"Gli scienziati confermano: ci estingueremo un attimo dopo che l’ultima ape avrà cessato di volare.
È scientificamente dimostrato che le api passando di fiore in fiore portano la certezza della vita sempre un po’ più in là.
Un fiore, e una certezza di vita in più per tutti. Un altro fiore, un’altra manciata di esistenza garantita. 
Per una di quelle infauste azioni di cui noi umani siamo capaci, le api sono a rischio estinzione. Mancano i fiori, mancano le api, manca la vita. Mancheremo noi. Ma la catena funziona anche così: mancano le api, manca la vita, mancano i fiori. Mancheremo noi. 
Noi mancheremo per ultimi. Un sorta di condanna meritata perché, pur conoscendo a memoria che per fare tutto ‘ci vuole un fiore’, abbiamo pensato che fosse solo il ritornello di una canzone e non che invece il poeta avesse voluto dirci qualcosa.
Le api ci dicono che la vita non dipende, ma interdipende. 
Che una foresta che scompare è un problema planetario, che la plastica nei mari ci ritorna in tavola. Che possiamo creare l’intelligenza artificiale, ma ‘di fiore in fiore’ è l’azione che regge il sistema vivente.
La foresta amazzonica, come gli ulivi di Puglia, le piogge tropicali nel centro e nord Europa come la nebbia non più in Val Padana sono il segno di un clima e di un'economia che cambia. O di un'economia che ha cambiato il clima. Il rapporto, in natura, non è solo di causa effetto e non è mai immediato. Ci vuole tempo perché un fiore diventi tavolo. Ci vuole tempo e noi abbiamo poco tempo.
C’è una generazione over ‘anta’ che fatica a vedere e capire perché abituata a pensare e pensarsi in un tempo dell’ora et consuma: ‘prega che le cose cambino ma nel frattempo goditi tutto ciò che puoi, consuma e accumula’. C’è una generazioni di adolescenti che non ha ancora il diritto di voto ma che si è messa in marcia con Greta Thunberg per dirci che hanno il diritto, loro e la terra, gli alberi delle grandi foreste come l’Amazzonia o gli alberi di una regione del mediterraneo, a un futuro in cui respirare e nutrirsi.
La nostra generazione avrà inventato l’intelligenza artificiale e anche scoperto il cibo sintetico. Ma se mancano le api, mancheremo noi. Un attimo dopo che la Natura non ci sarà, non avremo nemmeno il tempo di capirlo in laboratorio. 
Perché non siamo sintetici e nemmeno artificiali. 
Siamo fatti di materia. Di acqua e di aria buona. 
E, come i fiori, ne abbiamo bisogno.
Ci salveranno le api. Se noi salveremo le api".

(Elvira Zaccagnino. @Madre - Il Mensile della Famiglia)

Mendicanza - La verità è che siamo tutti mendicanti 
di Nunzio Galantino 
Dal verbo latino mendicare (elemosinare, supplicare), la parola mendicanza indica sia la condizione di bisogno materiale sia, sempre di più, la condizione dell’uomo che, consapevole di non poter bastare a se stesso, chiede aiuto. La mano tesa del mendicante è metafora dell’atteggiamento interiore di domanda, di ricerca e di curiosità dell’uomo che vive la condizione della mendicanza. 
La stessa condizione che, penso, Gesù invitasse a coltivare quando diceva: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto» (Lc 11,9). Chiedere, cercare, bussare, sono le tre azioni della mendicanza, approdo dell’uomo che - consapevole che non si può sfuggire al proprio limite e alle varie forme di mancanza - passa dal grido stizzito a una infaticabile disponibilità al confronto e all’incontro, che sazino il suo bisogno. 
La mendicanza è una condizione vera, reale e dura da sentirsi addosso. Eppure essa corrisponde esattamente a ciò che siamo, specie nel nostro mondo occidentale: mendicanti. Ma non di ciò che ci serve per sopravvivere, ma di ciò che ci può far vivere. L’aver concesso troppo spazio a

