Romero, il martire che sfidò l'odio
di Andrea Riccardi
Trent'anni sono trascorsi da quel 24 marzo 1980, quando, alle 18,25, uno sparo secco dalla porta della cappella uccise l'arcivescovo di San Salvador, Oscar Romero. Si accasciò ai piedi dell'altare, su cui celebrava la messa. La notizia fece il giro del mondo. Un vescovo assassinato durante la messa... Il mondo parlò del Salvador, piccolo e povero Paese centroamericano, ignorato dai più. Divenne la terra di Romero, l'unico salvadoregno conosciuto al mondo. Ma chi fu monsignor Romero? Dal 1977 era arcivescovo in una nazione tribolata, dove una forte guerriglia (appoggiata da cubani e sovietici) combatteva il potere militare al servizio di un'oligarchia agraria in un Paese poverissimo e tanto cattolico. Dopo quella morte, l'opinione internazionale cominciò a parlare di questa guerra disperata, che avrebbe ucciso quasi 100.000 persone. La guerriglia fece di Romero un simbolo, che si diffuse in America Latina: “San Romero de América” per i cristiani di sinistra e liberazionisti. Gli fu attribuita la frase, “risorgerò nel mio popolo” (che la biografia di Roberto Morozzo ha mostrato come apocrifa). Era il tempo in cui bisognava schierarsi da una parte o dall'altra. Papa Wojtyla aveva intuito la profondità drammatica della vita di Romero. Nel 1983, in visita al Salvador dopo la contestazione del Nicaragua sandinista, pretese di andare sulla sua tomba cambiando programma. La cattedrale era chiusa. Aspettò caparbiamente che gliela aprissero e si inginocchiò stendendo le mani sulla tomba e dicendo: “Romero è nostro”. Su quella tomba i poveri salvadoregni vanno a pregare, riempiendola di fiori. Bisogna averla vista, per capire la pietà popolare di questa gente umiliata e rassegnata, che molto crede in Dio. Nel 2000, il Papa decise di menzionare tra i martire anche Romero, definendolo “indimenticabile”. Romero era un uomo di Chiesa dalla formazione tradizionale. Nella situazione di un Paese in ostaggio della violenza, non si rassegnò ad assistere al massacro della gente e dei preti. Lottò come poteva, denunciò il potere militare, attaccò la guerriglia, cercò mediazioni. Divenne una presenza scomoda in una guerra ideologica. Non accettò le semplificazioni laceranti per cui o si stava dalla parte dell'ordine o del popolo. In un clima di odio, cercò una soluzione pacifica che appariva impossibile. Pochi hanno capito la sua dolorosa e coraggiosa complessità in un'America Latina fatta di drammatiche semplificazioni. Romero sapeva di rischiare la vita: “Mi uccideranno, non so se la destra o la sinistra”, disse a monsignor Neves nel gennaio 1980 di passaggio a Roma. Non c'era spazio per lui nel Salvador polarizzato dall'odio. Ma cercava spazio per la pace, lottando a mani nude contro la logica implacabile del conflitto. Così fu ucciso. Il conflitto ideologico è continuato dopo la sua morte, coinvolgendo media e protagonisti anche sulla sua memoria. Così il processo di beatificazione è risultato difficile. In realtà Romero è un grande cristiano (non un teologo o un politico). Far sbiadire la sua memoria è una perdita sotto tanti aspetti. Dal 1992, con gli accordi di pace, c'è la democrazia in Salvador. La destra ha governato a lungo e, dal giugno 2009, la sinistra è al potere. Non c'è più guerriglia da quasi vent'anni, ma si muore ancora. Le bande criminali uccidono implacabilmente: 4.365 morti nel 2009. La violenza è una malattia da cui non si guarisce facilmente e un'eredità che si trasmette. Romero lo aveva intuito incompreso, guardando lontano. Diceva don Primo Mazzolari: “I preti sanno morire”. Così è stato per Romero, consapevole di lottare contro un conflitto più forte di lui.
