avvenuta nel 1998. Questo monumento linguistico, composto di 7 volumi, 9mila pagine, 15mila caratteri cinesi con 300mila significati, recava il nome di quello straordinario gesuita marchigiano, Matteo Ricci (1552-1610), che aveva stabilito il primo ponte tra cattolicità e mondo cinese.
Di Raguin appare ora un'opera di particolare suggestione: essa ha una matrice orale perché nasce da un corso da lui tenuto tra il 1977 e il 1982 a Taipei, la capitale di Taiwan, su impulso dell'arcivescovo locale. Lo scritto rivela quest'impronta didattica e, quindi, risulta utile per il lettore profano occidentale (non solo cristiano) che vuole scoprire – attraverso una sinossi ideale – le due vie della spiritualità, quella del Tao nel suo sfrangiarsi tematico secondo le molteplici forme orientali, ma anche quella del cristianesimo. Essa ha, certo, una radice evangelica, cresciuta però successivamente in un albero lussureggiante, a partire da sant'Agostino discendendo «per li rami» fino a Meister Eckhart, Teresa d'Avila, Giovanni della Croce e così via.
Questa comparazione tra le due spiritualità – bisogna marcarlo subito – non è meramente accademica, anche se ogni pagina rivela in filigrana una rigorosa matrice filologica e storico-critica (non per nulla alla fine il sinologo Matteo Nicolini-Zani allega un glossario dei caratteri cinesi usati dall'autore, con la relativa accezione). La ricerca di Raguin ha una dimensione anche esistenziale e si allinea a quella di altre importanti figure della mistica e della teologia cattolica contemporanea, che hanno anche vissuto in contatto e spesso in comunione con le esperienze spirituali orientali. Ne hanno respirato l'anima, cercandone le sintonie, registrandone le discrasie, ammirandone la purezza e autenticità: si pensi, ad esempio, a Thomas Merton, a Raimon Panikkar, a Henri Le Saux, a Bede Griffiths o a Jules Monchanin, solo per citare i più noti.
Siamo, dunque, in presenza di una navigazione nei mari dello spirito, del divino, del mistero, procedendo secondo il contrappunto (non necessariamente dialettico) fra trascendenza e immanenza. E come affermava un autore poetico-spirituale del Cinquecento spagnolo, Fray Luis de León, «en Dios se descubren nuevos mares cuanto más se navega». I nuovi mari sono appunto quelli delle tradizioni orientali che spaziano dal buddhismo al taoismo, dallo zen allo yoga fino al confucianesimo. Ma per navigare senza sbandare o, peggio, incagliarsi nello scoglio del sincretismo, scoglio avvolto nella nebbia di una banale "con-fusione" di religioni, è necessario impugnare saldamente una mappa nautica. È ciò che Raguin offre nella prima anta del trittico in cui è articolato il suo corso, dedicata proprio alla «struttura del mondo spirituale». Sono pagine di un'intensità inattesa ove si dipanano le questioni centrali tematiche, teoriche ed esistenziali, che fanno subito comprendere quanto sia falsa la vulgata diffusa a livello colto e popolare secondo la quale la mistica è una sorta di decollo sentimental-emotivo verso cieli eterei, esoterici, alienanti.
Chi leggerà questi capitoli s'accorgerà anche quanto suoni falsa e fin banale certa spiritualità orientale che miscela yoga e yogurt, messaggio e massaggio, fitness e ascetica, spiritualità contrabbandata da alcuni guru d'Oriente, accolti con gridolini di ammirazione in certi salotti borghesi, pronti a immergersi nel gioco della "meditazione". Muniti, invece, di una mappa seria, giunge il momento di salpare.
La seconda tavola del trittico è appunto intitolata «Viaggio nel mondo spirituale»: qui si propone l'attrezzatura per la navigazione lungo alcune traiettorie, come lo sono "la via dello Yoga" e "la via del Chan" (termine cinese equivalente al sanscrito dhyana, ossia «visione, meditazione»), ma anche "la via delle forme", quella "verso l'intimo", "la via espressiva" e "dell'illuminazione". L'ultimo passo, quando si compie «il vedere il sé e il vedere Dio», è la santità che ha profili differenti nel Tao e nel cristianesimo, pur in una consonanza di fondo o forse più di sfondo. Ecco perché è necessaria l'ultima pala del trittico, quella che dipinge i ritratti dei differenti maestri di spirito, a partire da Cristo, Paolo e Giovanni fino ai citati autori della mistica classica sia cinese sia cristiana. Qui forse si potrebbero avanzare alcune riserve nella rilettura che Raguin delinea di queste figure e delle loro opere. Questo, però, non inficia la bellezza sostanziale della terza tavola, dedicata alla concreta declinazione delle esperienze spirituali e dei loro linguaggi espressivi, spesso simili a stampi rigidi che vanamente cercano di comprimere l'incandescenza vitale delle pratiche mistiche, delle parole e dei simboli che devono esprimere l'ineffabile. Ma la ricchezza esemplificativa, dispiegata dalla straordinaria competenza del gesuita franco-cinese, aiuta anche il neofita a varcare la soglia del "mistero", termine greco che ha paradossalmente per radicale il verbo del silenzio, il myein che è «tacere», un silenzio che non è, però, mutismo bensì rivelazione.
Yves Raguin, Il Tao della mistica, Introduzione di Maciej Bielawski, traduzione di Riccardo Larini, Fazi editore, Roma, pagg. 452, € 18,00
in “Il Sole 24 Ore” del 1 dicembre 2013
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«Siamo, Padre, davanti a te all'inizio di questo Avvento.
E siamo davanti a te insieme,
in rappresentanza anche di tutti i nostri fratelli e sorelle
di ogni parte del mondo.
In particolare delle persone che conosciamo;
per loro e con loro, Signore,
noi ti preghiamo.
Noi sappiamo che ogni anno si ricomincia
e questo ricominciare
per alcuni è facile, è bello, è entusiasmante,
per altri è difficile,
è pieno di paure, di terrore.
Pensiamo a come si inizia questo Avvento
nei luoghi della grande povertà,
della grande miseria;
con quanta paura la gente guarda
al tempo che viene.
O Signore, noi ci uniamo a tutti loro;
ti offriamo la gioia che tu ci dai di incominciarlo,
ti offriamo anche la fatica,
il peso che possiamo sentire nel cominciarlo.
Questo tempo che inizia nel tuo nome santo,
vissuto sotto la potenza dello Spirito,
sia accoglienza della tua Parola.
Te lo chiediamo per Gesù Cristo,
tua Parola vivente che viene in mezzo a noi e viva qui,
insieme con Maria, Madre del tuo Figlio,
che con lo Spirito Santo e con Te
vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen».
card. Carlo Maria Martini, Quotidianità luogo di Dio, 2006