Con il voto consultivo l'ordinamento giuridico della Chiesa esprime invece, per principio, sia pure con
approssimazione ed efficacia diversa, la posizione di tutti gli altri fedeli (laici e chierici) chiamati strutturalmente a
contribuire alla formulazione del giudizio di fede di coloro che hanno la responsabilità di
esprimerlo come giudizio comune, vincolante per tutti [papa e collegio dei vescovi].
La differenza con l'istituto della teoria generale del
diritto è data dal fatto che nella Chiesa il voto consultivo non dovrebbe tradurre
(e di per sé non traduce) istituzionalmente una limitazione di potere, decisa da chi possiede il voto deliberativo, bensì
una necessità inerente alla dinamica della comunione. Ciò dipende dal fatto che la chiesa particolare (per fare un solo esempio) non
è costituita solo dal vescovo con il presbiterio, ma anche da una porzione di popolo di Dio.
Bisogna allora tener conto del fatto che il sacerdozio comune di tutti i fedeli
è primario rispetto a quello ministerialestyle="font-size: 13pt; color: black;">, nel senso che quest'ultimo esiste solo in funzione del primo, di cui perciò deve tener
conto nella formazione del proprio giudizio, secondo modalità consultative che possono storicamente cambiare style="font-size: 11pt; font-family: 'Calibri','sans-serif'; color: black;">II voto consultivo dei laici non può essere equivocato come fa A. Acerbi, L'ecclesiologia sottesa alle istituzioni ecclesiali post-conciliari,
in L'Ecclesiologia del Vaticano II, cit., 226-228, come semplice «aiuto» prestato ai ministri
ordinati. La funzione del sacerdozio comune e del «sensus fidei» non è quella di aiutare il sacerdozio
ministeriale, ma di esprimere la propria testimonianza e la propria opinione sulla fede e sulla disciplina ecclesiale]style="font-size: 13pt; color: black;">.
Il rapporto di immanenza alla porzione
di popolo di Dio, di cui è formata la chiesa particolare, è perciò costitutivo per style="">il processo dal quale deve nascere il giudizio dottrinale e disciplinare del vescovo. In esso devono confluire il
«sensus fidei» e i carismi di tutti i fedeli, il cui giudizio, se non è misurabile con i criteri matematici della maggioranza
numerica, non si costituisce neppure in quanto giudizio comune valido per tutti, finché il vescovo non pronuncia la sua testimonianza e la
sua parola.
Questo rapporto strutturale di
immanenza del vescovo alla sua chiesa particolare può essere espresso istituzionalmente con
l'istituto del voto consultivo, ma non coincide con esso, non solo perché esistono teoricamente e praticamente altre
possibilità per manifestarlo, ma soprattutto perché non rappresenta un compromesso tra una prassi style="">autoritaria ed una democratica, come
avviene negli ordinamenti giuridici statuali.
Pur assumendo significati diversi
(anche se rimane identico dal profilo formale), a seconda che sia esercitato dai presbiteri nei confronti del vescovo o dai laici nei confronti dei
presbiteri e del vescovo, il voto consultivo assume una forza vincolante che gli deriva dalla natura intrinseca della
comunione, determinata dal principio della immanenza reciproca degli elementi.
In quanto espressione giuridica possibile di una dinamica insita alla
natura costituzionale della Chiesa, il voto consultivo acquista una valenza non molto dissimile da quella del voto deliberativo,
sia perché esprime istituzionalmente un rapporto di
reciprocità necessaria, sia perché non esprime una posizione giuridica di potere, ma una testimonianza di fede, la cui forza
vincolante non può essere misurata e delimitata adeguatamente in termini giuridici. Infatti, la verità della fede può emergere con
evidenza intrinsecamente vincolante anche dalla testimonianza di un semplice fedele, di cui i pastori devono tener conto, a
meno di mancare in modo grave alla loro funzione ministeriale.
Eugenio Coreccostyle="font-size: 12pt; font-family: 'Calibri','sans-serif'; color: black;">, «Ontologia della sinodalità»,
in Antonio Autiero - Omar Carena (ed.), Pastor bonus in populo. Figura, ruolo e funzioni del
vescovo nella Chiesa,
Città Nuova, Roma 1990, 326-327.