di Andrea Riccardi
Trent'anni sono trascorsi da quel 24 marzo 1980, quando, alle 18,25, uno sparo secco dalla porta della cappella uccise l'arcivescovo di San Salvador, Oscar Romero. Si accasciò ai piedi dell'altare, su cui celebrava la messa. La notizia fece il giro del mondo. Un vescovo assassinato durante la messa... Il mondo parlò del Salvador, piccolo e povero Paese centroamericano, ignorato dai più. Divenne la terra di Romero, l'unico salvadoregno conosciuto al mondo. Ma chi fu monsignor Romero? Dal 1977 era arcivescovo in una nazione tribolata, dove una forte guerriglia (appoggiata da cubani e sovietici) combatteva il potere militare al servizio di un'oligarchia agraria in un Paese poverissimo e tanto cattolico. Dopo quella morte, l'opinione internazionale cominciò a parlare di questa guerra disperata, che avrebbe ucciso quasi 100.000 persone. La guerriglia fece di Romero un simbolo, che si diffuse in America Latina: “San Romero de América” per i cristiani di sinistra e liberazionisti. Gli fu attribuita la frase, “risorgerò nel mio popolo” (che la biografia di Roberto Morozzo ha mostrato come apocrifa). Era il tempo in cui bisognava schierarsi da una parte o dall'altra. Papa Wojtyla aveva intuito la profondità drammatica della vita di Romero. Nel 1983, in visita al Salvador dopo la contestazione del Nicaragua sandinista, pretese di andare sulla sua tomba cambiando programma. La cattedrale era chiusa. Aspettò caparbiamente che gliela aprissero e si inginocchiò stendendo le mani sulla tomba e dicendo: “Romero è nostro”. Su quella tomba i poveri salvadoregni vanno a pregare, riempiendola di fiori. Bisogna averla vista, per capire la pietà popolare di questa gente umiliata e rassegnata, che molto crede in Dio. Nel 2000, il Papa decise di menzionare tra i martire anche Romero, definendolo “indimenticabile”. Romero era un uomo di Chiesa dalla formazione tradizionale. Nella situazione di un Paese in ostaggio della violenza, non si rassegnò ad assistere al massacro della gente e dei preti. Lottò come poteva, denunciò il potere militare, attaccò la guerriglia, cercò mediazioni. Divenne una presenza scomoda in una guerra ideologica. Non accettò le semplificazioni laceranti per cui o si stava dalla parte dell'ordine o del popolo. In un clima di odio, cercò una soluzione pacifica che appariva impossibile. Pochi hanno capito la sua dolorosa e coraggiosa complessità in un'America Latina fatta di drammatiche semplificazioni. Romero sapeva di rischiare la vita: “Mi uccideranno, non so se la destra o la sinistra”, disse a monsignor Neves nel gennaio 1980 di passaggio a Roma. Non c'era spazio per lui nel Salvador polarizzato dall'odio. Ma cercava spazio per la pace, lottando a mani nude contro la logica implacabile del conflitto. Così fu ucciso. Il conflitto ideologico è continuato dopo la sua morte, coinvolgendo media e protagonisti anche sulla sua memoria. Così il processo di beatificazione è risultato difficile. In realtà Romero è un grande cristiano (non un teologo o un politico). Far sbiadire la sua memoria è una perdita sotto tanti aspetti. Dal 1992, con gli accordi di pace, c'è la democrazia in Salvador. La destra ha governato a lungo e, dal giugno 2009, la sinistra è al potere. Non c'è più guerriglia da quasi vent'anni, ma si muore ancora. Le bande criminali uccidono implacabilmente: 4.365 morti nel 2009. La violenza è una malattia da cui non si guarisce facilmente e un'eredità che si trasmette. Romero lo aveva intuito incompreso, guardando lontano. Diceva don Primo Mazzolari: “I preti sanno morire”. Così è stato per Romero, consapevole di lottare contro un conflitto più forte di lui.
in “Corriere della Sera” del 24 marzo 2010