Quella smania sul successore di Tettamanzi
di Giorgio Bernardelli
Sia quelli pro sia quelli contro il «rito ambrosiano» si agitano sopra le righe sulla nomina del nuovo arcivescovo di Milano. Ennesimo esempio dei danni provocati dal clericalismo
Non c'è vaticanista che si rispetti che in queste ultime settimane non abbia detto la sua su Milano. Si avvicina, infatti, il 14 marzo, il giorno in cui il cardinale Dionigi Tettamanzi compirà 77 anni e scadranno dunque i due anni di proroga del mandato stabiliti dal Papa per il porporato brianzolo al compimento del canonico settantacinquesimo anno d'età. C'è addirittura un collega - Paolo Rodari, del Foglio - che si è messo in testa di farci una specie di cronaca minuto per minuto della nomina del successore di Ambrogio. Non si spiegherebbe altrimenti l'articolo con cui qualche giorno fa ci ha reso edotti delle lettere che - come prassi per qualsiasi nomina episcopale - il nunzio ha inviato in giro in vista della predisposizione del fascicolo su cui discuterà la Congregazione per i vescovi, prima di presentare le candidature al Papa.
Sono tutti col fiato sospeso per questa nomina. Quelli che da tempo hanno deciso che la Chiesa di Milano è diventata una sorta di setta degli Esseni, con riti e parole d'ordine proprie. E che ora, dunque, è arrivato il momento di ricondurre all'ovile di Santa Romana Chiesa, premessa indispensabile perché sotto la Madonnina la fede possa ritornare «ai fasti d'un tempo». Ma sono in fibrillazione (e secondo me è ancora peggio) anche quelli che nell'arcidiocesi di Milano stessa alla setta degli Esseni ci credono davvero e quindi scrutano i segnali di fumo in arrivo da Roma auspicando che il nuovo pastore sia «sulla lunghezza d'onda» dei due che lo hanno preceduto. O anche quelli che - a Milano o altrove - stanno con le antenne alzate perché sostengono che dalla scelta del successore di sant'Ambrogio «dipenderanno gli equilibri della Chiesa italiana».
Da milanese lasciatemi dire che questa eccitazione sopra le righe per quello che sarà il mio nuovo pastore mi sembra la prova più provata dei danni provocati dal clericalismo alla Chiesa italiana. Sono fiero di essere cresciuto nella Milano del cardinale Martini (che noi ex giovani ambrosiani cresciuti alla sua scuola ricordiamo per averci messo tra le mani la Parola di Dio, molto più che per la «Cattedra dei non credenti» a cui certi commentatori riducono i suoi oltre vent'anni di episcopato). E sono altrettanto fiero di aver avuto per arcivescovo in questi anni il cardinale Tettamanzi (che abbiamo amato per l'attenzione a ogni persona concreta come immagine di Dio, che con forza in questi anni ha saputo trasmetterci). Eppure confesso di non perdere il sonno al pensiero di chi verrà dopo di loro. Sono convinto infatti che resti vera l'immagine del vescovo di cui parla la Lumen Gentium, la costituzione del Concilio Vaticano II in cui si racconta il mistero della Chiesa. Beh, almeno lì dentro il vescovo non è descritto come superman o il leader maximo: è il pastore che serve il suo gregge. E proprio nel paragrafo che parla del suo compito di governare sulla diocesi che gli è affidata, il Concilio si premura di ricordargli persino che tra i suoi compiti c'è quello di ascoltare il popolo di Dio.
Il vescovo che arriva e mette tutto a posto oppure il vescovo che detta la sua linea esistono solo nella testa di chi non ha capito che la Chiesa è una cosa un po' più complessa di una partita a Risiko. Perché un vescovo è tale solo se sa camminare insieme al suo gregge. Se entrambi sanno lasciarsi almeno un po' cambiare l'uno dall'altro. Perché anche la nostra Chiesa ambrosiana ha le sue contraddizioni e allora ben venga un nuovo pastore che con un passo un po' diverso ci scuote e ci aiuta a provare a superarle. Ma Milano è anche una piazza che i suoi vescovi non li lascia troppo tranquilli: è una città e una Chiesa che provocano, come hanno sperimentato bene sulla loro pelle gli stessi sant'Ambrogio e san Carlo.
Per questo io ho una sola preghiera riguardo al mio nuovo arcivescovo: che il Papa abbia il coraggio di osare. Mi piacerebbe che fosse un pastore non troppo collaudato, uno che ha ancora voglia di imparare a fare il vescovo. Perché è vero, questa è una diocesi un po' particolare: è grande (probabilmente troppo: per visitare tutte le parrocchie ci vogliono una decina d'anni), il suo arcivescovo è sempre sotto i riflettori. Ma alla fine ciò che conta non è se dice tutto giusto o se buca lo schermo, ma se sa farsi amare da questa gente.
