Guardo il nemico e vedo il fratello
di Giulia Galeotti
Molto è stato scritto e pensato su Etty Hillesum. Le sue parole sono fonte continua di riflessioni, stimoli e spunti. Ogni lettore rimane affascinato da qualcosa, e a rileggerla a distanza di anni colpiscono aspetti sempre diversi. La mia copia del Diario 1941-1943 è stata sottolineata e risottolineata nel tempo, e se ogni volta incontro una Hillesum diversa, v'è però una cosa che mi colpisce, di nuovo e di nuovo, ogni volta: il suo percorso. Il suo partire umana e il suo finire eroica. È il cammino inverso alla razionalità, e a ciò che è umanamente lecito attendersi. Man mano che incontra, vive e tocca il dolore, la furia violenta e cieca, l'odio e la disperazione, Etty Hillesum impara ad amare di più. A prescindere dalle dispute religiose su di lei, questo - e solo questo - è l'amore. Non è qualcosa di normale.
È umanamente comprensibile il racconto di Ida Marcheria, nata nel 1929 a Trieste e deportata ad Auschwitz con la famiglia nel novembre 1943, che afferma: non perdonerò mai (Aldo Pavia - Antonella Tiburzi, Non perdonerò mai, Venezia, Nuovadimensione, 2006): "Io sono nata lì, al Kanada (reparto di Auschwitz) ho aperto gli occhi su un mondo di dolore, di offesa, di crudeltà. Al Kanada è finita la mia infanzia, è finita anche quella di mia sorella Stellina. Lì abbiamo imparato a odiare, abbiamo imparato a non perdonare, abbiamo capito che ciò non sarebbe mai stato possibile". È altrettanto umano il racconto di Vivian Jeanette Kaplan (Dieci bottiglie verdi. Vienna-Shangai: fuga dall'Olocausto, Vicenza, Il punto d'incontro, 2006), che ripercorre la rocambolesca vicenda della madre. Un giorno la ragazza è sola nel negozio di famiglia quando entra una SS: "Ho la pelle d'oca e non riesco a immaginare cosa potrebbe salvarci adesso. Mi obbligo a guardarlo dritto negli occhi. Non è molto più vecchio di me. La mia unica speranza è di puntare sui sentimenti. Mi mostro docile al mio dichiarato nemico (...). Gli parlo come se fosse un essere umano. "È un periodo difficile per tutti, vero?", chiedo facendo appello a tutto il mio coraggio. Dapprima sembra sorpreso per la domanda. Ha lui il coltello dalla parte del manico e ha potere di vita e di morte su di me. Ma ciò nonostante una ruga tra le sopracciglia indica che ci sta pensando seriamente. Risponde con una certa qual gentilezza che era addirittura al di là delle mie speranze. "Quando la violenza ha cominciato ad essere all'ordine del giorno, ci siamo chiesti se fosse giusto. Ma adesso le ragioni ci sono chiare. Vogliamo un'Austria forte e il nostro Führer ce la può dare, quindi anche quando abbiamo dei dubbi li dobbiamo accantonare. La guerra è solo temporanea. Siamo sicuri che una volta che il Reich si sarà stabilizzato, avremo di nuovo un impero unico, magnifico, prospero. Allora lei e io, signorina, potremo diventare ottimi amici". "Sì, certo". Sorrido cercando di apparire sincera. Come poteva anche solo immaginare una simile amicizia?".
ll percorso di Etty Hillesum, invece, comincia dalla distanza e da una certa chiusura, per approdare all'amore. Nella lucida consapevolezza di ciò che sta accadendo ("Vogliono la nostra fine e il nostro annientamento, non possiamo più farci nessuna illusione al riguardo, dobbiamo accettare la realtà per continuare a vivere"), la scelta eroica che, pagina dopo pagina, questa ragazza compie è quella di trovare un modo per farlo. Uno stile ("Se dobbiamo andare all'inferno, che sia con la maggior grazia possibile"), che diventa, ed è, amore per il prossimo. Comprensione e accettazione di Dio. "La sofferenza non è al di sotto della dignità umana. Cioè: si può soffrire in modo degno, o indegno dell'uomo".
È una versione altra ma simile a quella che Grossman racconta, in pagine memorabili in cui descrive gli effetti dell'ordine di uccidere per fame i contadini dell'Ucraina, del Don e del Kuban'. "Ho conosciuto una donna, aveva quattro bambini. Gli raccontava le favole, perché dimenticassero la fame, eppure faceva fatica a muovere la lingua; li prendeva in braccio, pur non avendo la forza di alzarle, le braccia. È che l'amore era vivo in lei". Nessuno si salverà ("uno alla volta, il villaggio intero morì"), ma "ci si è accorti che dove c'era odio, morivano più presto".