"Il 27 marzo scorso (ma si è saputo solo ora) nel parco Nord di Milano, un ragazzo di nemmeno 16 anni, affetto da una disabilità cognitiva, è stato preso a schiaffi, gettato a terra, fatto rotolare e poi preso a calci in faccia da un certo "Dome" di 20 anni. Pare lo abbia fatto solo perché l'altro, seduto su una panchina ad ascoltare musica, lo aveva guardato per un attimo.
Un umano incrocia lo sguardo di un altro umano, un volto di fronte a un altro volto, il gesto più naturale (e più bello) che ci possa capitare - e solo per questo gli viene frantumata la mandibola. Mentre gli altri sono stati a guardare, più o meno indifferenti.
Ora, questo Dome, che già aveva preso a botte un altro ragazzo perché straniero, e pure il fratello minore, è scoppiato a piangere di fronte ai carabinieri che lo arrestavano. Non so se il suo sia un pianto amaro e sincero, come quello dell'apostolo Pietro. Qualcuno, però, gli dovrà spiegare che quella cosa che lui ha fatto non è soltanto un reato - ma "il male", né più né meno. Aggredire un debole, indebolire l'altro, sfigurare il volto dell'altro - è il male.
Eppure io non ho molto altro da dire a questo ragazzo violento, io ho da pensare di più all'altro, al ragazzo fragile col viso tumefatto, a questo Cristo del 2019 messo in croce per uno sguardo. Le mie lacrime, la mia pena, il mio affetto vanno a questo mio fratello".
Mario Domina, 190418

Durante la notte di Pasqua, la comunità cattolica di Cambogia ha celebrato il battesimo di 294 persone: 154 nella capitale Phnom Penh, 80 a Battambang e 60 a Kampong Cham (capoluoghi delle omonime province). (continua a leggere:
http://www.asianews.it/notizie-it/La-piccola-Chiesa-cambogiana-annuncia:-294-battesimi-nella-notte-di-Pasqua-46788.html?fbclid=IwAR1YvwMUnPh49WzIvLLLnZt5HhISL-sOK3zhBVV44XaF-pfzJFEdZxAkwLY)

«Mi hanno sempre scorticato l'anima queste 39 frustate, una dopo l'altra, una sull'altra, una nel solco dell'altra, a significare il peso della sofferenza - e della ferocia - della condizione umana, concentrata sulle spalle di quest'uomo che si crede dio - o di questo dio che si crede uomo.
Non trattengo mai le lacrime di fronte al simbolo di immensa fragilità, e alla grandezza - forse inutile - di quel sacrificio.
Non ho nemmeno cominciato a fare i conti - da ateo radicale quale sono - con la figura di Gesù Cristo.
Ma temo li abbia fatti poco anche la civiltà che oggi si dice "cristiana" senza mai pensare all'abisso di significati che quella parola sottende».
Mario Domina, 20.04.2019



Lo specchio d'acqua che circonda il perimetro della chiesa e sul quale si affacciano le finestre basse, rimanda l'immagine capovolta del crocifisso posto sul muro sopra l'altare.


«Nel lavoro come nella vita credo che bisogna dare per ricevere, e con questo gesto vorrei essere un buon esempio per tutte le altre imprese».
https://corrieredelveneto.corriere.it/treviso/cronaca/19_aprile_13/treviso-comunica-titolare-essere-incinta-rinnovo-contratto-promozione-be938992-5df3-11e9-8e1f-dc84067741d7.shtml?fbclid=IwAR2FLuNnKxNnKg38rkHKIcM6cAGvemrajxlnP0MzPNJQkgtG9jbytFjMhXc

