CAPORETTO PER LA PASTORALE PARROCCHIALE?
di Marco Ronconi
Durante la Prima guerra mondiale, una delle manovre decisive che portò alla disfatta italiana di Caporetto fu l’azione di un tenente tedesco che, semplicemente, fece qualcosa di nuovo. Da diversi anni si combatteva secondo una procedura precisa, condivisa da tutti i contendenti, che produceva tonnellate di cadaveri prontamente sostituite con altrettanta carne da cannone. Quel modo di combattere espose alla decimazione una generazione intera solo per spostare il confine di poche centinaia di metri. Eppure per anni nessuno osò fare diversamente, preferendo incolpare del disastro la fragilità delle truppe sottoposte, la rigida cecità dei superiori, l’avversa sorte o quant’altro potesse ergersi a capro espiatorio. Poi arrivò quel giovane tenente tedesco.
La sua idea, con il senno di poi, non era così assurda: cambiare l’ordine delle azioni. Da quando la guerra era iniziata, infatti, ogni battaglia si svolgeva nello stesso modo: si bombardava per un sacco di ore (anche per giorni), mentre i fanti se ne stavano rintanati, poi si aspettava che i fumi si diradassero e quindi si avanzava di corsa all’arma bianca, sperando che l’artiglieria avesse demolito ostacoli e mitragliatrici; speranza vana, proprio perché gli altri, sapendo come sarebbero andate le cose, si erano organizzati. Il giovane tenente propose invece di far avanzare i suoi mentre l’artiglieria bombardava, così da essere alla fine già in territorio nemico e prendere di sorpresa gli avversari rinchiusi nei rifugi. Certo, era rischioso oltremodo e occorreva grande fiducia nei cartografi, nei propri cannoni e nei propri soldati, ma l’alternativa era la morte per stagnazione.
Così oltrepassò le linee nemiche in un modo che molti ufficiali si rifiutarono semplicemente di credere possibile, anche perché nelle accademie militari si insegnava che «non si doveva» e se volevi diventare ufficiale dovevi ripeterlo e crederci senza dubbio. Quell’altro invece lo fece e quando i cannoni tacquero catturò un numero di soldati nemici maggiore di quelli che comandava, cambiando per sempre il modo di combattere.
A volte, quando guardo agli ultimi decenni di carenza di preti nelle nostre diocesi, penso a Caporetto. Sono decenni che il numero delle parrocchie è oramai decisamente superiore al numero dei preti a disposizione, anche qualora vengano fatti arrivare da altrove (del resto anche a Caporetto furono arruolati alpini tra gente di buona volontà che non aveva mai visto la neve).
Le cose evidentemente non funzionano più, i preti vanno sempre più spesso in burn out eppure ci sono diocesi che si limitano a ripetere inalterata la tattica pastorale, dalla catechesi sacramentale alle gestioni patrimoniali. Non si può fare diversamente perché la gente, il vescovo predecessore, Roma… e quindi si accorpano territori sempre più vasti, si moltiplicano affanni e frustrazioni, senza un minimo di sensazione che serva a qualcosa sul lungo periodo. Si manda allo sbaraglio una generazione di preti e pazienza. Chissà che non arrivi un tenente e non ci sbatta in faccia con durezza che si può fare in un altro modo. A Caporetto, però, c’era un esercito nemico, di fronte. I nostri recinti, invece, temo siano più simili alla fortezza Bastiani di Buzzati, ma due riferimenti pessimisti nella stessa pagina sono troppi, per cui mi fermerei qui.
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Questa è Teologia Dabar, la rubrica che il teologo e professore di religione Marco Ronconi tiene tutti i mesi sulla pagine di Jesus.
Caporetto per la pastorale parrocchiale?
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