Ma la solitudine interroga tutti
di Mario Calabresi
Penso spesso alla vecchiaia, alle nostalgie terribili che immagino possano assalirti, alle difficoltà fisiche, alla malattia, alla fatica di fare cose che un tempo erano semplici e scontate, al dolore per la scomparsa di un mondo, di affetti e amici.
Lo abbiamo capito dalla commozione di Giorgio Napolitano quando ha commemorato il suo amico Luigi Spaventa, scomparso molto più giovane di lui, e ha parlato «del vuoto» che lasciano quelle che sono state le presenze care di una vita.
Leggo le parole di Ferdinando Camon, guardo al gesto di Carlo Lizzani, che non mi permetterei mai di giudicare, e mi chiedo se esista un modo per invecchiare senza rabbia, senza disperazione, se esista un segreto. Un modo per congedarsi serenamente, prima dal lavoro, poi da molte abitudini, da un mondo che cambia veloce, perfino dai negozi amati che chiudono.
Alla ricerca di questa risposta sono sempre stato colpito dalla serenità di chi usa la sua terza età per restituire, per dare indietro quello che ha avuto, anche se magari è stato solo un lavoro semplice e una vita di fatica. Non sto pensando ai milionari che mettono in piedi fondazioni di beneficenza, ma agli anziani che si prendono cura dei nipoti, trasmettono il loro sapere, fanno volontariato, tengono aperte biblioteche, organizzano tornei di bocce, mandano avanti associazioni, curano orti, fanno i vigili fuori dalle scuole, raccolgono fondi, ospitano studenti a casa loro, scrivono ai giornali segnalando errori e dimenticanze, pensano di poter ancora dare alla società in cui vivono.
Penso poi alla luce che hanno negli occhi quelli che arrivano alla Fondazione Specchio dei tempi e decidono di lasciare qualcosa - poco, tanto o tantissimo – della loro eredità per gli altri. Mi colpisce la loro convinzione di aiutare chi è in difficoltà oggi o lo sarà domani.
Non riesco poi a non pensare a mia nonna, che visse – lo fece nel vero senso della parola, senza mai sopravvivere – fino a 94 anni. Non ebbe vita facile, nacque di sei mesi nel gennaio del 1915 e il medico ne certificò la morte, tanto che venne abbandonata su un piano di marmo in attesa del becchino. Ma dopo ore si accorsero che invece era ancora calda e che il cuore batteva. Durante la Seconda Guerra perse la casa nei bombardamenti e dovette sfollare con due bambini piccolissimi e un terzo nella pancia, mentre il nonno era finito prigioniero in un campo in Germania. Si rimisero in piedi con successo grazie al Boom economico, ma ebbero i loro problemi con il terrorismo e la crisi degli Anni Settanta. Rimase vedova a 72 anni, perse il suo primogenito poco dopo e fu costretta a vedere venduta l’attività che aveva costruito con il nonno.
Si ruppe il femore un paio di volte ed ebbe una paralisi temporanea del lato sinistro del corpo. Ma non si perse mai d’animo, riempiva il suo tempo con il volontariato e con la tenacia di una vita regolare che la obbligava a rifarsi il letto ogni mattina, cucinare ogni giorno, leggere il giornale, ascoltare la radio, pregare e tenersi al passo con i tempi. Volle avere il telefonino non appena uscì un modello non eccessivamente costoso ed era curiosa di tutto.
Passati i novanta, nei giorni autunnali o di pioggia, diceva che il suo tempo era finito, sentiva che il capolinea era vicino e che era giusto che fosse così. Non c’era rabbia nelle sue parole ma quasi una constatazione dell’esistenza e della realtà. Però non mollava, si teneva viva raccontando, facendo lunghissime telefonate agli amici che erano rimasti e che diminuivano di anno in anno. Ma quello che faceva davvero la differenza era ricordare: parlare del passato ai figli e ai nipoti le dava l’idea che quel flusso era ancora vivo, che l’albero non si era seccato e che noi eravamo il risultato di quella storia. Sapeva che senza di lei nessuno di noi sarebbe esistito.
La sua forza fu di non coltivare mai il cinismo, il pessimismo, di non pensare che con il passare del tempo tutto era diventato peggiore o che i bei tempi erano per forza alle spalle, anzi guardava con stupore ai cambiamenti e sapeva cos’era la fame.
Resto però convinto di una cosa, che non tutto è dipeso da lei: la sua forza era la possibilità di avere intorno persone che la ascoltavano, che trovavano il tempo per le sue lunghe telefonate, che l’hanno sempre rispettata e mai trattata con sufficienza, che non hanno mai dato, nemmeno per un secondo, la sensazione che lei potesse essere un peso, anche quando era bloccata in un letto.
Per questo penso che la morte in solitudine di un anziano, o peggio un suicidio, sia qualcosa che deve interrogare tutti noi, deve pesare sulle nostre coscienze, sul nostro tempo veloce che sembra non avere più spazio da dedicare alla cura dei vecchi, che sembra aver rimosso il valore della saggezza e che deve rottamare tutto. Eppure, se penso a quei pomeriggi passati con mia nonna Maria penso che siano tra quelli meglio spesi della mia vita.
Siamo sempre qui
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