Jemolo, il cattolico che non confondeva peccato e reato

di Gianandrea Piccioli

«Non pensiamo più con rancore a chi era dall'altra parte, a quelli che sono stati i vinti della Resistenza. (...) Pensiamo semplicemente alla prova che il popolo italiano diede di saper scegliere la giusta via (...). Chi rammenta quei giorni, ben sa che l'anima dell'Italia la si coglieva tutta nell'ambito dell'antifascismo. (...) In questo giorno penso anche ai vinti della Resistenza: con pietà per quelli che furono i loro caduti. (...) Non possiamo andare più in là; non cadere in un agnosticismo. Che tutte le cause possano avere dei martiri, non permette di conchiudere che tutte siano eguali». Dispiace frammentare per motivi di spazio un articolo del 1958 (...). Sono parole rigorose, attente alle distinzioni, e nello stesso tempo piene di rispetto e di pietas. Si riconosce lo stile del loro autore, Arturo Carlo Jemolo, il liberale cattolico per anni collaboratore prestigioso della «Stampa» (...) Jemolo, nato nel 1891, fu uomo impregnato ancora di spirito risorgimentale; liberale autentico, di quelli che non attecchiscono in Italia; cugino di Attilio e Arnaldo Momigliano; ammiratore del sacerdote modernista Ernesto Buonaiuti, che nel 1921, in un intervallo fra una scomunica e l'altra, celebrò il suo matrimonio; allievo di Francesco Ruffini, il grande sostenitore della libertà religiosa, maestro anche di Piero Gobletti e di Alessandro Galante Garrone. Professore di diritto ecclesiastico, cattolico austero (amava i giansenisti di Port-Royal), intransigente sui princìpi ma pronto alla misericordia, quella vera, di impronta manzoniana, non quella compromissoria della vulgata clericale, Jemolo sostenne per tutta la vita, con dottrina giuridica e sensibilità storica, la necessità di una netta separazione tra Stato e Chiesa: «Ed il punto è proprio quello: se lo Stato possa imporre anche ai non credenti la soluzione che abbia una base puramente religiosa». E si batté in tutte le occasioni perché non si facessero indebite commistioni fra peccato e reato. Fu contrario al Concordato del '29 e alla formulazione dell'articolo 7 della Costituzione. Già nel 1945 fu federalista ante litteram e fautore dell'abolizione delle Province (...) Ma tanti altri temi fervono in questo libro così sideralmente remoto per riserbo personale, eleganza formale, pacatezza e rigore di ragionamento e insieme così ricco di spunti attualissimi, dal «problema cementizio» («continue, ininterrotte sconfitte di quanti oppongono valori estetici o storici all'interesse privato») al tema della fede («La fede in un mondo impercettibile ai nostri sensi, che la nostra ragione non ci fa escludere, ma non ci consente di dimostrare»). Accenno soltanto a due, controcorrente, connessi fra loro. L'elogio, scritto nel 1980!, della piccola borghesia, che non è quella rappresentata dalle ossessioni securitarie o dalle frustrazioni di Olindo e Rosa bensì quella, un po' idealizzata, che aveva come valori la sobrietà economica, la serietà, il culto del dovere, il senso della disciplina, l'aspirazione alla cultura, il gusto per il decoro, la coscienza «che le sorti del singolo non sono separabili da quelle del Paese. (...) L'aver lasciato questa piccola borghesia pervertirsi è la vera ragione del crollo di un Paese, di una civiltà». E l'elogio della povertà, materiale e non solo, scritto nel 1979, sulla soglia della «Milano da bere» craxiana: «Vorrei che quella che attendo fosse una povertà pulita, che desse il bando non solo all'alcol e alla droga, ma anche alle espressioni oscene, alla volgarità del linguaggio. Diamoci tutti del tu (...) ma serbiamo una certa delicatezza (...): mai toccare i tasti dolorosi per l'interlocutore, mai umiliarlo». E mai auspicio fu più disatteso.


in “La Stampa” - 3 settembre 2011