In ginocchio, a baciare i piedi dei leader del Sud Sudan perchè «il fuoco della guerra si spenga una volta per sempre» nel Paese africano. Papa Francesco compie un gesto inatteso a Santa Marta, dove conclude il ritiro spirituale in Vaticano delle massime autorità religiose e politiche sud sudanesi ideato dall’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby. A loro il Pontefice rivolge un discorso in cui, a più riprese, implora il dono della pace per il popolo del Sud Sudan sfigurato da quasi sei anni di guerra civile e da oltre 400mila morti. Poi rende concreta questa preghiera inchinandosi davanti al presidente Salva Kiir e ai vicepresidenti designati, tra cui Rebecca Nyandeng De Mabior, vedova del leader sud sudanese John Garang, e Riek Machar, leader dell’opposizione, per baciare loro i piedi. (continua)
https://www.lastampa.it/2019/04/11/vaticaninsider/il-papa-in-ginocchio-davanti-ai-leader-del-sud-sudan-si-spegna-il-fuoco-della-guerra-EhzbXz0z5ZOQp97LJl3bRN/pagina.html?utm_source=dlvr.it&utm_medium=facebook

"Il loro disturbo ha un nome scientifico che ci provoca, in quanto maggiori importatori europei d’affetto a pagamento: «Sindrome Italia». Uno stress diagnosticato e chiamato così per la prima volta da due psichiatri di Kiev: nel 2005, avevano osservato sintomi comuni a molte ucraine e romene e moldave, ma pure filippine o sudamericane. Tutte emigrate per anni ad assistere anziani nell’Europa ricca, lontane da figli e mariti. «Più che una malattia, la “sindrome Italia” è un fenomeno medico-sociale», spiega Petronela Nechita, primaria psichiatra della clinica di Iasi: «C’entrano la mancanza prolungata di sonno, il distacco dalla famiglia, l’aver delegato la maternità a nonni, mariti, vicini di casa... Abbiamo molta casistica. S’è aggravata quando le romene dal Meridione, dove lavoravano nei campi ed erano pagate meno, si sono spostate ad assistere gli anziani del Nord Italia: tra le nostre pazienti ci sono soprattutto quelle che rifiutavano i giorni di riposo e le ore libere per guadagnare meglio, distrutte da ritmi massacranti. Nessuno può curare da solo un demente o una persona non autosufficiente: 24 ore al giorno, senza mai una sosta. Col fardello mentale di quel che ci si è lasciati alle spalle. Anch’io e lei ci ammaleremmo».
Al ritorno in Romania, la terapia della «sindrome Italia» può durare anche cinque anni e di rado la passa la mutua: 240 euro ogni dodici mesi, uno stipendio medio. Un terzo delle ricoverate tenta almeno una volta il suicidio, e spesso ci riesce. Ma è una strage silenziosa, perché di solito è la famiglia a chiedere d’aggiustare l’atto di morte: nella regione più povera dell’Ue, nella Iasi «dalle cento chiese», com’è soprannominato questo capoluogo della Moldavia romena che Bergoglio visiterà in giugno, i pope ortodossi negano funerali e cimitero a chi si toglie la vita. (continua)
https://www.corriere.it/elezioni-europee/100giorni/romania/

