Dimenticai la morte con un lumino «rubato» e le castagne secche
di Luisito Bianchi
(...) Cominciavamo con la grande processione al cimitero, che si muoveva dalla chiesa dopo il canto dei vespri in onore dei Santi con subito attaccato quello in suffragio dei Morti, e che s'ingrossava man mano che passava davanti alle osterie, quasi una processione da venerdì santo. Poiché l'arciprete non portava nessuna reliquia e tanto meno l'ostensorio ma solo il breviario, come lo si vedeva spesso quando andava da privato a passeggio per i campi, la gente si prendeva licenza di parlare, gli uomini però a capo scoperto se non piovigginava, e le donne con la corona del rosario in mano, perché una processione era sempre una processione, soprattutto quando c'erano di mezzo i morti che, a non nominarli da vivi, meritavano sempre rispetto. Noi ragazzi imitavamo gli adulti, sempre pronti però a rispondere alle avemarie e ai requiemeternam quando il curato, su e giù a fianco della nostra compatta falange per incuterci il senso della preghiera, ci passava vicino. Accanto all'arciprete c'era quasi sempre un prete forestiero e, per essere giusti, anche l'arciprete chiacchierava, a volte perfino sorrideva, nonostante il breviario in mano. Il prete forestiero era ingaggiato per il discorso al cimitero, che sbracciava dall'alto d'uno sgabello, il quale sgabello era puntellato per qualche secondo dal piede del sacrista, all'occasione in sottana nera filettata di rosso, con tanto di cotta, e poi progressivamente abbandonato alla buona sorte e alle capacità d'equilibrista del prete, dato che lui doveva con la borsa di cuoio in mano girare e rigirare fra l'Uditorio per raccogliere le spese degli uffici della novena dei morti, detta novenone, e del discorso tenuto dal prete forestiero. Il quale prete, se aveva voce tonante o parlava di vedove e di orfani da strappare qualche lacrima, attirava parecchi cerchi concentrici attorno a sé, ma se la voce era deboluccia e la spendeva tutta per la risurrezione della carne, allora cominciavano le donne a cercare, con piedi e gomiti, d'aprirsi la strada per le tombe dei loro cari, e sussurravano: «Scusate, si fa tardi, ho da preparare la cena». Gli uomini, non avendo la cena da preparare e non essendo buoni a mettere fiori e cerini sulle tombe, dovevano stare lì, a fare finta d'ascoltare la predica e di cercare in chissà quante tasche la moneta che non doveva essere troppo leggera perché il sacrista l'avrebbe capito dal tonfo nella borsa, e meglio, porco qui e vacca là, non avere critiche in giro per 10 o 20 centesimi in più. Liberi dagli occhi di tutti, cominciava il nostro gioco. Pulivamo candelette e lumini posti sulle tombe dalla cera scolata. Se la cera era già indurita, cercavamo di mollificarla al calore dello stoppino acceso, poi l'avvoltolavamo nel palmo della mano per amalgamarla; e subito dentro, nella tasca della giacca. Che danno potevamo fare ai morti mettendo in tasca gli ultimi avanzi di lumini e le lacrime raggrumate delle candele? C'era, naturalmente, il più e il meno fortunato ma la Rosina fruttivendola, che vendeva lumini e raccoglieva gli avanzi di cera, non faceva preferenze e a noi che le rovesciavamo le tasche su un foglio di giornale dava a tutti, indistintamente, una manciata di castagne secche. A ripensarci, credo che la Rosina non avesse nessun tornaconto, anzi ci rimettesse; forse era il suo modo di chiedere scusa ai morti perché teneva aperto il suo negozietto per via dei lumini. Ma voi, cari, avete mai succhiato castagne secche per ammorbidirle un poco prima di tentare coi denti, che siano state guadagnate con la vostra intraprendenza sui morti, dato che coi vivi non è come adesso che danno ai ragazzi mille lire come a noi scapaccioni? Se si, converrete con me che un gusto simile nessuna castagna secca comperata in negozio l'ha mai avuto, a girare tutto il mondo.