L'amore di cui diventa capace Etty Hillesum è senza tempo, e senza contesto: "Il dolore ha sempre preteso il suo posto e i suoi diritti, in una forma o nell'altra. Quel che conta è il modo con cui lo si sopporta, e se si è in grado di integrarlo nella propria vita e, insieme, di accettare ugualmente la vita. (...) Una volta è un Hitler; un'altra è Ivan il Terribile (...); in un caso è la rassegnazione, in un altro sono le guerre, o la peste e i terremoti e la carestia. Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima". A essere onesti e coraggiosi, si scopre che l'odio non è indotto dal prossimo (o dagli eventi), ma dipende da una scelta personale: "Non possono veramente farci niente. Possono renderci la vita un po' spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale (....), ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e con la millanteria che maschera la paura. (....) Siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli". E se il limite del prossimo è il nostro limite ("quell'uomo era pieno di odio per quelli che potremmo chiamare i nostri carnefici, ma anche lui sarebbe potuto essere un perfetto carnefice e persecutore di uomini indifesi"), la svolta è personale: "Abbiamo ancora così tanto da fare con noi stessi, che non dovremmo neppure arrivare al punto da odiare i nostri cosiddetti nemici. Siamo ancora abbastanza nemici fra noi". Solo incontrando e guardando l'Altro, lo si guarda nemico e lo si vede fratello: "Ho saputo all'istante che stasera avrei dovuto pregare anche per quel soldato tedesco. Una delle tante uniformi ha ora un volto. (...) E questo soldato soffre anche lui. Non ci sono confini tra gli uomini sofferenti, si patisce sempre da una parte e dall'altra e si deve pregare per tutti". Solo così, forse, si può davvero amare. Si può davvero amare gli altri e se stessi: "La mia consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l'ingiustizia che ci sono al mondo, la coscienza che tutti questi orrori non sono come un pericolo misterioso e lontano al di fuori di noi, ma che si trovano vicinissimi e nascono dentro di noi". E si può amare Dio: "Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te".
di Giulia Galeotti
Molto è stato scritto e pensato su Etty Hillesum. Le sue parole sono fonte continua di riflessioni, stimoli e spunti. Ogni lettore rimane affascinato da qualcosa, e a rileggerla a distanza di anni colpiscono aspetti sempre diversi. La mia copia del Diario 1941-1943 è stata sottolineata e risottolineata nel tempo, e se ogni volta incontro una Hillesum diversa, v'è però una cosa che mi colpisce, di nuovo e di nuovo, ogni volta: il suo percorso. Il suo partire umana e il suo finire eroica. È il cammino inverso alla razionalità, e a ciò che è umanamente lecito attendersi. Man mano che incontra, vive e tocca il dolore, la furia violenta e cieca, l'odio e la disperazione, Etty Hillesum impara ad amare di più. A prescindere dalle dispute religiose su di lei, questo - e solo questo - è l'amore. Non è qualcosa di normale.
È umanamente comprensibile il racconto di Ida Marcheria, nata nel 1929 a Trieste e deportata ad Auschwitz con la famiglia nel novembre 1943, che afferma: non perdonerò mai (Aldo Pavia - Antonella Tiburzi, Non perdonerò mai, Venezia, Nuovadimensione, 2006): "Io sono nata lì, al Kanada (reparto di Auschwitz) ho aperto gli occhi su un mondo di dolore, di offesa, di crudeltà. Al Kanada è finita la mia infanzia, è finita anche quella di mia sorella Stellina. Lì abbiamo imparato a odiare, abbiamo imparato a non perdonare, abbiamo capito che ciò non sarebbe mai stato possibile". È altrettanto umano il racconto di Vivian Jeanette Kaplan (Dieci bottiglie verdi. Vienna-Shangai: fuga dall'Olocausto, Vicenza, Il punto d'incontro, 2006), che ripercorre la rocambolesca vicenda della madre. Un giorno la ragazza è sola nel negozio di famiglia quando entra una SS: "Ho la pelle d'oca e non riesco a immaginare cosa potrebbe salvarci adesso. Mi obbligo a guardarlo dritto negli occhi. Non è molto più vecchio di me. La mia unica speranza è di puntare sui sentimenti. Mi mostro docile al mio dichiarato nemico (...). Gli parlo come se fosse un essere umano. "È un periodo difficile per tutti, vero?", chiedo facendo appello a tutto il mio coraggio. Dapprima sembra sorpreso per la domanda. Ha lui il coltello dalla parte del manico e ha potere di vita e di morte su di me. Ma ciò nonostante una ruga tra le sopracciglia indica che ci sta pensando seriamente. Risponde con una certa qual gentilezza che era addirittura al di là delle mie speranze. "Quando la violenza ha cominciato ad essere all'ordine del giorno, ci siamo chiesti se fosse giusto. Ma adesso le ragioni ci sono chiare. Vogliamo un'Austria forte e il nostro Führer ce la può dare, quindi anche quando abbiamo dei dubbi li dobbiamo accantonare. La guerra è solo temporanea. Siamo sicuri che una volta che il Reich si sarà stabilizzato, avremo di nuovo un impero unico, magnifico, prospero. Allora lei e io, signorina, potremo diventare ottimi amici". "Sì, certo". Sorrido cercando di apparire sincera. Come poteva anche solo immaginare una simile amicizia?".