«La mia idea è questa: «davanti al dolore degli altri» è sbagliato ritenere che non si determini più un moto di altruismo e un sentimento di commozione e di empatia. E, forse, non è nemmeno la «quantità» e l’intensità della sofferenza provata a venire ridimensionata. È, bensì, la nozione stessa di «altri» a essere drasticamente e, talvolta persino crudelmente, rimpicciolita. La solidarietà si fa corta, cortissima, e si concentra all’interno di un perimetro sempre più ridotto, mentre l’egoismo (ovvero l’indifferenza) sembra dominare l’intero spazio al di là di quegli strettissimi confini.
A determinare quest’accelerato restringersi della nozione di «altri» è una crisi talmente violenta da indurre a pensare che solo noi e la nostra piccola cerchia (di familiari, parenti, colleghi, membri della stessa comunità o corporazione o etnia) saremo in grado di salvarci. È da qui che nasce il sovranismo, e non viceversa. E c’è un ulteriore elemento che concorre a questo processo, rendendo così incerto e indistinto l’universo di immagini che compongono gli altri. Quelli che non siamo noi. Ecco l’intuizione della Sontag in quel libro introvabile. Interrogandosi sul modo in cui la bufera di immagini di brutalità e di morte ci influenza, l’autrice non si domanda solo se questa ci renda spettatori più partecipi oppure più indifferenti. La competizione fra i due sentimenti possibili di rifiuto o viceversa di insensibilità rispetto alla violenza mostrata in centinaia e centinaia di fotografie e di video, rischia di nascondere una più essenziale questione.
«Non si dovrebbe mai dare un noi per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri», scrive Sontag. Chi siamo noi che guardiamo, che ci sentiamo quasi investiti da quella massa di informazioni visive che portano in superficie le conseguenze rovinose della carneficina di uomini su altri uomini? Se non partiamo da questa fondamentale domanda ogni immagine, per quanto puntuale e minuziosa nel testimoniare dell’orrore, rischia di semplificare, di reiterare, di creare «l’illusione del consenso». Un esempio: sino alla fine della guerra nei Balcani, le stesse fotografie di corpi straziati e di bambini uccisi dai bombardamenti venivano mostrate sia nelle conferenze di propaganda serbe che in quelle croate. Bastava modificare la didascalia e quelle morti potevano essere piegate a sostenere tesi opposte. Ecco il punto: liquidare la storia dietro le immagini significa renderle generiche e anonime. Significa svuotarle di senso, ridurle a retorica, illanguidirne la carica evocativa. Insomma, significa liquidare la politica nell’unica accezione in cui la politica può limitare e curare il dolore nostro e degli altri. Con parole diverse, dare un volto ai naufraghi».
Luigi Manconi, Corriere della Sera, 6.04.2019
https://www.corriere.it/19_aprile_06/luigi-manconi-identita-solidarieta-massa-altri-noi-98c6cc80-587e-11e9-b545-f1ad2b75f4fe.shtml?fbclid=IwAR28aJHkcAZWa6LuNMfDPvUwSZvaBBnko5vRgll_N955DZl_WwWw8kGdR3k

«Occorre porre attenzione alla questione del linguaggio, assumendoci la responsabilità e la cura delle parole. Che si traduce nel rifiutarsi di usare le parole distrattamente, in modo superficiale. Chi considera la Parola come il tesoro più prezioso, sente come propria la sfida di ritrovare una sapienza del parlare all’insegna della cautela, dell’attenzione a non ferire l’altro, del desiderio di offrire parole buone, come quelle che Dio rivolge a noi. 
Le parole tessono la trama quotidiana del nostro vivere. Varrà la pena interrogarsi su come parliamo; se dobbiamo purificare il nostro parlare, facendolo nascere dal silenzio e dall’ascolto, rendendolo meno simile alla chiacchiera e più essenziale».
Angelo Reginato, 5 aprile 2019 