di Luisito Bianchi
(...) Cominciavamo con la grande processione al cimitero, che si muoveva dalla chiesa dopo il canto dei vespri in onore dei Santi con subito attaccato quello in suffragio dei Morti, e che s'ingrossava man mano che passava davanti alle osterie, quasi una processione da venerdì santo. Poiché l'arciprete non portava nessuna reliquia e tanto meno l'ostensorio ma solo il breviario, come lo si vedeva spesso quando andava da privato a passeggio per i campi, la gente si prendeva licenza di parlare, gli uomini però a capo scoperto se non piovigginava, e le donne con la corona del rosario in mano, perché una processione era sempre una processione, soprattutto quando c'erano di mezzo i morti che, a non nominarli da vivi, meritavano sempre rispetto. Noi ragazzi imitavamo gli adulti, sempre pronti però a rispondere alle avemarie e ai requiemeternam quando il curato, su e giù a fianco della nostra compatta falange per incuterci il senso della preghiera, ci passava vicino. Accanto all'arciprete c'era quasi sempre un prete forestiero e, per essere giusti, anche l'arciprete chiacchierava, a volte perfino sorrideva, nonostante il breviario in mano. Il prete forestiero era ingaggiato per il discorso al cimitero, che sbracciava dall'alto d'uno sgabello, il quale sgabello era puntellato per qualche secondo dal piede del sacrista, all'occasione in sottana nera filettata di rosso, con tanto di cotta, e poi progressivamente abbandonato alla buona sorte e alle capacità d'equilibrista del prete, dato che lui doveva con la borsa di cuoio in mano girare e rigirare fra l'Uditorio per raccogliere le spese degli uffici della novena dei morti, detta novenone, e del discorso tenuto dal prete forestiero. Il quale prete, se aveva voce tonante o parlava di vedove e di orfani da strappare qualche lacrima, attirava parecchi cerchi concentrici attorno a sé, ma se la voce era deboluccia e la spendeva tutta per la risurrezione della carne, allora cominciavano le donne a cercare, con piedi e gomiti, d'aprirsi la strada per le tombe dei loro cari, e sussurravano: «Scusate, si fa tardi, ho da preparare la cena». Gli uomini, non avendo la cena da preparare e non essendo buoni a mettere fiori e cerini sulle tombe, dovevano stare lì, a fare finta d'ascoltare la predica e di cercare in chissà quante tasche la moneta che non doveva essere troppo leggera perché il sacrista l'avrebbe capito dal tonfo nella borsa, e meglio, porco qui e vacca là, non avere critiche in giro per 10 o 20 centesimi in più. Liberi dagli occhi di tutti, cominciava il nostro gioco. Pulivamo candelette e lumini posti sulle tombe dalla cera scolata. Se la cera era già indurita, cercavamo di mollificarla al calore dello stoppino acceso, poi l'avvoltolavamo nel palmo della mano per amalgamarla; e subito dentro, nella tasca della giacca. Che danno potevamo fare ai morti mettendo in tasca gli ultimi avanzi di lumini e le lacrime raggrumate delle candele? C'era, naturalmente, il più e il meno fortunato ma la Rosina fruttivendola, che vendeva lumini e raccoglieva gli avanzi di cera, non faceva preferenze e a noi che le rovesciavamo le tasche su un foglio di giornale dava a tutti, indistintamente, una manciata di castagne secche. A ripensarci, credo che la Rosina non avesse nessun tornaconto, anzi ci rimettesse; forse era il suo modo di chiedere scusa ai morti perché teneva aperto il suo negozietto per via dei lumini. Ma voi, cari, avete mai succhiato castagne secche per ammorbidirle un poco prima di tentare coi denti, che siano state guadagnate con la vostra intraprendenza sui morti, dato che coi vivi non è come adesso che danno ai ragazzi mille lire come a noi scapaccioni? Se si, converrete con me che un gusto simile nessuna castagna secca comperata in negozio l'ha mai avuto, a girare tutto il mondo.
tratto da «Le quattro stagioni di un vecchio lunario»
in “Avvenire” del 31 ottobre 2010