Erri De Luca: «Sono un redattore di storie»

di Alessandro Bottelli

«C'è un momento dell'infanzia in cui la testa è più veloce, va avanti. Esce rapidamente, e il corpo invece rimane quello del marmocchio: non si sposta, sta sempre fermo lì. In questa storia, poi, il corpo viene sentito come una zavorra, una gabbia dalla quale bisogna uscire, che va forzata, perché se no non riesce a muoversi». Erri De Luca risponde ponderato, dosando la brezza sollevata da ogni pur minima parola calata a voce. Gli chiedo notizie del nuovo libro, I pesci non chiudono gli occhi (...). Infaticabile allevatore di memoria, stavolta lo scrittore lancia le sue reti nell'estate 1960, trascorsa a Ischia insieme alla madre. Lo scontro fisico con alcuni coetanei, l'amicizia per una ragazzina scesa dal Nord, il padre lontano, oltreoceano, la manovalanza tra i marinai del luogo, i pensieri degli altri trovati allineati nei libri, qui sono soltanto ulteriori tasselli di un processo formativo ormai irreversibile, che mette l'individuo dinnanzi alle sue prime, certificate responsabilità.

Oltre a un pugno di persone, il racconto fa riaffiorare alla superficie l'isola delle tue vacanze, ma in un tempo anteriore rispetto a «Tu, mio». Perché ti sei spinto ancora laggiù? Che cosa ti ha mosso?

«Il giubileo. Il fatto che adesso, a sessant'anni, posso ricordarmi di averne avuti anche dieci. E il me di cinquant'anni fa era un ragazzino che respirava, viveva solamente tre mesi l'anno sopra a un'isola. Il resto, quei nove mesi, era la clausura di una città non fatta per l'adolescenza e per i bambini. All'epoca, Napoli aveva la più alta mortalità infantile e i bambini, quando scampavano a questa prima selezione, poi andavano a lavorare, invece che a scuola. Ma era anche fisicamente una città stretta, buia, senza spazi. Quindi, poco adatta a loro. Quei tre mesi di sbarco sopra l'isola corrispondevano dunque alla conoscenza della libertà. Che non era un elenco di diritti, ma proprio l'esperienza fisica della pelle che si scurisce, si spella e si brucia, perché allora non si usavano le creme. Era l'andare scalzo, che immediatamente forma sotto la pianta del piede una suola, con la quale si può addirittura correre sulle pietre. Era la possibilità di guardare lontano. Di mettere lo sguardo altrove, farlo perdere fin dove può arrivare. L'isola era questo. Se devo ricordare qualcosa di buono di me stesso in quell'età, sicuramente metto al primo posto tutto ciò che si è svolto sull'isola. Per cui, ci torno volentieri».

La lettura, il modo stesso in cui affrontavi i libri, si stampa sulla pagina con una suggestione di mare: «Leggerli somigliava a prendere il largo con la barca, il naso era la prua, le righe onde. Andavo piano, a remi