La Parola e le parole 
di Angelo Reginato 
(...) I tempi sono un contenitore troppo vasto, riempito da esperienze differenti e divergenti. Inoltre, la loro posta in gioco perlopiù ci sfugge, sul momento; solo dopo, a distanza di anni, emerge con una certa chiarezza che cosa è veramente accaduto. Non abbiamo la diagnosi a portata di mano; dobbiamo aspettare il verdetto dello specialista, che si pronuncia dopo aver visionato tutti gli esami a cui è stato sottoposto il paziente. Nel frattempo, però, possiamo svolgere l’umile mansione del medico di base, che ascolta e raccoglie i sintomi, che tenta di offrire una prima interpretazione sulla base dei dettagli emergenti. Una responsabilità non da poco, sempre a rischio di errore; non per questo meno necessaria: i verdetti sicuri giungono sempre troppo tardi! Nella mia parziale auscultazione del presente, mi colpisce un sintomo, che provo a sottoporre a quanti hanno a cuore una spiritualità per questo nostro tempo. 
Oggi, mi sembra che imperversi il linguaggio breve, quello dello spot, dello slogan, della battuta. 
E questo tipo di linguaggio dà voce a una forma di pensiero all’insegna della velocità, del sarcasmo e del cinismo. Un linguaggio affermativo, spesso da tifoseria, che semplifica e non è guidato da un bisogno di coerenza. Non è, di per sé, una novità: le parole sono fragili e in ogni epoca gli esseri umani le cambiano con disinvoltura, le svuotano di significato, le falsificano e se le rimangiano. 
Eppure, è come se, oggi, il caso serio della parola si imponesse alla nostra attenzione con maggior forza. Quando sentiamo una notizia, non sappiamo più se sia vera o inventata. E noi stessi, a volte, cadiamo in questo uso disinvolto delle parole, facendo circolare notizie non verificate, parlando male delle persone, indulgendo al pettegolezzo e al giudizio. 
Ora, una chiesa, e cioè un gruppo di persone che si riunisce intorno alla Parola, non dovrebbe avere nel sangue una particolare sensibilità per le parole? Il suo Dio si serve delle parole umane per comunicare il suo progetto di salvezza. Senza le parole, la vita diviene muta e anche Dio tace. Per questo, penso che occorra porre attenzione alla questione del linguaggio, assumendoci la responsabilità e la cura delle parole. Che si traduce nel rifiutarsi di usare le parole distrattamente, in modo superficiale. Chi considera la Parola come il tesoro più prezioso, sente come propria la sfida di ritrovare una sapienza del parlare all’insegna della cautela, dell’attenzione a non ferire l’altro, del desiderio di offrire parole buone, come quelle che Dio rivolge a noi. 
Le parole tessono la trama quotidiana del nostro vivere. Varrà la pena interrogarsi su come parliamo; se dobbiamo purificare il nostro parlare, facendolo nascere dal silenzio e dall’ascolto, rendendolo meno simile alla chiacchiera e più essenziale. 
Alla stregua dei medici condotti, possiamo solo fare attenzione ai sintomi e interrogarci su come far fronte al disagio. (...)
in “Riforma” - settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi – del 5 aprile 2019 


La penitenza del semaforo
di Cristina Bernardis - 09 marzo 2019 
«Perché fai penitenza? Scegliere di sacrificare qualcosa senza un motivo non ha senso.
Perché fai penitenza? Sei un essere creato alla perfezione, amato incondizionatamente dall'Onnipotente, non usare la Quaresima come una dieta.
Perché fai penitenza? La mia risposta é per rispondere a quell'amore con amore, anche se il mio amore sarà sempre imperfetto e talvolta condizionato, voglio che questo amore assomigli di più a quello dell'Amato, più cruciforme, più a servizio.
Quale penitenza? Quale virtù, quale disciplina serve al mio amore per crescere? Conoscevo una ragazza che sentiva di sviluppare la sua pazienza. La sua penitenza quaresimale é stata di aspettare che i semafori diventassero verdi prima di attraversare (attraversare col rosso é cosa comune nella sua nazione). Notare l'impazienza di attendere 20 o 60 secondi e notare l'agitazione, la frenesia sono stati una rivelazione di quante altre volte era impaziente, ad esempio nell'attesa che le cose andassero come volesse lei. (...)».
http://www.vinonuovo.it/index.php?l=it&art=3331&fbclid=IwAR1iStBx2ncBrLEF-gIYr_Pi1CaLTSaK_jS7wTAFGtwqt7A8OjmBEPhvHUw


Una bellezza che ci appartiene 
di José Tolentino Mendonça 
Mi piace pensare che la stessa radice etimologica colleghi, in greco, l’aggettivo 'bello' ( kalós) e il verbo 'chiamare' ( kaléo). La bellezza appare così come una chiamata. Ogni vocazione umana è la risposta all’attrazione di qualcosa (o di qualcuno!) che ci chiama. Senza questo appello fondamentale la nostra vita sarebbe priva di motivazione, e sempre più distante dalla sua realizzazione autentica. La verità è questa: se la gioia dell’incontro, se la sorpresa di un innamoramento, di un «Che bello!» gridato con il cuore, non precede le rinunce o i sacrifici, questi non genereranno che tristezza, rigidità, rigorismo e frustrazione. La vita non comincia con l’etica, ma con l’estetica. Procede non per obbligo, ma grazie alla forza dell’attrazione. 
Nella vita non si va avanti per decreto. 
Come nella parabola di Gesù, il punto di trasformazione è la scoperta della perla nascosta o del tesoro nel campo. 
Solo così sperimenteremo che «dov’è il nostro tesoro, là sarà anche il nostro cuore». La vita umana non è statica, ma piuttosto estatica. La vita è estasi, movimento, desiderio di unirsi all’oggetto dell’amore. Si consuma per una passione che germogli da una bellezza capace di illuminarci. 
Eppure, apparteniamo a un tempo e a una cultura che sembrano aver rinunciato alla bellezza. Per riscoprirla dovremo probabilmente abbracciare il silenzio e la lentezza dei cammini meno frequentati.
in “Avvenire” del 2 aprile 2019