ll percorso di Etty Hillesum, invece, comincia dalla distanza e da una certa chiusura, per approdare all'amore. Nella lucida consapevolezza di ciò che sta accadendo ("Vogliono la nostra fine e il nostro annientamento, non possiamo più farci nessuna illusione al riguardo, dobbiamo accettare la realtà per continuare a vivere"), la scelta eroica che, pagina dopo pagina, questa ragazza compie è quella di trovare un modo per farlo. Uno stile ("Se dobbiamo andare all'inferno, che sia con la maggior grazia possibile"), che diventa, ed è, amore per il prossimo. Comprensione e accettazione di Dio. "La sofferenza non è al di sotto della dignità umana. Cioè: si può soffrire in modo degno, o indegno dell'uomo".
È una versione altra ma simile a quella che Grossman racconta, in pagine memorabili in cui descrive gli effetti dell'ordine di uccidere per fame i contadini dell'Ucraina, del Don e del Kuban'. "Ho conosciuto una donna, aveva quattro bambini. Gli raccontava le favole, perché dimenticassero la fame, eppure faceva fatica a muovere la lingua; li prendeva in braccio, pur non avendo la forza di alzarle, le braccia. È che l'amore era vivo in lei". Nessuno si salverà ("uno alla volta, il villaggio intero morì"), ma "ci si è accorti che dove c'era odio, morivano più presto".
L'amore di cui diventa capace Etty Hillesum è senza tempo, e senza contesto: "Il dolore ha sempre preteso il suo posto e i suoi diritti, in una forma o nell'altra. Quel che conta è il modo con cui lo si sopporta, e se si è in grado di integrarlo nella propria vita e, insieme, di accettare ugualmente la vita. (...) Una volta è un Hitler; un'altra è Ivan il Terribile (...); in un caso è la rassegnazione, in un altro sono le guerre, o la peste e i terremoti e la carestia. Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima". A essere onesti e coraggiosi, si scopre che l'odio non è indotto dal prossimo (o dagli eventi), ma dipende da una scelta personale: "Non possono veramente farci niente. Possono renderci la vita un po' spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale (....), ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e con la millanteria che maschera la paura. (....) Siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli". E se il limite del prossimo è il nostro limite ("quell'uomo era pieno di odio per quelli che potremmo chiamare i nostri carnefici, ma anche lui sarebbe potuto essere un perfetto carnefice e persecutore di uomini indifesi"), la svolta è personale: "Abbiamo ancora così tanto da fare con noi stessi, che non dovremmo neppure arrivare al punto da odiare i nostri cosiddetti nemici. Siamo ancora abbastanza nemici fra noi". Solo incontrando e guardando l'Altro, lo si guarda nemico e lo si vede fratello: "Ho saputo all'istante che stasera avrei dovuto pregare anche per quel soldato tedesco. Una delle tante uniformi ha ora un volto. (...) E questo soldato soffre anche lui. Non ci sono confini tra gli uomini sofferenti, si patisce sempre da una parte e dall'altra e si deve pregare per tutti". Solo così, forse, si può davvero amare. Si può davvero amare gli altri e se stessi: "La mia consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l'ingiustizia che ci sono al mondo, la coscienza che tutti questi orrori non sono come un pericolo misterioso e lontano al di fuori di noi, ma che si trovano vicinissimi e nascono dentro di noi". E si può amare Dio: "Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te".
in “L'Osservatore Romano” del 28 gennaio 2010