Adesso spero che qualcuno non si metta a radiografare queste ultime righe per individuare chi è il candidato per cui fa il tifo Vino Nuovo. Non ne ho la più pallida idea. E me ne vanto.
di Giorgio Bernardelli
Sia quelli pro sia quelli contro il «rito ambrosiano» si agitano sopra le righe sulla nomina del nuovo arcivescovo di Milano. Ennesimo esempio dei danni provocati dal clericalismo
Non c'è vaticanista che si rispetti che in queste ultime settimane non abbia detto la sua su Milano. Si avvicina, infatti, il 14 marzo, il giorno in cui il cardinale Dionigi Tettamanzi compirà 77 anni e scadranno dunque i due anni di proroga del mandato stabiliti dal Papa per il porporato brianzolo al compimento del canonico settantacinquesimo anno d'età. C'è addirittura un collega - Paolo Rodari, del Foglio - che si è messo in testa di farci una specie di cronaca minuto per minuto della nomina del successore di Ambrogio. Non si spiegherebbe altrimenti l'articolo con cui qualche giorno fa ci ha reso edotti delle lettere che - come prassi per qualsiasi nomina episcopale - il nunzio ha inviato in giro in vista della predisposizione del fascicolo su cui discuterà la Congregazione per i vescovi, prima di presentare le candidature al Papa.
Sono tutti col fiato sospeso per questa nomina. Quelli che da tempo hanno deciso che la Chiesa di Milano è diventata una sorta di setta degli Esseni, con riti e parole d'ordine proprie. E che ora, dunque, è arrivato il momento di ricondurre all'ovile di Santa Romana Chiesa, premessa indispensabile perché sotto la Madonnina la fede possa ritornare «ai fasti d'un tempo». Ma sono in fibrillazione (e secondo me è ancora peggio) anche quelli che nell'arcidiocesi di Milano stessa alla setta degli Esseni ci credono davvero e quindi scrutano i segnali di fumo in arrivo da Roma auspicando che il nuovo pastore sia «sulla lunghezza d'onda» dei due che lo hanno preceduto. O anche quelli che - a Milano o altrove - stanno con le antenne alzate perché sostengono che dalla scelta del successore di sant'Ambrogio «dipenderanno gli equilibri della Chiesa italiana».
Da milanese lasciatemi dire che questa eccitazione sopra le righe per quello che sarà il mio nuovo pastore mi sembra la prova più provata dei danni provocati dal clericalismo alla Chiesa italiana. Sono fiero di essere cresciuto nella Milano del cardinale Martini (che noi ex giovani ambrosiani cresciuti alla sua scuola ricordiamo per averci messo tra le mani la Parola di Dio, molto più che per la «Cattedra dei non credenti» a cui certi commentatori riducono i suoi oltre vent'anni di episcopato). E sono altrettanto fiero di aver avuto per arcivescovo in questi anni il cardinale Tettamanzi (che abbiamo amato per l'attenzione a ogni persona concreta come immagine di Dio, che con forza in questi anni ha saputo trasmetterci). Eppure confesso di non perdere il sonno al pensiero di chi verrà dopo di loro. Sono convinto infatti che resti vera l'immagine del vescovo di cui parla la Lumen Gentium, la costituzione del Concilio Vaticano II in cui si racconta il mistero della Chiesa. Beh, almeno lì dentro il vescovo non è descritto come superman o il leader maximo: è il pastore che serve il suo gregge. E proprio nel paragrafo che parla del suo compito di governare sulla diocesi che gli è affidata, il Concilio si premura di ricordargli persino che tra i suoi compiti c'è quello di ascoltare il popolo di Dio.
Il vescovo che arriva e mette tutto a posto oppure il vescovo che detta la sua linea esistono solo nella testa di chi non ha capito che la Chiesa è una cosa un po' più complessa di una partita a Risiko. Perché un vescovo è tale solo se sa camminare insieme al suo gregge. Se entrambi sanno lasciarsi almeno un po' cambiare l'uno dall'altro. Perché anche la nostra Chiesa ambrosiana ha le sue contraddizioni e allora ben venga un nuovo pastore che con un passo un po' diverso ci scuote e ci aiuta a provare a superarle. Ma Milano è anche una piazza che i suoi vescovi non li lascia troppo tranquilli: è una città e una Chiesa che provocano, come hanno sperimentato bene sulla loro pelle gli stessi sant'Ambrogio e san Carlo.
Per questo io ho una sola preghiera riguardo al mio nuovo arcivescovo: che il Papa abbia il coraggio di osare. Mi piacerebbe che fosse un pastore non troppo collaudato, uno che ha ancora voglia di imparare a fare il vescovo. Perché è vero, questa è una diocesi un po' particolare: è grande (probabilmente troppo: per visitare tutte le parrocchie ci vogliono una decina d'anni), il suo arcivescovo è sempre sotto i riflettori. Ma alla fine ciò che conta non è se dice tutto giusto o se buca lo schermo, ma se sa farsi amare da questa gente.
Adesso spero che qualcuno non si metta a radiografare queste ultime righe per individuare chi è il candidato per cui fa il tifo Vino Nuovo. Non ne ho la più pallida idea. E me ne vanto.