Giovedì 8 novembre 2018, all’Assemblea del Clero della diocesi di Vicenza è stato consegnato ai preti presenti il sussidio "Assemblea Domenicale nella impossibilità della Celebrazione Eucaristica" accompagnato da un decreto del vescovo Pizziol. Si tratta di una novità importante che tiene conto del cammino che la Chiesa vicentina sta facendo e dei cambiamenti che si stanno vivendo. Quasi contemporaneamente (il 6 novembre) ha preso il via il corso di formazione per guide della celebrazione.
«L’obiettivo - ci spiega don Pierangelo Ruaro, direttore dell’Ufficio liturgico diocesano - è, come precisa bene il vescovo Beniamino nel Decreto di accompagnamento, da un lato ribadire "l’assoluta irrinunciabilità per la vita dei credenti della Domenica e il primato della celebrazione eucaristica nel Giorno del Signore" e dall’altro tener conto della mutata "situazione pastorale delle comunità cristiane anche a causa della diminuzione del numero dei presbiteri"».
«La scelta è sempre stata quella di promuovere e sostenere la ministerialità liturgica. Lo abbiamo fatto con i ministri dell’eucaristia e con i ministri della consolazione. Oggi questo avviene cogliendo e accompagnando quelli che sono i cambiamenti che sta vivendo in Diocesi prevedendo la formazione tra i laici di guide della celebrazione». (continua:
http://www.diocesi.vicenza.it/pls/vicenza/v3_s2ew_consultazione.mostra_pagina?id_pagina=6413


«C’è il Dio edito e il Dio inedito. Per esempio, la lotta fra atei e teisti è una lotta a livello del Dio edito, perché gli atei negano il Dio edito. E spesso fanno bene. Molte volte questo Dio edito non è che un tiranno insopportabile, è la cifra che sublima in sé e legittima tutte le forme di dipendenza, è l’autoritarismo portato a vastità metafisiche. Se noi leggiamo la Bibbia, vediamo che c’è un modo di parlare di Dio del tutto omogeneo all’homo editus, alla cultura, quindi un Dio guerrafondaio, sterminatore, e poi c’è il Dio inedito, nascosto, che è il Dio dei Profeti e che troverà la sua manifestazione in Gesù Cristo.
Quando noi parliamo di Dio secondo l’homo editus lo assimiliamo a noi, lo trasformiamo a nostra immagine e somiglianza, per cui egli è aggressivo, vuole la sconfitta dei nemici. Le religioni hanno portato nel mondo l’aggressività distruttiva in nome del Dio edito, che non è il Dio inedito di Gesù Cristo».
Ernesto Balducci (1922- 1992), in La coscienza dell’uomo planetario, 1993

Il 1 aprile 1993 l'autorità del seminario mi disse della sua intenzione di mandarmi ad ottenere i titoli accademici in teologia, al fine di insegnare nelle istituzioni universitarie ecclesiastiche. Io non ci avevo mai pensato, non era certamente il mio desiderio, proprio non lo volevo.
A distanza di 26 anni, ridico il mio grazie: è stato ed è un dono poter conoscere più approfonditamente il volto di Dio Trinità; è stato un dono non essermi cercato questa destinazione agli studi e all'insegnamento.
Senza presunzione, provo tristezza per chi - pur dicendosi credente - non sente il desiderio di conoscere l'Amante e per coloro che il ruolo di maestro-docente-teologo se lo sono conquistato per conto loro, facendosi largo a gomitate.
Deo gratias!
don Chisciotte Mc